Archivio del Tag ‘Milano’
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Amazon, Ikea, Fca: miliardari grazie al sangue degli schiavi
Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.Il padrone e fondatore di Ikea si chiama Ingvar Kartman, in gioventù è stato nazista, ora ha superato i novant’anni e ha lasciato la gestione del gruppo ai figli. Assieme sono una delle famiglie più ricche del mondo, che ha abbandonato la Svezia per pagare meno tasse in Svizzera. Anche Ikea fa pubblicità simpatiche e progressiste, a favore di tutti i tipi di famiglie. Le sue dipendenti però la famiglia fanno fatica anche a vederla. Una madre di due figli, uno dei quali disabile, è stata licenziata a Milano perché non poteva far fronte a un cambio di turni che le rendeva impossibile occuparsi dei suoi figli. Questo atto feroce non è un caso isolato, ci ha pensato la stessa azienda a chiarire che esso è parte di un sistema organico di vessazione del lavoro. Infatti neanche una settimana dopo, a Bari, Ikea ha licenziato un dipendente per un ritardo di 5 minuti. E altri soprusi simili stanno finalmente venendo alla luce.John Elkann è l’ultimo padrone della Fiat, ora Fca, erede e socio della grande e numerosa famiglia miliardaria, anch’essa indisponibile a pagare le tasse nel suo paese. La gestione concreta del gruppo come si sa è affidata a Marchionne, che ha aumentato enormemente i guadagni suoi e i profitti della famiglia. Nel 2019 l’amministratore delegato se ne andrà, ma la famiglia Agnelli continuerà ad accumulare miliardi. Lo ha sempre fatto, anche quando la Fiat non vendeva un’auto. I profitti di famiglia sono sempre stati la sola rigidità dell’impresa, tutto il resto è sempre stato flessibile, il lavoro prima di tutto. Oggi poi la flessibilità è in tempo reale. Così alla fine di ottobre la Fca di Cassino ha lasciato a casa 530 operai assunti a termine, con un semplice Sms. Perché sprecare un colloquio, una parola per delle merci sostituibili in qualsiasi momento? Questo sono e così vengono trattati i lavoratori di Fca. Questi supermiliardari sono vezzeggiati e incensati dai mass media e dagli intellettuali di regime. La politica si prostra i loro piedi. Così Bezos e compagnia controllano il mondo e le nostre vite. Sono straricchi perché in tanti sono poveri e sfruttati.(Giorgio Cremaschi, “Bezos, Kartaman e Elkann: miliardari e schiavisti”, da “L’Antidipomatico” del 30 novembre 2017).Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.
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L’agenda politica dei nostri nemici: commissariare l’Italia
«C’è una campagna in atto che prelude a un commissariamento dell’Italia nei prossimi mesi. Da qui la necessità di preparare l’opinione pubblica alla svolta che ci attende: un commissariamento del paese per via finanziaria». Lo afferma Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’università Cattolica di Milano. Esplicito l’editoriale di Antonio Polito il 23 novembre sul “Corriere della Sera”: è un vero e proprio manifesto di rinuncia a quel poco che resta della nostra sovranità, sottolinea Federico Ferraù, che ha intervistato il professor Mangia per “Il Sussidiario”. «A che serve votare, se la politica è quella che vediamo? Forse è meglio rinunciarvi, e farsi governare da altri». Un articolo importante, soprattutto per cvia della testata che lo ospita. Perché votare? «Dovremmo piuttosto chiederci perché oggi si può dire ormai apertamente che votare non serve», replica Mangia. «Che senso ha esercitare un diritto, se questo esercizio non produce nessuna scelta reale?». Si inceppa perfino la democrazia tedesca, nota il “Corriere”, quella che noi avremmo dovuto imitare. E poi la Brexit, la Catalogna, l’Italia dove le urne non daranno una maggioranza. Un panorama desolante, per tutte le democrazie europee: «L’elettore esprime il suo voto scegliendo all’interno di una pluralità di liste, ma i programmi politici che possono essere realizzati da queste liste sono praticamente identici».Giova ricordare perché, aggiunge il giurista: tutti i partiti «sono condizionati da un’agenda politica comune alla quale non si può sfuggire», quella «scritta nei Trattati europei». Ormai si parla, senza più imbarazzo, di “emigrazione della sovranità” verso “consessi internazionali” che, per loro natura, “non possono decidere democraticamente”. Parlare di emigrazione della sovranità è sbagliato, protesta il professor Mangia: «E’ da un pezzo che nelle dichiarazioni dei nostri politici, da Napolitano in giù, si continua a ripetere che l’Italia per risolvere i suoi problemi deve cedere sovranità. E magari non sappiamo nemmeno di che cosa stiamo parlando. Convincere le persone che la sovranità va ceduta – dichiara il giurista dell’ateneo milanese – significa convincerle a rinunciare alle proprie libertà politiche». Eppure, la legge dice solo che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia”. Limitare l’esercizio di un diritto non significa cederlo: «Semplicemente, se cedo un diritto quel diritto non è più mio, ma di un altro. Non credo ci voglia una laurea in giurisprudenza per capire questa cosa».Purtroppo, però, l’Ue scavalca la politica: «Tutte le scelte politiche sono già cristallizzate nei Trattati e al massimo si tratta di vedere come queste scelte politiche di fondo possano essere attuate, con quali tempi e con quali meccanismi». A questo si limitano il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea. Sul “Corriere”, Polito rilancia l’allarme populismo? «Populismo rinvia, per opposizione, alla nozione di élite: e populista è il modo in cui le élites qualificano chi contesta il loro ruolo. Se qualcuno, disgraziatamente per lui, mette in dubbio l’utilità o la legittimità di un sistema nettamente oligarchico come quello che si è andato realizzando in Europa, è pronta l’etichetta che lo squalifica». Per Alessandro Mangia, «stiamo assistendo al ritorno degli argomenti cari alla vecchia politica antiparlamentare che l’Italia ha conosciuto negli anni Venti, e che dall’Italia sono transitati in Germania prima del ‘33. Con l’aggiunta al vecchio antiparlamentarismo della teoria nata negli anni Settanta del sovraccarico democratico: troppa democrazia fa male a se stessa e alla “governabilità”.Gli argomenti sono sempre gli stessi: l’inefficienza della classe politica, la sua corruzione, l’incapacità di prendere decisioni». Stiamo già facendo i nostri “compiti”, ma non abbastanza: l’Italia – ha detto Napolitano – dovrebbe dar retta a Draghi su ordine fiscale e debito. «Ecco l’agenda politica. E ogni agenda politica ha bisogno di un sostegno mediatico». Aggiunge il professore: «Il martellamento continuo sulla necessaria cessione di sovranità e sulla democrazia immatura, troppo incline al populismo e la squalificazione della politica e del Parlamento, preludono a un nuovo commissariamento finanziario del paese da parte dell’Ue. L’insistenza sul debito italiano, la pressione sul sistema bancario e sui problemi di ricapitalizzazione, alla fine generano l’idea che questa soluzione sia naturale