Archivio del Tag ‘migranti’
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Bonnal: caos e paura, perché il sistema tifa Marine Le Pen
La rapidità della sottomissione di Trump al sistema è stata ammirevole, come la sottomissione di Syriza in Grecia o la rapidità dell’annullamento della Brexit. Come direbbe Céline, la resistenza populista non chiede altro che far sloggiare qualcuno – o cliccare furiosamente sul proprio mouse». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, autore fra l’altro di un saggio sul “lato oscuro” di Mitterrand, definito “esoterista e grande iniziato”, siamo alla vigilia di una possibile, spettacolare operazione: l’elezione di Marine Le Pen all’Eliseo. Non “contro” il sistema, ma con la regia – dietro le quinte – dell’establishment, ben lieto di assistere, finalmente, al grande caos di un paese europeo nel panico: «La Francia avrebbe una sua rivoluzione arancione per strada», inoltre «si ribellerebbe alla funzione pubblica» e naturalmente «avrebbe una fuga di capitali», con «i borghesi disperati per il crollo dei prezzi degli appartamenti parigini e dei castelli antichi». Secondo Bonnal, il paese «si farebbe bloccare dalla Nato anche più velocemente della Serbia». E, quanto alla strategia della tensione, «la Francia subirebbe gli attentati più rapidi della sua storia». Attenzione: «Per tutte queste ragioni, il sistema vuole Marine».In un post su “Defensa”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, Bonnal spiega che quello in vista alle elezioni francesi è uno schema classico, ben delinato addirittura da Aristotele, nella “Politica”, quando il grande filosofo scriveva: «Nella democrazia, le rivoluzioni nascono prima di tutto dalla turbolenza dei demagoghi. Per quel che riguarda gli individui, costringono con le loro continue denunce gli stessi ricchi a riunirsi per cospirare; poiché la comunanza di paure avvicina le persone più ostili». E il più grande filosofo dell’antichità puntualizza freddamente, come se avesse previsto la fine del nefasto film: «Per le loro ingiustizie, i demagoghi e i loro complici hanno costretto i cittadini potenti a lasciare la città; ma gli esuli si sono riuniti, e, rivoltandosi contro il popolo, lo spoglieranno del loro potere». Tra i candidati, quello del Front National è «il peggiore, per l’oligarchia mondiale». Ma, proprio per questo, potrebbe diventare “il migliore”, il più utile – a piegare il popolo con le cattive, dopo aver fatto deragliare il lepenismo. «Il carattere pseudo-rivoluzionario della Francia (vedi la presa della Bastiglia) qui sarà usato in pieno: sottomettiamo la Francia e il resto seguirà presto».Per questo, Nicolas Bonnal insiste: «Il sistema ha interesse a far eleggere Marine Le Pen. Il “Bataclan”, se verrà eletta, sarà tale che lei si sottometterà ancora più velocemente del suo modello Trump. Il sistema – continua Bonnal – potrà allora imporre più velocemente la propria agenda terrorista e totalitaria: guerra contro la Russia ribelle, invasione del Sud, abolizione del denaro contante, controllo biometrico, divieto dell’oro, censura della rete». Secondo lo scrittore, «il caos dell’elezione del Fn sarà tale che lo tsunami (che, come si sa, è un metodo di controllo a freddo, come gli attentati, l’effetto serra, i rifugiati) sarà imparabile». Quindi, ragiona Bonnal, «il sistema farà eleggere Marine, la quale ha già dato delle garanzie licenziando suo padre». Questo sarebbe l’obiettivo dell’establishment: «Far scoppiare l’ascesso populista una volta per tutte». Nel suo libro su Trump, pubblicato prima della sua elezione (“Donald Trump, le candidat du chaos”), Bonnal annunciava già la piega che avrebbe preso: «Tutto ci sembra esagerato, falso, quasi squallido. I suoi affari, la sua stessa fortuna sembra gonfiata. Le sue proposte sono nulle, scadenti o neppure degne di nota. Qualche frase interessante e coraggiosa è subito contraddetta. La sua politica è inapplicabile ed è meglio così. Suscita inoltre una tale ostilità all’estero e nei luoghi importanti (televisioni, economia) che rischia di essere rovinato anche prima dell’elezione».Scriveva Bonnal: «Sembra che l’affaire Trump serva come operazione psicologica a livello mondiale». Motivo: «Il sistema ha paura delle folle, e ha bisogno di fare un esempio – mostrando il male». E quindi: «L’accusa di razzismo, di nazismo, di fascismo, di machismo da parte dei media, l’eccesso o il cosiddetto eccesso di Trump, porteranno i loro frutti». Al che, «tutto il piccolo