Archivio del Tag ‘moneta’
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Magaldi: solo teatro, nessuno vuol fare guerra a Bruxelles
«Non credete a quelli che gridano “al voto, al voto”: dicono così solo perché sanno benissimo che alle elezioni, tanto presto, non si andrà». Nessuno è sicuro di vincere, né tantomeno poi di saper governare. Qualcuno ce l’ha davvero, un piano? Parla in modo esplicito Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” e presidente del “Movimento Roosevelt”: «La prima cosa che un premier italiano dovrebbe fare – dichiara Magaldi a “Colors Radio” all’indomani dell’incarico a Gentiloni – è tramutare in atti precisi quell’abbiare vano, alla luna, da parte di Renzi, “abbasso la tecnocrazia, abbasso l’Europa matrigna”». Abbaiare non basta, servono fatti: «Tipo: riconvocare a Ventotene la Merkel e Hollande, e dir loro: signori, se non rivediamo i trattati, l’Italia ne sospende la validità sul suolo italiano, torniamo alla lira e facciamo quello che ci pare». Magaldi lo afferma «da europeista convinto», che tifa per «un’Europa coesa», e soprattutto «democraticamente legittimata nelle sue istituzioni». Ma quello è il punto di partenza: stracciare i trattati Ue. «Tutto il resto non conta niente, se non c’è una riappropriazione della sovranità monetaria».Gentiloni? «Un personaggio incolore, che non può fare ombra a Renzi, non a caso scelto per questo, dall’ex premier, tra altre mezze calzette del suo ex esecutivo». L’unica buona notizia sarebbe la bocciatura di Padoan: Magaldi si è impegnato in prima persona, anche con una lettera aperta a Mattarella, per invitare il presidente della Repubblica a evitare la nomina di Padoan, «che milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, massima interprete del peggior rigore tecnocratico europeo». Lo stesso Renzi non è mai stato un fan di Padoan: «Gli era stato messo alle costole come cane da guardia, perchè – appunto – contro la tecnocrazia e l’austerity si limitasse ad abbaiare, senza mordere mai». Durerà, Gentiloni? «Impossibile dirlo: basta vedere quanto durò il governo Dini». Renzi, però, vorrebbe votare subito – lui sì. «Anche qui sarei cauto», dice Magaldi. «E’ vero, Renzi vorrebbe affrettare il congresso Pd per ottenere una forte investitura e poi andare al voto, ma vedo in campo diversi progetti, a livello italiano e internazionale, che non coincidono con i desiderata dell’ex premier».Poteri forti, a cui il rottamatore non piace più? Certo, per Renzi, i problemi non vengono dal Pd. «Intanto, non c’era nessuna necessità di dimettersi. E in ogni caso, l’ex primo ministro non esce affatto distrutto dall’esito referendario: ha anzi incassato un notevole consenso personale, anche se poi non è detto che si traduca in voti quando si andrà a elezioni. Poi, comunque, Renzi ha inserito nel governo Gentiloni persone fidate in ruoli vitali». Soprattutto, continua Magaldi, l’ex premier «sa benissimo di aver conquistato il partito per assenza di competitori». La verità è che «il Pd è fatto di vecchie cariatidi, personaggi che hanno meno appeal di una patata bollita». Proprio per questo Renzi ha conquistato la poltrona di segretario. «E la situazione non è cambiata: non è che la gente ha nostalgia di Bersani e di tutti i bersaniani che hanno approvato il Fiscal Compact», durante il governo Monti. «Tra Bersani e Renzi, la maggioranza preferità sempre Renzi, a parte qualche nostalgico di non si sa quali “tempi d’oro” sotto la segreteria Bersani o di altri che l’hanno preceduto. Quindi è ovvio che Renzi stravincerà qualunque congresso».Ma da qui al voto anticipato, ne corre. «Io non mi fiderei di quelli che oggi sembrano scalpitare le elezioni», dice Magaldi, che cita «troppi parlamentari 5 Stelle che, se si votasse prima di settembre, rischierebbero di essere inghiottiti dal nulla da cui sono venuti. E vale anche gli altri che gridano: nessuno ha certezze per il futuro. E poi: sono pronti, a vincere?». Per Magaldi è solo «una pantomima», un gioco teatrale: «Nel momento in cui l’attuale maggioranza dicesse “ok, andiamo a votare”, temo che vedremmo la scenetta comica di questi che oggi gridano “al voto, al voto”, dire “ma no, resta un altro po’, così ti posso fare opposizione e posso scendere in piazza». Per cui, «nessuno scandalo, se la legislatura continua». Non ci sono in vista nemmeno coalizioni convincenti. Un’alleanza tra Lega e grillini? «Impossibile, sono concorrenti». Magaldi si dichiara «da tempo simpatizzante della prospettiva 5 Stelle». Ma, aggiunge, «la realtà concreta è un’altra. E finora è stata molto al di sotto della prospettiva». Soprattutto: «E’ inutile pensare che la soluzione dei problemi degli italiani sarà la durata del governo Gentiloni o l’ascesa al potere della Lega, di Grillo, del centrodestra, se nessuno di costoro si farà artefice del braccio di ferro con l’Ue». Magaldi vede la necessità di «un braccio di ferro cruento, politicamente duro, con cui si devono riscrivere i trattati europei». E insiste: «Se non si comincia da qui, non si va da nessuna parte. Bisogna che sia chiaro. Tutto il resto è latrare di cani e svolazzare di galline».«Non credete a quelli che gridano “al voto, al voto”: dicono così solo perché sanno benissimo che alle elezioni, tanto presto, non si andrà». Nessuno è sicuro di vincere, né tantomeno poi di saper governare. Qualcuno ce l’ha davvero, un piano? Parla in modo esplicito Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” e presidente del “Movimento Roosevelt”: «La prima cosa che un premier italiano dovrebbe fare – dichiara Magaldi a “Colors Radio” all’indomani dell’incarico a Gentiloni – è tramutare in atti precisi quell’abbiare vano, alla luna, da parte di Renzi, “abbasso la tecnocrazia, abbasso l’Europa matrigna”». Abbaiare non basta, servono fatti: «Tipo: riconvocare a Ventotene la Merkel e Hollande, e dir loro: signori, se non rivediamo i trattati, l’Italia ne sospende la validità sul suolo italiano, torniamo alla lira e facciamo quello che ci pare». Magaldi lo afferma «da europeista convinto», che tifa per «un’Europa coesa», e soprattutto «democraticamente legittimata nelle sue istituzioni». Ma quello è il punto di partenza: stracciare i trattati Ue. «Tutto il resto non conta niente, se non c’è una riappropriazione della sovranità monetaria».
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Draghi: ora vi taglio i viveri, così imparate a votare No
«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, prounciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».Si tratta di «un vero proprio disegno politico», contenuto nei dettagli operativi illustrati da Draghi nell’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce. Un evento solo in apparenza tecnico, avverte “Micromega”, in un’analisi firmata “Raro”. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma di acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, «ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile». Ciò significa che «la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’Eurozona». Ed è così che, «mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa».Dopo due anni relativamente tranquilli, scrive “Micromega”, la progressiva riduzione del sostegno ai titoli di Stato «determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria». La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. «Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro», osserva “Micromega”: «Dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, e in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura».Al contrario, come i movimenti di Borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: «Si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamento del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici». Per “Micromega”, dunque, «inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico». Corsi e ricorsi: fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, «si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità». Una fase storica «caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti». Un indirizzo politico che, «a dispetto del suo marcato carattere antipopolare», di fatto «non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread».Tuttavia, «gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni», che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma “lacrime e sangue” è stato rispedito (invano) al mittente con un referendum, poi in Gran Bretagna un anno dopo con la Brexit, e infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. «Dopo cinque lunghi anni di austerità – continua l’analista di “Micromega” – una borghesia impoverita e un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea». E attenzione: «È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando».Si tratta di una reazione che «rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa», e proprio su questo punto «si misurerà l’intraprendenza della Bce». La stretta monetaria, infatti, «è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione». Nei progetti dell’autorità monetaria, «la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista». Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi «si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni». L’impatto, per “Micromega”, «potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa».«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, pronunciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».
