Archivio del Tag ‘movimento 5 stelle’
-
Maxi-regalo alle banche, grazie al golpe della Boldrini
Il provvedimento appena passato su Bankitalia? Si tratta di un rivoltante regalo alle banche che, quest’anno, daranno 1 miliardo e mezzo di tasse su questa operazione (ufficialmente destinato a coprire l’abolizione della seconda rata Imu), ma per incassarne circa 400 all’anno, da ora in poi, come dividendi sugli utili di Bankitalia. Dunque, in quattro anni si saranno abbondantemente rifatte. Il M5S aveva avviato un serrato ostruzionismo per far decadere il decreto. I mezzi di informazione, sempre sensibili alle sollecitazioni di Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo Koch, Palazzo Grazioli e di tutti i palazzi importanti di questo paese, avevano subito iniziato una campagna terroristica: «Attenti, che se i grillini vincono, poi pagate la seconda rata Imu, che sarebbe una tragedia». Per due mesi il Pd e la stampa caudataria ci aveva spiegato che l’Imu non era quella cosa così importante che si diceva, che era solo per la demagogia del Cavaliere che se ne parlava; ora, guarda un po’, è diventata la goccia che avrebbe fatto traboccare il bicchiere dei fallimenti aziendali e del tracollo delle famiglie.Intendiamoci: l’Imu è stata una estorsione imposta dal governo Monti e andava abolita, l’ho scritto ripetutamente, ma bisognava trovare la sostituzione del gettito in direzione delle rendite finanziarie, cosa che fa semplicemente inorridire il Pd che è lo scendiletto delle banche. Banche che, a loro volta, hanno un problema serio, per l’avvicinarsi degli stress test della Bce, per cui occorre rivalutare i rispettivi asset. Allora qualcuno ha un’idea: rivalutiamo di colpo Bankitalia, il che significa rivalutare le quote possedute in essa dalle banche. Semplice e con un tratto di penna. Solo che bisogna pur giustificare nei confronti della gente questo provvedimento che qualcosa costa allo Stato, ed ecco che qualcuno inventa il nesso Imu-Bankitalia per far digerire la cosa alla gente (insomma: fra qualche mese si vota ed un po’ di maquillage fiscale non guasta).La cartina di tornasole? Semplice: si sarebbe potuto tranquillamente procedere con un decreto ad hoc per la seconda rata Imu o magari scorporare il provvedimento per Bankitalia, cercando altra copertura, ma così sarebbe venuto fuori che il vero obiettivo non era far risparmiare ai poveri cittadini la seconda rata dell’iniqua gabella (sino a ieri pervicacemente difesa). Cosa succederà gli anni prossimi quando non ci sarà questo gettito una tantum di 1 miliardo e mezzo e, anzi, le banche incasseranno netti altri 400 miliardi? E chi se ne frega! Ci sarà la Tares opportunamente rivalutata o chissà quale altra stravagante sigla e si andrà avanti. Nel frattempo il regalo è fatto e le elezioni europee passate, per le politiche (posto che ci siano nel 2015, ma già l’ineffabile Renzi parla di possibile scadenza naturale nel 2018) si vedrà che altro inventarci e poi c’è sempre il ricorso all’ortopedia di una qualche legge truffa elettorale.E sin qui la sostanza del problema. Veniamo al “contorno”. L’operazione è passata grazie alla decisione della Boldrini, che ha posto il testo in votazione troncando la discussione. Per la verità nel regolamento una simile possibilità non c’è, si tratta di una misura ipotizzata da Luciano Violante (quale nome!) con una sua ardita interpretazione del medesimo, ma in concreto applicata in questa occasione per la prima volta. Qualche riflessione la merita anche il comportamento del gruppo parlamentare del M5S al quale va dato atto, in primo luogo, di aver condotto una battaglia generosa e con molto coraggio, ma che ha delle cadute di stile preoccupanti. Anzi, diciamola tutta, dal punto di vista delle capacità comunicative, i parlamentari grillini sono una vera frana. Prendiamo l’esempio di Giorgio Sorial, che ha definito “boia” Napolitano. A proposito: ho letto che sarebbe stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma sul deputato M5S, per vilipendio del Capo dello Stato. Mi sembrava di ricordare che “i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (articolo 68, comma I della Costituzione): devono aver riformato la Costituzione senza dircelo.La cosa non mi scandalizza neanche un po’ e anche se trovo l’appellativo spropositato, offensivo e impolitico (tenendo anche conto che, per un minimo di rispetto dell’Istituzione, se non della persona, è bene ponderare le parole quando si tratta del Presidente della Repubblica) mi pare che si tratti di una venialità, soprattutto tenendo conto che la censurabilità dell’uscita di Sorial è una bazzecola rispetto a quella che meriterebbero i comportamenti del presidente. Quindi, va bene, Sorial va difeso, però è evidente a chiunque che i giornali stanno con il fucile spianato, a cercare ogni minimo pretesto per sparare addosso al M5S e non mi pare il caso di andargli a fornire ragioni.Bisogna capire una cosa: partiti e giornali sono convinti che il M5S sia una specie di incidente di percorso, destinato ad essere tolto di mezzo rapidamente, per cui pensano che un sistematico mobbing sia il modo migliore per ottenere il risultato. Personalmente sono convinto che la cosa non funzionerà e che, semmai, il M5S abbia da temere di più dai suoi errori politici ed organizzativi. Ma, lasciando perdere questo discorso che andrebbe troppo per le lunghe, una cosa si può fare già da subito: un corso di comunicazione per i parlamentari 5S che serva almeno ad evitare gli errori più marchiani. Non sono affatto un estimatore del “politicamente corretto”, e mi pare di dimostrarlo su queste pagine; però, se una dose equilibrata di forza nella denuncia è necessaria, un eccesso di violenza verbale è sempre controproducente.(Aldo Giannuli, estratto da “Golpe della Boldrini e Bankitalia”, pubblicato sul blog di Giannuli il 30 gennaio 2014).Il provvedimento appena passato su Bankitalia? Si tratta di un rivoltante regalo alle banche che, quest’anno, daranno 1 miliardo e mezzo di tasse su questa operazione (ufficialmente destinato a coprire l’abolizione della seconda rata Imu), ma per incassarne circa 400 all’anno, da ora in poi, come dividendi sugli utili di Bankitalia. Dunque, in quattro anni si saranno abbondantemente rifatte. Il M5S aveva avviato un serrato ostruzionismo per far decadere il decreto. I mezzi di informazione, sempre sensibili alle sollecitazioni di Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo Koch, Palazzo Grazioli e di tutti i palazzi importanti di questo paese, avevano subito iniziato una campagna terroristica: «Attenti, che se i grillini vincono, poi pagate la seconda rata Imu, che sarebbe una tragedia». Per due mesi il Pd e la stampa caudataria ci aveva spiegato che l’Imu non era quella cosa così importante che si diceva, che era solo per la demagogia del Cavaliere che se ne parlava; ora, guarda un po’, è diventata la goccia che avrebbe fatto traboccare il bicchiere dei fallimenti aziendali e del tracollo delle famiglie.
