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Brutte notizie: la finanza-killer non teme le elezioni italiane
Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».Tutto il resto non conta, scrive Annoni, perché la politica economica italiana viaggia sul “pilota automatico” delle decisioni europee. Una crisi del debito italiano? «E’ inconcepibile se l’Unione Europea entra in campo, come ampiamente dimostrato nel 2012 con l’intervento di Draghi». Viceversa, una crisi del debito italiano è il prodotto dell’Unione Europea, «nella misura in cui impone la sua politica, l’austerity, a un governo riottoso», oppure se “produce” un riequilibrio dei suoi rapporti interni a danno di uno dei suoi membri. «L’unica vera variabile che interessa ai mercati – sottolinea Annoni – è se ci sia un governo che, minacciando lo status quo europeo, inneschi la reazione dell’establishment continentale contro l’Italia, o se lo status quo venga minacciato da un governo anti-euro». L’Europa, insiste l’analista, «è in grado di provocare o fermare una crisi italiana in qualunque momento, a prescindere dalla performance economica del nostro paese». Basta poco: per esempio, «imporre un rientro del debito in un contesto economico globale magari difficile». Oppure, «imporre alle banche italiane di liberarsi dei Btp o un qualsiasi altro innesco, dato che l’Italia non ha più sovranità monetaria e bancaria».A far traballare il paese «basta, per esempio, cominciare a dichiarare ai quattro venti che l’Italia è un problema». Sarebbe sufficiente a far capire ai “mercati” l’aria che tira, e quindi «far partire una crisi del debito e poi “risolverla” con l’austerity dopo un bel bagno in Borsa». Oppure «basta dire che l’euro verrà difeso a ogni costo». Quello che è interessante, osserva Annoni, è che «nemico del “mercato” in quanto nemico dell’establishment europeo non è solo chi è contro l’euro, ma anche chi vuole riformare nella sostanza l’Europa, in questo minacciando gli attuali equilibri». Se un governo italiano “europeista” ma coraggioso attaccasse il surplus commerciale tedesco o l’austerity, rivendicasse più investimenti in infrastrutture o denunciasse la catastrofe sociale della disoccupazione greca, «anche in questo caso quello che accadrebbe nella sostanza sarebbe una minaccia per chi oggi controlla l’Europa e incassa i dividendi». E anche in questo caso, aggiunge Annoni, sarebbe ovvio aspettarsi «una reazione per mantenere gli equilibri attuali», che hanno palesemente dei vincitori e dei perdenti, in quest’Europa teoricamente unita e in realtà mai così ferocemente divisa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Qualsiasi accenno di contestazione alla gestione Ue costerebbe carissimo al nostro paese, in prima battuta: «La reazione dell’establishment europeo passerebbe, inizialmente, per i mercati finanziari contro l’Italia», sostiene Annoni. Ma il mercato finanziario – cioè il vero padrone di qualsuasi decisione importante – è convinto che dalle prossime elezioni italiane non uscirà niente che possa cambiare gli equilibri europei. «Speriamo che sbagli, perché non è un bene per l’Italia», conclude Annoni. «E su questo fronte ci dovrebbero essere sia i populisti anti-euro che gli europeisti che vogliono cambiare l’Europa dando all’Italia, nel processo, un ruolo diverso». Ma difficilmente sbaglia, il “mercato”, se resta così tranquillo di fronte alla scadenza elettorale italiana: probabilmente pensa di conoscere i suoi polli. Non è il referendum sulla Brexit, e nel Belpaese non c’è in giro nessuna Marine Le Pen. I volenterosi che vorrebbero “correggere” l’Unione Europea? Qualche nome, qua e là, ma nelle seconde file. Nulla che impensierisca i gestori della crisi nella quale viene fatta sprofondare l’Italia, dove – non a caso – l’astensionismo sembra apprestarsi a far registrare il suo record storico.Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».
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Margari: liberare la politica, “comprata” dalle grandi lobby
«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.Grillino della prima ora: «Sono nei meet-up dal 2006, quando il Movimento 5 Stelle non era ancora nato». Prima, aveva tifato per i referendum radicali. Dopo il dibattito elettorale promosso a Londra da Marco Moiso con gli altri candidati, si è iscritto al Movimento Roosevelt. «Mi sono subito sentito a casa: questo è un posto dove si parla di politica, uno spazio per sviluppare buona politica. E credo che il Movimento 5 Stelle, in quello che dice e che fa, abbracci in pieno i principi del Movimento Roosevelt: democrazia progressiva, fondata sulla partecipazione. Diritti umani: rimettere la politica al centro della scena, e l’essere umano al centro della politica». Fondamentale, in un mondo in cui i partiti procedono solo per slogan, cambiando il proprio simbolo ogni cinque anni: «Un tempo avevano sezioni, idee e ideologie. Oggi hanno solo leader di formato televisivo. Si limitano a dire: aboliamo questo, tassiamo quest’altro. I cittadini non li capiscono, e si allontanano dalla politica», sintetizza Magari, in video-chat con Moiso. «Non sappiamo più chi siamo e dove andiamo, politicamente parlando. Per questo è decisivo aprire spazi per discutere e far partecipare i cittadini: devono contribuire direttamente al proprio futuro. Con il voto, certo, e anche con le forme di democrazia diretta: referendum, leggi di iniziativa popolare».L’economia, fatta di grandi gruppi di interesse privati, oggi pesa più dei governi stessi, che invece «dovrebbero operare nell’interesse della collettività per cercare sì di creare ambienti competitivi in cui i privati possono sviluppare il proprio ingegno e fare dei profitti, cercando però anche di non lasciare indietro le classi disagiate, quelle che non hanno le stesse opportunità di chi è più fortunato», sottolinea Moiso, coordinatore generale del movimento fondato nel 2015 da Gioele Magaldi. La politica ha rinunciato a riprendere in mano gli strumenti principali per incidere sulla società, insiste Moiso: «Nel momento in cui si delegano le politiche monetarie e le politiche economiche a poteri terzi, privati, e poi si accettano le regole che vengono imposte sulla politica, in realtà la politica ha le mani legate, non può più prendere in mano le sorti né di se stessa, né della collettività che deve rappresentare». Per il candidato Paolo Margari, molta politica è ormai «terreno di caccia», neo-colonialismo da parte delle multinazionali: «Col loro finanziamento impongono la loro direzione