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Il Censis: i giovani non hanno nulla. L’Italia sta crollando
Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».La verità, sottolinea Barnard sul suo blog, è che il No «viene da milioni di cittadini furiosi fino all’odio con quel fesso fiorentino che prometteva ma ha solo leccato culi negli executive offices d’Europa, per lasciare a chi già aveva, ma togliere a chi già aveva troppo poco. Guardatevi la mappa del No». Le Austerità, «mai veramente sfidate da Matteo Renzi», secondo il Censis «hanno lasciato 11 milioni di italiani a rimandare esami diagnostici o a cancellarli del tutto». Per l’istituto di statistica, «i poveri assoluti in Italia sono oggi 4,5 milioni». I risparmiatori? «Accumulano, ma non spendono», perché «terrorizzati dal dover pagare di tasca propria i servizi essenziali», cosa che funzionava all’incontrario prima dell’Eurozona, ricorda Barnard, quando cioè era lo Stato a sostenere il welfare, attraverso la lira. Ma a pesare sono soprattutto i giovani, che – infatti – hanno votato No in massa. «Non hanno niente», afferma il Censis. I giovani sono «intrappolati in mini-lavori a bassissimo reddito e zero produttività a causa del Job Act di Renzi». Una riforma che – lo denunciò a “La Gabbia” lo stesso Barnard – è stata scritta «quasi del tutto dalla lobby Business Europe a Bruxelles».E così, conclude il Censis, «la classe media italiana sta scomparendo sotto la ritirata degli investimenti». In più, aggiunge Barnard, «Renzi ha lasciato il 50% delle pensioni sotto i 1.000 euro al mese, ha regalato solo mance di Nano-Economia spostando eurini da un salvadanaio all’altro, la produzione industriale italiana è collassata al 22% nel 2016, il dato peggiore dal 2007, e il Pmi Index delle aziende è al punto più basso da 2 anni». La verità è che a Renzi non glien’è mai importato nulla dell’interesse nazionale, continua Barnard: «Infatti la sua eminenza grigia in economia, Yoram Gutgeld, era un ex executive della McKinsey con l’ossessione della spending review di Bruxelles piantata in testa». Alla fine, «gli italiani più dimenticati hanno impiccato Renzi in piazza». E Goldman Sachs scrive, in un “paper” destinato agli investitori: «Il rapporto fra la disoccupazione giovanile in ogni data regione di voto e il voto No è incredibilmente diretto». E state attenti, avverte Barnard: «Questi sono gli stessi italiani che nelle europee del 2014 avevano dato a Renzi un trionfo. Cosa cazzo ha combinato in soli 2 anni e un po’? Semplice: non ha mantenuto nulla, perché l’uomo di Bruxelles gli diceva sempre No».Dunque che cosa c’è in vista, ora? Una crisi politica «contenibile», secondo Escobar, visto che lo scenario dell’offerta politica italiana «non è esattamente edificante»: c’è un Renzi azzoppato col Pd in rivolta, poi Silvio “bunga bunga” Berlusconi, Grillo, Salvini. In altre parole: nessun Piano-B in campo. «Mentre l’Unione Europea osserva», scrive Escobar, «la linea di fondo è che l’Italia non è vicina ad alcun referendum per lasciare l’Eurozona, per non parlare dell’Unione Europea, in quanto la maggior parte degli italiani sono europeisti (eccetto quando si parla della dominazione tedesca nella Banca Centrale Europea)». La prossima battaglia elettorale vedrà opporsi «l’anti-casta Movimento 5 Stelle» che non sfida apertamente l’Ue né ripudia l’euro, il Pd renziano «ora allo sfascio» e comunque “fedele alla linea” di Bruxelles, e Forza Italia di “nonno Silvio”, probabilmente alleato con la Lega. A tutto penserà, l’Italia, fuorché liberarsi dell’euro, scrive Escobar. «Ma questo implica un intreccio secondario: Angela Merkel, proprio lei, dovrà farsi avanti per dare una mano a “salvare” l’Unione Europea, salvando il Partito Democratico di Renzi».Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».
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Sfatiamo un mito: i Rothschild e Big Pharma ci temono
Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».Naturalmente i grandi poteri «ci provano a esserlo», padroni incontrastati del pianeta. Ci provano eccome, «e con ogni sorta di lobby, ricatto, corruzione». Ma, per il giornalista, la verità fondamentale rimane un’altra. Questa: «I governi glielo permettono». Ma attenzione: «Se vogliono, i governi sono ancora i padroni del mondo. E questo può ancora salvare noi persone». Non ci credete? «Chiedetelo alla GlaxoSmithKline, quel tirannosauro da 24 miliardi di dollari all’anno, tutti in farmaci». Domanda: «Perché questa nozione è di fondamentale importanza da tenere a mente? Perché i governi sono sempre dipendenti dalle opinioni pubbliche, anche se queste troppo spesso se lo dimenticano, per viltà». Se ne deduce, «senza ombra di dubbio», che – visto che i governi sono ancora «i padroni del mondo» – di fatto «risponderebbero alle opinioni pubbliche, se queste si facessero sentire». E allora «è vero che l’uomo e la donna della strada», teoricamente e tecnicamente, «hanno il potere ultimo, in realtà». Solo che «non lo vogliono esercitare», convinti come sono che «il padrone del globo è Rothschild, cioè il potere privato».Il barone Jacob Rotschild? «Potentissimo», certo, «ma neppure lui è riuscito a bloccare la mano dei politici, quando nel trattato sovranazionale che creò la Bce, cioè il Tefu, scrissero quel codicillo maledetto che mette nelle mani della Bce il potere di bloccare qualsiasi mega-banca in Europa». Quel codicillo si chiama “risk control framework”. Risultato: in Europa, oggi, le grandi banche «hanno una mina in pancia che le può far saltare da un momento all’altro per volere politico» (in Europa «ma poi anche in Usa, per leggi diverse»). Il mitico Rotschild «di certo può influenzare Mario Draghi, ma il bottone rosso non ce l’ha». E chi potrebbe riscriverlo, quel codicillo? «I governi». Che, fino a prova contraria, sono ancora organismi elettivi. Lo dimostra il caso della Glaxo, dice Barnard: la “onnipotente” multinazionale del farmaco è stata letteralmente strapazzata dai governi, a cominciare da quello cinese. Se vogliono, sono ancora loro a comandare. E non c’è nessun Uomo Nero che possa impedirlo.«Tutto parte da un Tweet di Bernie Sanders, l’ex candidato alla Casa Bianca, che in ’sti giorni si è messo a bersagliare i giganti del farmaco», racconta Barnard, ricostruendo il caso. «Bernie si sveglia la mattina e scrive un Tweet dove critica ad esempio la multinazionale Eli Lilly, e le azioni di questa crollano. Qualche giorno fa ha sparato contro la GlaxoSmithKline e di nuovo crash in Borsa di questa». Ma su Glaxo pesano spettacolari retroscena. «La Glaxo è un colosso, abituata a fare il bullo nel mondo da sempre. Si presenta ai governi, agli amministratori sanitari, ai singoli medici, e corrompe, impone terapie, ma fa anche di peggio, come tutte le sue colleghe multinazionali». Un giorno la Glaxo arriva in Cina e, come al solito, distribuisce mazzette. «Ma a Londra il N.1 della Glaxo, Andrew Witty, fa l’errore della sua vita, cioè non studia geopolitica, e non si accorge che la Cina sta cambiando immensamente». Ovvero: «Xi Jinping, il presidente, non scherza per un cazzo. E allora ecco che iniziano i guai. Tutto parte dal “whistleblower” di turno, un anonimo hacker che spedisce sia al governo di Pechino che a Witty a Londra delle mail con una storia di corruzione da parte della Glaxo in Cina che fa vomitare». E cioè: «I top manager del colosso inglese in Cina pagavano mazzette ad amministratori, a medici, attraverso prestanome in agenzie di viaggio, se la spassavano con prostitute, e tutto a spese degli ammalati come al solito».E qui la forbice si divarica, continua Barnard: «Mentre gli uomini di Xi Jinping quatti quatti si leggono le mail, quel fesso di Witty e il consiglio d’amministrazione a Londra se ne fottono, anzi». La Glaxo «prova di tutto per insabbiare la cosa, assolda un investigatore privato per depistare le prove, e non smette affatto di corrompere, anzi, corrompe per comprare il silenzio dei cinesi». Errore madornale. «Sono le 5 del mattino di un giorno d’agosto del 2013, le porte dei lussuosi appartamenti dei top manager della Glaxo a Shanghai o Pechino vengono sfondate, gli inglesi gettati a terra e scaraventati in pochi minuti in fetide celle, fra cui il notorio palazzo 803 dove vengono interrogati i dissidenti. La notizia arriva a bomba a Witty a Londra, panico totale». I cinesi di Xi Jinping fanno sul serio, «le prove ci sono ancor prima di interrogare sia i manager britannici che l’investigatore privato, poi le confessioni degli arrestati vengono trasmesse in Tv, live». Una catastrofe: «Le prove sono così schiaccianti che Witty piega immediatamente la testa con una conferenza stampa dove, letteralmente, ’sto ultra-potente amministratore di un gigante mondiale, bela pietà e scuse».Conseguenze: 500 milioni di dollari di multa alla Glaxo; espulsione di alcuni manager fra sputacchi pubblici, e altri a marcire in galera. «La Glaxo corre, sudando ghiaccio, a riscrivere tutti i suoi codici di condotta in Cina, e abbassa i prezzi dei suoi farmaci per Pechino». A cascata: «Gli altri colossi mondiali come Pfizer o Novartis immediatamente ripuliscono i loro affari con la Cina». Ma non finisce qui: «Microsoft drizza le orecchie perché messa sotto inchiesta dai cinesi; Disney trema; la Apple corre ad autodenunciarsi per evasione fiscale in Cina». Ma