Archivio del Tag ‘Milano’
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Veneto e Lombardia: liberi da Roma ma schiavi di Bruxelles
Super-autonomia di Veneto e Lombardia? Già, ma autonomia da cosa? Si sono dimenticati, Zaia e Maroni, di essere “sudditi” dell’Unione Europea? Non vendano facili illusioni, i governatori leghisti del Nord-Est, che oggi cantano vittoria per l’esito dei referendum consultivi indetti per chiedere lo statuto autonomo per le due Regioni: l’Italia non è più un paese sovrano, a prescindere dai margini regionali di autogoverno relativo. «Vogliamo tenerci il 90% delle tasse», annuncia Luca Zaia, forte del quasi-plebiscito appena incassato da quasi sei veneti di dieci. Minore l’affluenza in Lombardia, appena sopra il 38%, ma Maroni considera comunque un successo l’aver portato alle urne tre milioni di lombardi, lasciando capire che il governo Gentiloni sarebbe pronto a concessioni inedite. «Ma siamo sicuri che sia una cosa seria?». Se lo domanda Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, convinto di assistere a una sorta di recita che rischia di assomigliare a una farsa, proprio mentre «accadono cose surreali in Catalogna», dove il confronto tra Barcellona e Madrid appare «ben più gravido di conseguenze immediate», in una situazione nella quale «non si capisce chi abbia sbagliato di più, e chi soffi sul fuoco di chi».La sfida spagnola, dichiara Magaldi a “Colors Radio”, «è una vicenda talmente grossa che va riletta alla luce degli smottamenti più che sospetti che in tutta Europa si stanno verificando, in questo momento davvero cruciale». Di fronte a ciò, l’autonomismo del Lombardo-Veneto appare «stucchevole, strumentalizzabile». E poi: «Qual è la sua dimensione reale? Quali saranno le effettive conseguenze del voto?». Di una cosa, Magaldi è sicuro: «Stiamo perdendo il senso del reale, perché non è certo di più autonomie e statuti speciali che l’Italia ha bisogno». Un tempo, ammette Magaldi, «lo Stato centrale aveva competenze esorbitanti». Ma ora la situazione è completamente cambiata: «Lo Stato ha perso sovranità esattamente come l’ha persa il popolo, non solo in Italia ma in tutta l’Unione Europea: non si capisce più dove sia, oggi, la sovranità». E quindi, sostiene, anziché rifugiarsi nella dimensione regionalistica (e vale anche per Barcellona, probabilmente) sarebbe il caso di affrontare di petto l’intero problema della sciagurata governance europea: quindi non conta tanto «chi ha le prerogative per gestire», quanto «se lo fa nell’interesse della sovranità del popolo» oppure, come avviene ora, «per interessi che con il popolo hanno poco a che vedere».E chi dovrebbe aprirla, la vertenza vera – quella con Bruxelles? La politica, ovviamente: e qui arrivano le dolenti note. Rosatellum alla mano, l’immediato futuro non prospetta nient’altro che personaggi come Minniti o Gentiloni, ovvero «un qualche pesce lesso che vada bene sia per il centrodestra e che per il centrosinistra, verso l’ennesimo governo di bassissimo profilo». Renzi? Non l’ha ancora capito, ma si è auto-affondato: «E’ stato un grande bluff, ha capovolto l’iniziale simpatia in antipatia, che oggi diventa risentimento». Ha venduto una sorta di rivoluzione, ma poi ha partorito solo il Jobs Act, «che ha mostrato la faccia dura della precarizzazione del lavoro», e infine ha abortito una pessima riforma costituzionale. «Nel frattempo l’Italia continua a essere in discesa libera, con una burocrazia sempre asfissiante, una tassazione inverosimile e invereconda. E una disoccupazione crescente». Bilancio nero: «Non vedere questo è la follia di Renzi, e questa follia lo perderà, la discesa sarà rovinosa: non ha più alcuna chance di tornare a Palazzo Chigi».Intorno, comunque, il nulla, tra Salvini che serra i ranghi tornando sotto l’ala dell’inclassificabile Berlusconi, e i 5 Stelle che «non ci hanno ancora spiegato come vorrebbero davvero governare l’Italia». I “cespugli” attorno al Pd? Peggio che andar di notte: «Renzi, quantomeno, non ha sulle spalle le responsabilità di D’Alema, che ha governato male, né quelle di Bersani, incapace di farsi regista di un’alleanza coi 5 Stelle e, prima ancora, colpevole di aver supportato il governo Monti». Magaldi è tra i promotori di un nuovo progetto politico ancora in divenire (il Pdp, Partito Democratico Progressista) ma prende atto del fatto che, in Italia, sembra mancare il lessico fondamentale per voltare davvero pagina. Esempio: fa notizia che rinunci a candidarsi un uomo come Piercamillo Davigo, magistrato della Cassazione e già segretario dell’Anm, bandiera della lotta anti-corruzione dai tempi del pool milanese di Mani Pulite. «Non credo che la corruzione – che i magistrati come lui fanno bene a perseguire – sia il peggiore dei problemi italiani», precisa Magaldi, che aggiunge: «Sulla grande retorica della corruzione è stata distrutta una classe politica che era molto migliore di quella che l’ha sostituita».Nei giorni scorsi, la polemica su Tangentopoli ha vissuto l’ennesima fiammata nello scontro tra il filosofo Diego Fusaro e Antonio Di Pietro: il primo accusa il secondo di esser