politica: “Vi costruiamo una strada, ma in cambio otteniamo questa legge”. Accade anche al politico che rastrella fondi per la campagna elettorale e poi deve servire chi l’ha finanziato».E questo meccanismo, aggiunge Margari, trasforma il politico: «Da rappresentante del popolo sovrano (che lo elegge) a rappresentante di chi lo finanzia. Questa è la democrazia americana, che ormai è diventata uguale anche in Europa: abbiamo politici che ottengono supporto e poi devono risponderne». E il popolo? «Assiste al triste teatrino elettorale televisivo, dove per qualche settimana volano accuse incrociate, all’ombra del sostegno ricevuto da questo o quel gruppo: è un mercato di scambio di favori». Capitolo spinoso, l’Unione Europea: «Nel momento in cui un paese delega sovranità a enti sovranazionali come l’Ue, senza legittimazione diretta da parte del popolo, questo allontana il cittadino dalle istituzioni che regolano questo spazio politico comune, perché poi l’istituzione impone ai paesi di seguire le direttive, e i cittadini devono subire qualcosa per cui non hanno mai votato». Aggiunge, Margari: «I cittadini non hanno neppure idea di come funzioni, l’Unione Europea. E allontanare i cittadini dall’Ue è un meccanismo davvero antieuropeista». Per questo, dice, il Movimento 5 Stelle è per la revisione dei trattati: «L’Europa sta andando a sbattere contro un muro, nella disaffezione generale». Avallare lo status quo? «Sarebbe una scelta suicida, quindi dobbiamo cambiare. Cioè: non amputare, ma curare. Non possiamo fare a meno della democrazia, dobbiamo guarirla».«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.
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Perché la Corea unita fa più paura dell’atomica di Kim
L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.Non dimentichiamo che i due paesi tecnicamente sono ancora in guerra, l’eredità più duratura della guerra fredda: negli anni Cinquanta su questo fronte morirono più di un milione e mezzo di soldati e oltre un milione di civili. Poi ci sono Pechino e Mosca che attendono di cogliere la loro occasione per tenere sotto pressione gli Stati Uniti nella penisola asiatica più bollente. Anche sotto sanzioni, alla Corea del Nord non è mancato il supporto della Cina e della Russia, come dimostra la vicenda delle forniture petrolifere di Pechino nonostante l’embargo deciso all’Onu. Ancora più interessante è la vicenda della zona economica speciale di Rason, meno conosciuta di quella di Kaesong, ma forse ancora più strategica. A Rason, nella punta nordorientale della Corea del Nord, nella regione di Gwanbuk, il paese di Kim Jong-Un incontra i suoi vicini, i giganti Cina e Russia. Questa è una regione alla legislazione economica speciale, il primo esperimento capitalistico nella storia nordcoreana. Creata sul modello cinese, ha il compito di attrarre gli investimenti dei superpotenze confinanti. Le aziende cinesi e russe hanno investito in questa zona franca in cui è consentito l’uso della valuta straniera.Dal punto di vista geografico, Rason impedisce alle fiorenti regioni nordorientali della Cina l’accesso diretto al mare: l’uso del porto di Rajin permette quindi a Pechino di trasportare il carbone nell’area di Shanghai, con risparmio di tempo e risorse. Inoltre a Rason Russia e Corea del Nord hanno mantenuto ottime relazioni per molti anni. La RasonConTrans, filiale della Russian Railways, è controllata al 30% dal porto di Rason e impiega circa 300 nordcoreani e 110 russi. Ecco alcuno motivi economici e strategici perché la stretta di mano tra Kim Yo Jong, la sorella del numero uno nordcoreano con il presidente sudcoreano Moon inquieta gli Stati Uniti e apre una corsa tra Cina e Russia nella penisola coreana. I cinesi, alleati storici di Pyongyang, e i russi non potendo sfidare la superiorità militare degli americani e il predominio del dollaro come moneta di scambio e di riserva mondiale, hanno utilizzato la Corea del Nord per infastidire gli Usa e i loro alleati coreani e giapponesi. Così, tra un passato di guerre sanguinose, un presente da incubo e nuove speranze nate alla diplomazia olimpica, aspettiamo gli eventi, aggrappati alle notizie dal 38° parallelo, in mano agli umori del giovane Dottor Stranamore nordcoreano.(Alberto Negri, “La Corea unita fa più paura della bomba atomica di Kim Jong Un”, da “Tiscali Notizie” del 12 febbraio 2018).L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.
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Euro e bugie: Grillo ha illuso e tradito gli italiani indignati
Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».«Il primo paese che uscirà dalla trappola dell’euro dimostrerà che è solo una zavorra che costringe a sacrificare pensioni, diritti dei lavoratori ed economie nazionali al pagamento di interessi ai paesi creditori del Nord Europa, Germania in primis. L’unico loro obiettivo. Fuori dall’euro, quindi, per ritornare a vivere». Gli italiani non credono alle loro orecchie: allora è tutto vero, un leader ci indica la via per scappare dall’eurocrazia. Nel luglio 2015, Beppe Grillo ci va giù duro: «Guy Verhofstadt (il leader dell’Alde) è il politico che più incarna l’eurostatocentrismo, dentro al Parlamento Europeo». L’euforia degli italiani è alle stelle (cinque): mai nessuno aveva osato tanto contro la burokratura comunitaria. Gennaio 2017: Grillo chiede e ottiene dagli iscritti, con votazioni on line, il consenso all’ingresso nel gruppo dell’Alde di Guy Verhofstadt. Gli italiani cominciano ad avvertire un lieve giramento di capo.Nel settembre 2017, a Cernobbio, il candidato premier grillino Di Maio dichiara: «Il referendum sull’euro va usato come peso contrattuale e come via d’uscita nel caso in cui i paesi mediterranei non dovessero essere ascoltati in sede europea, ma noi non siamo contro la Ue». Gli italiani faticano a raccapezzarsi e a mantenere l’equilibrio. Nel gennaio 2018, da Bruno Vespa, Di Maio enuncia: «Io non credo sia più il momento per l’Italia di uscire dall’euro perché l’asse franco-tedesco non è più così forte». Gli italiani sono definitivamente sedati: incapaci di nuocere. A quel punto, passa Di Battista e – alla domanda se i 5 Stelle riusciranno a governare – risponde: «Io non lo so, perché gli italiani li vedo molto rincoglioniti». E a un trenta per cento circa di italiani viene un dubbio amletico: «Se rincoglioniti si diventa, coglioni si nasce?».(Francesco Carraro, “Rincoglioniti si diventa”, da “Scenari Economici” del 12 febbraio 2018).Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».