peggio: «Sull’onda del pugno duro del governo cinese, anche quello americano ha trovato la forza di prendere a calci in culo i super-colossi del farmaco, come Pfizer, Eli Lilly e di nuovo la Glaxo, che si è vista arrivare un verbale da Washington della bellezza di 3 miliardi di dollari per condotte improprie». Aggiunge Barnard: «Penso che Andrew Witty sia passato nell’arco di pochi mesi da tronfio ‘Rothschild del farmaco’ a una pecora zoppa che suda freddo la notte e, come lui, altri amministratori delegati delle più potenti multinazionali del mondo».Ora, si potrebbe argomentare che «la Cina è ormai un tale mostro di potere che, assieme agli Usa, il suo governo si può permettere di sottomettere anche l’imperatore dell’universo». Errore: «Anche la Svezia poteva fare esattamente ciò che ha fatto Pechino, e per due motivi chiari». Primo: oggi, «se gli scandali vengono resi pubblici», succede che «vanno a impattare mostruosamente sugli investitori, che non ci pensano un attimo a fottere le mega-aziende o le mega-banche in Borsa». Basta vedere i “rimbalzi” dopo il Tweet di Bernie Sanders. Secondo motivo: «Con sovranità monetaria il governo della Svezia, come la Cina, non teme il ricatto economico tipico della multinazionale – che è “se mi tocchi ritiro gli investimenti” – semplicemente perché non esiste al mondo un potere economico di alcun tipo che possa avere il potere di fuoco di una banca centrale in coordinamento col ministero del Tesoro». In altre parole: in condizioni di sovranità monetaria, la banca centrale di un paese benestante «può, schiacciando un bottone, distruggere in un pomeriggio la rivalità di Apple, Microsoft, Volkswagen, Jp Morgan, Goldman Sachs e Toyota messi assieme». Quindi, un governo che lo volesse «potrebbe schiacciare qualsiasi Rotschild di qualsiasi potere privato, punto». Perché non lo fanno più spesso? «Troppa poca pressione dalle opinioni pubbliche». E allora, conclude Barnard, «possiamo forse prendercela col quarto barone Jacob Rothschild? Macché, siamo noi, fessi vili orde di ebeti che sediamo su una miniera d’oro e pensiamo che sia un bidè».Attenti all’Uomo Nero: se lo fate diventare un’ossessione, potreste arrivare a crederlo invincibile, proprio come vuole lui. Ma la realtà è un’altra: persino i super-campioni del massimo potere sono vulnerabili. E’ per questo che si affannano tanto a controllarci: i loro immensi privilegi non sono affatto al sicuro. Ci temono, gli Uomini Neri, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Lo sostiene Paolo Barnard, autore di devastanti denunce proprio contro l’oligarchia planetaria: libri, reportage, inchieste, saggi taglienti e profetici come “Il più grande crimine”, che mette a fuoco – con largo anticipo sulla cronaca – la genesi europea della “dittatura” tecnocratica dell’euro, progettata dalla destra economica in combutta con la sinistra “rinnegata”, reclutata segretamente dall’élite per demolire la democrazia sociale in Occidente. Lo stesso Barnard, oggi, avverte: «Nell’immaginario di tanto pubblico c’è un errore tragico, che peraltro devasta le reali possibilità delle opinioni pubbliche di migliorare la propria vita. Si pensa, infatti, che gli agglomerati della ricchezza privata siano padroni del mondo. I Rothschild! Le multinazionali! I big media! Balle. Non lo sono».
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Il paese scoppia? Ora se ne ‘accorgono’ anche Tv e giornali
Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di “No”, «l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro paese di un popolo della rivolta», quello che i media mainstream hanno accuratamente evitato di rappresentare. Un “popolo” che «ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo». A votare contro Renzi, scrive Maurizio Molinari sulla “Stampa”, «sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti», ma anche «i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più». È un “popolo della rivolta”, espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit e negli Usa ha incoronato Trump. Caduta l’illusione-Renzi, ora bisogna «dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio», massacrato dal rigore imposto da Bruxelles e inasprito a partire dal governo Monti, che i giornali – compreso la “Stampa” – solo pochi anni fa accolsero come il salvatore del paese.Contrordine, a quanto pare: anziché i tagli senza anestesia della riforma Fornero «serve un nuovo welfare per le famiglie in difficoltà», scrive oggi il direttore del quotidiano torinese, di fronte alla catastrofe dell’evidenza. Lo stesso Molinari utilizza ancora il lessico renziano, dice che bisogna «far ripartire» l’Italia. Già, ma come? «Non basta un nuovo governo», concede il direttore della “Stampa”: «Bisogna rispettare il popolo della rivolta e rispondere alle sue istanze». Sulle stesse pagine, un osservatore come Mattia Feltri ammette che «ha vinto la gente, il mare di gente che non si fida più». Si tratta di gente «molto ben disposta verso l’inverosimile e diffidente verso il verosimile», secondo Feltri, «per intima ed esasperante convinzione che là fuori c’è qualcuno che lavora alla sua infelicità, perché manca il lavoro, perché si indeboliscono le garanzie, per invidia sociale, perché l’investimento in banca è andato storto, perché ci sono i poteri forti, perché c’è l’Europa, perché c’è una classe dirigente che in quanto tale campa sulla pelle delle periferie, fisiche o esistenziali». Comune denominatore, il «rifiuto feroce dell’establishment farabutto, una condizione che non riguarda soltanto l’Italia, come raccontano di recente la Brexit e Donald Trump».Eppure non è piovuto dal nulla, lo tsunami, anche se i giornalisti oggi se ne meravigliano. Non una recensione, sui media mainstream, dell’esemplare saggio “Il più grande crimine”, in cui Paolo Barnard – giornalista maiuscolo – ricostruisce la genesi dell’inevitabile disastro euro-Ue. Silenzio anche su voci “eretiche” ma terribilmente profetiche come quelle dell’economista Nino Galloni, secondo cui, semplicemente, il sistema-euro equivale in modo matematico al declino italiano. Non un articolo, sui grandi giornali, neppure sul libro “Massoni” di Gioele Magaldi, dove alcune eminenze grigie della super-massoneria internazionale definiscono gli italiani «bambinoni deficienti», capace di accogliere col tappeto rosso «i tre commissari che gli abbiamo inviato, nell’ordine: Monti, Letta, Renzi». Fuori dal coro dei “chi l’avrebbe mai detto?”, si segnala “Il Giornale”, che indica in Giorgio Napolitano l’altro grande sconfitto del 4 dicembre: l’ex capo dello Stato, scrive Gian Maria De Francesco, «s’era abituato a trattare Palazzo Chigi come una propria dépendance, insediandovi l’uomo che ha messo in ginocchio il paese a suon di tasse, condannandolo a una recessione dalla quale ancor oggi fatica a tirarsi fuori nonostante la spesa in deficit di Renzi sotto forma di mance e mancette varie».Per denigrare i 5 Stelle, alla vigilia del voto Napolitano s’era spinto oltre le colonne d’Ercole: «Non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite», aveva detto. «Alla faccia della democrazia e della Costituzione», chiosa De Francesco. Ci si era messo anche l’anziano Eugenio Scalfari: prima della democrazia c’è l’oligarchia, perché il popolo non sa governarsi da solo. Parole nelle quali risuona l’eco della “sinarchia”, la forma di governo evocata a fine ‘800 dall’influente esoterista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, come ricorda Gianfranco Carpeoro nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Il potere quasi religioso dell’oligarchia “illuminata”: ieri, contro la marea montante del socialismo e dell’anarchismo. Oggi invece la rivolta (solo elettorale) corre via smartphone. Il “popolo” è esasperato? Se ne sono accorti persino loro, i giornalisti. Ben attenti, comunque – ancora – a non dare la parola a chi questa crisi l’aveva annunciata, con anni di anticipo, spiegandone le ragioni nei minimi dettagli. Uno su tutti: senza più sovranità, un paese crolla. Senza la disponibilità di una moneta pubblica crollano il bilancio, l’economia, l’occupazione. A crescere sono solo le tasse e il debito. Ma non è una notizia, è una legge (dell’economia). A proposito di leggi, l’Italia invece ha inserito nella propria Costituzione – così enfaticamente difesa il 4 dicembre – il pareggio di bilancio, cioè la morte clinica dello Stato come soggetto garante del benessere della comunità nazionale.Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di “No”, «l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro paese di un popolo della rivolta», quello che i media mainstream hanno accuratamente evitato di rappresentare. Un “popolo” che «ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo». A votare contro Renzi, scrive Maurizio Molinari sulla “Stampa”, «sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti», ma anche «i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più». È un “popolo della rivolta”, espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit e negli Usa ha incoronato Trump. Caduta l’illusione-Renzi, ora bisogna «dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio», massacrato dal rigore imposto da Bruxelles e inasprito a partire dal governo Monti, che i giornali – compreso la “Stampa” – solo pochi anni fa accolsero come il salvatore del paese.