-
Foa: l’Italia è già in mano agli uomini di Mario Draghi
«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti».La spiegazione: «Chi ha la facoltà di velocizzare o di rallentare l’immenso apparato dello Stato: le persone che hanno questa facoltà esistono e possiedono le chiavi del potere», scrive Foa in un post sul “Giornale”, citando un articolo di “Italia Oggi” del maggio scorso, firmato da Roberto Narduzzi. Titolo: “Draghi ha già piazzato i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’economia”. Per attivare lo scudo anti-spread, scrive Narduzzi, occorre «offrire garanzie manageriali ai prestatori che devono di fatto approvare la qualità della squadra italica chiamata a gestire il programma». Draghi lo sa bene, aggiunge “Italia Oggi”, e non ha perso tempo: «Non è affatto casuale l’arrivo di uomini di Bankitalia ai posti chiave della finanza pubblica. Fabrizio Saccomanni come ministro dell’economia e Daniele Franco alla Ragioneria dello Stato». Sono «persone di qualità e di cui Draghi si fida», ovvero «persone giuste per interagire con la Bce, il Fmi o la Commissione se l’attivazione dello scudo si fa realtà». Altre pedine strategiche: alla direzione generale del Tesoro un certo Vincenzo La Via, proveniente dalla Banca Mondiale, e all’Agenzia delle Entrate un tecnocrate come Attilio Befera, «molto stimato da Draghi». A questo punto, «soltanto il bilancio dell’Inps, oggetto di feroci critiche per Inpdap ed esodati, sfugge al controllo tecnico di un Draghi boy».Il “vero premier italiano”, quello che governa dall’Eurotower Bce di Francoforte in perfetta sintonia con Napolitano, ha messo a punto ogni casella chiave per gestire gli effetti operativi dell’attivazione italiana dello scudo anti-spread, osserva Foa, rileggendo “Italia Oggi”. «Il tono dell’articolo è compiaciuto e compiacente. Come dire: bravo Draghi!». Con questi sistemi, aggiunge Foa, si governano le istituzioni grazie a «tecniche di occupazione del potere», vanificando ogni dialettica politica fondata sul confronto democratico, grazie al super-potere di «membri altolocati delle élite che contano davvero». Lo conferma un altro servizio, firmato da Andrea Cangini sul “Quotidiano Nazionale”: “Leggi e governanti ‘ostaggio dei tecnici’. Così i grandi burocrati guidano la politica”. «Lo Stato sono loro», taglia corto l’ex ministro Altero Matteoli, «e la repubblica è appesa alle loro decisioni». Destra e sinistra non contano, di fronte al potere dei super-burocrati: ragioniere generale dello Stato, capi di gabinetto, direttori di dipartimento, capi dell’ufficio legislativo dei ministeri più importanti. «Hanno dunque in pugno il paese, e da quasi vent’anni sono sempre gli stessi», restando nel recinto di «una casta chiusa, irresponsabile ed autoreferenziale».Osserva ancora Cangini: sono 15-20 individui, sempre quelli. «Il più noto è Vincenzo Fortunato, ex Tar, più di 500.000 euro di stipendio l’anno fino a poco tempo fa». I super-tecnocrati nostrani «sono il vero e inamovibile potere italiano», sintetizza un ex ministro diessino, confortato da un suo omologo ex forzista. Entrambi sostengono che le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria ad ogni provvedimento di spesa, «vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella ‘visione’ politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte ‘politiche’ diverse». C’è un’altra cosa su cui i due ex ministri, pur di opposti schieramenti, concordano: «I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili». Un monopolio difficile da scalfire, chiosa Foa. «Capito chi governa davvero l’Italia?». Loro, gli yes-men che rispondono al signore della Bce, privatizzatore del sistema bancario italiano, uomo del Bilderberg e della Goldman Sachs nonché esponente del Gruppo dei Trenta, vera e propria cupola del super-potere finanziario mondiale attraverso cui l’élite planetaria domina il nostro destino.«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti». -
Sos No-Tav, dagli italiani 60.000 euro in soli tre giorni
I No-Tav chiedono aiuto, e l’Italia risponde: oltre 60.000 euro in soli tre giorni. E’ dirompente l’avvio della raccolta fondi promossa dal movimento della valle di Susa che si oppone alla linea Tav Torino-Lione, dopo la condanna in sede civile del portavoce Alberto Perino, insieme ad altri due militanti di primo piano, Loredana Bellone (sindaco di San Didero) e l’ex primo cittadino Giorgio Vayr. I tre sono stati “puniti” con un maxi-risarcimento danni, supeirore ai 200.000 euro. «Faremo ricorso», annunciano, spiegando però che il mancato pagamento li esporrebbe al rischio di pignoramenti. «Per questo, con molta umiltà ma altrettanta dignità e fiducia», il movimento si è rivolto a tutti gli italiani che li incoraggiano (“Non mollate, siete l’unica speranza di questo paese”) di dare un aiuto economico per far fronte «a questa batosta tremenda». Sbalorditiva la risposta, a colpi di donazioni sul conto corrente messo a disposizione per il sostegno popolare.L’episodio contestato risale alla notte tra l’11 e il 12 gennaio 2010, quando i No-Tav tentarono di opporsi alla campagna di trivellazione dei terreni che doveva preparare la stesura del nuovo progetto Torino-Lione. Una opposizione che culminò poi l’anno seguente con l’occupazione dell’area della Maddalena di Chiomonte: per impiantarvi l’attuale cantiere (destinato alla costruzione di una piccola galleria di servizio) fu necessario ricorrere alla forza per sgomberare i manifestanti. L’anno precedente, per i No-Tav il “pericolo” era rappresentato dalle trivelle: alla periferia di Susa, quella notte, Perino,Vayr e la Bellone si limitarono ad invitare i tecnici ad allontanarsi. «Poi si scoprì che era una trappola», scrivono i valsusini sul sito “NoTav.info”. Un “trucco” «per tagliare le gambe ai No Tav con una nuova tecnica: richiesta di danni immaginari per centinaia di migliaia di euro a carico di qualche personaggio del movimento», in modo da scoraggiare la protesta. La società Ltf, incaricata dei sondaggi, aveva stipulato un contratto di utilizzo temporaneo dei terreni con un’altra società: oltre 160.000 euro per pochi giorni, secondo i No-Tav «per gonfiare i costi e quindi la richiesta di danno».