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Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi
E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ‘90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.
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Carpeoro: fango disonesto, i 5 Stelle restano una speranza
«Non è ancora una soluzione, per l’Italia, però resta una speranza: perché la base grillina è fatta di persone pulite, che non ne possono più di questo sistema». Dedicato a chi spara sui 5 Stelle, alla vigilia delle elezioni, tentando di spacciare per un illecito quella che invece è solo una “infedeltà” alle regole interne: la cessione, volontaria, di una parte dello stipendio da parlamentare. «Di costa stiamo parlando? Di una decina di casi? Una percentuale irrisoria, rispetto al numero dei 5 Stelle che rivestono cariche pubbliche. E’ ridicolo anche solo parlare di “tradimento”: sono percentuali fatalmente fisiologiche, in un movimento politico di massa». Per Gianfranco Carpeoro, simbologo e saggista nonché esponente del Movimento Roosevelt, è inaccettabile (benché prevedibile) la “macchina del fango” che sta colpendo i grillini: «Semplicemente, si vuole evitare che stravincano». La grottesca crociata interna contro i candidati massoni nelle liste pentastellate? «Forse è una contromossa a livello di immagine, per bilanciare la polemica sui mancati versamenti dei parlamentari “infedeli”. Ma i grillini sbagliano: anziché la massoneria in sé, dovrebbero attaccare la vera massoneria di potere che ha in mano l’Europa, e quindi l’Italia, ma non lo fanno. E certo non lo fa Di Maio, che proprio alle porte di quella massoneria ha bussato ripetutamente».
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Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news
Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
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Moiso: partiti da buttare, candidati no. Ripartiamo da loro
All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.Ancora: la riduzione delle tasse, e la lotta all’evasione, sopratutto delle multinazionali, con la redifinizione del ruolo delle tasse. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, con il bisogno di intervenire a tutela dei più deboli, ogni laddove non vengono rispettati i diritti umani. Il riconoscimento del valore e del ruolo del mondo della finanza, con il bisogno che questo sia giustamente tassato e comunque subordinato all’economia reale. La lotta agli sprechi, all’inquinamento e alla distruzione del pianeta, con investimenti strategici nella ricerca che consentano, sia ai paesi sviluppati che a quelli in via di sviluppo, di godere dei frutti dell’ingegno umano, anche tramite il consumo. Insomma, ci siamo resi conto che nessun partito oggi si fa portavoce della proposta politica organica e complessiva che questo momento storico richiede. Eppure, ci siamo anche accorti che molte persone, ed anche alcuni candidati che per varie sensibilità e percorsi di vita possono oggi ritrovarsi in partiti diversi, condividono i nostri stessi valori e le nostre stesse aspirazioni.Molte persone oggi credono che l’economia debba essere subordinata alla politica e agli interessi delle persone; che le istituzioni debbano garantire la sovranità del popolo; e che é tempo di abbracciare e comprendere proposte politiche che oggi vengono presentate come in antitesi, ma che debbono necessariamente coesistere. Sono molti coloro che credono che gli ideali e le idee socialiste possano solo realizzarsi in una società libera e aperta; e sono molti coloro che credono che si possa essere liberi solo in una società socialmente giusta. Sarà bene allora non combattere i partiti, e tutti coloro che vi aderiscono, ma invece trovare in essi persone che credono in queste idee, affinché si cominci a lavorare insieme per il bene della collettività: per una società libera, democratica e socialmente giusta, in cui il popolo sia sovrano tramite l’attività politica, sovraordinata agli interessi economici di specifici gruppi di interesse privato. A tale proposito, come Movimento Roosevelt, siamo pronti a lavorare con tutti coloro che condividono questi valori, a prescindere, e nel rispetto, della loro appartenenza partitica.(Marco Moiso, “Ripartiamo dalle persone”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 febbraio 2018. Temi ripresi da Moiso, coordinatore generale del movimento e supervisore per il Regno Unito, in un collegamento web-streaming su You Tube con Gioele Magaldi).All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.