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Smascherato il Bomba, l’Italia crederà al prossimo Renzi?
Ha perso Renzi, questo è certo. E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria. Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe. Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar. Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi. In giro c’erano, e ci sono, solo squali. E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante. Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non potesse rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco. Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato. Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio). Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire. E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo. O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa. Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è nei guai. Ma chi li vota, i collaborazionisti?Sono bravi, i tribuni della plebe, a fare in modo che il popolo invaso prenda lucciole per lanterne: madornale, il 40% rimediato dal Pd renziano alle europee 2014, appena un anno e mezzo fa. Un mandato troppo grande, evidentemente, per il piccolo fiorentino, l’uomo del bar specializzato nel gioco su più tavoli. Ti può andar bene una volta, ma non sempre: alla lunga, diventi antipatico. Bel problema: per te, ma soprattutto per i tuoi capi, già al lavoro per trovare una soluzione di ripiego che risulti indolore, per i loro sovrani interessi. A caldo, dovranno sicuramente punire la plebe insubordinata: colpirne uno per educarne cento, come scrive Paolo Barnard sul “Daily Express” di Londra, perché guai se gli italiani la passano completamente liscia dopo aver detronizzato l’amico di Angela e Hillary, di Obama e del Ttip – guai, perché gli inglesi post-Brexit potrebbero pensare di uscire indenni anche loro dalla morsa dei neo-feudatari, e a maggior ragione i francesi si sentirebbero incoraggiati, nel 2017, a licenziare i collaborazionisti di casa, eleggendo all’Eliseo una outsider come la signora Le Pen a cui nessuno, a Bruxelles e Berlino, ha finora potuto dare ordini.Si mette male? I signori dello spread picchieranno sodo? Fino a che punto, è da vedersi: vista la situazione – con i media mainstream che non controllano più l’opinione pubblica – quanto conviene, ai dominus, trasformare l’Italia in una specie di Grecia? La storia insegna che i sommi manovratori prediligono di gran lunga l’illusionismo, un po’ come fu per lo stesso Renzi, il super-rinnovatore che ha semplicemente tagliato i diritti del lavoro, come richiesto dalla cupola di Bruxelles, in ossequio al piano di svalutazione interna (salari, pensioni, welfare) imposto dalla moneta unica. Per introdurlo, l’euro, in Italia è stato necessario lo tsunami di Mani Pulite, che ha tolto di mezzo personaggi come Craxi e Andreotti, che mai avrebbero calato le brache a Maastricht. Gli italiani, allora, gridarono alla liberazione, alla rivoluzione. Oggi, la crisi ha colpito in modo devastante: i giovani del 2016 non sono quelli degli anni ‘90, che un futuro a casa ce l’avevano. Il bisogno di riscostruzione è percepito in modo lancinante, come conferma lo stesso consenso accordato fino a ieri persino a Renzi, che infatti ha perso solo quando ha voluto spaccare il paese in due. Comunque vada, dicono molti osservatori, sarà dura. Molte favole sono state archiviate come frottole. Ma una narrazione veritiera per ora si fa strada solo in negativo, a suon di No.Ha perso Renzi, il Bomba, questo è certo. E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria. Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe. Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar. Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi. In giro c’erano, e ci sono, solo squali. E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante. Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non possa mai rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco. Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato. Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio). Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire. E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo. O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa. Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è nei guai. Ma chi li vota, i collaborazionisti?
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Euro-barbarie, Zanni: incostituzionale è l’Unione Europea
Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».Tuttavia, «è ormai chiaro che il castello di carta crollerà sotto la fragilità delle sue stesse fondamenta: il 2017 sarà un anno fondamentale, perché dopo la Brexit e Trump potranno esserci sorprese in Italia, Olanda, Francia e Germania», scrive Zanni nel suo blog. L’Eurozona non è riformabile e quindi collasserà, perché politicamente insostenibile, anche se «molti ancora non vogliono capirlo, perché interessati a mantenere questo stato di perenne agonia in cui aumentano le diseguaglianze tra i più ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e i poveri (sempre di più e sempre più poveri)». Una costruzione «tecnicamente e politicamente irriformabile», che quindi «imploderà sotto i colpi della sua stessa insostenibilità». L’obiettivo dell’Ue, esplicitato dal Trattato di Maastricht fondativo dell’euro: «Una restaurazione liberista che ha smontato a colpi di “crisi telecomandate” e “ce lo chiede l’Europa” lo stato sociale e le tutele dei lavoratori tipiche delle Costituzioni nazionali democratiche degli Stati della periferia europea, operando, attraverso anche una deregolamentazione finanziaria spinta alla follia, una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale».In questo scenario, continua Zanni nel suo blog, la Germania è stata abile nell’imporre il suo modello di sviluppo socio-economico, l’ordoliberismo mercantilista, creando un set di regole asimmetriche per punire “le cicale del Sud Europa” che “si indebitano” e “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Maastricht, Patto di Stabilità, Fiscal Compact, unione bancaria, Six-Pack e Two-Pack. Stesso obiettivo: «Per curare le asimmetrie andavano puniti severamente gli Stati in deficit», dimenticando che, «se c’è un deficit da una parte, dall’altra c’è un surplus (il gioco è a somma zero)», e quindi «se c’è qualcuno che è tanto irresponsabile da essersi indebitato troppo, dall’altra parte c’è un creditore altrettanto irresponsabile che gli ha prestato i soldi». E invece, nell’Eurozona «le regole sono state costruite e interpretate sempre per far ricadere il peso degli aggiustamenti sugli Stati in deficit e sui loro cittadini». E se l’Ue ha provato timidamente a far notare che la colpa delle “asimmetrie” è anche dei creditori, «l’egemone Stato tedesco ha preso a schiaffi Bruxelles e ha ributtato violentemente la palla dall’altra parte, infischiandosene di quelle regole che invece con tanto zelo impone ai partner europei».In un sistema a cambi fissi come quello dell’Eurozona, continua Zanni, i differenziali d’inflazione tra gli Stati membri causano perdita di competitività, squilibri della bilancia commerciale e indebitamento estero, soprattutto nel settore privato dei paesi in deficit, non potendo aggiustare la situazione con il cambio. La Germania, paese in costante surplus commerciale e fiscale, dovrebbe inflazionare (quindi alzare la spesa pubblica e alzare il livello dei salari), mentre la periferia dovrebbe deflazionare, come sta facendo, al prezzo della distruzione della propria economia. Regole sempre asimmetriche: «La periferia è stata costretta a deflazionare, con austerità e contenimento dei salari, mentre la Germania se n’è infischiata delle regole e ha continuato a mantenere inflazione vicina allo zero, a registrare surplus fiscali di bilancio e ad aumentare il suo surplus commerciale, sfruttando il suo tasso di cambio reale pesantemente sottovalutato, come fatto notare anche dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Ocse». Dopo il 2013, anche su sollecito dell’Italia, la Commissione Europea ha segnalato a Berlino il mancato rispetto delle regole da parte dei tedeschi, chiedendo alla Germania di aumentare la sua spesa pubblica e di alzare i salari, «ricevendo puntualmente la porta in faccia».Questa è l’essenza dell’Eurozona, sottolinea Zanni: «Un sistema asimmetrico, in cui i più forti interpretano le regole a loro favore, non le rispettano e in cui si creano vincitori e vinti a un prezzo altissimo, in barba a quella cooperazione socio-economica tra gli Stati membri scritta a chiare lettere nei Trattati». Bruxelles è appena tornata alla carica chiedendo alla Germania una sterzata per il 2017, ma la risposta di Wolfgang Schaeuble non è cambiata: Berlino si appella al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, fornendo ai tedeschi un vantaggio competitivo che la Germania si è costruita «plasmando a suo favore le regole europee e soffocando gli Stati europei più minacciosi per la propria sopravvivenza e prosperità», Italia in primis. «Invece che rispettare i precetti della cooperazione socio-economica sancita nei trattati», i tedeschi «hanno preferito seguire la più semplice filosofia del “mors tua vita mea”. La Germania – aggiunge Zanni – se ne fregherà delle regole europee, farà registrare il quarto bilancio pubblico consecutivo in surplus e continuerà con la sua politica di ricatto e