e inevitabile». Come si attua una soluzione del genere? «Si rifinanzia il bilancio pubblico o il sistema bancario del paese in difficoltà in cambio di politiche interne imperniate su “strette condizionalità”, se si vuole essere precisi e usare il linguaggio dei Trattati. Beninteso, a fronte di una ulteriore “cessione” di sovranità a chi presta i soldi. E che sta a Bruxelles, a Berlino o altrove».Se si sbriciola lo Stato di diritto, si svuota anche la democrazia: «Io mi domando, e spero di non essere il solo, perché mai un’Italia governata dall’esterno secondo le logiche del diritto fallimentare dovrebbe essere meglio di un’Italia governata dagli italiani attraverso il voto. E, sinceramente, non so darmi una risposta». Da una parte i tecnocrati europei, che nessuno ha eletto, e dall’altra i loro “contoterzisti” nostrani, il mainstream politico e mediatico. «Quello che vedo avvicinarsi – avverte Alessandro Mangia – è un periodo di turbolenze e di operazioni simili a quelle che abbiamo sperimentato tra il 1991 e il ‘93, stavolta però condotte secondo le logiche della Rule of law e del diritto fallimentare applicato agli Stati». Aggiunge il giurista: «Faccio fatica a credere che campagne di delegittimazione della politica e inviti più o meno velati all’astensione, sulla base dell’argomento “in fondo a cosa serve votare?”, siano fini a se stessi». C’è chi spera, dunque, il un vasto astensionismo. Per contro, nessuno dei raggruppamenti politici in lizza minaccia minimanente di intattare lo strapotere assoluto del dogma neoliberista del rigore di bilancio.«C’è una campagna in atto che prelude a un commissariamento dell’Italia nei prossimi mesi. Da qui la necessità di preparare l’opinione pubblica alla svolta che ci attende: un commissariamento del paese per via finanziaria». Lo afferma Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’università Cattolica di Milano. Esplicito l’editoriale di Antonio Polito il 23 novembre sul “Corriere della Sera”: è un vero e proprio manifesto di rinuncia a quel poco che resta della nostra sovranità, sottolinea Federico Ferraù, che ha intervistato il professor Mangia per “Il Sussidiario”. «A che serve votare, se la politica è quella che vediamo? Forse è meglio rinunciarvi, e farsi governare da altri». Un articolo importante, soprattutto per via della testata che lo ospita. Perché votare? «Dovremmo piuttosto chiederci perché oggi si può dire ormai apertamente che votare non serve», replica Mangia. «Che senso ha esercitare un diritto, se questo esercizio non produce nessuna scelta reale?». Si inceppa perfino la democrazia tedesca, nota il “Corriere”, quella che noi avremmo dovuto imitare. E poi la Brexit, la Catalogna, l’Italia dove le urne non daranno una maggioranza. Un panorama desolante, per tutte le democrazie europee: «L’elettore esprime il suo voto scegliendo all’interno di una pluralità di liste, ma i programmi politici che possono essere realizzati da queste liste sono praticamente identici».
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Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue
Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?(Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.
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Satanismo e potere, da Charles Manson a Michael Jackson
Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.Dall’infernale notte dell’estate ‘69, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”, i media si sono impegnati in tutti i modi per trovare una valida motivazione a quella strage apparentemente insensata. Il meglio che sono riusciti a partorire? «E’ l’ipotesi che Manson volesse vendicarsi contro il proprietario della villa – il produttore discografico Terry Melcher – perché non aveva voluto pubblicare le sue canzoni (Manson era anche cantautore)». Potrebbe non essere affatto una falsa pista, sostiene Carpeoro ai microfoni di “Border Nights”, perché Manson voleva davvero diventare una rockstar e si era messo in contatto con Spector, che è attualmente in carcere per omicidio. Non solo: in tempi recenti, dalla prigione, Manson ha chiesto formalmente di incontrare Spector, che si è rifiutato di vederlo. In tanti anni – dice Carpeoro – pur professandosi innocente, Manson non ha mai osato raccontare quello che probabilmente sapeva, di quella notte maledetta: di cosa aveva paura? E perché tanta insistenza nel voler a tutti i costi incontrare Phil Spector, in carcere? Forse, ipotizza Carpeoro, Charles Manson era convinto che Spector custodisse un segreto indicibile, su quella notte che gli era costata l’ergastolo. Cos’era avvenuto, davvero, in quella villa di Bel Air a Los Angeles, al numero 10050 di Cielo Drive?Per l’avvocato Paolo Franceschetti, il caso Manson è la fotocopia di quello italiano delle “Bestie di Satana”. Stesso copione: assassini improbabili e indagini superficiali, nessun movente, niente prove (solo alcune confessioni) e niente armi del delitto. «La strage americana, eseguita con la micidiale competenza di un commando di killer, sarebbe stata commessa da un pugno di giovanissime, scalze e sbandate, strafatte di droga: l’accusa è fondata su indizi di cartapesta». Autore di analisi sui maggiori gialli irrisoliti della cronaca italiana come gli “omicidi rituali” (uno su tutti, il caso del Mostro di Firenze), Franceschetti inquadra gli indizi di una possibile pista esoterica: «Nessuno degli inquirenti nota alcuni particolari curiosi che, a tacer d’altro, avrebbero perlomeno dovuto insospettire». Roman Polanski, per esempio: «Al momento del delitto non era in casa, ma in Europa a promuovere il suo film appena terminato: “Rosemary’s Baby”. Il film parla di una donna che mette al mondo un bambino per consacrarlo a Satana (nel finale infatti la donna partorisce), e nel cast figura in veste di consulente nientemeno che il fondatore e leader della Chiesa di Satana, Anton La Vey, l’autore del libro “La Bibbia di Satana”. Il film era quindi qualcosa di più di un semplice film di fantasia». Nessuno, continua Franceschetti, notò che una delle vittime attribuite alla Manson Family si chiamava proprio Rosemary. Si tratta di Rosemary LaBianca, uccisa con 41 coltellate l’indomani, 11 agosto, a due passi dal luogo del primo eccidio.