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Voto inutile, chiunque vinca: l’Italia non deve svegliarsi
La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni restano un fenomeno soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano informato e consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia destinata a non essere raccolta da nessuno, né aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo andare al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, imposto dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 milardi di euro in soli tre anni.Stessa musica a casa Pd, dove restano tabù i dogmi di Maastricht che sono all’origine della tragedia, la decadenza strutturale del made in Italy. Idem i 5 Stelle, che non sono corresponsabili della catastrofe ma si stanno attrezzando: propongono un taglio fantascientifico, l’amputazione del 40% del debito pubblico, cioè della spesa strategica per l’economia. Quali sono i paesi, storicamente, con il maggior debito statale? Stati Uniti e Giappone. Il problema è dunque il debito o la moneta in cui è denominato? La moneta, ovvio. Quindi i 5 Stelle cosa contestano, il debito o la moneta? Il debito, purtroppo: nulla deve cambiare. Deve restare in piedi il paradigma, falso, che vuole lo Stato in ginocchio, costretto a privatizzare per fare cassa, taglieggiando i contribuenti. Risparmi erosi, aziende senza crediti, dipendenti senza lavoro, studenti senza futuro, coppie senza figli. Ce lo chiede l’Europa: e noi all’Europa, ancora una volta, rispondiamo che va bene così. Siamo contenti di sprofondare. Felici, ancora una volta, di non poter scegliere – alle urne – nessuna opzione alternativa alla rassegnazione sistemica, alla resa di fronte a uno schema che punisce l’Italia come nazione, come società, come sistema produttivo, come partner europeo colpevole di esistere.L’Italia ha tante colpe, in effetti: è un paese ammirato, invidiato e detestato perché potenzialmente ricchissimo, creativo, ingegnoso, padrone di un giacimento culturale senza pari al mondo, proteso nel cuore strategico del Mediterraneo. Guai se dovesse svegliarsi, il paese che seppe risorgere dalle macerie della guerra per diventare la quarta potenza industriale del pianeta, nonostante i suoi tumori endemici (mafia, corruzione, evasione fiscale). Guai, se l’Italia risvegliata mandasse a stendere Bruxelles e il suo 3%, Francoforte e la sua moneta privata, Berlino e la sua cancelliera privatizzata. Per questo sono sempre così delicate, per l’oligarchia dominante, le elezioni italiane: è fondamentale che l’Italia resti in letargo, in coma farmacologico. Faccia come crede, purché voti Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il risultato, per Bruxelles, è già in cassaforte: chiunque prevalga, di quei tre, non impensierirà nessuno dei nemici dell’Italia. Il voto-contro, per chi alle fiabe non crede più? Niente paura: sarà disperso in mille rivoli, nessuno dei quali (dicono i sondaggi) raggiungerà neppure l’anticamera del Parlamento. In più, nessuno dei maggiori candidati avrà i numeri per governare. Due sole ipotesi: larghe intese o nuove elezioni. Nulla che, in ogni caso, riguardi gli italiani stanchi di dormire, e di vedere il loro paese trattato come un malato terminale ingombrante, in parte ancora ricco. Un malato da spolpare fino all’ultimo, da tenere in vita solo per evitare l’imbarazzo del funerale.La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni sembrano un fenomeno innocuo e soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia fatalmente pletorica, destinata a non essere raccolta da nessuno, né in aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo trascinarsi fino al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, cioè la camicia di forza imposta dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 miliardi di euro in soli tre anni.
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Barnard: siamo in crisi perché l’antica élite si è ripresa tutto
Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».Questa è la mentalità di coloro che ci considerato «degli outsider rompicoglioni», «una massa ignorante» da mettere ai margini. E hanno vinto, su di noi. Questo progetto di Unione Europea messo nelle mani di burocrati dell’estrema destra finanziaria, completamente svincolato dal controllo dei cittadini, prende piede formalmente in Italia negli anni ‘90, quando improvvisamente crolla la Prima Repubblica. Crolla un sistema di partiti: arriva Tangentopoli e spazza via una classe politica che la finanza internazionale (specie americana) considerava incontrollabile, non dedita a sufficienza al mantra delle privatizzazioni e dei tappeti rossi stesi davanti alla grande finanza speculativa. In Italia c’erano ancora leggi che impedivano grandemente l’esportazione dei capitali (il famoso “capital flight”, che è un fenomeno devastante, che distrugge interi paesi nell’arco di un attimo). L’Italia era un paese con partiti corrotti, ladri, bugiardi e mafiosi. Ma non erano nella Serie A. Erano nella Serie C, non facevano il gioco che contava. E con il crollo dell’Unione Sovietica, scrive un importante economista come Marcello De Cecco, questi partiti perdono ulteriormente il loro valore, per gli Stati Uniti: non servivano più a niente. E chi serviva veramente, in quel momento, alla grande finanza internazionale? Chi poteva essere il grande interlocutore per gli anni ‘90 e Duemila, per la grande finanza speculativa internazionale? Il candidato ovvio: il partito comunista.Era dagli anni ‘60 che il Pci faceva riunioni a Bellagio, sul Lago di Como, con la Fondazione Rockefeller: Sergio Segre, Amendola e soprattutto Giorgio Napolitano, che è stato il grande accoglitore del grande capitale finanziario internazionale dentro il Pci, in Italia, garantendo tappeti rossi stesi davanti a loro. Era dagli anni ‘60 che il Pci, mentre in piazza faceva la retorica dei lavoratori, della sinistra, sotto sotto dialogava. Al Mulino, a Bologna, facevano le riunioni con la Fondazione Agnelli. Veniva Brzezinski, a parlare col Pci: si stavano già mettendo d’accordo negli anni ‘60. E quindi, a maggior ragione, negli anni ‘90 questo partito diventa