soppressione del vicino, anche a costo di danneggiare e soffocare i “cugini” europei».Dando per scontato che a farlo non saranno politici come Hollande e Merkel, chi dovrà gestire la transizione dovrà arrivare estremamente preparato, perché non sappiamo se sarà un processo soft o turbolento. Obiettivo: risollevare l’economia dei paesi devastati dalle politiche imposte dall’euro. Misure sovraniste, quindi. La prima, ovvia: il ripristino della flessibilità dei cambi con una valuta controllata dalla banca centrale nazionale. E in parallelo, una riforma di Bankitalia «che dovrà eliminarne l’indipendenza e il divieto di finanziamento del deficit pubblico, facendola tornare sotto l’egida pubblica e operare in sintonia con il Ministero del Tesoro per non lasciare in mano ai mercati finanziari il destino del nostro debito pubblico e la determinazione dei tassi d’interesse che paghiamo su di esso». Zanni evoca anche il ripristino del Glass-Stegall Act abolito da Bill Clinton, cioè «il ripristino della separazione tra banche d’affari e banche commerciali». Quindi, misure keynesiane: «Un massiccio piano di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, in riqualificazione energetica degli edifici, con la messa in sicurezza del patrimonio pubblico e del suolo contro il rischio sismico e le catastrofi ambientali, finanziato attraverso la monetizzazione del deficit da parte della banca centrale».Zanni propone anche più controlli sulla libera circolazione dei capitali e il ripristino di una stringente regolamentazione dei mercati finanziari, da riportare «a supporto dell’economia reale». Corollario: una imponente riforma sociale, che azzeri che “riforme” degli ultimi decenni. E cioè: «Il ripristino di tutte le tutele ai lavoratori e alle altre categorie di cittadini come previste dalla Costituzione italiana del 1948», perché «il lavoro deve rimanere un diritto costituzionalmente garantito». L’Europa? «Rapporti con i partner europei sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione verso obiettivi comuni di prosperità, sempre però nel rispetto delle democrazie nazionali e dei precetti costituzionali». In altre parole, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana. Attuata da quali forze politiche? Non è dato saperlo, per ora. Quella che Zanni auspica, in ogni caso, è una svolta epocale, necessaria per «ricostruire le macerie di un paese raso al suolo dall’adesione incondizionata al folle progetto» dell’Eurozona. «Ma la cosa più importante – aggiunge – sarà tener vivo nelle generazioni future il ricordo di queste scempio e delle cause che hanno portato alla più grande recessione economica della storia moderna».Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni, europarlamentare grillino – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».
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Addavenì Roosevelt, ma per ora ci sono i padroni di Matteo
Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.Tutti a sparare contro Gelli, dice Gioele Magaldi, e nessuno che dica – a parte lui – che nello stesso anno in cui Berlusconi entrava nella P2, Napolitano veniva affiliato alla “Three Eyes”, la potentissima Ur-Lodge plasmata da personaggi come Kissinger e Rockefeller. Proprio alla “Three Eyes”, dice sempre Magaldi (massone progressista), il giovane Matteo sta tuttora “bussando”, sperando di essere accolto – nella “Three Eyes”, faro storico della destra massonica mondiale, ma anche presso altri «circuiti massonici neo-aristocratici, segnatamente quelli di cui è protagonista Mario Draghi», come le superlogge “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Compass Star-Rose” e “Der Ring”, il cui venerabile maestro è il ministro delle finanze tedesco, il terribile Wolfgang Schaeuble. Sono informazioni ormai accessibili al pubblico: Magaldi le ha inserite nel suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere, che i media mainstream hanno evitato di recensire. «Non c’è la documentazione di quanto si afferma», ha detto qualcuno. Magaldi ha sempre risposto prontamente: «Ho a disposizione 6.000 pagine di documenti, se qualcuno dubita della veridicità di quanto ho lo scritto me lo dica, gli dimostrerò che si sbaglia». Silenzio assoluto, naturalmente.Tornando a Matteo: ha avuto buon gioco nel liquidare Letta («che è un esponente dell’Opus Dei», dichiara un altro analista di appartenenza massonica, Gianfranco Carpeoro, autore del dirompente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, pubblicato da Uno Editori). Lo stesso Carpeoro aggiunge: quei “salotti” non lo vogliono, Renzi, perché allarmati – persino loro – dalla straordinaria disinvoltura del fiorentino, troppo privo di scrupoli (“Enrico stai sereno”) persino per i super-squali del massimo potere. Fatto fuori brutalmente Letta, Renzi ha illuso anche Berlusconi, facendosi credere disponibile a condividere il ridisegno strutturale del paese, dalla Costituzione alla legge elettorale. E, prima ancora, aveva bruciato sul traguardo il pessimo Bersani, inchiodato da Grillo alla “non-vittoria” del 2013. Bersani, ovvero: l’emblema della sinistra “politically correct” che ha dato a intendere agli italiani, per vent’anni, che il problema del paese era Berlusconi, e non la svendita dell’Italia ai super-padroni stranieri che manovrano i tecnocrati di Bruxelles, utilizzando l’abortita Unione Europea per svalutare le economie del Sud Europa, deindustrializzare, delocalizzare, demolire i diritti, far crollare il Pil, far esplodere il debito, ridurre l’ex classe media all’esasperazione che sta dietro al successo di Marine Le Pen e Donald Trump.I tempi stanno per cambiare? Forse, e non solo negli Usa. Lo disse, mesi fa, una delle più importanti eminenze grigie del “back office” super-massonico del potere americano, Zbigniew Brzezinki, già consigliere di Carter e stratega della globalizzazione. Ammonì Obama e la Clinton: basta provocazioni, è tempo di un accordo stabile con Russia e Cina. Su un altro piano, a queste dichiarazioni fa ora eco un altro super-potente, il francese Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e “maestro” di Massimo D’Alema. L’epoca dell’austerity è finita, ha detto, ed è stata una catastrofe per l’Europa. Serve un nuovo Roosevelt che cambi faccia al vecchio continente, tornando a investire sulla spesa pubblica per produrre posti di lavoro. Sembra di sognare: nato come socialista, Attali divenne uno dei massimi artefici della politica neo-conservatrice che ha devastato l’Europa, da Maastricht in poi, precipitando nella crisi i paesi dell’Eurozona. Ora Attali ci ripensa: abbiamo sbagliato tutto, ammette. Nel suo piccolo ha sbagliato tutto anche Matteo, ultimamente, facendosi benedire dal tandem morente Obama-Hillary.Si mette male, per il referendum renziano? Chi può dirlo. Certo è che non esiste ancora un piano-B. Da una parte la Merkel e Juncker a puntellare la tecnocrazia della crisi, dall’altra l’esplosione dei cosiddetti populismi. Al povero Matteo, gli italiani credono sempre meno – e a milioni correranno a votare, anche solo per cancellargli dalla faccia il suo trionfalismo ipocrita e provinciale, ormai grottesco. Ma dov’è l’alternativa? Dov’è il nuovo Roosevelt di cui parla l’anziano Attali? Secondo un sondaggio commissionato dalla “Stampa”, due italiani su tre hanno paura di abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea, non riconoscendo né l’uno né l’altra come le vere cause del disastro che subiscono, tra aziende chiuse, lavoratori a spasso, super-tassazione, erosione dei risparmi, zero futuro. Di fronte c’è un Everest praticamente invalicabile, la disinformazione sistemica: il debito pubblico è visto ancora come una colpa, anziché una leva di sviluppo. Le élite ci hanno lavorato per decenni: media, università, libri. Sfugge, al cittadino comune, il valore decisivo della sovranità statale. Non gliel’hanno spiegato né i sindacati né la sinistra di Bersani e quella di D’Alema, che andava a scuola da Attali quando ques’ultimo progettava l’annientamento dell’Europa. Restano i 5 Stelle, dice qualcuno. I 5 Stelle, appunto. Il nuovo Roosevelt può attendere.Sarà anche meno simpatico di prima, però è stato bravo, Matteo. Li ha messi tutti nel sacco: Bersani, Letta, Berlusconi. Poi ha fatto il Jobs Act, rottamando quel che restava dei diritti del lavoro, in un paese devastato dal rigore indotto dall’Eurozona. Quindi ha regalato a BlackRock metà di Poste Italiane, società che andava benissimo e fruttava ogni anno quasi mezzo miliardo, allo Stato. E adesso rilancia: più potere al governo, una sola Camera, o me o il diluvio. Ma è solo un esecutore, Matteo. Un esecutore ambizioso, certo, dotato di talento narrativo: è riuscito a far credere di lavorare davvero per l’Italia, anziché per i soliti grandi manovratori, da cui dipende il suo avvenire. Come Jamie Dimon, boss della Jp Morgan, quello che “la Costituzione italiana è oblsoleta, tutela ancora troppo i diritti sociali”. Dimon e Larry Fink, di BlackRock. E Michael Ledeen, super-falco dell’ultradestra americana, suo consigliere-ombra per la politica estera. E il fido Marco Carrai, legato a Israele come Yoram Gutgeld, “mente” economica del Pd renziano ridotto a cinghia di trasmissione dei supremi poteri. “Doveva” vincere, Matteo, contro il timido Letta, l’esausto Silvio, l’increscioso Bersani che consegnò l’Italia a Mario Monti, sottoscrivendo l’operazione internazionale affidata, per la regia italiana, a Giorgio Napolitano.