«Anche utilizzando questi sporchi mezzi non riusciranno a fermare la resistenza No Tav», aggiungono i militanti, già duramente provati dalla repressione giudiziaria cui il movimento è stato sottoposto. «Ci sono più di 400 persone indagate per questa resistenza contro un’opera imposta, inutile e devastante sia per l’ambiente sia per le finanze di questo Stato e che impedisce di fare tutte le altre piccole opere utili». Se gli italiani stanno dando ragione ai No-Tav – oltre 60.000 euro in tre giorni sono un esordio col botto, per una campagna di finanziamento solidale – l’altra notizia (sconcertante) riguarda la latitanza disastrosa della politica, che finora – con le sole eccezioni di Grillo, del Prc di Ferrero e di singoli europarlamentari come Gianni Vattimo e Sonia Alfano – continua a ignorare le ragioni della valle di Susa, confortate dai migliori tecnici dell’università italiana, contro un’opera devastante per il territorio, sanguinosa per le finanze pubbliche (decine di miliardi di euro) e totalmente inutile. La Francia ha deciso che riprenderà eventualmente in considerazione l’infrastruttura solo dopo il 2030, mentre la Svizzera ha appena reso noto che – sulla rotta Torino-Lione – il traffico merci lungo la linea ferroviaria italo-francese che già attraversa la valle di Susa potrebbe essere tranquillamente aumentato del 900%. Il problema infatti non è l’assenza di nuovi binari: semplicemente, non ci sono più merci da trasportare.I No-Tav chiedono aiuto, e l’Italia risponde: oltre 60.000 euro in soli tre giorni. E’ dirompente l’avvio della raccolta fondi promossa dal movimento della valle di Susa che si oppone alla linea Tav Torino-Lione, dopo la condanna in sede civile del portavoce Alberto Perino, insieme ad altri due militanti di primo piano, Loredana Bellone (sindaco di San Didero) e l’ex primo cittadino Giorgio Vayr. I tre sono stati “puniti” con un maxi-risarcimento danni, superiore ai 200.000 euro. «Faremo ricorso», annunciano, spiegando però che il mancato pagamento li esporrebbe al rischio di pignoramenti. «Per questo, con molta umiltà ma altrettanta dignità e fiducia», il movimento si è rivolto a tutti gli italiani che li incoraggiano (“Non mollate, siete l’unica speranza di questo paese”) chiedendo loro un aiuto economico per far fronte «a questa batosta tremenda». Sbalorditiva la risposta, a colpi di donazioni sul conto corrente messo a disposizione per il sostegno popolare.
-
Suicidio Pd: al ballottaggio solo Grillo e Berlusconi?
Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.Nonostante ciò, «il Pds-Ds-Pd non ha mai cercato di capire in cosa avesse sbagliato». Al contrario, ha continuato imperterrito a «inseguire il suo sogno di centralità governativa sorretta dall’ortopedia elettorale», fino a convertirsi «al mantra berlusconiano del “partito del leader”», per cui «si è messo penosamente alla ricerca di un leader forte che lo portasse alla vittoria». Risultato: 8 segretari di seguito in 20 anni (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi) e 4 presidenti del consiglio (Prodi, D’Alema, Amato, Letta) per meno di 8 anni di governo. Motivo: il Pd non è affatto un “partito del leader”, ma «la confederazione di una mezza dozzina di tribù di ceto politico (a loro volta suddivise in un certo numero di sotto-tribù), che ha mantenuto l’impronta di apparato burocratico del vecchio Pci, ma senza il rigoroso costume e le regole del vecchio partito».Il risultato è un partito «troppo burocratico per essere libertario, troppo privo di regole per essere la vecchia falange tebana del Pci, troppo frammentato per essere efficiente e, soprattutto, troppo rissoso». Per cui, alla prima difficoltà, «la congiura dei boiardi disarciona il segretario o il presidente del Consiglio». Dunque un partito «vocato alla sconfitta» che, «anche quando è riuscito per sbaglio a vincere, ha subito rimediato mettendo in crisi il proprio governo appena possibile: di solito il primo avversario di un governo di centrosinistra è il segretario del Pds-Ds-Pd (D’Alema con Prodi, Veltroni con D’Alema, ora Renzi con Letta)». Oggi, continua Giannuli, il Pd si difende (al solito proiettando automaticamente nel futuro i numeri attuali e fidandosi troppo dei sondaggi) ricorrendo di nuovo all’ortopedia elettorale, che dovrebbe «far fuori i piccoli partiti con soglie di sbarramento stellari», ovviamente «rendere irrilevante il M5S con la solita storia del duopolio Pd-Fi (perfetto pendant del duopolio televisivo)» e inoltre «fregare Fi con il doppio turno sulla base di questo calcolo: “Il 20% circa del M5S al secondo turno che fa? Un pezzo si asterrà ed un pezzo voterà per noi, nessuno per Berlusconi, ergo vinciamo sicuro”».Peccato che i piccoli partiti «fatti fuori da clausole di sbarramento così alte» potrebbero non essere interessati a far parte di coalizioni alle quali porterebbero voti per il premio, restando però esclusi dal Parlamento, quindi potrebbero presentarsi in ordine sparso, con risultati imprevedibili. Inoltre, Berlusconi potrebbe raggiungere il 35% da solo al primo turno, mentre il Pd resta sotto anche per pochissimo e il resto va a M5S e liste minori. Senza contare che proprio il Movimento 5 Stelle potrebbe rivelarsi il secondo partito, aprendo nuovi scenari. Il primo, più clamoroso: ballottaggio tra Forza Italia e Grillo, con Pd escluso dai giochi e avviato «ad una rapida disgregazione, per effetto della stessa legge voluta». Si richia anche gli elettori di Forza Italia (come a Parma) di fronte a un derby Pd-M5S votino per i grillini, «in odio al Pd». E se le intenzioni di Renzi sono quelle di far fuori i suoi nemici interni epurando le prossime liste per la Camera, «questo porterebbe facilmente ad una scissione del Pd, per cui tutti i conti andrebbero seriamente rifatti». Ipotesi che «l’ineffabile gruppo dirigente del Pd non prende neppure in considerazione».Dopo di che, bisogna anche vedere che fine farà «questa porcheria di riforma elettorale». Se la commissione resta divisa, in aula si andrà con un testo grezzo, sottoposto alla votazione punto per punto. Risultato: «Tutti contro tutti, in un bagno di sangue generalizzato di emendamenti». Perché Renzi ha sì avuto il 70% dei voti alle primarie, ma i gruppi parlamentari sono quelli formati da Bersani, «per cui occorrerà vedere come voteranno i parlamentari Pd (della cui granitica compattezza si è detto)». Inoltre, la “riforma” disegnata da Renzi e Brlusconi ha senso se contestualmente si abroga il Senato o gli si toglie il voto di fiducia al governo. Peccato che questo lo dovrebbero decidere (a scrutinio segreto) anche i senatori, «che quindi dovrebbero abrogare se stessi».Dopodiché, se restasse in piedi il Senato, ci sarebbe da chiarire con che sistema lo si eleggerebbe: il vecchio Porcellum? Un Porcellum rivisto alla luce della sentenza della Corte Costituzionale? Un nuovo sistema – senza premio di maggioranza – fatto in fretta e furia? E cosa ne penserebbe la Corte? Peraltro, la minoranza interna «non si sente vincolata a difendere una legge per cui non è stata interpellata», e quindi «non assicura affatto di votarla». Per cui, «se alla conta dovessero mancare i voti necessari – o, peggio, dovesse esserci una defezione di massa dei parlamentari Pd – decenza vorrebbe che Renzi si dimettesse», anche perché qualsiasi interlocutore potrebbe dirgli: «Ma tu chi rappresenti e a nome di chi tratti?». Conclude Giannuli: «Cuperlo ha giustamente detto che il Pd non è una caserma. Infatti: è una casa di tolleranza con una maitresse autoritaria».Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.