stato lo strumento di un “golpe bianco” per abbattere la Prima Repubblica, mentre per il leader dell’Italia dei Valori «il problema erano i politici ladri, non i magistrati». Politici che, secondo un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro, andavano comunque tolti di mezzo, ma non certo per ragioni morali: «A decapitare la Prima Repubblica non fu un colpo di Stato, ma un complotto internazionale». Il movente? Si voleva un’Italia completamente indifesa rispetto al progetto oligarchico dell’euro e dell’Unione Europea. Magaldi concorda: «Rispetto a questa traballante e pessima Seconda Repubblica, sarà sempre meglio una classe politica diversa, magari con sacche di corruzione, ma con un progetto chiaro». L’Italia era una potenza industriale tra le prime al mondo, con indicatori tutti in crescita. Poi, negli ultimi 25 anni, il declino. Atto d’inizio: la «macelleria politica fatta da Tangentopoli, con un risultato fallimentare: oggi abbiamo un’altra Repubblica, ugualmente corrotta, ma – a differenza della prima – senza più un progetto sovrano per il paese». E ora, data per persa l’Italia, c’è chi pensa davvero di rifugiarsi tra Brescia e Verona?Super-autonomia di Veneto e Lombardia? Già, ma autonomia da cosa? Si sono dimenticati, Zaia e Maroni, di essere “sudditi” dell’Unione Europea? Non vendano facili illusioni, i governatori leghisti del Nord-Est, che oggi cantano vittoria per l’esito dei referendum consultivi indetti per chiedere lo statuto autonomo per le due Regioni: l’Italia non è più un paese sovrano, a prescindere dai margini regionali di autogoverno relativo. «Vogliamo tenerci il 90% delle tasse», annuncia Luca Zaia, forte del quasi-plebiscito appena incassato da quasi sei veneti di dieci. Minore l’affluenza in Lombardia, appena sopra il 38%, ma Maroni considera comunque un successo l’aver portato alle urne tre milioni di lombardi, lasciando capire che il governo Gentiloni sarebbe pronto a concessioni inedite. «Ma siamo sicuri che sia una cosa seria?». Se lo domanda Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, convinto di assistere a una sorta di recita che rischia di assomigliare a una farsa, proprio mentre «accadono cose surreali in Catalogna», dove il confronto tra Barcellona e Madrid appare «ben più gravido di conseguenze immediate», in una situazione nella quale «non si capisce chi abbia sbagliato di più, e chi soffi sul fuoco di chi».
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Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare
Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e Don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia («Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”.Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potere italiano, il Vaticano. Ma anche la sopressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storia del Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere (e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza “illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidentre americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reimcarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo, e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storia per 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non confutare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali deella storia, ma la storia la fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massomeria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politica degli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Blondet: tranquilli, la Lombardia non farà alcuna secessione
Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.La Lombardia si metterà alla testa di questa istanza di giustizia del Nord-Est? E’ stato pur indetto un referendum sull’autonomia, si celebrerà il 22 ottobre. Tremate, parassiti! Anzi no, contrordine. State pur tranquilli, parassiti. La Lombardia non ha alcuna ambizione politica. Non ha mai avuto la minima volontà di “comandare”, né Milano di essere “capitale”. Si è sempre messa volentieri sotto il dominio straniero, senza mai la minima ribellione: spagnoli, austriaci, i francesi di Napoleone, oggi la cosiddetta “Europa” stupida e oppressiva, sono sempre stati padroni benvenuti, perché sollevavano i milanesi dal peso di governare. L’unica volta che hanno avuto impulsi “politici”, nel cosiddetto Risorgimento, è stata una moda della sua classe ricca, “patriottica”, anti-absburgica; ma anche lì, solo il tempo di consegnarsi ai piemontesi, questi avidi e arretrati militaristi da quattro soldi, e dare loro le chiavi (e le casse) della città e della regione più ricca d’Italia. La Lombardia è, più che qualunque altro pezzo di terra italiota, una espressione geografica.La sola volta in cui fu capitale, fu nel 286 dopo Cristo, per scelta non propria, ma di Diocleziano: capitale dell’Impero d’Occidente, nientemeno. In quanto capitale, l’impero la ornò di una urbanistica grandiosa, monumentale, bellissima: la Porta Romana entrava in città dopo un percorso di 4 chilometri di porticato ai due lati; c’erano un circo, uno stadio, grandi