«Nonostante questa strana, troppo strana coincidenza, nessuno ipotizza neanche lontanamente un collegamento tra la promozione del film e le due stragi». E’ Carpeoro ad aggiungere un dettaglio fondamentale: «Fu proprio Phil Spector, il produttore dei Beatles, a organizzare il viaggio di Polanski in Europa per promuovere il film». Evidentemente, i due erano in strettissimo contatto. Quanto alla strage di Bel Air, Franceschetti ne esamina la simbologia: «Il delitto avviene infatti a Cielo Drive, ad opera di Manson (man-son, figlio dell’uomo, Cristo). In Cielo, quindi, Cristo uccide la Rosa» (per Franceschetti, l’allusione al fiore potrebbe essere una “firma”: la Rosa Rossa sarebbe un’associazione segreta, dedita agli omicidi rituali). «Manson, il Figlio dell’Uomo, vive nella Death Valley, la valle della morte. Vive cioè nel deserto, ed è senza fissa dimora proprio come – guarda tu che coincidenza – il Cristo dei Vangeli: Matteo 8, 20: “Le volpi hanno una tana, e gli uccelli hanno un nido, ma il figlio dell’uomo non ha un posto dove riposare”. Manco a dirlo, il primo poliziotto ad accorrere sul luogo del delitto si chiama Jerry De Rosa». Il corpo di Sharon Tate viene ritrovato legato a quello del suo giovane amante: «I sospetti sarebbero dovuti ricadere su Polanski, che alcuni considerano tutt’oggi uno dei mandanti della strage, ma nessun investigatore batte questa pista».Da ultimo, annota Franceschetti, c’è da segnalare che anche il nome della vittima più importante sembra non essere affatto casuale. Sharon, infatti, richiama il versetto biblico del Cantico dei Cantici: “Io sono la Rosa di Sharon, il Giglio delle Valli”, da cui è tratta la simbologia rosacrociana della rosa e del giglio. «In altre parole, una rappresentazione: in Cielo (Cielo Drive), il Figlio dell’Uomo (Manson), proveniente dalla Death Valley (Valle della Morte), uccide la Rosa». Se Franceschetti batte in solitaria la pista esoterica, quella del “sacrificio rituale” inscenato da poteri occulti, i giornali si affacciarono anche sull’ipotesi della vendetta, maturata nell’ambiente musicale: a ordinare la strage era stato Charles Manson, scrive la “Stampa”, solo perché le vittime «abitavano nella casa di un produttore discografico che aveva rifiutato di incidere le sue sconclusionate canzoni». Non è esatto, sostiene Carpeoro: è invece possibile che “qualcuno” abbia chiesto a Manson di mandare i suoi “ragazzi”, quella notte, in quella villa, dove la strage era già stata commessa da altri. Obiettivo: incastrare quei giovani, con le impronte digitali, per depistare le indagini? E magari ottenere in cambio, da Spector, l’agognata produzione del disco che Manson sognava?Per suffragare il suo ragionamento, Carpeoro rivela che Spector è stato un satanista: il testo della sua hit di maggior successo, “You’ve lost that lovin’ feeling” (cantata dai Righteous Brothers nel 1965) se ascoltato al contrario riproduce, pari pari, un antico rituale satanico. Di più: «La trrama del film “Rosemary’s Baby” è la storia, vera, della vita di Spector, che Polanski non avrebbe mai dovuto raccontare». Secondo Carpeoro era proprio Spector il bambino “consacrato al diavolo” da genitori satanisti: Sharon Tate sarebbe stata trucidata proprio per punire Polanski. Uccisa da chi? Non dai “fricchettoni” della Manson Family, ovviamente. «Il satanismo è un pericolo concreto», sostiene Carpeoro: «Arruola persone disposte a credere in qualcosa che non in esiste, ma che – in nome di quella cosa – possono anche uccidere». Attenzione: «E’ una delle manipolazioni di cui il potere si è spesso servito». Di cosa aveva paura, all’epoca, il potere? I Beatles, ad esempio – e Lennon in particolare – incarnavano il sentimento giovanile, anche politico, della rivolta contro il sistema. «Fu Spector a introdurre i Beatles all’Lsd», dichiara Carpeoro, «e la sua presenza finì col mettere i Beatles uno contro l’altro».Spector si fece avanti reclamando i diritti di molte canzonui dei Bealtes, che però gli furono negati: il produttiore litigò aspramente con John Lennon. Sciolti i Beatles, Lennon venne assassinato l’8 dicembre 1980 da un giovane fan, Mark David Chapman: una volta arresto, disse che aveva “obbedito alla voce del diavolo”. I diritti dei Beatles, continua Carpeoro, fuorono poi acquisiti da Michael Jackson, anche lui subito “assediato” da Spector perché gli cedesse i diritti dei “Fab Four”. Jackson fu poi ucciso da un’iniezione risultata letale, praticatagli dal dottor Conrad Murray. «Chi aveva presentato quel medico a Michael Jackson? Sempre lui, Phil Spector», aggiunge Carpeoro. E l’ombra dei Beatles – o meglio, della manipolazione che li riguarda – si allunga direttamente su Charles Manson. Ricorda Franceschetti, nella sua ricostruzione: «Secondo il procuratore Vincent Bugliosi, Manson voleva scatenare una rivolta dei neri contro i bianchi, e quella strage doveva dare il buon esempio, innescando la miccia di una rivolta globale. L’idea gli era stata suggerita da una canzone dei Beatles, “Helter Skelter”, e per questo motivo tale movente verrà anche, dai media ufficiali, individuato sinteticamente come “l’Helter Skelter”».Satanismo e rock, potere e politica? Una teoria «complicata, ma decisamente plausibile e sensata, vista specialmente l’epoca storica in cui si colloca», scrive Mazzucco. L’ipotesi è che Manson «fosse un prodotto di laboratorio della Cia, un “controllato mentale” del programma Mk-Ultra, che sarebbe stato utilizzato per gettare discredito sull’intera comunità hippie dell’epoca, e quindi per estensione sulla pericolosissima e rivoluzionaria filosofia dei “figli dei fiori”». Era l’estate del ‘69, l’anno di Woodstock, e i cosiddetti “figli dei fiori” «si stavano facendo conoscere a livello internazionale con una rivoluzione dei valori talmente radicale che certamente non poteva essere tollerata molto più a lungo dai membri dell’establishment politico di quell’epoca». Solo pochi mesi prima, infatti, era diventato presidente il conservatore Nixon. «Sarà un caso, ma i delitti Manson segnano proprio, nella storia, la fine della percezione positiva e pacifista del movimento hippie, e l’inizio di una connotazione negativa, caratterizzata dai valori antisociali professati dalla setta di Manson, che non avrebbe più abbandonato il movimento fino alla fine dei suoi giorni».In proposito, il procuratore Bugliosi (che fece condannare Manson e i suoi seguaci) ha scritto: «Il mantra di quell’epoca era pace, amore e condivisione. Prima del caso Manson la gente non aveva mai identificato gli hippie con la violenza. Poi arrivarono i membri della famiglia Manson, che avevano un’aria da hippie, ma erano criminali omicidi. E’ questo provocò uno shock in America. Come era possibile questo?». E ancora: «I delitti di Manson suonarono la campana a morto per gli hippie e per tutto quello che rappresentavano. Fu la fine di un’era. Gli anni ‘60, il decennio dell’amore, si consclusero quella notte del 9 agosto 1969». Che dite, chiosa Mazzucco: sarà stata solo una coincidenza? I presunti omicidi dell’Helter Skelter «da quella villa uscirono scalzi, per poi allontanarsi in autostop», ricorda Franceschetti. Satanismo e potere, avverte Carpeoro, possono coincidere: il primo viene usato dal secondo come copertura, come arma di distruzione. Finiti i Bealtes, eroi della rivoluzione giovanile di quegli anni. Assassinato John Lennon. Ucciso Michael Jackson, travolto da scandali (tutti inventati) dopo aver pubblicato il brano ribellista “They don’t care about us” (non gliene importa niente, di noi). E poi, ci sono quei due detenuti che non parlano: Manson che tace sulla notte della strage, Spector che si rifiuta di incontrarlo. Se qualcuno aveva paura che Manson parlasse, può rilassarsi: il caso è chiuso, Manson non parlerà più. Nemmeno con Spector.Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.