-
Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
-
No-Euro: un italiano su due boccia la moneta della Bce
«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.“Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di Tokyo sarebbe in grado in qualsiasi momento di sostenere il debito con emissione di valuta sovrana a costo zero. All’Italia invece è stata inferta la peggiore delle terapie: tagli su tagli, col pretesto neoliberista di dover eliminare il debito (cioè il motore economico dello Stato e quindi dell’economia privata), fino alla tagliola del Fiscal Compact e al delirio puro del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dalle “anime morte” del Parlamento, ipnotizzate dal referendum permanente su Berlusconi. Risultato finale, meno servizi e più tasse: senza più disponibilità monetaria, lo Stato è costretto a dipendere dal denaro che riceve dai cittadini, sotto forma di imposte e bollette.Silenzio totale, sull’euro, anche da Confindustria e dagli stessi sindacati: nessuna analisi approfondita sulla crisi, nessuna soluzione alternativa, nessuna proposta. Micidiale, su questo fronte, il black-out dei media: per giornali e televisioni, l’euro è stato un sostanziale tabù, un dogma intoccabile. Ed eccezione della Lega Nord – ferma comunque ai soli slogan – il grande silenzio ha allineato tutti i partiti, a cominciare dal Pd, mentre l’ostilità verso l’euro affiora a tratti nella “pancia” del centrodestra e tra i grillini, anche se Grillo – anche nel V-Day di Genova – sulla moneta unica si è limitato a proporre un semplice referendum. La rilevazione di dicembre effettuata da “Scenari economici” parla da sola: l’euro “resiste” solo nel centrosinistra e viene travolto sia dal centrodestra (77%) che dal M5S (73%) e dall’area del non-voto (58%). Il partito virtuale No-Euro vince al nord con 8 punti di scarto e al centro-sud con 4 punti, mentre nelle “regioni rosse” si ferma al 43%, contro un 50% di “fedelissimi” pro-euro. In caso di elezioni, se ci fosse «una formazione fortemente anti-euro», Forza Italia potrebbe perdere quasi l’8% dei suoi elettori (e Grillo il 6,7%), mentre centro e centrosinistra manterrebbero quasi invariato il proprio bottino elettorale. A conti fatti, già oggi una lista anti-euro varrebbe almeno il 24% dei consensi – un italiano su quattro – ma la percentuale potrebbe più che raddoppiare: si ottiene addirittura il 56% dei consensi, sommando i contrari all’euro e la quota di italiani disponibili a “prendere in considerazione” l’ipotesi di votare un partito capace di dire no alla moneta della Bce.Le elezioni europee – maggio 2014 – potrebbero rivelarsi un vero e proprio referendum sull’attuale Unione Europea a guida tedesca e sul suo strumento principale di potere, l’Eurozona: «Sovranità monetaria, svalutazione, parametri di Maastricht, Fiscal Compact, politiche di austerity, vincoli di bilancio e rapporti con la Germania – sottolinea “Scenari economici” – saranno temi che verranno discussi ed approfonditi durante la campagna elettorale, e molti cittadini potrebbero votare in modo diverso rispetto ad una consultazione per il Parlamento italiano». Cresce il desiderio di tornare alla sovranità monetaria, individuata come toccasana per difendere il bilancio statale e quindi il benessere della comunità nazionale: il ritorno a una lira garantita dalla Banca d’Italia piace «non solo tra gli elettori del centrodestra e del “Movimento a 5 Stelle”, ma anche nell’area degli indecisi e del non-voto». A favore della “permanenza nell’euro” resta invece «granitico» l’elettorato del Pd, e a livello di categorie i favorevoli alla moneta “ammazza-Italia” «sono maggioritari unicamente tra pensionati e dipendenti pubblici».«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
-
Lira più euro: terza via, per evitare la morte dell’Italia
Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.Innanzitutto, scrive Grazzini su “Micromega”, occorre «riconoscere che questa Ue è diventata esattamente il contrario di quella auspicata dai padri costituenti». Ovvero: «Non è più un progetto di libertà, di democrazia, di cooperazione e di pace tra i popoli, ma il preciso disegno di centralizzare rigidamente l’economia dei paesi europei sotto la guida tedesca per imporre politiche neoliberiste di smantellamento delle economie nazionali a favore del capitale del nord Europa, Germania in testa». La dimostrazione più recente del miope disegno egemonico tedesco? «E’ il progetto fasullo di “unione bancaria”», appena approvato dai ministri delle finanze dell’Unione. Grazie all’intervento del tedesco Wolfgang Schäuble, che ha rifiutato ogni meccanismo di mutualizzazione dei rischi con copertura di fondi pubblici, il progetto peggiora drasticamente la situazione: «I privati (azionisti, obbligazionisti e i correntisti con più di 100.000 euro) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, poi interverranno i fondi nazionali creati grazie a nuove tasse da applicare alle banche stesse, e infine tra dieci anni interverrà anche in ultimissima istanza un minuscolo fondo europeo sempre di origine bancaria».In questo modo, cioè «senza alcuna copertura pubblica di livello europeo», secondo Grazzini «appena una banca sarà percepita come in difficoltà, i correntisti, gli azionisti e gli obbligazionisti fuggiranno, creando una spirale perversa di fuga. Il caso Cipro insegna». Così, in modo deliberato, «si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». Wolfgang Münchau, prestigioso editorialista del “Financial Times”, considera l’accordo per unione bancaria «un esercizio per prolungare il congelamento del credito bancario» in Europa. Con questo accordo – che secondo Münchau non avrebbe dovuto neppure essere siglato dai governi dell’Eurozona, come del resto anche quello del Fiscal Compact, perché è suicida – i governi del sud Europa «si sottomettono senza condizioni ai desiderata tedeschi». Sicché, l’unione bancaria «rischia di diventare un boomerang pericolosissimo e di fare precipitare le crisi bancarie».Anche le cosiddette “riforme strutturali” peggioreranno ulteriormente la situazione, continua Grazzini. La neoeletta premier Angela Merkel vuole imporre il suo progetto di austerità grazie ad accordi di programma per rendere “più competitiva” l’Europa – con lo smantellamento della sanità, dell’istruzione, la drastica compressione degli interventi pubblici, dei salari e delle pensioni, la diminuzione delle tasse per le corporations. «Gli accordi per le dolorose riforme strutturali, impopolari e del tutto inutili, verranno addirittura finanziati dalla Ue. Chi però non farà i “compiti a casa” andrà incontro a sanzioni automatiche imposte dalla Ue e dalla Troika – Ue, Bce, Fmi. In questa maniera si vuole imporre la sottomissione dei paesi europei». Di fronte a questo, si erge un ostacolo scoraggiante: la totale inconsistenza della politica, che in Italia non ha ancora “capito” quello che sta succedendo. «Puntare a riformare l’Unione Europea cedendo ancora quote di sovranità in campo istituzionale, finanziario ed economico, costituisce un errore madornale: significa stringere la corda alla quale gli europei si sono impiccati».Il sistema dell’euro, aggiunge Grazzini, «non è riformabile in queste condizioni politiche e in tempi compatibili con l’avanzare della crisi e della disoccupazione». Ma purtroppo – ed ecco il nostro grande problema – sembra che il ceto politico dirigente della sinistra «non sia all’altezza di comprendere la nuova realtà». Vendola «sogna ancora gli eurobond e la mutualizzazione dei debiti», e punta ad aderire (ancora senza risposta) al gruppo dei partiti socialisti europei che, a suo tempo guidati da Tony Blair e Gerhard Schröder, sono proprio quelli che più di altri «hanno promosso la deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro». A sinistra di Sel, anche in Italia si tenta coraggiosamente di creare una lista di sostegno ad Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza candidato della sinistra radicale europea alla presidenza della Commissione Ue. «Il gruppo della sinistra europea di opposizione è molto più realistico e critico verso l’euro, la Ue e le larghe intese italiane, tedesche e greche. Tuttavia anche la sinistra europea sembra orientata a mantenere la moneta unica, ovviamente riformata».Così però l’opposizione alla politiche di austerità potrebbe diventare poco credibile agli occhi di una opinione pubblica sempre più esasperata dalla crisi, obietta Grazzini. «Beppe Grillo e il “Movimento 5 Stelle” attaccano frontalmente la Ue e l’euro ma poi non sanno ancora quale soluzione realmente proporre, a parte il referendum: in effetti il M5S sembra sicuro che prima o poi l’euro si spaccherà e che l’Italia sarà comunque costretta a uscire dalla moneta unica». Il grande pericolo è che «mentre la sinistra non capisce il dramma in cui si sta ficcando l’Europa – e, anche quando è al governo, come in Francia, fa infuriare la sua base elettorale popolare imponendo tagli al welfare e al lavoro – la destra, e soprattutto la destra estrema, quella peggiore e razzista, guadagna milioni di voti protestando contro l’euro e il capitalismo finanziario». Scenario prevedibile: «Silvio Berlusconi e Matteo Salvini punteranno astutamente la loro campagna elettorale soprattutto contro l’euro. Non è difficile ipotizzare che grazie alla protesta contro l’euro e le tasse potrebbero rivincere le elezioni. E’ quindi urgente che la sinistra riconosca finalmente che questa Ue e questo euro non hanno sbocco».Per Grazzini, l’unica soluzione è il ritorno – immediato – alla sovranità monetaria. Per evitare un’uscita improvvisa dall’euro, che secondo l’analista metterebbe ulteriormente a rischio le nostre disastrate economie, basterebbe mantenere anche l’euro «come moneta comune di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro e lo yen». Un po’ come il Bancor di Keynes. Il recupero della sovranità monetaria? «E’ ovviamente un’operazione non facile, ma sarebbe meno dolorosa che continuare su questa strada senza sbocchi dell’euro attuale». La Germania ovviamente si opporrebbe. Ma poi, rinunciando all’euro come moneta unica, «non dovrebbe più temere di pagare per le altre nazioni, e l’opinione pubblica europea ne sarebbe felice». In sostanza, «si tratterebbe di convenire un sistema di cambi fissi aggiustabili tra le monete nazionali, avendo come riferimento l’euro come moneta comune (l’euro-lira, l’euro-marco, l’euro-peseta)». La Germania «potrebbe così ritornare al suo beneamato marco gestito dalla arcigna Bundesbank», ma anche gli altri paesi europei «potrebbero ritrovare la loro autonomia in campo economico».Si tratta di una soluzione decisiva e risolutiva, perché «i paesi più deboli potrebbero inizialmente svalutare la loro moneta per riequilibrare la bilancia dei pagamenti, rilanciare l’occupazione e ridurre i debiti, e i governi europei potrebbero decidere politiche espansive per uscire dalla crisi e abbassare il rapporto debito-Pil». Moneta sovrana: benzina necessaria per uscire dalla gabbia dell’euro, che produce soltanto la tragica spirale di contrazioni – consumi, redditi, credito – nella quale stiamo precipitando. Grazzini vede strategico, di fronte a un simile scenario, il ruolo della futura Bce: la banca centrale farebbe da «camera di compensazione per le transazioni europee», come la Clearing Union progettata da Keynes, e metterebbe in piedi un meccanismo per penalizzare «sia i paesi con eccessivi surplus commerciali – come la Germania – che quelli con deficit strutturali delle bilance commerciali, come l’Italia e i paesi del sud Europa». Deficit e surplus sarebbero tassati in proporzione alla loro dimensione e alla loro durata. Obiettivo: «Ridurre le posizioni creditrici e debitrici della bilancia dei pagamenti, fino ad ottenere tendenzialmente un saldo zero».Quello è ovviamente il punto contro cui la Germania «sparerebbe a zero». Ma, grazie al meccanismo di compensazione con penalità simmetriche, «il commercio nell’area euro potrebbe aumentare in maniera equilibrata per tutti». Il nuovo euro, insomma, «funzionerebbe come una unità di conto», proprio come il Bancor di Keynes, e «non come riserva di valore». Sarebbe una “moneta virtuale” e un “paniere” delle monete nazionali europee. «La valuta comune sarebbe gestita dalla Bce e utilizzata per tutte le operazioni con i paesi extraeuropei», con l’impegno a mantenere tassi finanziari stabili. Il “nuovo euro” «rappresenterebbe la barriera comune di fronte alla speculazione del mercato monetario internazionale: questo sistema garantirebbe la necessaria flessibilità interna e la stabilità monetaria verso il resto del mondo, dal momento che un “paniere di valute” è certamente più stabile di una moneta unica».Secondo analisti come Daniela Palma e Guido Iodice, questo tipo di “euro del futuro” «salva il mercato unico e la possibilità di una costruzione politica più solida dell’Unione Europea». Inoltre, la “moneta virtuale europea” «non richiede trasferimenti fiscali o unificazioni dei debiti dei singoli Stati, superando le principali obiezioni oggi poste alle soluzioni di tipo “federale”». Enrico Grazzini torna a rivolgersi direttamente alla politica, cioè all’unica leva democratica a nostra disposizione per tentare di salvare l’economia dall’euro-catastrofe: «Perché le forze della sinistra europea e il “Movimento 5 Stelle” non propongono questa soluzione?». Già, perché? Persino Prodi, massimo “padre” dell’euro, oggi si mostra “pentito” e propone un asse con Francia e Spagna per fronteggiare la Germania. Ma senza ancora riconoscere che il passaggio obbligato resta quello del ritorno alla moneta sovrana, a disposizione dello Stato (e senza limiti) per affrontare le emergenze e dare ossigeno all’economia.Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.