basiliche, grandi e straordinarie terme. I portici monumentali di Porta Romana a Milano: possiamo solo immaginarli. Non è rimasto nulla di questa grandiosa bellezza. Praticamente, solo le colonne di San Lorenzo e della basilica di Costantino, sacrilegamente attraversata fino a ieri dai tram. Furono i milanesi stessi, ciechi e sordi al richiamo dell’ambizione che quei monumenti evocavano, a distruggerli, divorarli per recuperarne i mattoni e i marmi – in pochi decenni, Milano riprese l’aspetto dimesso, rurale e operaio, che è il suo. La tuta da lavoratore al posto delle vesti di velluto imperiale.La “bruttezza” di Milano moderna, una bruttezza unica fra le città italiane, anche più piccole (pensate a Parma, a Verona, a Padova) è il sintomo di questa sua mancanza di ambizione. Non vuole comandare, non ha classe dirigente: quando si è sforzata, ha dato a Roma Berlusconi e Bossi, l’ultimo un ladruncolo di denaro pubblico per i figli e la famiglia, un vero “terrone”, l’altro un pirla superficiale e irresponsabile che si vanta di essere “imprenditore” invece che statista. E non è nemmeno imprenditore: al più, impresario, capocomico. E il referendum sull’autonomia? Persino i leghisti della base forse non lo voteranno. I milanesi, secondo i sondaggi, in maggioranza schiacciante non andranno a votare, non capiscono di cosa parli. Dormite tranquilli, cialtroni e parassiti.(Maurizio Blondet, estratto dal post “La Catalogna apre la stagione delle secessioni, ma non qui”, pubblicato sul blog di Blondet il 2 ottobre 2017).Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà
Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».
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Ma Di Maio, aspirante paramassone, finirà peggio di Renzi
E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.Non vedo giovani molto promettenti, purtroppo, nelle prime file del M5S. Ho conosciuto persone più interessanti tra i parlamentari e i dirigenti. Ma i vari Di Maio, Di Battista e Fico non mi sembrano dei fulmini di guerra: modesti, sul piano culturale e sulla visione del progetto. Di Maio si agita molto, va spesso a Londra bussando a club massonici e paramassonici, ma è destinato a essere bruciato forse in modo ancora più squallido di quanto non sia accaduto a Matteo Renzi. Questo, naturalmente, se Di Maio rimane quello che è, cioè il narcisistico e inconsistente portavoce di un movimento che non ci ha ancora dato modo di comprendere qual è il suo progetto per il governo dell’Italia. Noi non vogliamo che i nostri rappresentati siano i vari Di Maio, Renzi, Alfano. Questi hanno già dato, e male: noi abbiamo una classe politica che non appassiona più nessuno, la gente che va a votare è sempre meno. C’è bisogno di una nuova formazione politica. Queste persone, al di là dei loro limiti personali, sono anche persone formate male, cresciute male in 25 anni dove s’è persa tutta la sapienza politica accumulata negli anni dal dopoguerra in avanti.C’è bisogno di recuperare l’idea di partiti veri, “pesanti”. C’è bisogno di recuperare il senso in cui il socialismo possa integrarsi col liberalismo. C’è bisogno di capire che ad una ideologia pervicace e occulta come quella neoliberista, che perverte i giochi istituzionali in Europa e nell’intera rete globale, va contrapposta un’altra ideologia, radicalmente democratica, che pretenda che tutti i meccanismi di democrazia siano sostanziali. Il Movimento Roosevelt combatte su questi fronti. Lasciamo agli altri di gingillarsi con le false primarie, con le false investiture di leader che non saranno mai eletti, con questo teatrino che rende gli uni condannati ad un eterno consociativismo (vedi Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Alfano: questi teatranti ormai maleodoranti della politica italiana) e gli altri, cioè il Movimento 5 Stelle, condannato all’opposizione per l’eternità. Peccato che i tempi del XXI Secolo sono rapidi: se uno resta sempre all’opposizione, rischia – più rapidamente che nel passato – di logorare il rapporto con la popolazione, che alla fine non lo vota più.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella diretta “Massoneria On Air” su “Colors Radio” il 25 settembre 2017, annunciando la nascita ufficiale del Pdp, Partito Democratico Progressista. «Auspichiamo – dice – che tutti i cittadini che sono stanchi tanto del centrodestra che del centrosinistra (ma anche del M5S in questa sua versione inconcludente) confluiscano copiosi nella nuova formazione» alla quale sta lavorando Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, impegnato a Roma il 4 novembre per un convengno sulla Costituzione «con proposte rivoluzionarie per migliorarla, non certo nel senso tentato da Renzi») e con l’assemblea costituente del Pdp. Il nuovo soggetto politico aprirà inoltre un cantiere di formazione politica, il Master Roosevelt in Scienze della Polis, e si prepara a celebrare a Milano, nel gennaio 2018, un convegno sull’eminente figura del socialdemocratico svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale all’Onu).E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.
