Archivio del Tag ‘moneta’
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Cesaratto: l’euro uccide la democrazia, ditelo alla sinistra
Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia, del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento Europeo non può sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per prevalere gli interessi nazionali, mentre le classi lavoratrici nazionali non hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli utopisti!L’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di bilancio con un forte sostegno della Bce nel controllo dei tassi di interesse e nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti.La sinistra avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai complicato, forse troppo. Ma certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il Fiscal Compact, allora la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una “stagnazione secolare” del capitalismo – anche alla luce delle crescenti disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze – alla sfida epocale dei paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi salari e crescente tecnologia. Una vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste stupide utopie.(Sergio Cesaratto, dichiarazioni rilasciate a “ForexInfo” per l’intervista “L’Europa che non c’è”, ripresa da “Megachip” il 6 maggio 2014. Eminente economista, esperto di politica fiscale europea, il professor Cesaratto è docente all’università di Siena e curatore del blog “Politica Economia”).Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.
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L’euro di Hitler, una moneta unica per l’Europa nazista
Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza». Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico, perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un “cerchio interno” composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un “cerchio esterno” in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i Pigs, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico.Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante». Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»).Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono intervenuti i prestiti di capitale dal centro; per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato, assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio. Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano.Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica», anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea. Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del Pil a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un Pil di oltre 2.000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto debito-Pil. Però all’inizio del 2013 lo stesso Fmi ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto debito-Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato). Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste.E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi Ue, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo Ue ed extra-Ue ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007». Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.
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Svalutazione, i miracoli dell’export e la catastrofe euro
In un mondo glabalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, mentre trascura totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.Nel loro lungo intervento, nel quale si elencano i presunti rischi dell’uscita dalla camicia di forza della moneta unica governata dalla Bce su input della Bundesbank, Sonno e Altomonte dimostrano che «l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli Usa». Oggi, aggiungono i due analisti, l’80% del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore: «Mentre uscire da una “value chain” è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente». Rilevanti, inoltre, «i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali».Sempre riguardo all’export, «agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco-dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più». Con una svalutazione della nuova lira, aggiungono Altomonte e Sonno, se decidessero di non modificare i loro prezzi, «le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia». In compenso «le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania».Questa è la ragione che spinge i due analisti a sostenere che «un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia». La colpa dei no-euro dell’ultima ora? «Guardare al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso». Se è vero però che i vantaggi della moneta sovrana per le esportazioni potrebbero essere effimeri, sono invece catastroficamente palesi tutti gli svantaggi dell’euro per l’economia nazionale complessiva, la tenuta dello Stato, il governo democratico delle istituzioni. E a proposito di storia, bisogna risalire non al secolo scorso, ma al medioevo feudale, per rilevare un analogo dispositivo di potere, così verticistico, elitario e oligarchico. La politica dell’euro di fatto amputa lo Stato nelle sue prerogative costituzionali (investire, a deficit, per i cittadini) e gli toglie il portafoglio con cui far fronte al debito pubblico e alla spesa sociale. Ne sono diretta conseguenza la contrazione del credito, la chiusura di centomila aziende all’anno, la super-tassazione, la disoccupazione record. In altre parole: l’unica certezza è che, se resta nell’euro, l’Italia non ha scampo. E secondo il sociologo Luciano Gallino, un’economia fatta di solo export – cioè di salari sempre più magri, per riuscire a competere nella fabbrica-mondo – finirà a gambe all’aria anche la Germania.In un mondo globalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono i bocconiani Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, trascurando totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.