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Ma perché votare No, se poi comanda la mafia euro-Ue?
«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.La lista degli eventi catastrofici è sterminata: «Governi tecnici fino all’ultimo D’Alema, poi Monti e Letta», quindi «le 14, diventate poi più di 36, nuove flessibilità sul lavoro dal ‘Baffetto’ in poi», senza contare «gli interventi militari», cioè «crimini contro l’umanità» in Kosovo, Afghanistan, Iraq, poi «l’appoggio italiano al disastro libico». Ma anche «i salvataggi bancari da Tremonti in poi, per ben oltre 110 miliardi di euro». E soprattutto: «I Trattati di Maastricht, Lisbona, Europact, Six Pack, Fiscal Compact, Pareggio di Bilancio in Costituzione». E ancora: l’Efsf, il Mes, l’European Semester e tutto l’impianto dell’Eurozona, «che certificarono la più indicibile perdita di sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale della storia d’Italia, e lo sprofondamento del paese nei Piigs», da cui «lo scannatoio-pensioni della riforma Fornero/Modigliani, l’attacco all’articolo 18 e la finanziarizzazione del diritto di pensionamento, il Jobs Act e il resto dell’abominio della nano-economia di Renzi», con in mezzo «le spending review di Cottarelli e Grilli, il massacro civile dei Patti di Stabilità dei Comuni».Barnard denuncia anche «la violazione di 17 articoli della Costituzione italiana per mano dei governi Monti e Letta col benestare di Napolitano», nonché «la continuata umiliazione di Roma che bela pietà a Bruxelles prima di poter passare una legge di bilancio, o per poter spendere 10 euro per i cataclismi naturali o per l’arrivo dei migranti, mentre Francia e Germania se ne sbattono il cazzo di Bruxelles dal primo giorno dell’entrata in Eurozona». Da segnalare anche «la mancata regolamentazione delle più fallite banche di tutta Europa con 360 miliardi di euro di buchi contabili», e poi «gli aumenti di Iva proiettati al 24% e una pressione fiscale oscillante dal 44 al 72% reali, la seconda più alta al mondo». E chi ha votato questo abominio? Chi non vi si è opposto? «Risposta: una Camera dei Deputati, e un Senato, italiani. E adesso mi si viene a dire che l’apocalisse della democrazia italiana è l’eliminazione di quel Senato? Ah, perché prima invece ci tutelava?». Per Barnard, mantenere un Senato in Italia, «dopo la sua vomitevole performance degli ultimi 24 anni», ha un senso «solo e la cittadinanza capisce che non è una questione di avere Camere, Senati, sgabuzzini e tinelli», ma sovranità vera.La questione, insiste Barnard, è «avere una cittadinanza che capisca cosa pretendere da Camere e Senati, e che pretenda subito: via dall’Eurozona dell’economicidio, via dall’Europa dei tecnocrati, dal mostro di Bruxelles». Bisogna «riprendersi tutte le sovranità: legislative, monetarie, costituzionali». Occorre «capire le operazioni monetarie per ottenere la piena occupazione, il dominio pubblico sul sistema finanziario e la supremazia dell’interesse pubblico sui profitti del settore privato», e cioè «espandere il deficit di Stato a moneta sovrana, fino alla rinascita del paese». Ma Barnard è ultra-pessimista: «Nulla mai cambierà, per noi, anche con una o due Camere, due o cinque Senati, perché quell’opinione pubblica che capisca cosa pretendere da un Parlamento non ce l’abbiamo». In Gran Bretagna c’è un bicameralismo ‘snello’ che ha una specie di Senato, i Lords, che costano la metà del nostro Senato e non possono bocciare le leggi della Camera. «Ma di chi è il merito della più grande rivoluzione europea dal 1848, quella esplosa il 23 giugno con Brexit? Non certo del loro bicameralismo ‘snello’. E’ dei britannici, che si sono fatti sentie dalla politica sul tema vitale per il loro paese, ovvero la fuga dall’Unione Europea dell’economicidio». Da noi invece c’è solo Grillo, conclude Barnard: un «buffone stellato», che agli speculatori non fa nessuna paura.«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.
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Sondaggio-choc: 2 italiani su 3 vogliono tenersi euro e Ue
Buonanotte, Italia. Nonostante tutto – la devastazione ininerrotta dell’economia, la condanna al declino – la maggioranza degli italiani vuole restare nell’Unione Europea. Lo conferma un sondaggio che il quotidiano “La Stampa” ha commissionato a Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo. L’economista tedesco Heiner Flassbeck conferma che l’Italia è sabotata dalla “concorrenza sleale” della Germania e dai vincoli politici ed economici imposti dell’Ue e dall’Eurozona? Analisi non pervenuta: l’oligarchia tecnocratica di Bruxelles va ancora bene, a quasi 6 italiani su 10, malgrado Monti e legge Fornero, il rigore estremo, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e tutti i drammatici tagli imposti dalla moneta comune, che hanno azzoppato l’industria italiana a vantaggio di quella tedesca, facendo crollare il Pil e quindi esplodere il debito pubblico. Da Bruxelles sono scappati persino gli inglesi, che nell’Ue stavano a condizioni provilegiate e senza neppure la maledizione dell’euro. Ma da noi non se ne parla neppure, anche se non mancano politici che chiedono una rottura con l’Ue dell’austerity. La maggioranza silenziosa preferisce tenersi i vincoli europei: pensa (ancora) che siano superabili, che non siano letali.«Nel nostro paese non mancano esponenti politici e partiti che criticano ferocemente la burocrazia europea, fino ad auspicare un’uscita dall’Unione emulando i britannici o l’abbandono della moneta unica», precisa Daniele Marini sul quotidiano torinese, presentado il sondaggio reso pubblico il 21 novembre. Molti fattori oggettivi “remano contro” l’Ue, ma fino a che punto la popolazione esprime un sentimento anti-europeista? La ricerca demoscopica appena realizzata «racconta di un orientamento generale certamente non entusiasta verso l’Europa, con aree non marginali di criticità, ma sicuramente non incline a prospettive di abbandono». Al contrario: «Si chiede al governo un maggiore e rinnovato impegno nel cambiamento dell’Ue volto al suo rafforzamento». Gli autori del sondaggio hanno chiesto agli italiani in che misura seguirebbero i britannici, reduci dalla Brexit. La risposta è incredibile, ma vera: «La maggioranza (56,3%) ritiene che, su un argomento così spinoso, a decidere il da farsi dovrebbero essere i politici eletti», nei quali evidentemente la maggioranza ripone ancora fiducia. Solo un italiano su quattro (il 28,1%) è dell’avviso che toccherebbe al popolo decidere.«Un simile esito – sottolinea Marini – evidenzia una cautela degli interpellati nel decidere “di pancia” su temi così complessi. E costituisce anche un’attribuzione di responsabilità nei confronti dei propri rappresentanti. Anche perché comunque l’Unione è vissuta come una conquista, un’istituzione di cui non ci si può sbarazzare con imperizia». Prova ne sia che «solo il 13% considera l’Europa un ostacolo nel cammino di uscita dalle difficoltà economiche del nostro paese». Per contro, una misura più che doppia (28%) la valuta un’opportunità per superare le carenze nostrane. Alla fine, «la maggioranza fra gli italiani vive l’Ue come una necessità (57,5%), che però deve essere ripensata nella sua struttura e negli obiettivi». Prevale cioè un orientamento verso l’Ue «duplice e complementare», spiega Marini: «Da un lato, spaventa una larga fetta di popolazione la prospettiva di uscire dall’Ue e, soprattutto, abbandonare l’euro per tornare alla vecchia lira». Nel primo caso, i due terzi degli intervistati (64,4%) ritengono che se l’Italia non facesse parte dell’Unione le difficoltà economiche sarebbero ancora peggiori. «Nel secondo caso, ben il 71,7% considera l’uscita dall’euro foriera di una recrudescenza delle nostre condizioni economiche».Dall’altro lato, «è diffusa l’idea che l’Italia si debba impegnare per favorire un mutamento delle politiche e delle prospettive dell’Ue, anche negoziando nuove e più flessibili regole». Così, continua “La Stampa”, quattro italiani su cinque (l’80,5%) sperano che il governo promuova un allentamento dei vincoli finanziari. In sostanza, gli “euro-convinti” che considerano deleterio un abbandono dell’Unione e dell’euro «costituiscono i due terzi della popolazione (67,4%), quota in leggera crescita rispetto