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Omicidi e stragi, la guerra segreta degli inglesi contro l’Italia
“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica. C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Usa hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino ad Aldo Moro, sovranista – cioè, che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico. E per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica e petrolifera dell’Italia. De Gasperi, presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’Agip. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’Agip lui fondò l’Eni, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’Eni, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’Eni, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli.C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle “sette sorelle”. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo; e il padre, ministro degli esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. Poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente.Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddeq, primo ministro, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo, e l’Italia dell’Eni e di De Gasperi violò quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di “dare una lezione” agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran. Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Attraverso la sua politica, Mattei emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento – seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi addirittura emarginando, nel corso degli anni, la presenza britannica.In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – «un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo». E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono che Mattei «è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo». Scrivono: «Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence». Sei mesi dopo, Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio. Aldo Moro? La vicenda Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era ministro degli esteri in diversi governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia, nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di Stato che rovesciò la monarchia filo-britannica e portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio, che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico.E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche. E l’Eni era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia“, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969, il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: «Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana». Quindi invita il suo governo: «Dobbiamo adottare altri metodi». Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: ma perché non chiedete al governo britannico la desecretazione di quella parte del documento, in cui sono spiegati gli “altri metodi” da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di Stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono molto più scettici, e dissero agli inglesi: «Ma voi siete pazzi! Un colpo di Stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, in Italia c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!»Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di Stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: «Visto che non è possibile attuare un colpo di Stato militare classico, per l’opposizione di Germania e Stati Uniti, passiamo al piano-B». Qual era questo piano-B? Purtroppo, anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa “azione sovversiva” naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia; beh, quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la “diversa azione sovversiva” contro Moro?Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle Brigate Rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia… Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro. Allo stato delle nostre ricerche, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro paese sia ancora più forte di prima.(Giovanni Fasanella, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora il 12 novembre 2015 per la video-intervista “I documenti Uk che fanno gelare il sangue, da Enrico Mattei ad Aldo Moro”, pubblicata su “ByoBlu” per presentare il libro “Colonia Italia”, Chiarelettere – 483 pagine, euro 18,90 – che Fasanella ha scritto insieme a Mario José Cereghino. Il possibile ruolo occulto della Gran Bretagna nella “sovragestione” dell’Italia è tornato drammaticamente in primo piano nel febbraio 2016 con l’uccisione al Cairo del giovane Giulio Regeni, ingaggiato in Egitto da una Ong collegata all’università di Cambridge; secondo molte fonti indipendenti, tra cui l’ex inviato di “Panorama” Marco Gregoretti, il lavoro di Regeni sarebbe stato utilizzato dall’Mi6, il controspionaggio inglese. La stessa intelligence britannica, sempre secondo Gregoretti, avrebbe “sacrificato” Regeni, utilizzando killer egiziani, per creare un incidente diplomatico tra Italia ed Egitto in vista di un possibile intervento militare italiano in Libia. E Fulvio Grimaldi, ex giornalista Rai, segnala che l’Italia, tramite l’Eni, ha raggiunto un accordo strategico con l’Egitto per lo sfruttamento di un immenso giacimento di gas, nel Mediterraneo, in acque egiziane, fatto che ha sicuramente irritato e preoccupato gli inglesi).“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.