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La crisi europea alle urne, voto-contro e astensionismo
Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cioè Lega Nord e Fratelli d’Italia: sono i due partiti che puntano le armi con più decisione contro l’euro-regime che ha imposto l’austery, portando l’Italia sull’orlo del collasso. Altri, come la Lista Tsipras, mirano invece a correggere il rigore di Bruxelles, senza mettere in discussione il Trattato di Maastricht, quindi l’euro, sul quale Grillo – accreditato all’estero come forza euroscettica – propone di indire un referendum, limitandosi per ora (come Tispras) a dichiarare guerra al Fiscal Compact. Tra gli opinion leader, il più acuto nel proporre un’analisi organica sulla devastante crisi europea è Paolo Barnard, che denuncia la barbarie del neo-feudalesimo di Bruxelles, storicamente organizzata dalle grandi famiglie dell’élite oligarchica franco-tedesca, ostili alla democrazia e quindi a qualsiasi economia sociale. Soluzioni politiche? Nessuna: Barnard è tra quanti considerano le elezioni europee perfettamente inutili, dato che l’Europarlamento continuerà a non avere nessun potere sul governo dell’Unione.Altri, meno pessimisti, sperano che l’establishment di Bruxelles – espressione della Bundesbank e della Bce – possano prendere buona nota degli avvertimenti che, stando ai sondaggi, il voto del 25 maggio riserverà: non tanto in Germania, quanto soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, dove è attesa una forte affermazione di Marine Le Pen e Nigel Farage. Determinante l’eventuale successo dei no-euro in Francia: se non si tornerà alla leva fondamentale per finanziare la democrazia, cioè la sovranità monetaria, la Le Pen minaccia l’uscita della Francia dall’Ue. Insieme a Londra, Parigi sembra destinata a trainare un fronte molto vasto, che passa per l’Olanda e l’Austria: formazioni politiche generalmente definite nazional-populiste, ovviamente “di destra”, si incaricano di rappresentare il dilagante malcontento per una crisi sempre più spietata, mentre il centrosinistra europeo (Spd, socialisti francesi e Pd) restano il più solido puntello del micidiale euro-sistema, che precarizza il lavoro in ossequio al neoliberismo finanziario anglosassone e al mercantilismo tedesco.Nel frattempo, la superpotenza americana imbriglia l’Europa tra le maglie del Ttip, il Trattato Transatlantico che potrebbe metter fine agli ultimi capolsaldi del dritto costituzionale europeo in materia di ambiente, lavoro, sanità e sicurezza alimentare, mentre – dopo aver minacciato la Siria e l’Iran – ora affronta direttamente la Russia sul piano geopolitico militare, puntando soprattutto ad accerchiare la Cina con una inedita proiezione nel Pacifico. Secondo Barnard, solo il nuovo capitalismo di Pechino – fondato sulle immense riserve russe di gas e petrolio a sorreggere lo yuan come futura moneta internazionale – potrebbe innescare un benefico terremoto macro-economico in grado di mandare a monte i piani degli euro-oligarchi, che da trent’anni lavorano per metter fine alla sovranità democratica in Europa e alla nostra economia sociale. Un orizzonte sul quale, evidentemente, è impensabile che possa incidere il risultato elettorale per le europee. Che, almeno per l’Italia, sembra destinato essenzialmente al mercato politico interno, cioè il derby Renzi-Grillo. L’Italia non è mai stata male come adesso, e non c’è più neppure l’alibi del detestato Cavaliere. Quanto peserà il partito del non-voto?Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cioè Lega Nord e Fratelli d’Italia: sono i due partiti che puntano le armi con più decisione contro l’euro-regime che ha imposto l’austery, portando l’Italia sull’orlo del collasso. Altri, come la Lista Tsipras, mirano invece a correggere il rigore di Bruxelles, senza mettere in discussione il Trattato di Maastricht, quindi l’euro, sul quale Grillo – accreditato all’estero come forza euroscettica – propone di indire un referendum, limitandosi per ora (come Tispras) a dichiarare guerra al Fiscal Compact. Tra gli opinion leader, il più acuto nel proporre un’analisi organica sulla devastante crisi europea è Paolo Barnard, che denuncia la barbarie del neo-feudalesimo di Bruxelles, storicamente organizzata dalle grandi famiglie dell’élite oligarchica franco-tedesca, ostili alla democrazia e quindi a qualsiasi economia sociale. Soluzioni politiche? Nessuna: Barnard è tra quanti considerano le elezioni europee perfettamente inutili, dato che l’Europarlamento continuerà a non avere nessun potere sul governo dell’Unione.
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Euro-nazisti, negano la strage. Hitler era meno bugiardo
Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».Si può calcolare che, «per ciascuno di quelli che hanno chiesto un pasto caldo o il pacco alimentare, ci sia solo un’altra persona a condividerne in qualche modo o a subirne di riflesso le sofferenze: giusto quanti ne bastano per far sì che quella fila, una volta arrivata a Bruxelles, possa tornare indietro fino a Reggio Calabria». E se agli italiani costretti a umiliarsi aggiungiamo milioni di cittadini Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica? «A quel punto, il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare – e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto – si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri», scrive “Clack” su “Come Don Chisciotte”. «Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente da un lato all’altro sono rimasti in gran parte sulla carta, in compenso l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati, e ha fatto in modo da distribuirle sul territorio in maniera persino più capillare».Solo la Seconda Guerra Mondiale, aggiunge il blog, è stata capace di produrre qualcosa di simile: le conseguenze della moneta unica sono paragonibili a un evento bellico di quella portata. «Negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra», con mezzi «forse più micidiali dei carri armati, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici al loro servizio», politici «non eletti da nessuno» ma con un potere da usare «nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di euro». Sicché, «di fronte a un disastro simile, causato deliberatamente, il capo del terzo governo fantoccio che si succede in Italia in poco più di due anni non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro una tantum», che peraltro «dovranno essere ripagati mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».Quella somma andrà a chi ha già una busta paga, per quanto misera. Viceversa, chi non ha niente – ovvero il milione e più di famiglie senza reddito – non avrà nulla. «Questo in base alla logica consolidata negli anni che prevede l’abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia». Per “Clack”, è «il principio fondamentale della politica sociale dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti – Pd in testa – si sono «messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», che sono lo strumento per realizzare «gli obiettivi propri del capitalismo assoluto», anche di fronte all’opinione pubblica si tenta sempre di «nascondere le responsabilità oggettive di chi ha precipitato nelle condizioni attuali un paese che, prima della moneta unica, era ai vertici delle classifiche dei paesi manifatturieri e caratterizzato da un benessere diffuso con equità ragionevole». Torniamo al potere assoluto dell’élite, al tempo i cui, in Colorado, i Rockefeller facevano strage delle famiglie dei minatori, che chiedevano condizioni di vita meno disumane.Autori ed esecutori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto? Sono «nazisti, moderni Mengele», anche se questo può «apparire come la più inaccettabile delle enormità, alle anime belle e tanto volenterose del progressismo nostrano, fedele seguace della sinistra asservitasi al fondamentalismo reazionario del liberismo globalizzato». Nel mondo occidentale si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione, inarrivabile per ogni altra cosa. Ma se il nazismo «agiva in nome e per conto del proprio Stato», sia pure con metodi abominevoli, la classe politica di oggi «opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Inoltre, «il nazismo riconosceva la propria natura, non aveva problemi a palesarla», viceversa «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», ripetute fino a renderle dogma, «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole».Proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature, aggiunge il blogger, che non a caso a suo tempo sono state finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale. Le dittature storiche le guerre le dichiaravano, combattendo alla luce del sole, mentre i tiranni di oggi «muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato o quelli con cui si è legati da trattati di unione o amicizia». Se il nazismo non temeva l’evidenza delle sue azioni, l’istinto dei dominatori attuali è quello, innanzitutto, di nascondersi, mentire, non ammettere i loro obiettivi. E’ una «cripto-dittatura», ben più pericolosa e devastante «proprio perché praticamente invisibile». Continua “Come Don Chisciotte”: «Definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale, dunque, è fuorviante ma soprattutto riduttivo». Già Orwell, in “1984”, segnalava la mancanza di vocaboli adeguati a definire un totalitarismo pervasivo e subdolo, non dichiarato. E’ questo il vero capolavoro dell’élite: l’uomo comune – la sua vittima – non sa neppure cosa stia accadendo. Come potrebbe difendersi dall’aggressione?Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
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Filingeri contro Chiamparino, il populista privatizzatore
«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».Anche Torino, per cent’anni capitale della Fiat, è in crisi: delocalizzazioni e disoccupazione, mentre la Fca di Marchionne emigra. «Bisognerebbe provare a frenare le multinazionali, e nel settore auto puntare anche su altri produttori, per esempio di motori elettrici». I critici dicono che i sindacati si sono lasciati ingabbiare nella concertazione, rassegnandosi alla perdita progressiva dei diritti del lavoro. «Certamente la concertazione ha contribuito a limitare la resistenza del mondo del lavoro», ammette il candidato di sinistra, «ma questo non ci impedirà di lottare: contro la riforma Fornero, l’articolo 8 e le modifiche all’articolo 18. Nelle crisi, bisogna incentivare i contratti di solidarietà e la riduzione dell’orario». Ma intanto siamo nella fabbrica-mondo: le aziende scappano, dove il lavoro costa meno. Proprio per questo, dice Filingeri, bisogna battersi contro il Ttip, il Trattato Transatlantico, che tutela le multinazionali e demolisce lo spazio sociale europeo. Il trattato è incostituzionale, e «la stessa Regione Piemonte, presente nel Comitato delle Regioni Ue, può avere voce in capitolo in materia di ambiente, istruzione e salute».