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Giannuli: serve un partito, la Mossa del Cavallo rischia l’1%
«Le prossime elezioni politiche si svolgeranno in un contesto che non ha precedenti rispetto agli ultimi 70 anni. La deriva del paese è tale da poter affermare che l’Italia è ormai allo sfascio. Ecco perché occorre una “Mossa del Cavallo”». All’appello di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa per una “Lista del Popolo” da mettere in campo alle prossime elezioni, per fermare il collasso del paese di fronte alla “caduta libera” dei tre blocchi in apparenza contrapposti – centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle – il politologo Aldo Giannuli frena: bene l’idea di mobilitare forze democratiche, ma è meglio evitare di candidarsi nel 2018. «Non saremo mai un partito», assicurano Ingroia e Chiesa? Male, replica Giannuli: è proprio di un partito che ci sarebbe bisogno, organizzato in modo trasparente e democratico, evitando il rischio dell’ennesima Armata Brancaleone pronta a sciogliersi e frantumarsi già all’indomani del voto, magari dopo aver racimolato un bottino elettorale irrisorio. Giannuli, saggista e storico dell’ateneo milanese, apprezza l’impegno di partenza: tenere aggregati i movimenti che lavorarono per il “no” al referendum del 4 dicembre scorso sulla Costituzione. «Mi sembra condivisibile l’idea di una fondazione dal basso del movimento mobilitando la base che fu determinante per la vittoria del “no”», scrive, sul suo blog. Ma aggiunge: «Questa scelta di lista “last minute” mi sembra per più versi discutibile».
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Italia sconfitta: non solo calcio, è il paese a non vincere più
«Personalmente vedo l’uscita dell’Italia dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.Stesso discorso per i mondiali pre-bellici, continua Dolcino, in cui «la crescita innescata dalle conquiste fasciste – prima di fare la follia di seguire Hitler – aveva dato nuova linfa alla speranza italica». La stessa “ratio” vale anche per il mondiale del 2006, quando l’Italia «era il darling europeo degli anglosassoni, con la proficua guerra in Iraq, mentre Germania e Francia arrancavano nel Vecchio Continente, incazzate con gli italiani troppo filo-Usa». Tutto sommato «anche per Italia ’90 si poteva vincere», visto che «l’economia italiana pre-Tangentopoli tirava alla grande». Dolcino ricorda anche «i trionfi sportivi del venerato Moro di Venezia figlio di Montedison, azienda poi svenduta ai francesi per via di una tangente pagata alla magistratura milanese». Agli sfortunati mondiali Usa 2000 «si poteva vincere sulle ali dell’illusione speranzosa – mal riposta – della scellerata entrata nell’euro». Oggi, invece, «l’Italia è letteralmente annichilita dallo schema che la Germania ha imposto attraverso l’euro, un piano per affossare il più grande alleato Usa non-anglosassone in Europa».Peggio: «L’Italia è prossima al fallimento economico». Nei piani franco-tedeschi «il prossimo anno arriverà la Troika per disporre degli asset nazionali più preziosi, in presenza di una classe politica nazionale non-eletta che, da 4 governi, fa gli interessi stranieri e non quelli italiani». Non poteva conoscere il risultato di Italia-Svezia, Dolcino, quando scriveva: «Pensate davvero che possa vincere i mondiali un paese al collasso, prossimo al fallimento, con l’Inps che deve attingere per oltre 100 miliardi di euro annui ai bilanci statali per non fallire?». Pensate davvero che possa farcela, un paese «con crescita del Pil nulla o quasi, con centinaia di migliaia di disperati che arrivano sulle coste», quelli che per la sinistra «saranno il futuro»? Questo è un paese «con le tasse più alte d’Europa per le imprese». In altre parole: così, non si va da nessuna parte (nemmeno ai mondiali di calcio, infatti). Il parallelo con il pallone è suggestivo e impietoso: «Il Milan del Cavaliere vinceva perchè l’economia tirava, perchè il Cavaliere fu un grande condottiero sportivo, perchè c’erano delle nicchie con enorme valore associato che permettevano al calcio italiano di eccellere».Oggi c’è qualcosa o qualcuno che eccelle in Italia? Voi direte, la Ferrari o qualcosa del genere. Vero, ma allora dovreste tifare Olanda, visto che la sede è là». Colpa delle delocalizzazioni? Certo, «imposte da tasse altissime, come conseguenza del rigore euro-imposto». La fuga delle aziende ormai ha lasciato «il deserto economico (e sociale)», vale a dire «un paese con bassi stipendi, dormitorio di vecchi, a forte emigrazione di italiani capaci e formati, serbatoio di manodopera a basso costo, con masse consumanti ma non risparmianti in quanto il valore aggiunto deve rimanere per forza oltre Gottardo. E tutto questo per preciso volere euro-tedesco». Come non far giungere il nostro sentito grazie agli ultimi quattro premier, tutti rigorosamente non-eletti? Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: grazie, «per non aver difeso il paese». Scriveva Dolcino, alla vigilia di Italia-Svezia: «Sappiate che non gioirò per l’eventuale mancata qualifica, spero anzi che l’Italia possa farcela. Ad ogni modo non tutto il male vien per nuocere: se la mancata qualifica potesse essere utile a farvi capire che l’Italia è davvero nella cacca fino al collo – al contrario di quello che i media cooptati al potere europeo vogliono farvi credere, per tenervi tranquilli – beh, questo sarebbe davvero un ottimo risultato. Meglio di una vittoria sportiva».Campane a morto per l’Italia: «Personalmente vedo l’uscita dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.