-
Flores d’Arcais: a Bruxelles, Tsipras meglio di Grillo
«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».Intervistato – come la Spinelli – dal quotidiano ellenico “Avgì” (aurora), il direttore di “Micromega” traccia un’analisi impietosa dell’attuale offerta politica italiana: dilaga la disaffezione perché la casta nazionale si limita ad eseguire i diktat di quella di Bruxelles “suicidando” il paese, ma milioni di italiani – pure attivissimi nei movimenti – non hanno nessuna vera possibilità di rappresentazione, al di fuori del M5S. «L’unica forza di opposizione oggi presente in Parlamento è il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grossomodo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione». Il governo? «E’ debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini». E inoltre Matteo Renzi, «personaggio di destra “alla Blair”», non ha intenzione di appoggiarlo a lungo.Il realtà quello che conta «non è il governo Letta ma il governo Napolitano», dato che l’uomo del Colle «si comporta come un vero e proprio sovrano, attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà». A livello politico organizzato, «la sinistra non esiste», e «da molti anni». La sinistra «esiste invece nella società civile: e la distanza tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare». Primo problema, il Pd: «Non è più di sinistra», dai tempi di D’Alema e Veltroni, «che hanno realizzato una vera mutazione antropologica del partito, rendendolo parte dell’establishment». Sel e gli altri piccoli partiti? «Non contano più nulla». Ammesso che Sel riesca a superare lo sbarramento del 4%, «il suo leader Vendola sempre di più si trova implicato in inchieste che ormai stanno distruggendo la sua reputazione». Oltre a Sel, il buio: «Rifondazione, i Verdi e gli altri gruppi politici non rappresentano nulla: se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana».Per contro, questa “sinistra sommersa” negli ultimi quindici anni è diventata una sinistra di piazza, ricorda Flores d’Arcais. Nel 2002, coi “girotondi”, Nanni Moretti riuscì a portare in piazza San Giovanni a Roma un milione di persone, catalizzando «una voglia di autoorganizzazione che era gigantesca», fino al “popolo viola” e oltre, per arrivare ai referendum del 2011 sul nucleare e sull’acqua pubblica. Ma il problema è che «questa opposizione civile e sociale non ha rappresentanza politica: i suoi militanti si sentono cittadini orfani di rappresentanza». E’ quella che Giulietto Chiesa e i suo movimento, “Alternativa”, chiamano «la voragine dei non-rappresentati», ricordando che alle ultime politiche, quelle del “boom” di Grillo, un italiano su due ha comunque disertato le urne. Elettori mobilitabili da ideali forti, riassumibili nello slogan “giustizia e libertà”? «Nanni Moretti pensava che l’area dell’attuale Pd fosse ancora recuperabile e lo crede anche ora appoggiandolo. Non abbiamo avuto il coraggio di dare un seguito organizzato ai girotondi», ammette Flores d’Arcais, citando anche il caso della Fiom, a cui molti movimenti chiedevano che il sindacato “rosso” mettesse in campo «obiettivi politici molto più espliciti, dicendo che i nemici della Costituzione oggi non sono solo le destre ma anche Letta, il Pd e il presidente Napolitano». In questo caso, l’ultima manifestazione per la difesa della Costituzione «sarebbe stata gigantesca con effetto di mobilitazione straordinario, e oggi non avremmo movimenti sociali ambigui come il movimento dei Forconi».Le europee – maggio 2014 – sembrano davvero l’ultima occasione. Se fossero elezioni nazionali, Flores d’Arcais voterebbe Grillo, «perché non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di “Giustizia e Libertà”». Trattandosi invece di Bruxelles, forse c’è spazio per un’alternativa, dal momento che «con la nuova legge elettorale si può presentare un candidato alla presidenza europea». L’unica carta giocabile è quella del leader greco Alexis Tsipras: «C’è oggi una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza (negli altri paesi o non sono di sinistra o non sono “forze”). Per questo pensiamo che una lista rigorosamente della società civile con Tsipras potrebbe avere un buon risultato». In Italia, «solo una lista che raccolga esperienze e movimenti della società civile può evitare l’ennesimo fallimento minoritario», a patto che questa lista resti lontana dalle vecchie sigle perdenti: chi si allea con l’ex “sinistra arcobaleno” – Ingroia docet – è condannato a veder dimezzati i propri voti.«Una qualsiasi lista che, poniamo, potenzialmente avesse il 10% dei voti, se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%», dice Flores d’Arcais. «Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti, se si allea con Rifondazione e gli altri prenderebbe il 2%», perché «invece di produrre una somma», oggi «allearsi con uno qualsiasi di questi partitini produce una sottrazione». Poi servono innanzitutto cervelli: quante delle personalità che hanno animato lotte e movimenti sono convinte della necessità di una lista nuova, autonoma? Quanti personaggi pubblici, invece, si illudono ancora che si possa trasformare il Pd dall’interno o recuperare Sel o replicare l’esperienza della lista-Ingroia? «Bisognerà perciò verificare se almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi – scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema e della musica – condividano la nostra ipotesi». Se l’adesione sarà forte, servirà il terzo passo: verificare la disponibilità dei movimenti, per poi promuovere la nascita, a tappeto, di club di sostegno completamente indipendenti. «Per andare al Parlamento Europeo dovremo superare il 4%. Se questa lista prende un risultato intorno al 5% non avrà futuro, sarà una manifestazione di testimonianza». Per Flores d’Arcais, la soglia-verità è quella del 10%.«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».