mondo del piccolo bianco frustrato rientrerà nella sua nicchia, come in Francia: sarà “agitato” un’ultima volta prima di “asservirsi” per niente». Bonnal, nel libro, cita il film “Network”, del 1976, sugli anni difficili Nixon-Ford, «più difficili del 2017, poiché c’era un residuo di marxismo e i militanti erano ancora disposti a sacrificarsi per imporlo – oggi invece cliccano!». Scriveva: «Il presentatore televisivo Howard Beale invita i telespettatori a ribellarsi e urlare dalla finestra – cosa che anche lui si affretta a fare. Poi, per far piacere al suo capo, che parla di marchi, di dollari, di rubli, di sicli, di mercato, di capitale, di cifre, di sistema olistico, di natura (il capitale la adora), d’investimenti, della fine dei popoli, di denaro, di “movimenti autonomi dei non-viventi”, predica un vangelo della rassegnazione – e alla fine si fa ammazzare per l’abbassamento dell’indice di ascolto». Quel film «segna il passaggio dalla ribellione alla sottomissione».«Può anche essere che Trump serva anche come esorcismo finale per calmare il risentimento generale americano e organizzare con più calma la bancarotta del paese che è già cominciata, anche se viene descritta raramente», scriveva Bonnal nel suo libro su Trump. «Il fascismo e la militarizzazione degli Stati Uniti descritte da Paul Craig Roberts serviranno a prevenire o schiacciare completamente tutte le ribellioni, da qualunque parte provengano. Sembra proprio che anche in Francia si stia prendendo la stessa strada». Oggi, lo scrittore conferma: «Sì, far montare il pericolo Fronte Nazionale e anche far eleggere Marine è la cosa migliore che possa succedere al sistema. La finanza e il mercato immobiliare crollati in tempi brevi serviranno ai malvagi. Sappiamo dove conduce l’ottimismo dell’antisistema (Cuba? Caracas?)». Bonnal, citando Aristotele, la definisce una tattica, «una semplice operazione di compattazione», che non mai è cambiata in migliaia di anni. Il popolo ne ha abbastanza dell’élite? Giusto. Solo che le élite «lasciano che un populista arrivi al potere, poi lo liquidano – a meno che non lo assecondino, come nel caso ben noto del caporale boemo». E conclude: «Ridiamo, siamo in buona compagnia».La rapidità della sottomissione di Trump al sistema è stata ammirevole, come la sottomissione di Syriza in Grecia o la rapidità dell’annullamento della Brexit. Come direbbe Céline, la resistenza populista non chiede altro che far sloggiare qualcuno – o cliccare furiosamente sul proprio mouse». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, autore fra l’altro di un saggio sul “lato oscuro” di Mitterrand, definito “esoterista e grande iniziato”, siamo alla vigilia di una possibile, spettacolare operazione: l’elezione di Marine Le Pen all’Eliseo. Non “contro” il sistema, ma con la regia – dietro le quinte – dell’establishment, ben lieto di assistere, finalmente, al grande caos di un paese europeo nel panico: «La Francia avrebbe una sua rivoluzione arancione per strada», inoltre «si ribellerebbe alla funzione pubblica» e naturalmente «avrebbe una fuga di capitali», con «i borghesi disperati per il crollo dei prezzi degli appartamenti parigini e dei castelli antichi». Secondo Bonnal, il paese «si farebbe bloccare dalla Nato anche più velocemente della Serbia». E, quanto alla strategia della tensione, «la Francia subirebbe gli attentati più rapidi della sua storia». Attenzione: «Per tutte queste ragioni, il sistema vuole Marine».
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Crolla la grande truffa della sinistra, che ha tradito il popolo
La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo. Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante. Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito.I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica. In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato). Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio.Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi. La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato. Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale.Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici. Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra. Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro. La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.(Charles Hugh-Smith, “Crolla la grande truffa della sinistra”, dal blog “Of Two Minds” del 23 gennaio 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.