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‘Edoardo Agnelli era un Sufi, ma con parenti nel B’nai B’rith’
Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge: oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Alkann, appartiene al B’nai B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni alla cultura israeliana». Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei, l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e studentesche. Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad, l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, oltre ad Alain Elkann (cognato di Edoardo Agnelli), al B’nai B’rith apparteneva l’anziano Lion Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano catturare. Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta, in diretta, dal politologo statunitense Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i suoi rapporti col presidente Usa».Di Ledeen, Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis. Ledeen? «All’epoca era vicino a Craxi, ma al tempo stesso anche a Di Pietro. Poi, in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di Maio». L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith». Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de “L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al ramo di sua madre che non a quello di suo padre». Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo – nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”, Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat. Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il 15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino».Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile. Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello, John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa del misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico di Parigi. La madre di Alain, Carla Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza, fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai nazisti. Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo emerito di Roma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi (beni culturali).Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai B’rith. Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi, convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa” – mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche interpretazioni assai dietrologiche».Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un pastore, che la mattina del 15 novembre del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione, scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile». C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio “sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana convertitosi all’Islam». Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle fedi: si era laureato in storia delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
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La più subdola arma di distruzione di massa: il neoliberismo
Per combattere una guerra bisogna innanzitutto identificare il nemico, studiare le sue strategie e analizzare su quali fronti risulti più vulnerabile. Affermazione scontata, direte voi, non serve certo leggere “L’arte della guerra” di Sun Tzu per capirlo! Ma la percezione cambia se spostiamo il campo di osservazione da quello bellico a quello ideologico. I grandi conflitti del XXI secolo hanno un carattere universale che sfugge alla logica dei blocchi contrapposti, sempre più difficili da identificare. Così avviene per le idee e le dottrine economiche, che più di un dittatore riescono a irreggimentare una popolazione. Il nostro Dna di cittadini occidentali è permeato culturalmente e socialmente da quella che è stata la grande guerra ideologica del XX secolo, combattuta su tutti i fronti e senza esclusione di colpi: quella contro il comunismo, poi dirottata verso il keynesismo, nemico ancora più resistente. Lo scontro è stato uno dei più duraturi della storia, fornendo così il tempo e l’esperienza per elaborare tecniche in grado di assicurare al vincitore un dominio incontrastato, votato all’immortalità. A vincere è stato chiaramente il neoliberismo, l’ideologia imperante dal proselitismo universale.La strategia congegnata per garantire il comando sul mercato mondiale è stata innovativa ed efficace: portare un originario pensiero economico a valicare i suoi confini e permeare l’intero apparato sociale, reso liquido e impalpabile e perciò capace di propagarsi con una velocità e una forza di contaminazione straordinarie. Solo ultimamente il termine neoliberismo è stato sdoganato dalla sua impronunciabilità, attribuendo così un nome e un’identità a un’ideologia totalizzante, che proprio dell’anonimato e dell’invisibilità ha fatto il suo punto di forza. Grazie all’insinuarsi dell’informazione libera, che tanto fa paura al mainstream, che del neoliberismo è l’asse portante, comincia a prendere forma nell’opinione pubblica quel moloch ideologico che, attraverso la cristallizzazione di enunciati economici tanto artificiosi quanto puntualmente smentiti dai fallimenti dell’economia reale, domina l’intero pianeta. Parlarne non è semplice: multiforme e immanente, la dottrina neoliberista ha contaminato talmente a fondo il nostro pensiero da venire interiorizzata nei comportamenti della vita reale dell’individuo stesso e perciò sempre più difficile da combattere.La sua essenza, che si fonda su un nucleo originario di pochi e semplicistici enunciati economici, è stata volutamente resa complicata e non comprensibile al cittadino medio che, armato del solo buonsenso, sarebbe in grado di farla capitolare in un colpo. Forte di una prodigiosa macchina della propaganda senza precedenti, il neoliberismo è riuscito a conquistare ogni spazio ideologico lasciato vuoto per mancanza di avversari capaci di far fronte comune e reagire a un nemico tanto imponente quanto invisibile. Attraverso seducenti armi di distruzione del pensiero di massa è riuscito a creare le condizioni ideali per un sempiterno dominio delle élite sui popoli, sotto una facciata fintamente democratica e modernizzatrice. L’individuo, inizialmente, è stato reso docile attraverso quel “minimo vitale sociale”, di cui parlavano Malthus prima e Marx poi, ossia quel modesto di più percepito dal lavoratore rispetto allo stretto necessario per vivere e che quindi in grado di consentire l’accesso all’agognato atto del consumo su cui si è retto finora il sistema capitalistico consumistico.Oggi, per il principio della gradualità e dell’irreversibilità della privazione incessante dei diritti e del benessere umano, il minimo sociale di vita sta divenendo appannaggio di pochi, considerati come dei privilegiati dal sistema e per questo osteggiati dai propri simili, alimentando così una guerra intestina tra i nemici, inconsapevoli e disgregati, dell’invisibile tiranno. L’interiorizzazione del sentimento di paura perenne, legata alla precarietà e alla sfuggevolezza delle condizioni lavorative e di vita, nonché delle relazioni sociali e umane sempre più sfaldate, ha generato quel caos e quell’automatica quanto inconsapevole repressione delle frustrazioni del singolo, che hanno castrato ogni anelito di ribellione. Uscire da questa eterna schiavitù, cui l’invasore ci ha condannati è impossibile, se prima non viene individuato il nemico e il campo di battaglia.(Ilaria Bifarini, “Il nemico invisibile: il neoliberismo”, da “Scenari Economici” del settembre 2017. Autrice di “Neoliberismo e manipolazione di massa. Storia di una bocconiana redenta”, la Bifarini è autrice del blog “Diario di una bocconiana redenta”).Per combattere una guerra bisogna innanzitutto identificare il nemico, studiare le sue strategie e analizzare su quali fronti risulti più vulnerabile. Affermazione scontata, direte voi, non serve certo leggere “L’arte della guerra” di Sun Tzu per capirlo! Ma la percezione cambia se spostiamo il campo di osservazione da quello bellico a quello ideologico. I grandi conflitti del XXI secolo hanno un carattere universale che sfugge alla logica dei blocchi contrapposti, sempre più difficili da identificare. Così avviene per le idee e le dottrine economiche, che più di un dittatore riescono a irreggimentare una popolazione. Il nostro Dna di cittadini occidentali è permeato culturalmente e socialmente da quella che è stata la grande guerra ideologica del XX secolo, combattuta su tutti i fronti e senza esclusione di colpi: quella contro il comunismo, poi dirottata verso il keynesismo, nemico ancora più resistente. Lo scontro è stato uno dei più duraturi della storia, fornendo così il tempo e l’esperienza per elaborare tecniche in grado di assicurare al vincitore un dominio incontrastato, votato all’immortalità. A vincere è stato chiaramente il neoliberismo, l’ideologia imperante dal proselitismo universale.