l’interlocutore privilegiato. Gli americani lo dicono molto chiaro, in un rapporto del Council on Foreign Relations, che incarna la politica estera statunitense: è un partito che ci è utile, scrivono, perché è l’unico in Italia a essere strutturato come una grande azienda, sa come fare business. E infatti lo facevano, il business: facevano chiudere le fabbriche in Italia e assicuravano i soldi per la Fiat in Russia, eccetera. Tangentopoli distrugge la Dc e il Psi ma risparmia il Pci (poi Pds, Ds e Pd). Ne chiesi conto a Gherardo Colombo, giudice di Mani Pulite (io sono di Bologna, città dove si pagavano mazzette per qualsiasi servizio), e Colombo rispose: gli imprenditori denunciavano solo la Dc e il Psi.Di fatto, dopo il ‘92-93 crolla questa classe politica, in Europa si sta consolidando l’Unione Europea, e in Italia arrivano i cosiddetti governi tecnici: Ciampi, poi il grande periodo del centrosinistra fino al 2000. In Italia, questa pianificazione orrenda che ha distrutto Stati, leggi e cittadini è stata portata su un vassoio d’argento unicamente dal centrosinistra. I nomi sono quelli di Andreatta, Prodi, Visco, Bassanini, Draghi, Amato, D’Alema. Le privatizzazioni selvagge dell’Italia avvengono tutte sotto i governi di centrosinistra, che stabiliscono il record europeo delle privatizzazioni, dal 1997 al 2000. Record europeo: riusciamo a battere addirittura l’Inghilterra del partito laburista di destra di Toby Blair. Oggi come allora, pubblicamente il centrosinistra fa la retorica del mondo del lavoro e della solidarietà sociale: tutte balle, questa gente è veramente bieca. L’Italia in quel periodo comincia a vendere i suoi beni pubblici, fa delle scelte sempre condizionate dal fantasma dell’inflazione. Scelte importanti: decide di internazionalizzare il proprio debito. Anziché fare quello che avrebbe dovuto fare una vera coalizione di centrosinistra, cioè trovare le risorse nazionali per gestire il proprio debito (perfettamente gestibile), l’Italia di Prodi e D’Alema internazionalizza il debito, mettendolo nelle mani delle grandi fondazioni economiche estere. Così, grazie a questa bella gente, negli anni ‘90 l’Italia è l’unico paese europeo a consegnarsi totalmente nelle mani della finanza internazionale.Marcello De Cecco (Normale di Pisa, La Sapienza) è considerato il più autorevole economista italiano, in assoluto. Scrive: il permanere di un debito pubblico internazionalizzato costituisce una zavorra permanente per l’economia italiana. Non le permette di correre, e le impedisce di seguire una politica in contrasto con le opinioni dei mercati finanziari internzionali, dai quali può discostarsi solo per pochi mesi. Cioè: se si sgarra per pochi mesi, si è finiti. E aggiunge, citando la caduta del governo Berlusconi nel ‘94: è la prova lampante del fatto che una maggioranza parlamentare che si metta in contrasto con i mercati internazionali si decompone, e il governo cade. Aprite gli occhi: Berlusconi ha avuto guai continui – non per via del fatto che è un pessimo politico, ma perché ha disobbedito a questa gente. Mentre gli altri, quelli che dovrebbero fare i nostri interessi, ci stanno rovinando: la nostra sinistra, quelli di “Repubblica”, Scalfari e De Benedetti (a cui D’Alema ha regalato miliardi, come la rete telefonica delle Ferrovie dello Stato venduta a De Benedetti per niente, e che De Bedenetti ha rivenduto facendo profitti di oltre il 300%). Questa sinistra sta rovinando gli operai, i lavoratori, i cassintegrati, i precari, i giovani che non trovano lavoro.Questo centrosinistra che, internazionalizzando il debito, ha consegnato l’Italia nelle mani della finanza internazionale, che cosa ci ha fatto perdere? Sapete qual è la cifra finale (dati del 2011) che l’Italia ha perduto, per la crisi finanziaria del 2007-2008 causata da questa gente? E ci siamo dentro fino al collo, nelle privatizzazioni e nella svendita del bene pubblico, a beneficio delle grandi banche d’investimento grazie a Prodi e D’Alema. Abbiamo perso 457 miliardi di euro: ricchezza sparita dall’Italia in soli tre anni. Una cifra che vale 33 finanziarie. Il conflitto d’interessi di Berlusconi sono 6 miliardi di euro, la casta di Beppe Grillo sono 4 miliardi di euro, tutte le mafie italiane messe assieme contano per 90-100 miliardi di euro. Questi signori ce ne hanno portati via 457. Questo paese non ha più alcuna possibilità di riscattarsi in nessun modo: con l’arrivo dell’euro, siamo veramente rovinati. In una situazione di questo genere, uno Stato avrebbe una sola possibilità di scampo, che è quello che fanno gli Stati Uniti: spendere a deficit. Stampare denaro, continuare a indebitarsi, svalutare la propria moneta – cioè, tutto quello che si può fare quando uno Stato ha una moneta propria (come il dollaro e la sterlina, com’erano il marco in Germania e la lira in Italia). Noi una moneta propria non l’abbiamo più, abbiamo l’euro.Di chi è l’euro? Di nessuno, nemmeno delle banche. La sua emissione viene decisa dai 16 governatori delle banche centrali dell’Eurozona, la Bce formalmente prende la decisione e le banche centrali nazionali stampano questa moneta. Sapete, quando viene stampato, a chi va in mano l’euro? Al ministero del Tesoro? No: va alle banche private, e da queste ai mercati dei capitali. Il ministro del Tesoro deve costruire un ospedale, aprire una strada, pagare gli stipendi agli insegnanti? Va a bussare ai mercati dei capitali privati e dice: per favore, mi date degli euro? Vi rendete conto di cosa sta succedendo? Uno Stato (teoricamente sovrano, ma non più sovrano) per comprare un cancellino di una lavagna di scuola deve andare al mercato dei capitali privati a prendere in prestito gli euro. I mercati dicono: certo che te li prestiamo, gli euro, ma i tassi di interesse li decidiamo noi. Sapete cosa vuol dire, questo? Sapete cos’è la variazione percentuale di un punto sui tassi d’interesse su miliardi di euro? L’Italia è ridotta come il cittadino strangolato dalla banca a cui ricorre per un prestito, se deve comprarsi l’auto. Ecco perché siamo costretti a tagliare le spese pubbliche. Al contrario di uno Stato a moneta sovrana (Usa, Inghilterra, Giappone) oggi l’Italia ha un debito