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Craig Roberts: golpe in vista, Trump è già un uomo morto
«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.Il “New York Times” riporta che «le agenzie di intelligence americane hanno cercato di capire se la campagna elettorale Trump era collusa con i russi sulla pirateria informatica o con altri sforzi per influenzare le elezioni». E’ l’offensiva del “Deep State”, che si sta riprendendo il potere. Trump in carcere? «E’ possibile che accadrà proprio questo», scrive Craig Roberts, in un post su “Sputnik News” tradotto da Costantino Ceoldo per “Come Don Chisciotte”. Il prestigioso analista americano, già “editor” del “Wall Street Journal”, ricorda che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il complesso militare e di sicurezza decise che «il flusso di profitti e potere derivante dalla guerra e dai pericoli di una guerra era troppo grande per essere ceduto», consegnato alla tranquillità di in un’era di pace. «Questo complesso ha manipolato un debole e inesperto presidente Truman in una gratuita guerra fredda con l’Unione Sovietica», basata sul nulla: «Fu creata la menzogna, accettata dal popolo americano credulone, che il comunismo internazionale voleva conquistare il mondo». Assurdo: Stalin aveva liquidato Trotskij e tutti gli alfieri della “rivoluzione permanente”, estesa a tutto il mondo, puntando invece sul “socialismo in un solo paese”.Ma l’establishment americano «ha abbozzato e contribuito all’inganno», gonfiando il super-potere dell’apparato militare-industriale fino a preoccupare Dwitght Eisenhower, che nel 1961 – nel suo ultimo discorso – mise in guardia il popolo contro la vocazione eversiva del business della guerra: «Tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente impegnati nell’apparato della difesa», disse. «Ogni anno spendiamo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti. Questa congiunzione di un apparato militare immenso e di una grande industria degli armamenti è nuova, nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, anche spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Parlamento, ogni ufficio del governo federale». Una necessità geopolitica con «gravi implicazioni», per Eisenhower: «Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di una influenza ingiustificata, visibile o invisibile, da parte del complesso militar-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di un potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici».E ancora: «Non dovremmo mai dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e competente può costringere il corretto ingranamento del grande apparato industriale e militare di difesa con i nostri metodi e gli obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme». Gli avvisi di Eisenhower, osserva Craig Roberts, erano centrati. «Tuttavia, erano basati su “una cittadinanza vigile e competente”, che gli Stati Uniti non hanno. La popolazione americana è in gran parte stupida e si sta dirigendo, in tutto lo spettro ideologico da sinistra a destra, all’autodistruzione». I media, stampa e televisione, che «servono da propagandisti per il potere del complesso militar-industriale e le élite di Wall Street», ormai «si accertano che gli americani non abbiano nulla se non informazioni false ed orchestrate: ogni famiglia e persona che accende la Tv o si legge un giornale è programmata per vivere in una realtà falsa ed orchestrata che serve quei pochi che comprendono l’apparato di governo». L’altro problema? «Trump ha sfidato questo apparato, senza rendersi conto che è più potente di un semplice presidente degli Stati Uniti».Durante il secondo mandato di Obama, la Russia e il suo presidente «sono stati demonizzati dal complesso militar-industriale e dai neoconservatori utilizzando i media “presstitute”», scrice Craig Roberts. «La demonizzazione ha facilitato la capacità dei media “presstitute” controllati, come il “New York Times”, il “Washington Post”, Cnn, Msnbc ed il resto, di associare il contatto con la Russia e gli articoli che mettevano in discussione le tensioni orchestrate tra Stati Uniti e Russia, con attività sospette, forse anche tradimento». Trump e i suoi consiglieri? «Erano troppo inesperti per rendersi conto che la conseguenza del licenziamento di Flynn è stata quella di validare questa associazione orchestrata della presidenza Trump con l’intelligence russa». E ora abbiamo «le puttane dei media e le puttane della politica» impegnate a porre la stessa domanda utilizzata per infangare il presidente Nixon e forzarne le dimissioni: “Che cosa sapeva il presidente e quando lo sapeva?”. Trump sapeva che il generale Flynn aveva parlato con l’ambasciatore russo settimane prima che Trump abbia detto che lo aveva fatto? Flynn ha fatto l’indicibile, parlare con un russo: perché Trump gli ha detto di farlo?I fornitori di false notizie, cioè i grandi media «bugiardi spregevoli», secondo Craig Roberts «stanno usando insinuazioni irresponsabili per intrappolare il presidente Trump in una rete di tradimento». Ecco il titolo del “New York Times”: «Gli assistenti della campagna di Trump hanno avuto contatti ripetuti con l’intelligence russa». Quello a cui stiamo assistendo, insiste l’analista, è una campagna da parte dello Stato Profondo, «che usa le sue puttane dei media per organizzare l’impeachment di Trump». In altre parole, «quelli al lavoro per ribaltare le elezioni presidenziali del 2016 sono così sicuri del loro successo che dichiarano pubblicamente la loro preferenza per un colpo di