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Magaldi: dite a Civati che i big progressisti erano massoni
Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?Pietra dello scandalo, la polemica accesa da Magaldi contro la “caccia alle streghe” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con accanto il suo vice Claudio Fava, «che nei mesi scorsi ha chiesto le liste dei massoni per valutare presunte infiltrazioni mafiose». Ha protestato il gran maestro del Goi, Stefano Bisi: ma perché non si chiedono anche le liste degli iscritti a partiti, sindacati e associazioni varie? «Una volta tanto ne ha detta una giusta anche Bisi», dice Magaldi, mai tenero col Grande Oriente d’Italia. «Evidentemente c’è una cultura massonofobica, di grande ignoranza e grande pregiudizio», sostiene Magaldi, «tant’è che Claudio Fava è stato anche uno degli estensori di una proposta di legge liberticida, che sarà cassata come incostituzionale fintanto che l’Italia resterà un paese democratico: si vorrebbe vietare ai massoni di ricoprire incarichi pubblici». Per Magaldi, una discriminazione inaccettabile e pericolosa: «Il massone “buono” è sempre quello segreto e occulto, se invece sei un massone a viso aperto devi essere discriminato». Magaldi, peraltro, non è indulgente nemmeno con i “fratelli” in grembiulino: ne ha messi alla berlina a decine, nel bestseller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, un libro che denuncia i maneggi delle Ur-Lodges, le superlogge al vertice del potere mondiale.L’incidente diplomatico di Londra? Non privo di retroscena movimentati: «Ho rifiutato subito la location, una sala intitolata a Karl Marx», dice Magaldi: «Rispetto Marx come analista economico e grande filosofo, ma aborro l’ideologia marxista perché autoritaria, non democratica, foriera di esiti totalitari e liberticidi». Tra i promotori dell’incontro, oltre a Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, i “terminali” britannici delle svariate “famiglie” italiane della neo-sinistra antirenziana: dai citaviani di “Possibile” fino al soggetto politico di Anna Falcone e Tomaso Montanari (teatro Brancaccio), fino ad “Articolo 1 Mdp” (D’Alema, Bersani e Speranza). Tra i volti nuovi, una giovane di talento come Rosa Fioravante, legata alla fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. «Lavorando con Moiso – dice Magaldi – hanno gustato il cibo sapido della proposta ideologica “rooseveltiana”: il loro manifesto era insipido, noioso e verboso, tipico di chi pensa di recuperare categorie ottocentesche nella contrapposizione tra capitale e lavoro». In più, la Fioravante ha appena pubblicato un post “rooseveltiano” contro l’ideologia neoliberista della “fine dello Stato”. E s’è messa pure a parlare di Olof Palme, il leader svedese assassinato nel 1986, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, a febbraio.«A proposito: Rita Fioravante e i suoi sapevano che Olof Palme era un illustre massone, oltre che un politico progressista?». Massone, proprio come Magaldi e gli altri, che Civati vorrebbe mettere alla porta. «Noi parliamo da mesi, di Olof Palme, il convegno di Milano servirà a risvegliare i valori socialisti», annuncia Magaldi. «E adesso arriva costei, la Fioravante, e scrive un pezzo proprio su Olof Palme». Strana contaminazione culturale, a tempo di record? E la “fatwa” di Civati sull’ingombrate Magaldi, messo alla porta come massone? «Ci sarà rimasto male: una volta, richiesto di un parere su di lui, ho detto che non mi sembrava un fulmine di guerra», ammette il fondatore del Movimento Roosevelt. «Del resto, il suo consigliere economico all’epoca della battaglia per la segreteria Pd passò armi e bagagli con Renzi: quanto poteva divergere la politica economica di Civati da quella di Renzi? Poi Civati ha contrasato il Jobs Act renziano, è vero. Ma non è che prima del Jobs Act avessimo la piena occupazione, in Italia: la crisi dura da 25 anni, questo è un paese in declino». E poi: qual è la visione democratica e liberale della cittadinanza, per il “massonofobico” Civati?«Non è possibile una persona che rappresenta le istituzioni (Civati è tuttora deputato), dopo aver elaborato con i suoi un programma comune per un evento comune a Londra, dica, ipocritamente: non vado a un incontro con Magaldi perché è massone». Un giudizio netto, da Magaldi: «C’è ipocrisia, perché Civati sapeva benissimo che io fossi massone. E c’è ignoranza, perché mi dicono che Civati sia laureato in filosofia rinascimentale. Spero che non abbia studiato sui Bignami e che abbia qualche cognizione dell’esoterismo rinascimentale che poi si istituzionalizza tra ‘600 e ‘700 e diventa massoneria». Infierisce Magaldi: «Dato che mi pare sia tra quanti vogliono difendere la Costituzione e attuarla a dovere, spero che Civati sappia, per esempio, che il presidente della “commissione dei 75” che ha redatto il testo costituzionale, Meuccio Ruini, era un noto e conclamato massone». Senza contare, aggiunge, che i padri della patria italiana, «quelli che hanno fatto sì che Civati non sia nato nel regno lombardo-veneto ma in Italia», erano tutti massoni.Era massone Giuseppe Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, e così Cavour, Mazzini e i tanti patrioti, anche lombardi, che si distinsero sin dalle “giornate di Milano” per il loro patriottismo e per la loro militanza massonica e carbonara. Insiste Magaldi, sempre a “Colors Radio”: «Civati non avrebbe dibattuto con il padre della patria Meuccio Ruini? Non avrebbe dibattuto con colui che ha liberato l’Europa dal nazifascismo, Franklin Delano Roosevelt, massone conclamato al pari di Eleanor Roosevelt, madrina dei diritti umani? E non avrebbe collaborato, Civati, con Martin Luther King, Gandhi o Arthur Meier Schlesinger, l’ideologo della New Frontier kennediana? E ancora: non avrebbe interoquito con John Maynard Keynes, le cui teorie economiche sono alla base della socialdemocrazia europea?». A Civati, Magaldi addebita «ignoranza e insipienza storico-critica». Spiacevole, per «un parlamentare laureato in filosofia, che ignora il ruolo dell’esoterismo rinascimentale e poi massonico nell’elaborazione dei valori di democrazia e libertà, e si permette il lusso di porre una discriminante verso qualcuno per ragioni di appartenza spirituale, filosofica, meta-religiosa».Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?