che è veramente un debito – prima non lo era: era un fantasma, era inventato che fosse un problema, perché lo Stato era indebitato solo con se stesso, non doveva soldi a nessuno.Il debito dello Stato era la ricchezza dei cittadini. Oggi, con l’euro, è cambiato tutto. Oggi siamo veramente indebitati, dobbiamo veramente fare i tagli ai servizi pubblici e dobbiamo veramente tassare per tirar su dei soldi, perché dobbiamo bussare alla porta dei capitali privati per spendere ogni singolo euro destinato alla nazione. A questo pensava l’economista francese François Perroux nel 1943, quando disse: togliendogli la moneta, si toglie agli Stati la ragione di esistere e li si distrugge. Questo ci hanno fatto, e chi ha portato in Italia questa roba su un tappeto rosso è Romano Prodi, con tutta la sua cricca di delinquenti. E’ un disastro: non possiamo neanche più dire che è sbagliato tagliare i fondi alla sanità o alla scuola. I soldi dove andiamo a prenderli? Prima sì, si poteva dire: è sbagliato fare quei tagli, è una scelta politica, ideologica. Oggi non più: ci hanno tolto la funzione primaria dello Stato, e hanno vinto definitivamente. Prima ci impedivano di fare la piena occupazione, il welfare e il benessere per tutti, terrorizzandoci con dei fantasmi ideologici per impedire allo Stato di spendere. Adesso ce lo hanno impedito con uno strumento che è addirittura irreversibile. Adesso, anche un primo ministro si svegliasse una mattina e dicesse “io sono uno Stato sovrano e posso spendere a deficit e creare la piena occupazione”, non può più farlo neanche se vuole, perché non ha più la moneta per farlo.Vuol dire posti di lavoro perduti, aziende chiuse, ricchezza evaporata, povertà. La disoccupazione galoppa, i fallimenti delle aziende sono aumentati del 40% nel solo 2009. Il 30% degli italiani è costretto al prestito, il 38% è in difficoltà economiche, il 76% è costretto alla flessibilità. Il lavoro a chiamata è aumentato del 75%. Un milione e 650.000 italiani sono senza coperture di alcun tipo, se licenziati: non percepiscono nulla. Il 50% delle pensioni italiane sono sotto i mille euro: non ci vivi, non ce la fai. Un italiano su cinque rimanda le visite specialistiche, l’11% degli italiani non si riscalda, l’11% non ha soldi per le spese mediche ordinarie. Il 31% degli italiani non può permettersi di spendere 750 euro per un’emergenza in famiglia. E la grande finanza internazionale ci ha rubato 457 miliardi di euro in tre anni. Qui dobbiamo spalancare la mente. Che cosa succederà? Da qui in avanti, succederà esattamente quello che era pianificato dagli anni ‘30: il ritorno al potere assoluto dell’élite finanziaria, con la marginalizzazione delle leggi e dei cittadini. In particolare, pianificavano che in Europa si creassero delle sacche di povertà talmente ampie da poter poi fare del blocco industriale franco-tedesco una grande potenza dell’export, in competizione con gli Stati Uniti, con la Cina e con l’India.Mantenendo un euro estremamente sopravvalutato, hanno introdotto tutte queste misure di precarizzazione del lavoro e di erosione dei diritti. Stiamo privatizzando a man bassa, stiamo alienando beni pubblici per due lire al capitale privato. Con un euro molto forte, l’Europa non è competitiva sui mercati: ne soffrono le aziende, che devono tagliare il costo del lavoro. Significa che lo Stato deve sborsare cassa integrazione e sborsare un sacco di soldi che non si può più permettere, con l’euro. Questo mette in crisi gli Stati, e la crisi degli Stati crea ancora più incertezza economica, ancora più deflazione e disoccupazione. Il costo del lavoro cala ancora di più: oggi è normale accettare un posto di lavoro al supermercato per 700 euro, coi turni spezzati. In Germania è lo stesso: nel 2009 i lavoratori hanno registrato la più alta produttività europea coi più bassi stipendi. Quindi in Europa si sta creando questa situazione dove c’è un impoverimento drastico, una disoccupazione che sta schizzando alle stelle: stiamo a 23 milioni di disoccupati. Incertezza, povertà crescente, sacche di lavoro sottopagato per competere con la Cina, con l’India e con gli Stati Uniti sul mercato delle esportazioni. E qui il vero potere fa la prima, grande tornata di profitti: diventerà competitivo esportare dall’Europa pagando una miseria il lavoratore europeo.La deflazione e l’incertezza finanziaria fanno sì che i mercati perdano di valore, e se perdono di valore gli Stati sono costretti ai tagli. Devono alienare i beni pubblici, e quindi al primo che arriva a comprare vendono a due lire una Telecom, l’acqua, il sistema sanitario o le ferrovie, cosa che succede dagli anni ‘90 e che succederà ancora di più. Loro comprano a due lire, e quindi fanno la seconda tornata di profitti. Poi l’euro crollerà: crolleranno i tassi di interesse, e gli speculatori internazionali faranno profitti immensi, con i “credit default swaps” e le altre scommesse che si fanno sui crolli delle monete. E alla fine di tutto questo, quando l’Europa sarà un buco nero di economia, ridotta quasi a un territorio da Secondo Mondo balcanico, il vero potere farà la quarta tornata di profitti: le scommesse, coi derivati, sul crollo del mercato europeo. Che è quello che hanno fatto in Grecia: hanno scommesso sul crollo della Grecia, che loro stessi stavano causando. Questo è il futuro che si prospetta, per noi, grazie a questa pianificazione di 70 anni. Guardate che il Fondo Monetario Internazionale (che è uno degli attori principali di questo piano scellerato) ha capito di aver troppo calcato la mano, arrivando a pubblicare un rapporto che prevede per l’Europa lo spettro della disoccupazione di massa. Dobbiamo correre ai ripari, dice il Fmi, che chiede agli Stati di cominciare a spendere a deficit e aumentare la spesa pubblica (ma non lo possiamo più fare, non abbiamo più la moneta).Se il Fondo Monetario arriva a questo, vuol dire che la situazione è più che drammatica. Ci sono uomini – ne cito uno, Carlo De Benedetti – che fin dagli anni ‘90, in combutta coi politici del centrosinistra, avevano già capito perfettamente che cosa stava succedendo, e come fare queste quattro tornate di profitti. Cosa ha fatto? Si è tolto