Stato sulla democrazia». Ad esempio, «il guerrafondaio neoconservatore sionista Bill Kristol ha espresso la sua preferenza per un colpo di Stato». Craig Roberts lo definisce «liberale progressista di sinistra, allineato con l’Uno Percento contro la “razzista, misogina, omofobica” classe operaia, i “deplorevoli” che hanno eletto Trump». In campo anche gli artisti, come «il musicista disinformato Moby», il quale «si è sentito in dovere di scrivere sciocchezze ignoranti su Facebook», per dire che «il dossier russo su Trump è reale», il presidente «è ricattato dal governo russo, non solo per essersi fatto pisciare addosso da prostitute russe, ma per cose molto più nefaste». In più, «l’amministrazione Trump è in collusione con il governo russo, e lo è stata fin dal primo giorno».Aggiunge Craig Roberts: «Ora che Trump è stato contaminato dalle “associazioni con lo spionaggio russo” i repubblicani idioti, secondo “Bloomberg”, si sono “uniti alle chiamate dei democratici per uno sguardo più approfondito sui contatti tra la squadra del presidente Trump e gli agenti dello spionaggio russo», cosa che «indica un crescente senso di pericolo politico all’interno del partito qualora emergessero nuovi rapporti su ampi contatti tra i due». Naturalmente – puntualizza Craig Roberts – non vi è alcuna prova di tali contatti: sono solo insinuazioni, su cui si basa la campagna per deporre Trump. Il licenziamento di Flynn, il generale “sacrificato” nel tentativo di placare le polemiche, ha solo peggiorato la situazione: viene presentato come un’ammissione di colpevolezza, mentre la Cia «continua a passare notizie false alle “presstitute”». Conclude Craig Roberts, amaramente: «Fin dall’inizio ho avvertito che Trump mancava dell’esperienza e delle conoscenze per scegliere un governo che gli stesse accanto e servisse la sua agenda. Trump ha ora licenziato l’unica persona su cui avrebbe potuto contare. La conclusione più ovvia è che Trump è carne morta».Negli Usa, «continua a guadagnare credibilità la tesi di Chris Hedges secondo la quale la rivoluzione è l’unico modo con cui gli americani possono rivendicare il proprio paese». Trump è stato crocifisso alle parole pronunciate alla vigilia delle elezioni, quando disse: «L’establishment di Washington, e le grandi aziende finanziarie e dei media che lo finanziano, esiste per una sola ragione: per proteggersi ed arricchirsi». Questo, aggiunse, «è un crocevia della storia della nostra civiltà che determinerà se noi, il popolo, recupereremo il controllo sul nostro governo». L’establishment politico, il Deep State: «Sta tentando di tutto per fermarci», disse Trump. Ed è «lo stesso gruppo responsabile per i nostri trattati commerciali disastrosi, la massiccia immigrazione illegale e le politiche estere che hanno fatto sanguinare questo paese fino a prosciugarlo». La classe politica «ha portato alla distruzione delle nostre fabbriche e dei nostri posti di lavoro, che fuggono in Messico, Cina e altri paesi in tutto il mondo». Un nemico potentissimo: «Si tratta di una struttura di potere globale che è responsabile per le decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, spogliato il nostro paese della sua ricchezza e messo quei soldi nelle tasche di un pugno di grandi aziende ed entità politiche». Parole a cui oggi lo Stato Profondo sta inchiodando Trump, a colpi di finti scandali mediatici, verso l’impeachment.«Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts, viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.
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Su euro e Nato, battaglie giuste: e a farle è Marine Le Pen
La mia prima manifestazione, oltre cinquanta anni fa, fu contro la guerra degli Usa in Vietnam e uno di primi slogan che ho gridato era: fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia. Non ho mai cambiato idea e non la cambio ora che la candidata presidenziale della destra francese, Marine Le Pen, propone la stessa scelta per il suo paese. Questo non mi fa paura, anzi. Il no alla Nato in Europa è stato sempre una discriminante nel mondo della sinistra. Quelle moderate, socialdemocratiche, di governo, son sempre state schierate con gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica. Quelle radicali, comuniste, di opposizione, erano contro. Lo stesso, anche se la memoria storica ricostruita dalle élites ora ha cancellato questa realtà, avveniva contro l’Euro e la sua creatura: l’Unione Europea. Nel 1979 il Pci di Enrico Berlinguer dichiarò la crisi della politica di unità nazionale con la Dc, partendo dal no a due decisioni che avrebbero cambiato la storia del continente: l’istituzione dello Sme, il sistema europeo di cambi quasi fissi che preparava l’euro, e l’installazione di una nuova generazione di missili in Europa Occidentale, missili puntati contro l’Unione Sovietica.Le motivazioni con le quali allora i comunisti italiani rifiutarono quelle due scelte potrebbero essere usate oggi contro i guasti della moneta unica e contro la folle decisione della Nato di espandersi aggressivamente fino ai confini della Russia. A tale scopo finanziando anche la guerra al popolo del Donbass da parte del governo ucraino infarcito di ministri nazifascisti. Quegli argomenti di allora sono ancora più validi oggi, ma ora non sono più sostenuti dalla maggioranza della sinistra, ma, in Francia soprattutto, dalla nuova destra populista. Che è sempre stata euroscettica, ma spesso, e in contrapposizione alla Ue, Natofanatica. Oggi invece gran parte di ciò che ufficialmente è sinistra in Europa sostiene