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Dietro la maschera, la piccola Italia (padronale) di Di Maio
La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.Ma che Di Maio sia un destrorso in proprio lo dimostra già la scelta dei consulenti: un po’ di politologi NeoLib della Luiss, suggeritori del posizionamento ottimale nel bacino del revival destrorso più oscurantista (da qui la scelta avversa allo jus soli e contro le nozze omosessuali; toni insolitamente trucidi in bocca a un perbenino, tipo la definizione di “taxi del mare” per le Ong), soprattutto l’incarico per un paper sul tema del lavoro affidato al sociologo de La Sapienza Mimmo De Masi (pare per la modica cifra di 50mila euro). E De Masi, magari cazzeggiando in un caffè vista mare di Ravello, celebra da una vita l’ozio inteso come il massimo della civiltà post-industriale; alla faccia di torme crescenti di inoccupati e precarizzati, che non sanno come quadrare i conti già dalla seconda settimana del mese. Ma questo approccio tanto piace al giovane Cinquestelle, proprio per le fisime subliminali evocate: il modello latifondistico-fancazzista da baroni meridionali; quelli che si facevano crescere l’unghia del mignolo, come i mandarini confuciani, per esplicitare la loro assoluta estraneità a qualsivoglia attività manuale.Quella manualità su cui si è costruita la cultura operaia, che pone al centro della propria visione del mondo il lavoro come riscatto. Ma che terrorizza i ceti premoderni della rendita e del parassitismo; propugnatori di istanze che hanno alimentato tutte le insorgenze reazionarie del passato, prossimo e remoto. Sempre combattendo il lavoro organizzato. E – quindi – la cultura della modernità. Affidandosi a leader incolti, come il nostro fuori corso arrembante. Che non solo confonde Venezuela con Cile o ignora chi sia un maestro quale Luciano Gallino. Peggio, identifica il reddito di cittadinanza in qualcosa di analogo al New Deal. Per cui un paracadute contro la miseria diventerebbe un improbabile investimento riproduttivo di sviluppo che si auto-alimenta. E quando parla di finanziare le attività economiche non sa distinguere l’impresa innovativa dall’azienducola interstiziale.Quello che conta sono le dimensioni micro, nella permanente avversione verso il lavoro organizzato. Lo spauracchio di padroni e padroncini che accomuna un altro golden boy della nostra politica: il ministro Calenda, il cui curriculum professionale si riduce al ruolo d’assistente alla corte di quell’uomo del fare, quel risanatore d’aziende del Cordero Di Montezemolo. Perché stupirsi se con la fanfaluca ministeriale dell’impresa 4.0, quella che espelle lavoratori investendo in robotizzazione, ci troviamo in presenza di una (modesta) ripresa senza nuova occupazione. Con questi giovanotti da aperitivo spritz h24, presunti rifondatori, il mondo operoso se ne va a ramengo. Per un vecchio liberale gobettiano, che in giovinezza propugnava il progetto “alleanza dei produttori”, il messaggio è oltremodo deprimente.(Pierfranco Pellizzetti, “Di Maio leader, il M5S getta la maschera”, da “Micromega” del 19 settembre 2017).La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.
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Strana morte di Chelazzi: indagava sui mandanti delle stragi
«Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. Poi però ci sono le eccezioni. Una di queste era il magistrato Gabriele Chelazzi: morto d’infarto in una caserma romana della Guarda di Finanza dopo esser stato “lasciato solo”, come da lui stesso scritto, nell’indagine sui mandanti delle stragi del ‘92-93». A parlare è l’ex superpoliziotto Michele Giuttari, a sua volta fermato – ripetutamente, dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, l’uomo del G8 di Genova – di fronte al “secondo round” dell’indagine sul Mostro di Firenze: la caccia ai veri mandanti, all’ombra di Pacciani e dei suoi “compagni di merende”, Vanni e Lotti. «Tutti colpevoli, per carità, ma non da soli: Pacciani, nato e vissuto in estrema povertà, alla fine degli anni ‘90 disponeva di un patrimonio di 900 milioni di lire: da dove provenivano tutti quei soldi?». Questa la molla che allora spinse la Procura di Firenze a sollecitare l’altra indagine, quella “fermata”: col trasferimento di Giuttari all’ufficio stranieri e poi con la sua incriminazione, insieme al pm perugino Mignini (con accuse poi destitute di ogni fondamento, 8 anni dopo). Nel frattempo l’inchiesta era “morta”. Come il giudice Chelazzi che, anni prima, insieme a Giuttari era riuscito – in tempi rapidissimi – ad arrestare gli esecutori e incriminare il gotha di Cosa Nostra per gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Mancavano i mandanti, e se ne stava occupando – ancora – Chelazzi. Trattativa Stato-mafia: chi tocca muore?