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D’Annunzio ‘antifascista’ precipitò dal balcone: coincidenze?
La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».Questo il bollettino dei medici Antonio Duse, Francesco d’Agostino, Davide Giordano, Mario Donati, Raffaele Bastianelli, Augusto Murri subito dopo il ricovero in ospedale: «Segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra. Commozione cerebrale. Stato d’incoscienza. Segni di compressione cerebrale dubbi. Disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. Ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. Leggera contusione a destra del torace. Ambe le mani sono incolumi. Non v’è indicazione urgente di atto chirurgico. Polso regolare 67. Respiro regolare 25. Temperatura 37,8. Prognosi tuttavia riservata». Fu disposta un’inchiesta riservata affidata al commissario Giuseppe Dosi, lo stesso che poi indagherà sul caso del povero Gino Girolimoni che nel 1927, a Roma, sarà accusato ingiustamente dello stupro di sette bambine e dell’omicidio di cinque di loro; delitti avvenuti tra il 1924 e il 1927. Un caso davvero inquietante, nel quale entrò anche un prete (anglicano) inglese, Ralph Lyonel Brydges, probabilmente il vero assassino.Giuseppe Dosi si presentò in incognito al Vittoriale, facendosi passare per un ex ufficiale della Legione Cecoslovacca, addirittura parlando tedesco e italiano con accento straniero. Chiese di frequentare il Vittoriale per dipingere paesaggi, e ne approfittò per interrogare il personale e la gente dei dintorni. Conversò con lo stesso D’Annunzio, fino a quando il poeta capì di avere a che fare con uno sbirro e gli impose di andarsene. D’Annunzio all’epoca abitava al Vittoriale in una specie di Aventino, dedicandosi alla sua arte, avendo scelto di tenersi lontano dalla vita pubblica. Ex legionari legati ad Alceste De Ambris, che era stato capo di gabinetto di D’annunzio a Fiume, cercavano di richiamare il poeta all’impegno pubblico e di fargli assumere una posizione antifascista in un momento nel quale il fascismo, soprattutto in campo sindacale, stava mietendo successi. I fascisti guardavano al poeta come un rivoluzionario combattentista, pensando alla suggestione che la sua figura poteva esercitare sull’intero popolo italiano. Lo stesso Mussolini era consapevole che la figura di D’Annunzio era un polo d’attrazione per gli ambienti squadristi del suo movimento.Nell’aprile del 1921 vi era stato un incontro fra D’Annunzio e Mussolini. Il poeta aveva appoggiato la candidatura di De Ambris alle elezioni di quell’anno, e vi erano state alcune iniziative promosse dai sindacalisti dannunziani in chiave antifascista. Il 3 agosto 1922, a Milano, D’Annunzio fece un improvvisato discorso dal balcone di Palazzo Marino dopo il fallimento dello “sciopero legalitario” promosso dalla Alleanza del Lavoro contro la violenza fascista. In quello stesso periodo furono avviati abboccamenti tra D’Annunzio, Mussolini e Francesco Saverio Nitti, che avrebbero dovuto portare ad una riconciliazione pubblica fra i tre uomini destinati a portare, in prospettiva, a un governo di pacificazione nazionale. L’incontro avrebbe dovuto aver luogo il 15 agosto in una villa toscana. L’improvvisa caduta di D’Annunzio, proprio alla vigilia dell’incontro, il 13 agosto, ne impedì la realizzazione. Nitti scrisse nelle sue memorie: «Se D’annunzio non fosse caduto dalla finestra e l’incontro con lui, Mussolini e me fosse avvenuto, forse la storia dell’Italia moderna avrebbe seguito un altro cammino».Certo è che, per la pena del contrappasso, chi sale troppo in alto poi cade. Dopo l’incidente, con la proclamazione del 4 novembre come festa nazionale, alcuni esponenti della vecchia classe politica liberale pensarono di sfruttare D’Annunzio in chiave antifascista, facendolo partecipare a una grande manifestazione patriottica che si sarebbe dovuta svolgere a Roma, all’Altare della Patria, nell’anniversario della vittoria. La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fece cadere il progetto. Dopo la marcia su Roma, D’Annunzio al Vittoriale sarà un osservato speciale, e forse prigioniero. Visse in una specie di esilio dorato, sorvegliato, spiato, seguito e trattato come un incapace. Gli affiancarono un’infermiera tedesca che non lo perdeva mai d’occhio. Il Vate morirà anni dopo, il 1° marzo 1938, a settantacinque anni, per un’emorragia celebrale. Curiosa coincidenza, in una lettera del 1935 a Mussolini, il poeta aveva scritto: «Il mio cranio di lucido cristallo può incrinarsi facilmente». E nel febbraio 1938 a Tom Antongini scrisse: «Credo che sono morto come il cavalier Baiardo all’assedio di Brescia… L’anniversario cadrà poco prima del mio marzo funebre».Il Vate morirà proprio nel marzo previsto nella sua ultima missiva, col capo chino sul suo scrittoio nella Zambracca, la stanza che usava al Vittoriale per comporre i suoi poemi, con il dito ad indicare la data esatta, cerchiata di rosso, del lunario Barbanera che vaticinava per quel giorno «la morte di un italiano illustre». Uno scena che molti lessero come un suicidio. La morte per emorragia cerebrale risulta dal certificato medico stilato dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta. I funerali furono organizzati con estrema rapidità. D’Annunzio morì il martedì sera verso le 20 e Mussolini partì da Roma per Gardone Riviera la mattina dopo, il tempo strettamente necessario per disdire gli appuntamenti di Stato e organizzare il treno presidenziale che lo portò a Desenzano con i ministri Ciano, Starace, Alfieri, Benni e il segretario particolare Sebastiani. Le esequie furono celebrate la mattina di giovedì 3 marzo, attorno alle 8,30. Non fu eseguita alcuna autopsia o altri accertamenti che approfondissero le cause del decesso. La morte fu certificata come emorragia celebrale solo in base a reperti esterni, clinici, non supportati da esami autoptici. Forse certificò tutto l’infermiera tedesca che da anni lo “seguiva” da vicino. Il 12 marzo 1938 Hitler annette l’Austria alla Germania nazista. Iniziano i “preparativi” per la seconda tragica guerra mondiale.(Lara Pavanetto, “Quando il Vate volò dalla finestra e predisse la sua morte”, dal blog della Pavanetto del 13 settembre 2017”. Fonti: Raffaele K. Salinari, “Le tre morti di Gabriele D’Annunzio”, da “Il Manifesto” del 5 ottobre 2013; Ennio Di Francesco, “Il Vate e lo Sbirro”, Edizioni Solfanelli, 2017).La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».