la Nato, l’euro e l’Unione Europea. E non perché queste istituzioni siano cambiate, né tantomeno migliorate, ma perché è la sinistra stessa che è cambiata e per questo sta scomparendo.Le socialdemocrazie di governo sono state conquistate dalle politiche liberiste, se ne sono fatte complici e le hanno amministrate assieme alla vecchia destra conservatrice e liberale, di cui alla fine sono diventate una variante. Variante sul piano dei diritti civili, non di quelli sociali. Giusto battersi per il diritto al matrimonio tra coppie dello stesso sesso, ma perché contemporaneamente distruggere il diritto al lavoro e la tutela contro i licenziamenti ingiusti? Bene l’Erasmus, per chi può permetterselo, ma perché strangolare finanziariamente la scuola pubblica? E perché privatizzare la sanità e finanziare le banche? La sinistra di governo, proprio quando questa tornava ad essere al centro di tutto, ha abbandonato la questione sociale, che è stata così occupata dalla nuova destra, che nel frattempo rompeva con la sua anima liberale e di governo. Non c’è stata sinora simmetria.Mentre la nuova destra faceva sue antiche parole d’ordine della sinistra radicale – ovviamente storpiandole dentro il suo contenitore di sempre: dio, patria, famiglia – quest’ultima si rifugiava in astratti principi di buona volontà. La resa di Tsipras e Siryza alla Troika e alla Nato ha poi tolto dal campo europeo la possibilità che la rottura a destra avesse il suo immediato corrispondente a sinistra. Podemos in Spagna e il M5S in Italia, seppur partendo da collocazioni differenti, sinora son giunti alla medesima conclusione di non misurarsi esplicitamente con la rottura con euro, Ue, Nato. Rottura che così oggi è diventata ufficialmente un obiettivo della nuova destra. Che pare aver rovesciato a suo favore l’antica parola d’ordine della politica comunista dei fronti popolari antifascisti del secolo scorso: raccogliere, dal fango in cui era stata gettata dalla borghesia, la bandiera della democrazia e della indipendenza nazionale.L’Unione Europea muove scandalo per Trump che vuol concludere il muro contro i migranti iniziato da Clinton, ma poi subappalta quello stesso muro al governo fantoccio libico e a quello autoritario di Erdogan. La delocalizzazione delle fabbriche è seguita da quella degli assassinii di massa dei migranti, restaurando la così più pura tradizione coloniale del vecchio continente. Di fronte alla crisi economica permanente del sistema euro, la Germania propone l’Unione a due velocità, una per sé una per le colonie del Sud Europa, e il governo italiano acconsente. Intanto tutti i parlamenti europei tranne uno, quello tedesco, sono sottoposti ai diktat e agli arbitri della tecnoburocrazia comunitaria. Trump chiede agli europei di pagarsi la Nato, cioè di accrescere le spese e gli interventi militari mentre si distrugge lo stato sociale, e la destra e la sinistra liberale fanno improvvisamente di quell’alleanza militare un baluardo dei diritti umani.Alla base di questi sconvolgimenti politici sta la crisi irreversibile della globalizzazione, non a caso dichiarata dai governi dei due paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti, che quaranta anni fa avevano dato a essa il massimo impulso. Crisi che in Europa sta finora proponendo solo due alternative, quella della rottura da destra e quella della conservazione ipocrita dello statu quo da parte delle vecchie élites e della loro doppia morale. Un’alternativa progressista oggi non è in campo perché gran parte della sinistra è stata condotta in un binario morto da gruppi dirigenti o venduti, o subalterni alla globalizzazione liberista. Persino nell’antagonismo radicale è comparso improvvisamente l’amore per la Ue e speriamo che ora ci sia risparmiato quello per la Nato. La sinistra comunista e anticapitalista, se vuole ancora avere un ruolo e una funzione, deve prima di tutto riprendersi i suoi obiettivi. Fuori dalla Nato, dall’euro e dalla Ue dunque, con ancora maggiore convinzione oggi che questi stessi obiettivi vengono riproposti dalla parte opposta. Solo così la sinistra può ridare attualità al socialismo e competere con, e smascherare il, nazional liberismo della nuova destra.(Giorgio Cremaschi, “Fuori dalla Nato, euro e Ue. Non cambio idea anche se Marine la pensa così”, dall’“Huffington Post” del 6 febbraio 2017).La mia prima manifestazione, oltre cinquanta anni fa, fu contro la guerra degli Usa in Vietnam e uno di primi slogan che ho gridato era: fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia. Non ho mai cambiato idea e non la cambio ora che la candidata presidenziale della destra francese, Marine Le Pen, propone la stessa scelta per il suo paese. Questo non mi fa paura, anzi. Il no alla Nato in Europa è stato sempre una discriminante nel mondo della sinistra. Quelle moderate, socialdemocratiche, di governo, son sempre state schierate con gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica. Quelle radicali, comuniste, di opposizione, erano contro. Lo stesso, anche se la memoria storica ricostruita dalle élites ora ha cancellato questa realtà, avveniva contro l’Euro e la sua creatura: l’Unione Europea. Nel 1979 il Pci di Enrico Berlinguer dichiarò la crisi della politica di unità nazionale con la Dc, partendo dal no a due decisioni che avrebbero cambiato la storia del continente: l’istituzione dello Sme, il sistema europeo di cambi quasi fissi che preparava l’euro, e l’installazione di una nuova generazione di missili in Europa Occidentale, missili puntati contro l’Unione Sovietica.