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Carpeoro: ma il fascismo nacque da massoneria e Vaticano
Attenti al lupo? Non lasciatevi ingannare: perché se il “lupo” è il fantasma storico del fascismo, a lanciare periodicamente l’allarme sul suo ipotetico, improbabile ritorno sono «faine e donnole», le stesse che quel “lupo” lo fabbricarono, cent’anni fa. Agitarne lo spettro, oggi? E’ comodo: in quel modo, “faine e donnole” «possono continuare indisturbate ad aggirarsi per i pollai». Fuor di merafora: i voraci mustelidi (le faine e le donnole, appunto) altro non sarebbero che la massoneria e il Vaticano, cioè i due veri genitori (occulti) del movimento politico reazionario fondato negli anni ‘20 dall’ex dirigente socialista Benito Mussolini. E’ la ricostruzione che Gianfranco Carpeoro affida al suo prossimo saggio, “Il compasso, il fascio e la mitra”, in uscita tra qualche mese. Retroscena in arrivo, documenti alla mano: furono le dirigenze massoniche e cattoliche a pianificare l’ascesa del fascismo, fino alla sua rimozione dopo il ventennio, per poi continuare – attraverso la sovragestione finanziaria del paese – a reggere i destini economici dell’Italia anche nel dopoguerra, sempre attraverso una tacita spartizione “bipartisan” del potere.«Il fascismo nasce da uno scontro folle, violentissimo e senza esclusione di colpi, tra la massoneria e il Vaticano», dichiara Carpeoro in diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Il fascismo nasce favorito dalla massoneria», ma poi si trasforma: «Da masso-fascismo diventa catto-fascismo», quindi «scarica la massoneria (la mette finanche fuorilegge) e si allea col Vaticano». E alla fine, il movimento fascista «viene tradito, e annullato, da queste due forze: massoneria e Vaticano». Il regista della reintroduzione del Vaticano nel sistema politico italiano? «E’ un signore che ha un nome evocativo: si chiama Gentiloni, è il nonno dell’attuale premier». Dopo la presa di Roma del 1870, ricorda il “Giornale”, Pio IX aveva decretato, con il “non expedit”, che i credenti italiani non partecipassero più alla politica. Decisione confermata dal successore, Leone XIII. Ma Pio X, pontefice dal 1903, aveva capito che il blocco non era ulteriormente sostenibile: «C’era da affrontare il “pericolo rosso”, ovvero i socialisti, e quindi occorreva accordarsi con i liberali, rappresentati dal capo del governo Giovanni Giolitti».Lo stesso Giolitti, continua il “Giornale”, aveva fatto una mossa da grande giocatore introducendo il suffragio universale maschile, per cui alle elezioni del 1913 gli aventi diritto al voto sarebbero passati da 3 a 8 milioni. «Lo Stato liberale rischiava grosso, ma anche la Chiesa: se il Papa avesse confermato il “non expedit”, il Parlamento poteva cadere in mano ai socialisti; per evitarlo, i cattolici avrebbero dovuto appoggiare i liberali. Quella di Giolitti fu una strategia vincente, però lo Stato laico finiva per ammettere implicitamente, dopo quasi mezzo secolo, che non era possibile governare l’Italia senza la Chiesa». Il tramite dell’accordo, raggiunto nel 1912, fu il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, dirigente dell’Azione Cattolica. Obiettivo del Vaticano: mobilitare gli elettori cattolici per «opporsi a ogni proposta di legge contro le istituzioni religiose», ma anche tutelare le scuole cattoliche, battersi per l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, respingere qualsiasi legge divorzista. «Il “non expedit” venne tolto, e il patto venne applicato in 330 collegi su 508, tutti quelli dove c’era il pericolo che vincessero i socialisti».Quel patto, aggiunge il “Giornale”, doveva rimanere segreto. «Ma Gentiloni – che ci teneva a entrare nella storia, e infatti ci è entrato – rivelò sia le clausole sia il nome dei candidati che vi avevano aderito. Si scoprì così che molti erano massoni, ovvero nemici mortali della Chiesa, almeno in teoria». Nemici giurati, ma pronti a mettersi d’accordo per spartirsi il potere, sostiene Carpeoro, in un mondo dove – dietro le apparenze – si bada al sodo, e l’alleato di oggi può diventare l’avversario di domani. «I massoni, che favoriscono il fascismo – dichiara Carpeoro – sono gli stessi che poi lo vanno ad appendere a testa in giù, Mussolini». Pochi sanno che quando il Duce fu appeso a testa in giù, a piazzale Loreto, «c’era un’intera loggia del Grande Oriente d’Italia». Una loggia presente al gran completo, che pronunciò anche delle parole rituali, in quella macabra circostanza: «Non vi scordate che l’Appeso, nei tarocchi, è la carta derivante dal capovolgimento dell’Imperatore», sottolina Carpeoro, di cui pochi mesi fa è uscito in libreria il primo volume del saggio “Summa Symbolica”. Un libro edito da L’Età dell’Aquario, che rivela l’alfabeto – spesso arcano – dei simboli che ci circondano.