-
Giulietto Chiesa: con Tsipras, contro questa infame Ue
Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.Per Giulietto Chiesa, fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, Barbara Spinelli coglie nel segno anche quando avverte che i «vecchi partiti della sinistra radicale» non dovranno essere l’architrave della proposta-Tsipras, perché «abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società», superando i margini molto esigui dei rottami della sinistra “arcobaleno”. Se il Partito della Sinistra Europea ha lanciato anch’esso, nel suo congresso costitutivo di Madrid, la candidatura Tsipras, al di là delle migliori intenzioni – secondo Chiesa – il perimetro storico della sinistra rischia di essere un limite invalicabile, un vicolo cieco. Ne è convinto anche il direttore di “Micromega”, Paolo Flores D’Arcais: «La parola sinistra rischia di essere equivoca, oggi: paradossalmente, non usarla è meno equivoco che usarla», dal momento che “sinistra”, per molti, è ormai in contrapposizione con gli ideali di giustizia e libertà.La parola “sinistra” ricorda l’esperienza fallitmentare del socialismo reale, nonché «la catastrofe politica e ideale che ha seguito la sparizione del Pci». E richiama alla mente «i partitini che si definiscono neocomunisti e che sono una parodia», non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Rimettere in piedi qualcosa a tutti i costi, ripartendo sempre da quel disastro storico, per Aldo Giannuli ha tutta l’aria di un «accanimento terapeutico». Insistere con l’idea della “ricostruzione della sinistra”, aggiunge Giulietto Chiesa, significa anche restare fuori dalla realtà, prigionieri della logica degli steccati. E oltretutto «taglia fuori, in linea di partenza, ogni rapporto con gli otto milioni di elettori del “Movimento 5 Stelle”», cioè «l’unico insediamento istituzionale di una opposizione in Italia». Vero, il movimento diretto da Grillo e Casaleggio resta refrattario a qualsuasi alleanza. Ma perché «tagliarlo fuori dal dialogo che potrebbe condurre ad una lista civica nazionale come quella che noi proponiamo»?A differenza della sinistra in Italia, in Grecia Syriza è una forza politica in forte ascesa. Valide alcune istanze del Partito della Sinistra Europa, così come del “Movimento 5 Stelle”, ma la forma-partito «è un evidente ostacolo a ogni convergenza, ed è dunque prodromo di sconfitta». Barbara Spinelli propone un’alleanza civica «di cittadini attivi, di persone della società civile», disposti a mobilitarsi per Tsipras. «La strada è quella dei contenuti», continua Chiesa. «Se si sceglie Tsipras come candidato comune, sarà necessario fare riferimento alla sua intelligenza politica e alle sue posizioni: che non sono quelle del rifiuto dell’Europa, ma che la vogliono radicalmente cambiata». Un’Europa che sia una “unione”, diversa dall’attuale “equilibrio di potenze”, basato sugli egoismi nazionali, che si è trasformato nel dominio dei più forti sui deboli, senza meccanismi di riequilibrio economico e sociale.Giulietto Chiesa scende nei dettagli: serve un’Europa democratica e solidale, pacifica e non imperiale. Un’Europa «che cancelli i trattati di Maastricht e di Lisbona, fino al Fiscal Compact e a quel mostro intollerabile che è la costituzione, in corso, di Eurogendfor», la temuta super-gendarmeria europea (sostanzialmente antisommossa) non sottoposta a nessuna magistratura. Serve un’Europa non più ostile, «con una banca centrale interamente pubblica, i cui soci sono le banche centrali interamente pubbliche dei paesi membri». Una nuova Bce, che sia «prestatore in ultima istanza» e «abbandoni la linea dell’austerità». E infine «un’Europa che svolga un ruolo autonomo e sovrano nel contesto internazionale, interlocutrice non più subalterna degli Stati Uniti, propugnatrice di una partnership strategica con la Russia». Questo è Tsipras, «e con questo noi siamo in perfetta sintonia». Ma, aggiunge Chiesa, «occorre verificare chi, in Italia, lo è. E trovare un punto di convergenza che sia comprensibile per le grandi masse popolari di questo paese».Attenzione: l’interlocutore potenziale è costituito da milioni di elettori, a una condizione: «Questo programma non lo si può fare con l’illusione di trasformare il Partito Democratico. La sua dirigenza (non necessariamente i suoi elettori) non è riconducibile ai valori della Costituzione. Infatti è da lì che viene l’attacco a quei valori, impersonato dal presidente della Repubblica». Meglio dunque «riflettere seriamente», anche «per evitare di rimanere intrappolati su posizioni anti-europee che si stanno rapidamente diffondendo a partire dalle destre più o meno estreme», come dimostra l’appello del 27 dicembre, indirizzato ai “maggiordomi” italiani ed europei da parte di un gruppo di intellettuali guidati da Etienne Balibar. Un cambio di rotta per l’Europa? «Si tratta ora di vedere se e quante personalità indipendenti sono pronte ad assumersi la responsabilità di questo passo, rappresentato dalla creazione di una lista civica nazionale». I movimenti che lottano per i “beni comuni” saranno pronti a rispondere all’appello? Per Giulietto Chiesa serve «un programma sintetico, da proporre a milioni di italiani, comprensibile a tutti ed espresso in pochi punti». “Alternativa” nel propone uno, lapidario: «L’Italia non parteciperà più a nessuna azione militare fuori dai suoi confini».Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.