al 2014 (63,6%)». All’opposto, gli “anti-euro” (15,2%) sono una parte minoritaria, ma anch’essi in lieve aumento sul 2014 (erano l’11,7%). «Ne consegue che gli “euro-flebili” (9,4%, erano 13,9% nel 2014), favorevoli all’Unione, ma con perplessità, e gli “euro-scettici” (8,0%, erano il 10,8% nel 2014), indifferenti o propensi a uscire dall’Ue, diminuiscono di peso». Per quanto «acciaccata e mai così frammentata, priva di una visione comune e ingessata nel rivisitare i valori di riferimento», questa Unione Europea «costituisce ancora un orizzonte comune per la grande maggioranza degli italiani». Notizia nella notizia: gli “euro-convinti” sono «i più giovani, gli studenti, i laureati», ovvero «chi auspica un futuro davanti a sé, un progetto in cui investire».Buonanotte, Italia. Nonostante tutto – la devastazione ininterrotta dell’economia, la condanna al declino – la maggioranza degli italiani vuole restare nell’Unione Europea. Lo conferma un sondaggio che il quotidiano “La Stampa” ha commissionato a Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo. L’insigne economista tedesco Heiner Flassbeck conferma che l’Italia è sabotata dalla “concorrenza sleale” della Germania e dai vincoli politici ed economici imposti dell’Ue e dall’Eurozona? Analisi non pervenuta: l’oligarchia tecnocratica di Bruxelles va ancora bene, a quasi 7 italiani su 10, malgrado Monti e legge Fornero, il rigore estremo, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e tutti i drammatici tagli imposti dalla moneta comune, che hanno azzoppato l’industria italiana a vantaggio di quella tedesca, facendo crollare il Pil e quindi esplodere il debito pubblico. Da Bruxelles sono scappati persino gli inglesi, che nell’Ue stavano a condizioni provilegiate e senza neppure la maledizione dell’euro. Ma da noi non se ne parla neppure, anche se non mancano politici che chiedono una rottura con l’Ue dell’austerity. La maggioranza silenziosa preferisce tenersi i vincoli europei: pensa (ancora) che siano superabili, che non siano letali.
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Marine Le Pen: popolo sovrano, no al globalismo Ue-Nato
Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.«Credo che tutte le persone aspirino a essere libere. Per troppo tempo, i popoli dei paesi dell’Unione Europea, e forse anche gli americani, hanno avuto l’impressione che i leader politici non difendano i loro interessi, ma bensì degli interessi particolari. C’è una forma di rivolta del popolo contro un sistema che non lo serve più, ma che piuttosto serve se stesso», dichiara la Le Pen a Stuart Reid, nell’intervista ripresa da “Voci dall’Estero”. Sulla scia della crisi europea dei migranti, degli attacchi terroristici a Parigi e a Nizza, e del voto per il Brexit, il messaggio euro-scettico della Le Pen sta “vendendo bene”, scrive Reid: «Recenti sondaggi la mostrano come principale candidata per la presidenza nel 2017, con gli intervistati che le attribuiscono un gradimento doppio rispetto a quello dell’attuale presidente, François Hollande». Guardando agli Usa, Marine Le Pen paragona Donald Trump a Bernie Sanders: «Entrambi rifiutano un sistema che sembra essere molto egoista. In molti paesi, vi è questa corrente di pensiero fedele alla nazione, che rifiuta la globalizzazione selvaggia, vista come una forma di totalitarismo. La globalizzazione è stata imposta a tutti i costi, una guerra contro tutti per il beneficio di pochi».La Le Pen “vota” contro il Ttip e contro Hillary Clinton: «E’ portatrice di guerra nel mondo: Iraq, Libia e Siria. Questo ha avuto conseguenze estremamente destabilizzanti per il mio paese in termini di crescita del fondamentalismo islamico e per le enormi ondate migratorie che ormai stanno travolgendo l’Unione Europea». La Clinton? «Spinge per l’applicazione extraterritoriale della legge americana, che è un’arma inaccettabile per coloro che desiderano rimanere indipendenti». Nel frattempo, la Francia affonda nella crisi: la disoccupazione è oltre il 10%, e persino l’ex ministro socialista Arnaud Montebourg perora la causa del “made in France”, che è uno dei principali pilastri del Fronte Nazionale. Anche la Francia soffre la globalizzazione-canaglia, «che espone alla concorrenza sleale di paesi che effettuano dumping sociale e ambientale, lasciandoci senza la possibilità di proteggere noi stessi e le nostre aziende strategiche, a differenza degli Stati Uniti». E in termini di dumping sociale, la direttiva Ue sui “lavoratori distaccati”, cioè la libera circolazione della forza lavoro, «sta permettendo di far entrare in Francia lavoratori a salari molto bassi».L’altro dumping è monetario: l’euro. «Il fatto di non avere una nostra moneta ci mette in una situazione economica estremamente difficile», dice Marine Le Pen. «Il Fmi ha appena affermato che l’euro è sopravvalutato del 6% in Francia e sottovalutato del 15% in Germania. Questo è un gap di 21 punti percentuali con il nostro principale concorrente in Europa». A questo si aggiunge la scomparsa dell’interventismo statale, leva storica per lo sviluppo. «Quello a cui aspiro – dichiara apertamente la Le Pen – è un’uscita concertata dall’Unione Europea, in cui tutti i paesi si siedono intorno ad un tavolo e decidono di tornare al “serpente monetario”, che permette a ciascuno di adattare la sua politica monetaria alla propria economia. E voglio che sia fatto gradualmente e in modo coordinato». La situazione sta peggiorando: «Molti paesi si stanno rendendo conto che non possono continuare a vivere con l’euro, perché la sua contropartita è la politica di austerità, che ha aggravato la recessione». E cita Joseph Stiglitz, che ha appena scritto che l’euro è una moneta «completamente inadatta per le nostre economie». Proprio l’euro «è uno dei motivi per cui c’è tanta disoccupazione nell’Unione Europea». Quindi, «o ci arriviamo attraverso la negoziazione – avverte Marine Le Pen – o teniamo un referendum come la Gran Bretagna e decidiamo di riprendere il controllo della nostra moneta».Un referendum sul “Frexit”? «Nel 2005 il popolo francese è stato tradito. I francesi hanno detto no alla Costituzione europea; i politici di destra e di sinistra l’hanno imposta contro la volontà del popolo. Io sono democratica. Credo che non spetti a nessun altro che al popolo francese di decidere sul proprio futuro e su tutto ciò che riguarda la sua sovranità, libertà e indipendenza», sottolinea la leader del Front National. «Quindi sì, vorrei organizzare un referendum su questo tema. E sulla base di ciò che accadrà nel corso dei negoziati che avrò intrapreso, dirò ai francesi: “Ascoltate, ho ottenuto quello che volevo, e penso che potremmo rimanere nell’Unione Europea”, oppure: “Non ho ottenuto quello che volevo, e credo che non ci sia altra soluzione che uscire dall’Unione Europea”». Il caso Brexit è incoraggiante: «Quando la gente vuole qualcosa, nulla è impossibile». Inoltre, «ci hanno mentito: ci hanno detto che il Brexit sarebbe stato una catastrofe, che i mercati azionari sarebbero precipitati, che l’economia avrebbe rallentato fino a fermarsi, che la disoccupazione sarebbe schizzata alle stelle. La realtà è che niente di tutto questo è successo».Le banche oggi dicono che si erano “sbagliate”? «No, ci avete mentito. Avete mentito per influenzare il voto. Ma le persone stanno iniziando a comprendere i vostri metodi, che consistono nel terrorizzarle quando c’è una scelta da fare. Con questo voto il popolo britannico ha dato grande mostra di maturità». Paura per l’isolamento di una Francia fuori dall’Eurozona? «Sono le stesse esatte critiche fatte al generale de Gaulle nel 1966, quando voleva ritirarsi dal comando integrato della Nato. Libertà non è isolamento. Indipendenza non è isolamento». Al contrario: «La Francia è sempre stata molto più potente quando è stata soltanto Francia invece che una provincia dell’Unione Europea». E a chi attribuisce all’Ue il merito di aver garantito la pace dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, risponde: «Non è l’Unione Europea ad aver mantenuto la pace; è la pace che ha reso l’Unione Europea possibile». Ma la pace «non è stata perfetta nell’Unione Europea, con il Kosovo e l’Ucraina sulla soglia di casa». Inoltre, l’Ue «si è progressivamente trasformata in una sorta