“Faine e donnole, massoneria e Vaticano, fascismo e poi antifascismo: «Sotto questo profilo – continua Carpeoro – ci sono dei termini di continuità, perché poi anche la Repubblica nasce all’insegna di un patto, sia pure abbastanza belligerante, tra massoneria e Vaticano». Risvolti di una storia che vive di chiaroscuri: «La massoneria imparerà a infiltrarsi nel Vaticano e il Vaticano imparerà a infiltrarsi nella massoneria, però poi in realtà il sistema economico verrà garantito da Mediobanca, che è l’istituzione finanziaria massonica, e dalle istituzioni finanziarie vaticane, principalmente dalle cosiddette banche cattoliche, che poi confluiranno, in termini di collegamento, nel sistema Ior». Quindi, conclude lo studioso, c’è poco da fidarsi del ricorrente monito sul possibile ritorno del fascismo: «Fa parte del sistema di equilibrio-squilibrio tra i due veri sistemi organizzati», cioè la massoneria e il Vaticano. Sono loro il potere, quello autentico: e se ogni tanto riesumano lo spettro del fascismo, gridando “attenti al lupo”, è per poter continuare, «in quanto faine e donnole», ad «aggirarsi indisturbate per i pollai».Attenti al lupo? Non lasciatevi ingannare: perché se il “lupo” è il fantasma storico del fascismo, a lanciare periodicamente l’allarme sul suo ipotetico, improbabile ritorno sono «faine e donnole», le stesse che quel “lupo” lo fabbricarono, cent’anni fa. Agitarne lo spettro, oggi? E’ comodo: in quel modo, “faine e donnole” «possono continuare indisturbate ad aggirarsi per i pollai». Fuor di merafora: i voraci mustelidi (le faine e le donnole, appunto) altro non sarebbero che la massoneria e il Vaticano, cioè i due veri genitori (occulti) del movimento politico reazionario fondato negli anni ‘20 dall’ex dirigente socialista Benito Mussolini. E’ la ricostruzione che Gianfranco Carpeoro affida al suo prossimo saggio, “Il compasso, il fascio e la mitra”, in uscita tra qualche mese. Retroscena in arrivo, documenti alla mano: furono le dirigenze massoniche e cattoliche a pianificare l’ascesa del fascismo, fino alla sua rimozione dopo il ventennio, per poi continuare – attraverso la sovragestione finanziaria del paese – a reggere i destini economici dell’Italia anche nel dopoguerra, sempre attraverso una tacita spartizione “bipartisan” del potere.
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Giuttari: morto Chelazzi, silenzio sui mandanti delle stragi
Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.Lui è stato il primo: magistrato serio. Ebbene, è morto. E quell’indagine sui possibili mandanti delle stragi dei mafia? S’è sentito più niente? Niente, come sui possibili mandanti dei delitti fiorentini (del “Mostro”). Non si sa più nulla. Grandissimo magistrato, Chelazzi. Purtroppo i migliori se ne vanno – nei momenti meno opportuni, peraltro. E’ vero che nessuno è indispensabile, ma ci sono anche le eccezioni: alcuni sono davvero indispensabili. Gabriele, per questa vicenda delle stragi di mafia, era insostituibile: hanno continuato, due suoi colleghi, ma non s’è risolto nulla. Era insostibuibile – per la conoscenza che ormai aveva acquisito, per la sua capacità, la sua professionalità. E quindi ci sono, le eccezioni. Mi piacere ricordarlo, questo magistrato, di cui l’opinione pubblica non sa nulla. Perché ha sempre lavorato in sordina, ha saputo fare il suo dovere. E con lui instaurai un bellissimo rapporto, perché fui mandato alla Dia di Firenze (dalla Dia di Napoli) proprio per collaborare all’inchiesta sulla strage di via dei Georgofili. Indagavano la Digos e i carabinieri, però la Dia – organismo antimafia – non aveva delega. Allora, arrivato a Firenze, mi metto a esaminare gli atti, compresi quelli della Dia di Roma per la cattura di latitanti di Cosa Nostra in Versilia, e trovo un elemento che mi incuriosisce: un contatto telefonico 24 ore prima dell’attentato, a Firenze, tra l’allora sconosciuto Gaspare Spatuzza e il titolare di una ditta palermitana di trasporti.Io arrivo a Firenze, alla Dia, il 5 dicembre ‘93, quindi sei mesi dopo l’attentato di via dei Georgofili. La mia attività di analisi si protrae fino al 28 febbraio, quando porto la mia nota al pm Gabriele Chelazzi, che conosco in quella circostanza. Mi presento con l’esito dell’attività svolta e, nello stesso tempo, con delle proposte investigative – perché io ho sempre inteso in un certo modo l’operato dell’investigatore: non deve appiattirsi sulle posizioni del pubblico ministero, aspettando le deleghe, ma deve essere anche