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Schulz e Juncker, l’amico dei migranti e il finto populista
«Non dormo più da dieci giorni. Ho 52 anni, tra qualche mese 53, da ieri sono ufficialmente un esubero». Parola di Iacopo Savelli, giornalista di “Sky”. «A Savelli voglio solo dire quanto segue: la situazione che lei vive da una decina di giorni, tanti la vivono dalla nascita; tantissimi dalla nascita dell’Ue e dell’euro», replica Vincenzo Bellisario sul blog del Movimento Roosevelt, che cita il programma, sintetizzato in un Tweet, del candicato cancelliere Martin Shulz per “riformare” l’Ue: «I rifugiati rappresentano il “sogno europeo” e valgono più dell’oro», dice l’ex presidente del Parlamento Europeo, in corsa per sfidare Angela Merkel, con cui finora ha governato. In effetti, sottolinea Bellisario, «considerando il notissimo progetto Ue di abbassamento dei salari», ben espresso dalla “lettera riservata della Bce al governo italiano” del 2011, Schulz ha perfettamente ragione: i migranti contribuiscono alla svalutazione interna indotta dall’euro, con il crollo del costo del lavoro (e del reddito medio europeo). Oro che cola, i rifugiati: «Nessun contratto di ingaggio, 10-12 ore di lavoro al giorno, 300 euro al mese». Nemmeno l’affitto è un problema: «Vivono anche in 20 persone all’interno di 60-70 metri di casa».Ha dunque “ragione” Martin Schulz, «esattamente come avevano ragione i vari D’Alema», quando affermavano di volere «almeno altri 30-50 milioni di extraeuropei nei prossimi anni all’interno Ue». Ovvio che poi esploda il “populismo”, che – per inciso – secondo Dario Fo non è un’esaltazione demagogica del popolo, anzi: «Il populista è colui che intende migliorare la posizione del popolo permettendogli di sfuggire alle violenze della classe dominante, ai ricatti e allo sfruttamento». Attenzione, però, al populista che non t’aspetti: come il maggiordomo dell’élite europea, Jean-Claude Juncker, che ora parla di “reddito minimo di base”, cercando di scippare ai “populisti” (quelli veri) il loro principale cavallo di battaglia. «Chi ottiene un reddito fisso mensile dall’Ue, difficilmente sarà spinto ad abbandonarla», scrive Bellisario. «Insomma, dopo 25 anni di “macelleria sociale” targata Ue ed euro, hanno capito che l’unico modo per battere il “populismo” è quello di trasformarsi in “populisti”». Bellisario cita l’Eurispes, secondo cui il 48,3% delle famiglie italiane non arriva alla fine del mese, mentre in Grecia una famiglia su due sopravvive grazie alla pensione di un familiare.L’allarme lanciato da Savelli, il giornalista di “Sky”, è decisamente illuminante: la catastrofe della crisi sta entrando anche nelle case dei “protetti” che mai avrebbero pensato di finire nei guai. Bellisario consiglia di non fidarsi né del solidarismo di Schulz, né di quello di Juncker: sono entrambi insinceri e provengono da due alti responsabili del disastro, che oggi provano a travestirsi da “amici del popolo”. In realtà stanno cercando di cambiare “canzone”, incalzati dai sondaggi e frastornati dagli ultimi risultati. Nell’ordine: Brexit, Trump, il No al referendum italiano. Attenti a quei due: sotto sotto, Schulz e Juncker la pensano sempre come il “maestro” Mario Monti, fiero del «grande successo dell’euro», la moneta creata «per convincere la Germania che attraverso l’euro e i suoi vincoli la cultura della stabilità tedesca si sarebbe diffusa a tutti». E dunque, per il cinico tecnocrate, «quale caso di scuola si sarebbe potuto immaginare milgiore di una Grecia che è costretta a dare peso alla cultura della stabilità e sta trasformando se stessa?». Con Schulz e Juncker, l’intera Europa scivola verso la Grecia “esemplare” di Monti, alla velocità della luce.«Non dormo più da dieci giorni. Ho 52 anni, tra qualche mese 53, da ieri sono ufficialmente un esubero». Parola di Iacopo Savelli, giornalista di “Sky”. «A Savelli voglio solo dire quanto segue: la situazione che lei vive da una decina di giorni, tanti la vivono dalla nascita; tantissimi dalla nascita dell’Ue e dell’euro», replica Vincenzo Bellisario sul blog del Movimento Roosevelt, che cita il programma, sintetizzato in un Tweet, del candicato cancelliere Martin Schulz per “riformare” l’Ue: «I rifugiati rappresentano il “sogno europeo” e valgono più dell’oro», dice l’ex presidente del Parlamento Europeo, in corsa per sfidare Angela Merkel, con cui finora ha governato. In effetti, sottolinea Bellisario, «considerando il notissimo progetto Ue di abbassamento dei salari», ben espresso dalla “lettera riservata della Bce al governo italiano” del 2011, Schulz ha perfettamente ragione: i migranti contribuiscono alla svalutazione interna indotta dall’euro, con il crollo del costo del lavoro (e del reddito medio europeo). Oro che cola, i rifugiati: «Nessun contratto di ingaggio, 10-12 ore di lavoro al giorno, 300 euro al mese». Nemmeno l’affitto è un problema: «Vivono anche in 20 persone all’interno di 60-70 metri di casa».