di Unione Sovietica Europea che decide tutto, che impone le sue opinioni, che spegne il processo democratico. Basta sentire il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha detto: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”».Insiste Marine Le Pen: «Noi non abbiamo combattuto per la libertà e l’indipendenza durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale per dover accettare oggi di non essere più un popolo libero solo perché alcuni dei nostri governanti hanno preso questa decisione per noi». Governanti francesi, ma soprattutto tedeschi: la leadership della Germania ha condizionato totalmente l’Europa. «Era scritta nella creazione dell’euro. In realtà, l’euro è una moneta creata dalla Germania, per la Germania. Si tratta di un abito che si adatta solo alla Germania. A poco a poco, la cancelliera Angela Merkel ha cominciato a sentire di essere il leader dell’Unione Europea. Ha imposto le sue opinioni. Le ha imposte in materia economica, ma le ha imposte anche accettando di accogliere un milione di immigrati in Germania, ben sapendo che la Germania poi li avrebbe smistati. Si sarebbe tenuta il meglio e avrebbe lasciato andare il resto negli altri paesi dell’Unione Europea. Non c’è più nessuna frontiera interna tra i nostri paesi, il che è assolutamente inaccettabile. Il modello imposto dalla Merkel sicuramente funziona per i tedeschi, ma sta uccidendo i vicini della Germania. Io sono l’anti-Merkel».A differenza degli altri leader francesi, finora pronti a «sottomettersi molto facilmente alle esigenze di Merkel e Obama», dimenticando di «difendere i propri interessi, compresi quelli commerciali e industriali», Marine Le Pen si dichiara «per l’indipendenza», ovvero «per una Francia che rimanga equidistante tra le due grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti: né sottomessa, né ostile». Vuole una Francia che torni a essere «un punto di riferimento per i paesi non allineati, come si diceva durante l’era De Gaulle». Semplice: «Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, proprio come gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, come la Germania ha il diritto di difendere i propri interessi, e la Russia ha il diritto di difendere i propri interessi». Francia e Russia? «Hanno una storia comune e una forte affinità culturale. E strategicamente, non vi è alcun motivo per non approfondire le relazioni con la Russia. L’unica ragione per cui non lo facciamo è perché gli americani lo vietano: questo confligge con il mio desiderio di indipendenza», dice la Le Pen. Gli Usa? «Credo che stiano facendo un errore a ricreare una sorta di guerra fredda con la Russia, perché stanno spingendo la Russia nelle braccia della Cina. E oggettivamente, un’associazione ultrapotente tra la Cina e la Russia non sarebbe vantaggiosa né per gli Stati Uniti, né per il mondo».Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.
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Galloni: élite sconfitta, ma non c’è ancora un Piano-B
«Non si tratta semplicemente di un’ondata popular-populistica che ha riguardato tutte le tornate elettorali e i referendum in Eurasia e Americhe, ma di un vero e proprio sganciamento dei cittadini dai diktat dei padroni finanziari». L’economista keynesiano Nino Galloni, già fiero avversario della capitolazione dell’Italia di fronte all’imposizione catastrofica dell’euro gestita dall’oligarchia finanziaria che manovra Bruxelles, saluta con sollievo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. La legge come una ribellione di massa contro il dominio di un’élite pericolosa, bellicista, irresponsabile, colpevole della finanziarizzazione dell’economia e dell’imposizione di una “globalizzazione a mano armata” che impoverisce il tessuto socio-economico dell’Occidente. Gli elettori americani hanno respinto il piano. «Questo è molto positivo, ma vi corrisponde un aspetto molto preoccupante», avverte Galloni: «Il programma alternativo non è chiaro o, meglio, non c’è. Ci sono generiche richieste riguardanti il lavoro, la centralità dei valori umani, il ripristino della sovranità politica e monetaria, la giustizia sociale, l’etica». Manca, ovunque, una chiara traduzione politica. Una piattaforma democratica.«Non si sa veramente cosa farà Trump, cosa proporrà il M5S, se la Brexit andrà avanti, se Renzi abbandona definitivamente un rigore insostenibile per costringere l’Europa in ginocchio, ovvero questa Europa, a cedere», ovviamente «con tutte le conseguenze di scenario geopolitiche del caso», scrive Galloni su “Scenari Economici” all’indomani del voto statunitense che ha tramortito mezzo mondo. Ma attenzione: «Sarebbe ingenuo credere che la grande finanza registri sconfitte e si ritiri in buon ordine». Al contrario, «è pronta e agguerrita per riorganizzarsi a sfruttare qualsiasi cambiamento, soprattutto se quest’ultimo sarà generico e generativo di ulteriore confusione». La grande finanza, insiste Galloni, «cresce nel conflitto che essa stessa genera e nella confusione che deriva dalla consapevolezza della necessità di un cambiamento senza un piano preciso e realizzabile. Per questo – aggiunge l’economista – la priorità è il progetto, il programma, il piano, non le divisioni settarie».Già allievo e poi collaboratore del professor Federico Caffè, eminente economista neo-keynesiamo, Galloni si batte da anni contro le politiche di rigore, dopo aver tempestivamente denunciato la mano dei poteri forti dietro al commissariamento dell’Italia affidato a Mario Monti per tramite di Giorgio Napolitano. In realtà, accusa Galloni, l’Italia fu volutamente sabotata già negli anni ‘80, con la perdita di sovranità finanziaria imposta dallo storico divorzio tra Tesoro e Bankitalia, operato da Andreatta e Ciampi. «Si sono create le premesse per la deindustrializzazione del nostro paese, che è alla radice della crisi di oggi», ha spiegato Galloni, riassumendo: «La Francia di Mitterrand impose l’euro sperando di frenare la Germania, che accettò la moneta a una condizione: smantellare la concorrenza industriale italiana». Seguirono Maastricht, il rigore imposto dall’Eurozona, la super-tassazione, i diktat della Bce puntualmente sottoscritti dal centrosinistra.Ora, con Renzi alle corde e Trump alla Casa Bianca, siamo al giro di boa: «Dopo il referendum del 4 dicembre, dove dovrebbe vincere il No», per Galloni «occorrerà riunire le forze democratiche attorno al programma di un nuovo modello economico e sociale sostenibile, responsabile, capace di ridurre le ineguaglianze». Quello che manca, sostiene l’economista progressista, è infatti proprio un Piano-B convincente, una svolta – necessariamente sovranista – che ripristini il controllo democratico sulle grandi scelte, in un’epoca che oggi rivela l’imminenza di svolte epocali nella gestione del consenso, con la crisi dei tradizionali riferimenti dell’élite – dalla Clinton a Renzi – ma senza ancora un piano diverso, roosveltiano e keynesiano, per invertire la rotta – economia per il popolo, non contro – in modo il più possibile indolore.«Non si tratta semplicemente di un’ondata popular-populistica che ha riguardato tutte le tornate elettorali e i referendum in Eurasia e Americhe, ma di un vero e proprio sganciamento dei cittadini dai diktat dei padroni finanziari». L’economista keynesiano Nino Galloni, già fiero avversario della capitolazione dell’Italia di fronte all’imposizione catastrofica dell’euro gestita dall’oligarchia finanziaria che manovra Bruxelles, saluta con sollievo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. La legge come una ribellione di massa contro il dominio di un’élite pericolosa, bellicista, irresponsabile, colpevole della finanziarizzazione dell’economia e dell’imposizione di una “globalizzazione a mano armata” che impoverisce il tessuto socio-economico dell’Occidente. Gli elettori americani hanno respinto il piano. «Questo è molto positivo, ma vi corrisponde un aspetto molto preoccupante», avverte Galloni: «Il programma alternativo non è chiaro o, meglio, non c’è. Ci sono generiche richieste riguardanti il lavoro, la centralità dei valori umani, il ripristino della sovranità politica e monetaria, la giustizia sociale, l’etica». Manca, ovunque, una chiara traduzione politica. Una piattaforma democratica.