propositivo, creativo, e deve manifestare le proprie idee. Per me, l’ufficiale della polizia giudiziaria – della polizia, dei carabinieri – deve essere il centro motore della vera indagine. Così a Chelazzi ho portato anche proposte investigative, chiedendo delle deleghe. Bene, ho ancora presente questo magistrato: mentre legge la mia nota, annuisce. Alla fine mi dice: «Ipotesi interessante, però noi stiamo seguendo un’altra pista, con la Digos. Le farò sapere, ne devo parlare con Vigna», che era il suo capo. Mi chiama dopo neppure 48 ore e mi dà le deleghe, poi io ne chiedo altre e, insomma, il lavoro di sviluppa. Per farla breve: con questa pista, abbiamo identificato 28 mafiosi, poi risultati colpevoli di tutti i quattro attentati del ‘92-93 a Firenze, Milano e Roma – tra cui Bagarella, Riina, i fraelli Graviano.Da un dettaglio che già c’era, negli atti, ma non era stato letto nella maniera giusta, si è riusciti a individuare i covi di questi latitanti, cioè i luoghi dove avevano preparato le autombombe poi fatte esplodere – due alloggi a Roma e una villetta a Fiano Romano: covi in cui quei latitanti palermitani avevano preparato gli ordigni, dopo aver portato l’esplosivo a Roma. E mi ricordo che, in queste perquisizioni, venne anche Chelazzi. Guardate che un pm, in una perquizione, non lo vedete mai. Chelazzi è venuto, e ha fatto intervenire la scientifica con un’apparecchiatura, l’Egis, per il rilevamento di tracce di esplosivo. E in tutti quei posti, infatti, abbiamo trovato tracce di contaminazione dello stesso esplosivo utilizzato negli attentati: ecco il risultato scientifico che a va a coniugarsi con i risultati delle indagini classiche, tradizionali. Questa è la vera attività investigativa – oggi invece si parte dalla scienza, per trovare il Dna, ma non si arriva mai a una certezza sul colpevole. Ecco, quel magistrato è venuto addirittura a coordinare l’attività di perquisizione sul posto – figura rara.Sempre indagando sui covi, abbiamo trovato anche la villa di Forte dei Marmi (presa in affitto per tre mesi, nel ‘93, da un prestanome dei fratelli Graviano, per 25 milioni di lire, in contanti) dove qui mafiosi avevano trascorso parte della latitanza, insieme a un altro grosso personaggio, oggi indicato come l’imprendibile primula rossa e nuovo capo di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro. Fu un’attività di investigazione “pura”, tradizionale, senza il contributo di pentiti – i pentiti sono intervenuti dopo la loro cattura, a dare conferme e ad ampliare l’orizzonte investigativo, però sono tutti frutti dell’investigazione “pura” (così l’ho definita, in un libro scritto per l’Università di Pisa). E la pista che stava seguendo la Digos di Firenze prima che intervenissi io, come funzionario Dia (tre giovani parlemitani, riconducibili a un’area mafiosa, che avevano dormito in un albergo di via Scala la notte dell’attentato) non era una pista fondata. E allora mi chiedo: se avessero continuato su quella pista, magari avremmo avuto una condanna in primo grado e un’assoluzione in appello, senza una vera certezza giurisprudenziale. Certezza che invece abbiamo avuto con la condanna definitiva dei 28 mafiosi, in appena quattro anni. E’ stata l’unica volta che, in Italia, sono stati scoperti i colpevoli delle stragi. In genere, delle stragi non si sa mai nulla di preciso? Di queste sappiamo, invece. Non sappiamo se ci sono stati possibili mandanti esterni. Forse l’avremmo saputo se Gabriele Chelazzi avesse avuto la possibilità di proseguire nel suo cammino investigativo.(Michele Giuttari, dichirazioni rilasciate nell’ambito dell’incontro pubblico “Il Salotto d’Europa” a Pontremoli il 12 agosto 2015, in occasione della presentazione della sua autobiografia “Confesso che ho indagato”. Poliziotto di razza, formatosi alla Direzione Investigativa Antimafia, Giuttari è noto per il successo nelle indagini sulle stragi del ‘92-93 e per quelle sul Mostro di Firenze, concluse con la condanna di Pacciani, Lotti e Vanni; ulteriori indagini sui possibili mandanti occulti dei “compagni di merende” furono ostacolate dall’allora capo della polizia, Gianni De Gennaro, che ordinò il trasferimento di Giuttari, e dall’allora procuratore capo Nannucci, che inquisì Giuttari insieme al pm perugino Mignini, poi prosciolti entrambi da ogni accusa – ma dopo 8 anni, nei quali nel frattempo l’inchiesta era “defunta”. Giuttari, lasciata la polizia, è divenuto un autore “cult” di romanzi “noir” tradotti in tutto il mondo, come “Scarabeo”, “La loggia degli innocenti” e “Il basilisco”, accanto a memoir come “Il Mostro, anatomia di un’indagine”).Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.