«Per uscire dalle scelte nefaste delle multinazionali e dalla crisi è centrale l’intervento pubblico», indispensabile per «per mettere in campo un vero e proprio “Piano del Lavoro”, con risorse certe», per creare occupazione e stabilizzare i precari. Il guaio è che «a differenza del passato, oggi lo sviluppo non porta automaticamente a nuova occupazione: ogni aumento di produttività, se non regolato, comporta la contrazione dell’occupazione e dei salari». Per Filingeri servono “reti sociali”, ora più che mai, per rimediare ai disastri della malapolitica al servizio dei poteri forti: No-Tav, acqua pubblica, nuova finanza sociale per la gestione della Cassa Depositi e Prestiti. «Una miriade di realtà che in genere nascono dicendo “no”, proprio perché non accettano questo modello di sviluppo». Il loro grande “nemico” è proprio il Pd, che si dichiara ancora “di sinistra”. «Definire di sinistra personaggi che stanno facendo politiche di destra e che non si vergognano non solo di governarci assieme alla destra moderata, ma nemmeno di essere meri esecutori di politiche neoliberiste e tagli sociali che vengono imposti dalla Bce, è sicuramente un tranello in cui cadono tutti coloro che continuano a votare per il Pd convinti che mettere una crocetta su quel simbolo significhi essere di sinistra e serva per “evitare che vada al governo la destra”!».«La politica della “limitazione del danno”, che ha pervaso in questi anni gran parte della sinistra del nostro paese», secondo Filingeri «ci ha portato alla tragica situazione politico-sociale in cui oggi ci ritroviamo». Chiamparino, transitato dal Pci-Pds al Comune, poi alla fondazione bancaria di Intesa SanPaolo e ora proiettato in Regione, ne è un simbolo perfetto. «Un populista», lo definisce Filingeri. Che spiega: «Il populismo di Berlusconi si rivolge di più a chi vede nello Stato la controparte, l’esattore che sottrae risorse ai privati cittadini e ne limita con le leggi la libertà di sfruttare, speculare e di potersi arricchire, mentre il populismo di Chiamaprino è rivolto a chi crede che basti promuovere eventi sportivi o grandi opere (come le olimpiadi e il Tav) per dimostrare di far parte dell’Italia “sana”», tralasciando per carità di patria lo scempio ambientale delle strutture olimpiche di Torino 2006, trasformatesi in cattedrali nel deserto. «Il problema è che mentre tutti si ricordano che il condannato Berlusconi ha fondato Forza Italia con il latitante Dell’Utri, nessuno sembra si ricordi i tempi in cui La Ganga faceva il vicerè a Torino per conto di Craxi e che oggi è nuovamente tra i dirigenti del Pd torinesi. Una cosa hanno però in comune Berlusconi e Chiamparino, la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali, i trasporti, l’acqua, la sanità, i beni comuni, che rappresentano la centralità della stato sociale del nostro paese, per favorire le imprese private. nelle scelte concrete sembrano diversi, ma sono uguali».Per il candidato di “L’altro Piemonte”, il “bisogno di sinistra” oggi è «una ribellione alle politiche di sfruttamento messe in atto dalla finanza mondiale e dalle multinazionali, che vedono le persone come consumatori o come forza lavoro al pari di un macchinario». Non solo merci, ma diritti civili, contro chi vedere solo praterie da sfruttare per arricchirsi, e non beni da preservare per le generazioni future. «Serve una rete solidale di persone che sappia creare anche un’economia solidale». Pessimo spettacolo, però, quello offerto dai partiti di sinistra. «Facile commuoversi per i barconi dei migranti e gli operai sui tetti, più difficile mettere in pratica i propri principi». Colpa dei militanti? «Sì, dovrebbero svegliarsi. Ma ora la crisi sta mettendo con le spalle al muro molte persone». Un brusco risveglio potrebbe essere anche il voto europeo: Tsipras punta a combattere «la sovrastruttura tecnocratica che reprime la democrazia». Chi lo voterà spera in una legislatura “costituente”, che possa colpire l’oligarchia finanziaria e risollevare l’economia reale dei lavoratori. «Oggi, scegliere Tsipras ha un valore simbolico per la sinistra, esprime il tentativo di recuperare l’idea di vera democrazia».“L’altra Europa” dichiara guerra all’austerity ma teme l’uscita dalla moneta unica: «Abbandonare l’euro non sarebbe indolore (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà) e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto – aggiunge Filingeri – segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe». Secondo il candidato piemontese, è possibile cambiare rotta anche usando le risorse esistenti, a partire dal Piemonte: «Per treni efficienti e puliti i soldi ci sono, basta vedere quello che spendono per il Tav!». E’ possibile «finanziare le cosiddette imprese ricostituite ai lavoratori, cioè le situazioni di uscita dalle crisi aziendali in forma di gestione cooperativa», che spesso hanno «performance superiori».A fine 2012 il Piemonte (Regione e Provincia di Torino) ha chiuso, per “spending review”, il suo centro strategico per l’agricoltura biologica, il Crab, guida tecnica di uno dei pochissimi settori economici in espansione, per di più ecologico. L’agricoltura, secondo Filingeri, è esattamente uno dei comparti in cui i finanziamenti non mancano, se solo li si sa utilizzare bene: «Il programma europeo di sviluppo rurale 2014-2020 dovrà essere impostato per