dall’Olivetti, che aveva una competizione sui mercati che non poteva reggere, e si è messo nell’industria dei servizi. E così hanno fatto tanti industriali, anche Benetton: ha lasciato le magliette ai competitor cinesi e indiani e si è buttato nell’acquisizione di questi servizi essenziali. Perché lo fanno? Ok, stanno creando questo buco nero, in Europa. Ci stanno distruggendo completamente. Ma quando saremo tutti più poveri, come faremo a fargli fare dei profitti? La risposta è questa, e loro la conoscono da tanto tempo: in termini tecnico-economici si chiama “captive demand”. Che cosa fanno? Ti impoveriscono, ti precarizzano e guadagnano sulle esportazioni, intanto però si comprano i servizi essenziali per la cittadinanza: la sanità, l’acqua, la luce, i trasporti – tutto, anche l’anagrafe e i servizi funerari. Tutto già previsto dai negoziati internazionali, verrà venduto tutto. Il Pd è il partito italiano più avanzato nella privatizzazione della sanità: ci lavora nelle lobby europee.Quando avranno acquisito questi servizi essenziali, e noi saremo tutti più poveri, loro faranno profitti spaventosi: perché senza l’acqua non possiamo vivere, non possiamo stare senza i treni o senza la sanità. Siamo prigionieri: “captive demand” vuol dire “richiesta prigioniera”, il cittadino diventa prigioniero di una richiesta che deve soddisfare. Per cui starà senza mangiare, rinuncerà alle vacanze e non comprerà più le lenti a contatto, ma l’acqua la pagherà, il gas lo pagherà, la nonna la seppellerirà, l’operazione al fegato la dovrà fare. Chi è l’uomo più ricco del mondo? Non più Bill Gates, ma Carlos Slim: è un messicano, e ha nelle sue mani tutte le telecomunicazioni del Messico. Ha fatto quello che ha fatto De Benedetti, che ha fatto Benetton in Italia. Si è comprato un servizio essenziale: i messicani devono telefonare, non possono non farlo. Saranno dei poveracci, il Messico è un paese di poveri. Ma lui è l’uomo più ricco del mondo, guardacaso. Questo ci stanno facendo, questo ci aspetta.Sbalordisce l’ampiezza di questo disegno criminale, che è il più grande crimine della storia occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. Perché non solo hanno distrutto gli Stati, le leggi e i cittadini , ma hanno anche tenuto milioni di persone in condizioni di povertà, di bisogno, di indigenza. E oggi tengono i nostri ragazzi precari, le donne che non possono fare figli perché non possono mantenerli, le coppie che non si sposano perché non possono comprare casa. Tuttto questa sofferenza, che è stata immensa per milioni di persone in tutte le nazioni cosiddette ricche, è stato deciso a tavolino. E’ veramente il più grande crimine. E quello che ci aspetta è proprio la conclusione degna di questo crimine immenso, che hanno commesso. Non esito a dire che, di fronte a una pianificazione di questo tipo, occorrerebbe una nuova Norimberga. Bisognerebbe portare questi personaggi (molti sono ancora vivi) a un processo internazionale per crimini contro l’umanità.(Paolo Barnard, estratto della conferenza “Il più grande crimine”, video caricato su YouTube nel 2011. I dati citati, relativi al 2009, disegnano un quadro che poi si è aggravato in modo ulteriormente drammatico, con il governo Monti. Già nel 2010 Barnard aveva pubblicato online il suo saggio “Il più grande crimine”, che ricostruisce la riconquista del potere da parte dell’élite, a spese della democrazia, con un piano concepito a partire dagli anni ‘20 del ‘900, giunto a compimento in Europa con la creazione dell’Unione Europea e dell’Eurozona).Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».
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La Costituzione senza sovranità? E’ come la birra analcolica
La Costituzione senza sovranità? «Dovrebbe essere illegale come la birra analcolica». Parola di Massimo Bordin, giornalista di razza, per vent’anni direttore di “Radio Radicale”.«Mi sorprende sempre scoprire che ci sono uomini di cultura, persino accademici, secondo i quali fu possibile limitare la sovranità italiana, perchè “lo prevede anche la nostra Costituzione”». Stiamo parlando di disgraziati in malafede o di ignoranti acefali? «Temo di entrambe le tipologie umane», scrive Bordin sul blog “Micidial”, prendendo di mira la presunta legittimità, anche costituzionale, del “ce lo chiede l’Europa”. Ipocrisia: tutti bravi a fingere di ergersi a paladini della Costituzione, dopo averla “tradita” cedendo all’Unione Europea le prerogative che, secondo la Carta, sarebbero invece esclusivo appanaggio dell’Italia: sovranità non negoziabile, né cedibile, tranne che (in via eccezionale) a un unico soggetto: le Nazioni Unite. Sul banco degli imputati, scrive Bordin, c’è il famigerato articolo 11, che effettivamente parla di cessioni di sovranità nazionale. Tuttavia, l’articolo «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». L’articolo 11 fa quindi riferimento alla “sovranità esterna”, non a quella “interna”. Attenzione: non si tratta di “sfumature”, ma di sostanza: chi ha ceduto la sovranità italiana all’Ue ha piegato la Costituzione.Bordin cita giuristi preparati, come il magistrato Luciano Barra Caracciolo e gli avvocati Paola Musu e Marco Mori. «In sintesi: la Costituzione italiana si riferisce alla “sovranità” sia all’articolo 1 – stabilendo che essa “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” – che all’articolo 11, il quale consente le limitazioni di sovranità necessarie a garantire il funzionamento di un ordinamento internazionale che assicuri pace e giustizia nel mondo». Appare evidente come gli articoli 1 e 11 si riferiscano, in realtà, ai due differenti aspetti propri della “sovranità”, nel suo concetto classico: l’articolo 1 tutela la sovranità interna, «ossia al rapporto tra lo Stato e quanti risiedono sul proprio territorio», mentre l’articolo 11 vigila sulla sovranità esterna, ossia sui rapporti dello Stato con gli altri Stati o organizzazioni internazionali. «Varrebbe peraltro la pena di ricordare come, in sede di Commissione per la Costituente, si scelse di omettere, nella formulazione dell’articolo 11, ogni esplicito riferimento all’unità europea», come invece aveva chiesto l’onorevole Emilio Lussu, fondatore