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Berlino trema: lo stragista Amri fu incoraggiato dalla polizia
«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.Pare che la “persona di fiducia” abbia dovuto faticare a convincere Amri. Gli disse: «Ammazziamo questi miscredenti». Insisteva: «Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per fare questi attentati qui in Germania». A citare il fatale colloquio è un ex frequentatore degli stessi circoli, «che dice di essere stato avvicinato alla stessa persona per fare l’attentato in Germania», scrive Maurizio Blondet sul suo blog. Come altri, il testimone aveva rifiutato perché voleva combattere in Siria. E ha confermato che l’informatore della polizia avrebbe insistito nel cercare un «un uomo affidabile per un attacco con un camion». Dunque “l’uomo di fiducia” della polizia tedesca era un agente provocatore: al soldo dell’Isis o dei servizi di Berlino? «La polizia sapeva da luglio che Anis Amri progettava una strage», scriveva “Globalist” già il 22 dicembre. Avverte oggi l’emittente “Rbb”: «Un siriano ex coinquilino di Amri aveva avvertito ben due volte la polizia prima dell’attentato». Ma l’allarme non diede esito, racconta il “Morgenpost”: «Amri è stato tenuto sotto osservazione solo nei giorni feriali. Nei fine settimana e nei giorni festivi il controllo cessava. E l’ufficio del procuratore generale non è mai stato informato della cessazione dell’osservazione».Le autorità tedesche, riassume Blondet, avevano impedito la rapida espulsione di Amri (non presentando alle autorità tunisine le sue impronte digitali, che pure avevano). In più, le forze di sicurezza «gli avevano fatto sapere di essere sotto controllo, e più volte». Lo avevano persino «aspettato alla fermata dell’autobus da Dortmund». Secondo lo “Spiegel”, «il dossier su Amri è stato grossolanamente falsificato, posticipando date e celando un arresto». Se la storia del passaporto abbandonato sul camion-kamikaze è la fotocopia di altre analoghe vicende, da Charlie Hebdo alla strage di Nizza, Blondet fa notare che le modalità di reclutamento di Anis Amri sono le medesime di un altro maghrebino in azione in Francia, Mohammed Merah, che scatenò il terrore a Tolosa nel 2012: «I servizi francesi stavano per reclutare Merah un mese prima dei suoi delitti», ha dichiarato alla Corte d’Assise l’ex capo della sicurezza tolosana. Per il “Foglio”, lo “stragista di Al-Qaeda”, era «un’operazione dell’intelligence francese finita male». E’ saltato fuori anche un video-testamento del giovane: «Sono innocente. Ho scoperto che il mio miglior amico Zouheir lavora per i servizi segreti francesi».Zouheir, scrive il quotidiano “Le Monde”, fece anche parte della squadra di negoziatori che cercò di convincere Merah alla resa durante l’assedio all’appartamento. Il giovane gli si ribellò con queste parole: «Mi hai mandato in Iraq, Pakistan e Siria per aiutare i musulmani. E ora ti riveli essere un criminale e un capitano dei servizi francesi. Non lo avrei mai creduto». Adesso, aggiunge Blondet, la deposizione giudiziaria del capo dei servizi a Tolosa conferma: Merah fu avvicinato da un settore dell’intelligence, la Dgcri (Direction Centrale du Reinseignement Interieur) dopo un viaggio in Pakistan. Ma in realtà, precisa il funzionario, i servizi francesi lo conoscevano bene fin dal 2006, quando Merah era ancora un ragazzino: lo avevano schedato insieme a suo fratello Abdelkadher, dopo un viaggio in Egitto compiuto «apparentemente per imparare l’arabo». Poi, nel 2010, al ritorno dal viaggio in Pakistan, lo interrogano «perché sospettato di aver ricevuto addestramento militare». Sempre nel 2010, arrestato dalla polizia afghana a Kandahar, Merah viene «sottoposto a “debriefing” da due specialisti francesi», i quali «hanno giudicato che, dato il suo carattere curioso e viaggiatore, lo si poteva orientare verso un reclutamento».Un rapporto dei servizi risalente al 21 febbraio 2012, un mese prima del primo omicidio presunto di Merah, recita: «Mohamed Merah ha spirito aperto e astuto. Non ha alcuna relazione con una rete terrorista, ha un profilo viaggiatore». Conclusione: conviene «verificarne l’affidabilità», raccomanda il rapporto. «E’ un approccio di reclutamento», ha spiegato l’ex funzionario dei servizi di Tolosa. Sembra l’accurata formazione di un agente professionale, a cui si impartiscono competenze linguistiche e militari, da avviare alla carriera di infiltrato. «Sappiamo anche che Merah ha cercato di arruolarsi nell’esercito francese nel 2008, e poi nella Legione Straniera, respinto per i suoi precedenti penali», conclude Blondet: «Povero, tragico patriota Merah, usato e distrutto come jihadista perché bisognava addossargli delitti le cui vere ragioni sono inconfessabili». Forse, anche attraverso la giustizia francese e le indagini giornalistiche tedesche, sta cominciando a sbriciolarsi un muro di menzogne sanguinose. Osservando in controluce gli attentati “islamisti” che hanno martoriato l’Europa colpendo sempre e solo nel mucchio (popolazione inerme: mai obbiettivi-simbolo del potere), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” Gianfranco Carpeoro legge le “firme nascoste” – non islamiche, ma occidentali e massoniche – dello stragismo affidato a manovalanza jihadista. E oggi dice: «Entro un paio d’anni, magari attraverso fonti come Wikileakes, emergerà la prova che l’Isis è un’emanazione diretta dei servizi atlantici che fanno capo ai Bush».«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.