essere Ogm-free. I fondi devono essere usati per dare impulso a un’agricoltura a basso impatto sull’ambiente, liberata dalla chimica, che valorizzi le produzioni biologiche, capace di mantenere il livello produttivo necessario alle esigenze della popolazione. Inoltre, siamo per un intervento sul sistema della distribuzione, favorendo il consumo di prodotti locali, a chilometri zero, per il passaggio diretto produttore-consumatore». Sono temi cari alla galassia dei nuovi movimenti, che ora rialzano la testa, No-Tav in primis. «Più riusciranno a contarstare il modello neoliberista, più ci sono probabilità che il risveglio porti a qualcosa». Mauro Filingeri cita Saint Exupéry: «Se vuoi costruire una nave, non devi dividere il lavoro, dare ordini e convincere gli uomini a raccogliere la legna. Devi insegnargli, invece, a sognare il mare aperto e sconfinato».«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Foa, imporre l’euro: ieri con l’inganno, oggi con la paura
Le tecniche usate per influenzare l’opinione pubblica sono sofisticate. Lo scopo principale è quello di creare un “frame”, ovvero una cornice mentale attraverso la quale ognuno di noi forma un giudizio su un determinato fatto. E’ un meccanismo naturale, anzi innato. Ogni giorno noi creiamo decine di “frames” ovvero giudizi sovente fugaci, quando entriamo in un negozio, quando conosciamo una persona, quando mangiamo in un ristorante, eccetera. Uno spin doctor, invece, mira a creare un “frame” collettivo dalla cornice molto spessa, dunque radicato in maniera profonda nel subconscio collettivo riguardo all’argomento che gli interessa. E’ facile formare un “frame” su un tema che il pubblico non conosce bene. Ad esempio, la crisi in Ucraina dove il confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi è stato tracciato con notevole disinvoltura e un certo successo in un’opinione pubblica occidentale che mai si è occupata di quel paese e che pertanto è facilmente suggestionabile.Oppure associando il “frame” a un’emozione (pensate allo choc collettivo provocato dall’11 Settembre) tanto più se suffragata da immagini, filmati che non hanno bisogno di spiegazioni e parlano da sé. O da valori assoluti, indiscutibili, nobili come quelli creati per un ventennio attorno all’euro. Che cosa ci hanno raccontato dalla metà degli anni Novanta? Che era nell’interesse dei popoli europei, che avrebbe accresciuto la ricchezza di tutti, che avrebbe portato l’Italia sui livelli della Germania, che avrebbe promosso l’uguglianza dei popoli, il benessere di tutti, garantito la pace in Europa, la fratellenaza la democrazia, la giustizia… E ora che molti si accorgono di essere stati ingannati, gli spin doctor usano un “frame” potentissimo: quello della paura. Paura dell’inflazione, della povertà, della disoccupazione, della punizione dei mercati finanziari, della benzina a 4 euro, della svalutazione del prezzo delle case, in genere del costo altissimo di una scelta irresponsabile come questa. Ed è un “frame” così forte che ha quasi sempre successo.Guardate quel che è successo in Grecia, un paese oggi in ginocchio, annichilito, impoverito come se fosse uscito da una guerra. E invece paga semplicemente il “dividendo” per essere rimasto nell’euro. Diciamola tutta: la Grecia avrebbe fatto meglio a uscire e a ricominciare dalla dracma. Così rischia di restare schiava per sempre. Ma al momento di dare la spallata finale, il popolo greco si è diviso in due. Quelli che hanno perso tutto sono scesi nelle strade, ma l’altra metà, coloro che hanno mantenuto un lavoro o che sono stati indotti a indebitarsi e dunque sono ricattabili, hanno avuto timore di perdere quel poco che hanno e si sono allineati ai voleri della Troika. Per paura, solo per paura.Gli spin doctor hanno vinto due volte, prima e dopo. E nulla cambierà, in Europa, se chi si oppone all’euro non prenderà coscienza di queste tecniche, che vanno oltre la comunicazione e sfociano nella manipolazione sociale e si trasformano in una forma di governo, per quanto invisibile e mai dichiarato. Solo contrastandole con efficacia e consapevolezza, i popoli europei – a cui è stata tolta la possibilità di decidere sull’euro – potranno riprendere in mano il proprio destino. Altrimenti nuovi “frame” spegneranno i sussulti di libertà e di sana, democratica, legittima indignazione.(Marcello Foa, “Euro e manipolazione mediatica: è semplice, si fa così”, dal blog di Foa su “Il Giornale”, 23 aprile 2014).Le tecniche usate per influenzare l’opinione pubblica sono sofisticate. Lo scopo principale è quello di creare un “frame”, ovvero una cornice mentale attraverso la quale ognuno di noi forma un giudizio su un determinato fatto. E’ un meccanismo naturale, anzi innato. Ogni giorno noi creiamo decine di “frames” ovvero giudizi sovente fugaci, quando entriamo in un negozio, quando conosciamo una persona, quando mangiamo in un ristorante, eccetera. Uno spin doctor, invece, mira a creare un “frame” collettivo dalla cornice molto spessa, dunque radicato in maniera profonda nel subconscio collettivo riguardo all’argomento che gli interessa. E’ facile formare un “frame” su un tema che il pubblico non conosce bene. Ad esempio, la crisi in Ucraina dove il confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi è stato tracciato con notevole disinvoltura e un certo successo in un’opinione pubblica occidentale che mai si è occupata di quel paese e che pertanto è facilmente suggestionabile.