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Dacci oggi la nostra Europa quotidiana, che affama i sudditi
Sono sempre loro, e non mollano. Giuliano Amato, Anthony Giddens. Cioè «esponenti di punta della “terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista». Hanno firmato l’ennesimo appello (sul “Corriere della Sera”, l’11 febbraio) per il “rilancio dell’integrazione europea”, sostenuto da 300 intellettuali. Strillano: oggi l’Unione Europea è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni». Esaltano «l’economia sociale di mercato», affermando che può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà. E rivendicano il ruolo di un’Europa «cosmopolita» nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto, scrive Carlo Formenti su “Micromega”, condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano finalmente sceglierne i vertici. Peccato, dice Formenti, che le affermazioni dell’appello siano integralmente false. L’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere? «Dai Balcani all’Ucraina, passando per la Libia, l’Europa è stata un costante fattore di guerra». Quanto alla democrazia, «chiedete cosa ne pensa il popolo greco». E il citato benessere? Non pervenuto.Per Formenti, quel “benessere” è soltanto «un miraggio, per quei milioni di cittadini che hanno visto peggiorare drasticamente i livelli salariali e di occupazione, oltre a perdere gran parte dei diritti conquistati prima dell’avvio del processo di unificazione». Seconda considerazione: «Associare l’economia sociale di mercato all’allargamento della democrazia è una contraddizione in termini». Dietro questo slogan «si nasconde infatti quel progetto neoliberista che si è costantemente impegnato a sottrarre il compito della legittimazione al quadro costituzionale-parlamentare per affidarlo a organismi non eletti, che rispondono esclusivamente agli imperativi del mercato». Inoltre, agiunge Formenti, la sussidiarietà di cui si parla «è consistita nella proliferazione di enti, agenzie e autorità deputati a gestire localmente i bisogni sociali – proliferazione che è proceduta di pari passo con lo smantellamento del welfare e con l’assunzione dell’impresa privata quale modello universale di regolazione sociale, in base al principio secondo cui non bisogna ostacolare chi potrebbe erogare un servizio migliore del servizio pubblico».E’ quello che Colin Crouch ha definito «la spoliticizzazione del servizio pubblico attraverso la riduzione del cittadino a cliente». Infine le reti multilivello, presentate come un modello di integrazione della società civile nella governance, «sono di fatto servite a indebolire quei gruppi intermedi di pressione che rappresentavano e difendevano gli interessi delle classi subordinate», osserva Formenti. «Per il dogma ordoliberista, infatti, questi gruppi sono un ostacolo alla concorrenza che impedisce la libera formazione dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro, che va tenuto il più basso possibile per evitare tensioni inflazionistiche)». Sempre secondo quel dogma, “sacro” a chi comanda l’Europa – Germania, Ue, Bce – vanno contrastate tutte quelle richieste di “elargizioni clientelari” che provocano un aumento della spesa pubblica in materia di previdenza e salute. Al contrario dei liberisti classici, scrive Formenti, per gli ordoliberisti «il ruolo dello Stato è fondamentale: sia in quanto garante dell’ordine giuridico che deve garantire il corretto funzionamento del mercato (che non è in grado di autoregolarsi), sia in quanto garante di un ordine sociale “post ideologico” in cui tutti i cittadini devono venire convinti di essere “imprenditori di se stessi” e di vivere nel migliore dei mondi possibili».Il riferimento alla natura cosmopolita dell’Europa, del resto «smentito dai muri e dalle altre pratiche di contrasto ai flussi migratori, come il vergognoso accordo con il regime autoritario turco», per Formenti «va letto infine come “internazionalismo” delle élite, da contrapporre alle resistenze locali dei vari popoli europei alla colonizzazione da parte del capitale globale». Come conciliare tutto questo con la proposta di legittimare l’oligarchia di Bruxelles sottoponendola al vaglio degli elettori? «Non è difficile immaginare quali alchimie giuridico-istituzionali verrebbero escogitate per garantirsi a priori il trionfo di una grande coalizione europea “anti populista”, visto che, come spiega l’articolo di Goffredo Buccini nel taglio basso sotto l’appello», sul “Corriere”, occorre «guardarsi le spalle da quel popolo bue che insiste a votare movimenti come l’M5S, in barba alle prove di volgarità, ignoranza e incompetenza offerte dai suoi dirigenti».Sono sempre loro, e non mollano. Giuliano Amato, Anthony Giddens. Cioè «esponenti di punta della “terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista». Hanno firmato l’ennesimo appello (sul “Corriere della Sera”, l’11 febbraio) per il “rilancio dell’integrazione europea”, sostenuto da 300 intellettuali. Strillano: oggi l’Unione Europea è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni». Esaltano «l’economia sociale di mercato», affermando che può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà. E rivendicano il ruolo di un’Europa «cosmopolita» nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto, scrive Carlo Formenti su “Micromega”, condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano finalmente sceglierne i vertici. Peccato, dice Formenti, che le affermazioni dell’appello siano integralmente false. L’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere? «Dai Balcani all’Ucraina, passando per la Libia, l’Europa è stata un costante fattore di guerra». Quanto alla democrazia, «chiedete cosa ne pensa il popolo greco». E il citato benessere? Non pervenuto.