del Partito d’Azione e celebrato scrittore, autore di “Marcia su Roma e dintorni” e “Un anno sull’altipiano”.Le limitazioni di sovranità, sottolinea Bordin, «dovevano riferirsi unicamente allo Stato nei suoi rapporti internazionali (cioè all’Onu)». L’articolo 11 della Costituzione, pertanto, «non può essere interpretato nel senso voluto dalla Corte Costituzionale, ossia come “copertura” di rango costituzionale alle sempre più profonde cessioni di aspetti tipici della sovranità interna in favore dell’Unione Europea». Di fatto, l’articolo 11 «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». Traduzione: «Il lavoro, la previdenza, la moneta, l’istruzione e la spesa pubblica sono scelte politiche di sovranità interna e non vengono affato contemplate dal famigerato articolo 11». Conclusione: «Stolti quegli uomini che invocano la Costituzione per difenderla nella sua parte ordinamentale – parte invece che potrebbe benissimo essere stravolta senza “troppissimi” problemi – mentre usano la zappa per interpretarne la prima, quella dei fondamenti e dei princìpi, che non può affatto essere né interpetata (essendo chiara) né modificata». Qualcuno ha barato, nel leggervi quello che non c’è: Costituzione e sovranità sotto tutt’uno, sul territorio nazionale. O almeno, dovrebbero esserlo. Invece si finge di difendere la Costituzione dopo averla calpestata, con la cessione – anticostituzionale – di ogni sovranità interna all’Unione Europa. «Birra analcolica», appunto.La Costituzione senza sovranità? «Dovrebbe essere illegale come la birra analcolica». Parola di Massimo Bordin, curatore del blog “Micidial”. «Mi sorprende sempre scoprire che ci sono uomini di cultura, persino accademici, secondo i quali fu possibile limitare la sovranità italiana, perchè “lo prevede anche la nostra Costituzione”». Stiamo parlando di disgraziati in malafede o di ignoranti acefali? «Temo di entrambe le tipologie umane», scrive Bordin, prendendo di mira la presunta legittimità, anche costituzionale, del “ce lo chiede l’Europa”. Ipocrisia: tutti bravi a fingere di ergersi a paladini della Costituzione, dopo averla “tradita” cedendo all’Unione Europea le prerogative che, secondo la Carta, sarebbero invece esclusivo appannaggio dell’Italia: sovranità non negoziabile, né cedibile, tranne che (in via eccezionale) a un unico soggetto: le Nazioni Unite. Sul banco degli imputati, scrive Bordin, c’è il famigerato articolo 11, che effettivamente parla di cessioni di sovranità nazionale. Tuttavia, l’articolo «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». L’articolo 11 fa quindi riferimento alla “sovranità esterna”, non a quella “interna”. Attenzione: non si tratta di “sfumature”, ma di sostanza: chi ha ceduto la sovranità italiana all’Ue ha piegato la Costituzione.
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Povera Europa, plaude alle “lezioni” del suo killer: la Merkel
Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremo a memo (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha visto crollare il suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra teologica al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.Una vera festa, la spettacolare crisi italiana, per l’industria tedesca che ha fatto shopping a prezzi di saldo accaparrandosi quote rilevanti dell’eccellenza del “made in Italy”, altro classico esempio di “cooperazione” ordoliberista di stampo teutonico. «La Germania è un problema cronico e fisiologico per l’Europa», sostiene Paolo Barnard, «proprio a causa del suo tipo di economia sbilanciato verso l’export». Il che significa compressione dei salari in patria (gli scandalosi mini-job da 450 euro mensili) e aggressività competitiva verso i paesi confinanti, trattati come colonie a cui rubare fatturato e sottrarre la miglior forza lavoro di formazione universitaria avanzata, dando vita al flagello della “fuga dei cervelli”. «I personaggi come la “sorella” Angela Merkel, esponente della Ur-Lodge reazionaria Golden Eurasia, sono i veri nemici dell’Europa unita, i veri e irriducibili antieuropeisti», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela i retroscena supermassonici del vero potere neoliberista. «Quelli che vengono spacciati per statisti sono in realtà pedine di interessi esclusivamente privati, che traggono i massimi profitti proprio dalla distruzione dell’unità europea: assistiamo infatti a una spietata concorrenza fra Stati, di cui il neo-mercantilismo tedesco è l’espressione più tristemente significativa».Sempre la Germania, racconta l’economista Nino Galloni (vicepresidente del Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi) ottenne – dalla Francia di Mitterrand, in cambio della rinuncia al marco – il via libera per la deindustrializzazione progressiva dell’Italia, cioè del massimo antagonista del sistema manifatturiero tedesco. E’ questa la motivazione di fondo – squisitamente industriale e concorrenziale – dietro alle politiche di austerity dell’Ue a trazione tedesca, che hanno tentato ininterrottamente di demolire il sistema economico italiano. E’ il Belpaese il vero bersaglio degli eurocrati tedeschi come Angela Merkel, ai piedi dei quali si sono genuflessi i vari Letta, Renzi e Gentiloni, dopo il “ko tecnico” procurato a Monti e Napolitano, commissari italiani del super-potere che tiene in scacco l’Europa utilizzando Berlino come cane da guardia. Per questo, le affermazioni della cancelleria a Davos suonano sincere quanto le parole del killer al funerale della propria vittima: «Nel mondo c’è tr6oppo egoismo nazionale», scandisce la professoressa. «Fin dai tempi dell’Impero Romano e della Grande Muraglia sappiamo che limitarci a rinchiuderci non aiuta». Viste dalla Grecia ridotta alla fame, queste parole – in una ipotetica, seconda Norimberga – assicurerebbero ad Angela Merkel una fucilazione di prima classe, con tutti gli onori che spettano ai grandi traditori.Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremmo a meno (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha assistito al crollo epocale del suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra “teologica” al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.