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Europee, contro il Pd di Renzi l’unico vero “voto utile”
La confusione è grande, perché non esiste un piano-B sufficientemente chiaro: non c’è ancora un possibile governo per l’alternativa, a cominciare dall’economia. Rispetto alle politiche 2013, però, la situazione si è molto chiarita: la crisi sta devastando famiglie e imprese, e la protesta contro Bruxelles ormai dilaga in tutta Europa, da Londra a Parigi. Si improvvisano liste no-euro per cogliere il vento favorevole, mentre sul fronte opposto fioccano scongiuri: ma sono motivati dalla scarsa credibilità attribuita a molte espressioni no-euro, piuttosto che da una reale convinzione nelle virtù della moneta unica, il cui fallimento disastroso è ormai sotto gli occhi di tutti. I critici più coerenti, sulle barricate da anni contro l’anomalo regime monetario di Francoforte, unico al mondo, invitano a non considerare affatto un fallimento quello dell’euro, bensì il perfetto compimento – col massimo profitto possibile – del piano oligarchico di cui l’euro sarebbe il braccio armato: ridurre gli Stati all’impotenza e preparare la loro resa definitiva alle ragioni del più forte, cioè il capitalismo globalizzato che oggi si rifugia nella speculazione finanziaria e nella razzia ai danni dello Stato, non potendo più ricorrere, come prima, al consueto saccheggio del colonialismo industriale a spese del terzo mondo.La situazione geopolitica si va facendo esplosiva, con gli Stati Uniti che accerchiano la Cina nel Pacifico e intanto in Ucraina logorano il più importante alleato dei cinesi, la Russia, con la piena collaborazione di un’Europa-fantasma, domani al guinzaglio anche sul piano commerciale grazie al varo del Trattato Transatlantico, che minaccia di porre fine alla storica sovranità giuridica europea in materia di libero scambio, agricoltura, energia, salute, lavoro, pensioni, sicurezza alimentare. Nell’offerta elettorale italiana, per molti aspetti sconcertante, uno spettro variegato di forze – da destra a sinistra – denuncia perlomeno alcuni aspetti della crisi. Una sola, il Pd, procede invece a rullo compressore verso un regime di devastante pericolosità. Jobs Act e precariato obbligatorio, abolizione del Senato, legge elettorale liberticida: secondo i maggiori giuristi è a rischio la sopravvivenza stessa della democrazia, o di quel che ne rimane, grazie soprattutto al soggetto politico prescelto per tenere l’Italia in stato di sofferenza, sprofondando il paese in una depressione irreversibile. Se una vera soluzione non c’è ancora, milioni di elettori andranno alle urne il 25 maggio con in testa un’idea precisa: la convizione che ogni voto contro il Pd di Renzi sia un voto utile.Fermare il Bugiardo di Firenze, in qualunque modo. Per milioni di elettori, molestati dal debordante presenzialismo televisivo del premier, è la vera missione del voto del 25 maggio. Vale tutto: qualsiasi lista – da Tsipras a Fratelli d’Italia – può servire a sbarrare la strada a quello che la maggioranza relativa degli italiani ormai considera il pericolo numero uno per il paese, il Pd, percepito come il partito di gran lunga più compromesso coi “nemici” storici dell’Italia. Partito che ora, con Renzi, si appresta a sfrerrare il colpo di grazia di fronte al quale Berlusconi e persino Monti avevano esitato. Vecchia, triste regola degli ultimi decenni: il super-potere sceglie la sinistra (intesa come partiti) per colpire a fondo i ceti popolari. Così Prodi, D’Alema e Amato introdussero privatizzazioni, tagli e flessibilità, producendo sofferenze e precariato. Oggi, il partito del super-potere euroatlantico teme l’antagonista Grillo, e gli oppone il giovane Matteo. Obiettivo: fingere di innovare il paese e in realtà smantellare quel che resta dello Stato, a beneficio del grande capitale finanziario che si appresta a banchettare su pensioni e sanità, scuola, servizi vitali, acqua potabile, trasporti.