-
Lesa maestà, così Scalfari attacca (e insulta) la Spinelli
Chissà se oggi i giornali e i tg, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, ma anche il premier Letta e la presidente della Camera Boldrini, denunceranno la nuova “gogna per giornalisti” e solidarizzeranno con la vittima. L’interrogativo sorge spontaneo, visto che la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Eugenio Scalfari contro Barbara Spinelli, la più prestigiosa editorialista di “Repubblica”, cioè del suo stesso giornale. Finora soltanto Gad Lerner, anche lui firma illustre del quotidiano, ha osato criticare sul suo blog la «ramanzina sgradevole, impropria e di pessimo gusto». Diversamente dal blog di Grillo, che pubblica stralci di articoli menzogneri e poi ne smonta il contenuto (talvolta insultandoli, come con la Oppo, talvolta no, come con Merlo e Battista), Scalfari fa di peggio. Insulta chi si permette di criticare Napolitano («il fuoco dei cannoni da strapazzo… spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli»). Ma non cita mai quelle critiche per contestarle nel merito, forse nel timore che i lettori le condividano.Il peccato mortale della Spinelli è di non aver partecipato alla demonizzazione di Grillo e soprattutto di aver raccontato a Marco Travaglio, per il libro “Viva il Re!”, uno scambio di lettere e un incontro con Napolitano. Ma questo i lettori di “Repubblica” non devono saperlo, dunque Scalfari non lo dice. Le scrive invece di aver «ascoltato i tuoi appunti su Napolitano affidati alla ‘recitazione’ di Travaglio». Allusione all’ultima puntata di “Servizio Pubblico”, in cui Travaglio non ha mai recitato alcunché: semplicemente Santoro ha affidato a un’attrice la lettura di alcuni brani dell’intervista alla Spinelli contenuta nel libro. Invece di smentire, casomai ci riuscisse, l’allergia di Napolitano alle critiche della libera stampa descritta e documentata dalla Spinelli, Scalfari attacca personalmente la editorialista dandole dell’ignorante («conosce poco o nulla la storia d’Italia»). Le ricorda che è «figlia di Altiero Spinelli» perché questo è il suo «maggior bene», manco fosse una ragazzina che deve presentarsi accompagnata dai genitori e chiedere il loro permesso per scrivere e per pensare.Infine la informa di aver «cancellato dalla mia memoria» quanto ha scritto su Grillo e detto su Napolitano. Per molto meno, c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misoginia e sessismo. Se Barbara non fosse una signora, potrebbe ricordare a Scalfari – come fece Giorgio Bocca – che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o – come fanno in pochi – che da giovane era caporedattore di “Roma Fascista”. Si attende comunque con ansia l’intervento del governo, del Parlamento, del Quirinale e possibilmente dell’Onu per il vile attentato alla libertà di stampa.(“La gogna per i giornalisti: Scalfari contro Spinelli”, da “Il Fatto Quotidiano” del 16 dicembre 2013, ripreso da “Micromega”).«Sono stupita dalle parole che Eugenio Scalfari dedica non tanto e non solo alle mie idee sulla crisi italiana ma, direttamente, con una violenza di cui non lo credevo capace, alla mia persona». Barbara Spinelli replica così all’inaudito attacco rivoltole da Eugenio Scalfari, furibondo per la scelta della grande editorialista di affidare a Marco Travaglio la dura critica nei confronti di Napolitano, contenuta nel libro “Viva il Re!”, edito da Chiarelettere. L’altra grande “colpa” della figlia di Altiero Spinelli, padre del federalismo democratico europeo? Essersi categoricamente rifiutata di partecipare alla demonizzazione sistematica di Grillo, orchestrata da “Repubblica” e diretta in primo luogo dallo stesso Scalfari, la cui celebrata autorevolezza è stata di recente danneggiata dalla notizia – diffusa proprio dal “Fatto Quotidiano” – di una cena super-riservata nella quale il fondatore di “Repubblica” avrebbe discusso del futuro del paese ospitando a cena, nella sua casa romana, lo stesso Napolitano insieme a Mario Draghi ed Enrico Letta.
-
C’era una volta la rivolta: serve un lieto fine (elettorale)
In questi giorni la rabbia popolare sta trovando dei canali, molto spontanei e poco organizzati, per sbattere in faccia all’intera classe politica italiana il disagio profondo di coloro che, secondo il linguaggio della nostra democrazia, dovrebbero esserne “rappresentati”. Questo disagio, va detto, è ancora inarticolato, irriflesso. Se dovessimo utilizzare l’idioma della psicologia, potremmo affermare che siamo dinnanzi ad un “acting out” di massa. Queste proteste, così come sono, testimoniano l’impoverimento di numerose categorie di persone, unite da un facile risentimento verso la Casta. Che siano tutti da mandare a casa è, difatti, un concetto semplicistico, ma efficace. Non nascondo che a volte, preso da grillite acuta, ho utilizzato anch’io questo gergo per denotare lo schifo che provo nei confronti di una classe politica che, ormai da vent’anni e oltre, funge da cinta muraria per contenere l’insofferenza popolare e lasciare che la grande finanza si ingrassi alle nostre spalle.
-
Il Grillo no-euro pensa ai giovani: non emigrate, cospirate
Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».«Chi negli anni a venire porterà sulle spalle il peso dei disastri che questo sistema sta producendo – aggiunge Anna Lami nel suo reportage su “Megachip” – attualmente guarda ai 5 Stelle con speranza». E il V-Day di Genova segna un salto significativo nel profilo politico del movimento grillino: si riducono i meri attacchi alla casta politica e crescono quelli all’Europa dell’austerità e dell’euro. «Si tenta anche di delineare i primi tratti che dovrebbero caratterizzare in positivo la società del futuro (citati gli esempi di Correa, Morales e Maduro), in maniera a tratti confusa, ma indice di un significativo progresso che, probabilmente, Grillo e Casaleggio intendono innestare nella coscienza del “loro” popolo». Parole dirette, emergenze stringenti: povertà («ci sono 8 milioni di poveri, non possiamo continuare a far finta che non esistano»), precarietà occupazionale («c’è troppa gente costretta ad accettare qualsiasi ricatto per sopravvivere»), allargamento del divario tra ricchi e poveri. Napolitano? Merita l’impeachment: «Rimarrai solo», tuona Grillo, rivolto all’uomo del Colle. «La tradirai da solo, l’Italia».“Oltre”, la parola chiave del meeting, è soprattutto «andare oltre il concetto di quest’Europa, a cui non credono più neanche i bambini». In sette punti, ecco delineata la politica estera europea del “populista arrabbiato”. Innanzitutto un referendum sull’euro: «Siamo stati truffati quando siamo entrati, e ora ci troviamo a competere in un mercato schizofrenico». Deve pur esserci un piano-B, perché di questo passo c’è solo il collasso dell’Italia. Gli eurobond, per imporre alla Bce di sostenere i debiti sovrani? «Non li accetteranno mai, ma li chiederemo lo stesso». Come? Stringendo un’alleanza coi paesi mediterranei: «Non dobbiamo parlare con la Merkel, ma con i paesi simili a noi, con problemi simili ai nostri». Cioè Francia, Spagna, Grecia, Portogallo. «Gli economisti mi criticheranno? Sono loro la rovina di questo paese, in cinquant’anni non ne hanno azzeccata una». Il resto sono conseguenze, ben esplicitate. Come il no al pareggio di bilancio: «Vedremo noi se e come sforare, e non per diritto costituzionale. Abbiamo perso la sovranità monetaria, quella economica, quella dei nostri figli». Idem per il Fiscal Compact, da abolire: «Non possiamo accettare un contratto per il quale dovremo tagliare 50 miliardi l’anno per vent’anni». Ai giovani, protagonisti della piazza, un’esortazione forte: «Non dovete emigrare, dovete cospirare!».Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».