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Ragazzi, eravamo ricchissimi. E vi hanno rubato tutto
Questo è per voi, il giovane, la giovane, italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… VOLTATO INDIETRO voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.Poi cosa si vede? Si vede che i vostri nonni, padri e madri HANNO FATTO I COMPITI A CASA hanno fatto i compiti a casa. Dopo 35 anni dai cumuli di macerie, e dai mandarini solo due volte all’anno in tavola, l’Italia diventa la quinta potenza mondiale, il primo paese al mondo per risparmio privato e per ricchezza privata pro-capite. Scese Cristo e moltiplicò i pesci? No, no. Tuo nonno e tuo padre fecero i compiti a casa. E arriviamo al 1994, quando le agenzie di rating ci definivano “Economia leader d’Europa”, quando stracciavamo la Germania sia in produzione che export. Ricchi, ricchissimi. E arrivate voi. I giovani italiani si presentano dal Notaio dopo il 1994 per reclamare LA GIUSTA EREDITA’ la giusta eredità del quinto paese più ricco del mondo, quindi lavoro garantito, stipendi per casa, matrimonio e bei risparmi. No? Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.Nulla? Eh???? DOVE SONO FINITI I SOLDI, IL 5° PIL DEL MONDO, GLI ENORMI RISPARMI, LA 1a RICCHEZZA PRIVATA DEL MONDO, IL LAVORO, CIOE’ TUTTA L’EREDITA’ DEI 70 ANNI DI LAVORO DI TUO NONNO E DI TUO PADRE? Dove sono finiti i soldi, il 5° Pil del mondo, gli enormi risparmi, la 1a ricchezza privata del mondo, il lavoro, cioè tutta l’eredità dei 70 anni di lavoro di tuo nonno e di tuo padre? Ancora giratevi indietro, ragazzi. Cosa si vede? Si vede che i padri fondatori dell’Italia si erano seduti sulle macerie della guerra e avevano scritto la PIU’ AVANZATA COSTITUZIONE la più avanzata Costituzione nell’interesse pubblico del mondo. Anno 1948. Diritti garantiti, Stato sovrano, Parlamento sovrano, Costituzione sovrana. Una legislazione del lavoro che era invidiata da tutto il pianeta. I giovani italiani si presentano oggi dal Notaio per reclamare LA SECONDA GIUSTA EREDITA’ la seconda giusta eredità: si chiama DIRITTI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA GA-RAN-TI-TI diritti della Costituzione italiana ga-ran-ti-ti. Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.Nulla? Eh???? Sì, nulla. Non vi avevano detto che nel 1993 dei tecnocrati europei che nessun italiano ha mai eletto avevano creato il Trattato di Maastricht, poi nel 2007 quello di Lisbona, che hanno esautorato il Parlamento del tutto, hanno tolto all’Italia la sovranità monetaria, e hanno persino soppresso la nostra Costituzione. Risultato: NON AVETE NESSUN DIRITTO CHE L’ITALIA POSSA OGGI DIFENDERE PER VOI Non avete nessun diritto che l’Italia possa oggi difendere per voi. Shock. Ricapitoliamo: Esistevano per voi giovani, DUE EREDITA’ CAPITALI due eredità capitali, costruite per voi dai vostri nonni, padri, madri, e Padri Fondatori, che vi avrebbero garantito il futuro di dignità e prosperità e democrazia. Erano lì fino al 1999! Oggi non ci sono più. MA COME E’ POSSIBILE Ma come è possibile? Come accade che 70 anni di lavoro per voi svaniscano nel nulla negli ultimi 5 minuti?Chi vi ha… RUBATO IL FUTURO E LA VITA STESSA QUANDO VI SPETTAVA DI DIRITTO IN EREDITA’ DOPO 70 DI LAVORO, VITA, LOTTA E MORTE DEI VOSTRI NONNI, GENITORI E PADRI FONDATORI rubato il futuro e la vita stessa quando vi spettava di diritto in eredità dopo 70 anni di lavoro, vita, lotta e morte dei vostri nonni, genitori e padri fondatori? Risposta: Unione Europea dei Tecnocrati non eletti che lavorano per un pugno di speculatori Neofeudali, primi fra tutti i tedeschi, che vogliono divorare l’Italia. Chi vi scrive pubblica da 5 anni le prove su prove su prove di questo crimine contro di voi, perpetrato attraverso la creazione dell’Eurozona coi suoi Trattati di cui sopra.Soluzione: LE DUE EREDITA’ SONO VOSTRE! RIPRENDETELE, IN DUE MODI: le due eredità sono vostre! Riprendetele, in due modi: a) Assediare il Parlamento, che s’inginocchi a chiedere scusa agli italiani, stracci i Trattati Ue della rapina storica contro l’Italia, riporti la sovranità monetaria e costituzionale in Italia; b) Gridare alle forze armate della Repubblica di arrestare Giorgio Napolitano, principale complice della rapina storica in Italia, dissolvere il governo di Renzi servo dei tedeschi distruttori dell’Italia, e che riportino la sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale in Italia. Fuori dall’Eurozona. Le forze armate hanno giurato fedeltà alla Costituzione, devono farlo. Poi tornate dal Notaio e reclamate le vostre EREDITA’ eredità, questa volta nel nome dei vostri nonni, padri e madri, che ve l’avevano lasciata. Alzate la testa, ragazzi, la piazza è vostra, ma non per fare casino. Per reclamare CIO’ CHE VI SPETTA IN EREDITA’ ciò che vi spetta in eredità.(Paolo Barnard, “Giovani, se capite questo farete le barricate”, dal blog di Barnard del 3 maggio 2014).Questo è per voi, giovani italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.
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Terzi: subito più deficit per tutti, o l’Europa è spacciata
I posti di lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato, e senza domanda non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento del governo Renzi che riduce il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per aiutare la ripresa dei consumi. Il governo avrebbe preferito farlo aumentando il deficit, ma sarà costretto invece a finanziarsi tagliando ancora la spesa pubblica: tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa. Risultato: «Molto semplicemente, qualcuno in Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio», osserva un economista come Andrea Terzi. «La riduzione della spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio. Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse essere spesa».Ben più efficace sarebbe la manovra – scrive Terzi in un intervento su “Sbilanciamoci” ripreso da “Megachip” – se Renzi potesse sforare i limiti imposti dalle regole europee sul disavanzo. Ma solo a certe condizioni: «Se i risparmi creati dalla riduzione fiscale saranno spesi in merci tedesche, crescerà il Pil della Germania e l’Italia si ritroverà presto col rapporto deficit-Pil di nuovo in allarme rosso». Per uscire dalla spirare dell’euro-crisi, dice Terzi, c’è un’unica soluzione: l’aumento della spesa pubblica, mediante una forma concordata di “deficit comune europeo”. Le altre soluzioni sono binari morti. Più credito bancario? Opzione non realistica: «La Bce non può fare quasi nulla: se la domanda è depressa, le imprese non investono, né le banche sono propense a rischiare. Tassi negativi e quantitative easing sono solo palliativi». Opzione due: più export? Negativo. Nemmeno se crollasse il valore dell’euro si riuscirebbero a recuperare i 7 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello dal 2008, per non parlare dei 19 milioni di occupati scomparsi dall’Eurozona.E se fossimo tutti competitivi come la Germania? «È la ricetta del presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. E non si sa se ridere o preoccuparsi (più la seconda)», continua Terzi. «Significherebbe accontentarsi di prezzi più bassi per portar via fatturato agli altri, allargando a tutta l’Europa quella stessa strategia che la Germania ha potuto realizzare solo grazie al fatto che qualcun altro, altrove in Europa o nel mondo, alimentava il fatturato delle proprie imprese». Meglio, di gran lunga, l’opzione tre: più disavanzo pubblico, che è «il motore delle altre due», nonché «il vero e unico carburante della domanda». Niente di così strano, peraltro: «È quello che gli Stati Uniti hanno impiegato, pur col contagocce, per uscire dalla recessione. Ed è quello di cui la Cina si è servita, in dosi massicce, per evitare la recessione globale». Stati Uniti e Cina: paesi sovrani, a moneta sovrana. L’Europa dell’euro, invece, si rifiuta ostinatamente di ricorrere al deficit, «autocondannandosi al declino».In Europa, aggiunge Terzi, prevale la convinzione (infondata) per cui il disavanzo pubblico sarebbe una sorta di “ripiego”, di “droga” da cui è bene stare alla larga, pena l’assuefazione, l’inflazione o un’altra crisi finanziaria. Tutto sbagliato: nelle economie monetrarie contemporanee, «la fonte ultima di denaro in circolazione» è proprio «la spesa del settore pubblico che eccede gli introiti fiscali». Se per lo Stato il saldo è zero (pareggio di bilancio) o addirittura positivo (avanzo primario), comincia la tragedia per aziende, famiglie, lavoratori. L’élite neoliberista nega la realtà: il denaro viene creato dal nulla, non è un “tesoro” conquistato e accantonato. Perché non crearne di più e investirlo, sotto forma di spesa pubblica, cioè deficit positivo? Secondo Terzi, si tratta innanzitutto di convincere i poteri forti europei – Germania in primis – a «lasciar crescere il disavanzo pubblico europeo in maniera economicamente e politicamente equilibrata»,e cioè «non certo concedendo a questo o a quel paese di sforare il tetto nazionale consentito».Obama propone che i paesi coi deficit pubblici più piccoli «mettano a repentaglio le proprie finanze pubbliche per aiutare gli altri», mentre Draghi sostiene che «il risanamento delle banche e delle finanze pubbliche farà crescere la fiducia». Nemmeno i ricercatori più attenti della Bce ci credono, osserva Terzi, visto che alcuni di loro hanno scritto che la devastante crisi tedesca del 1931 fu causata proprio dall’austerità. L’economista ritiene invece percorribile la creazione di «un “disavanzo pubblico europeo” finalizzato alla piena occupazione», cioè l’obiettivo che l’élite eurocratica contrasta in ogni modo, fin dalla nascita dell’Unione Europea. Piena occupazione: proprio quello che i signori di Bruxelles non vogliono. Eppure, insiste terzi, il lavoro per tutti «risolverebbe molti problemi assieme: dal rispetto dei vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario». Per cui «è indispensabile, e drammaticamente urgente, studiare una soluzione condivisa». Un’ottima soluzione, democratica: quella che l’euro-regime vuole evitare a tutti i costi, anche a rischio di far fare a mezza Europa la fine della Grecia.I posti di lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato, e senza domanda non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento del governo Renzi che riduce il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per aiutare la ripresa dei consumi. Il governo avrebbe preferito farlo aumentando il deficit, ma sarà costretto invece a finanziarsi tagliando ancora la spesa pubblica: tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa. Risultato: «Molto semplicemente, qualcuno in Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio», osserva un economista come Andrea Terzi. «La riduzione della spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio. Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse essere spesa».
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Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.(Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.