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Addio olio e pesci: climate change, la catastrofe nascosta
Il crollo della produzione di olio extra vergine in Europa è solo il campanello. Fattela addosso, tuo figlio è nella merda, come si dice in francese. Il mio sforzo, piuttosto disperato nel paese che vede meno che a 7 cm dal suo naso sempre e su tutto, è di farvi capire ciò che tuo figlio/a, oggi di 2 anni, dovranno affrontare quando avranno la tua età. Sono capaci tutti di scrivere le news di oggi. Ci vuole un certo cervello per offrirvi le news che faranno mettere le mani sulla faccia ai vostri bimbi fra 30 anni, ma offrirvele oggi (vedi pezzo precedente su Agorastrea, anche se in altro ambito). E’ ciò che sto facendo da due anni, in un paese dove i lettori hanno una visione di 7 cm dal loro naso. Una siccità senza precedenti nella storia della Siria fu l’innesco della guerra civile là. Orde di disperati fuggirono nel 2006 dalle campagne verso le città perché morivano di fame. Il marasma di povertà, disperazione, orrore governativo di quella bestia umana di Assad, pari solo all’orrore delle bestie umane della “opposizione moderata di Hollywood”, e le tensioni derivanti, è precisamente ciò che oggi vedete come guerra civile in Siria.Una siccità senza precedenti nella storia… Climate Change. Sapete cosa poi ci ha portato quella guerra civile, le gigantesche conseguenze sull’Europa, sulle politiche, sull’economia del tuo portafoglio, ci ha portato Trump (in parte), e lo dico a te signor taxista di Novara… (che mai capisce dove sono i veri drammi, ma neppure Barra-Caracciolo ci capisce una mazza, e non fa il taxista). Perché, e vengo a oggi, la produzione italiana del suo gioiello olio extra vergine è crollata in un anno del 41%, il peggior crollo della storia in Italia? “Commodity3” ha appena pubblicato un rapporto che pela vivi i banali articoletti apparsi (nascosti) di recente su “Repubblica” e sul “Fatto Q” su questo problema. Ma davvero questo crollo è dovuto a un parassita arrivato da Marte? Può essere, ma perché i giornalucoli non vi spiegano che quei parassiti di Marte sono figli del Climate Change, come invece dimostra la miglior ricerca biotech del mondo nascosta da Syngenta? E ’sto clima impazzito che abbiamo già nelle nostre regioni non c’entra? Ma dai? Allora perché un collasso di olio capita in Spagna e in Grecia senza i parassiti italiani?Ma che interesse ha la fetida Commissione Europea a permettere a un ufficietto negli scantinati del suo palazzo di Bruxelles di pubblicare un rapporto, letto da nessuno perché si trova molto dopo pag. 20 di Google, dove si legge “L’agricoltura europea sta vacillando sotto il peso del Climate Change… sono registrati cambiamenti drammatici in precipitazioni, temperature che vanno agli estremi del gelo e dell’afa, poi tempeste, allagamenti, in tutta la Ue”. L’Un Intergovernmental Panel on Climate Change, poi, ci dice che, altro che quote pesca della Ue. La vera bomba a mano nelle reti dei nostri Porto Garibaldi o Mazara del Vallo è il Climate Change. La scala grafica che l’Onu pubblica sugli sconvolgimenti della pesca nel Mediterraneo dovuti alla pazzia del clima, gli dà, su 5, 4 tacche rosse. Aspettiamo la quinta? Ah, dimenticavo. Ho già scritto che se siete preoccupati per l’invasione dei migranti, ancora non avete visto nulla. Aspettatatevi che i 300.000.000 (si legge trecentomilioni, non 3 milioni) di indiani che stanno rimanendo senza acqua per la semi-sparizione dei più vicini ghiacciai dell’Himalaya decidano che se proprio devono crepare, be’, val la pena tentare la via per l’Europa… Baciate i vostri bimbi stanotte, incoscienti. Poi baciate Bertolli. Il Climate Change è una fantasia, dai, vi ho solo fatto bu’!!!(Paolo Barnard, “Dalla Siria al mercato dell’olio di oliva: Climate Change, guardate 50 anni avanti”, dal blog di Barnard del 10 febbraio 2017).Il crollo della produzione di olio extra vergine in Europa è solo il campanello. Fattela addosso, tuo figlio è nella merda, come si dice in francese. Il mio sforzo, piuttosto disperato nel paese che vede meno che a 7 cm dal suo naso sempre e su tutto, è di farvi capire ciò che tuo figlio/a, oggi di 2 anni, dovranno affrontare quando avranno la tua età. Sono capaci tutti di scrivere le news di oggi. Ci vuole un certo cervello per offrirvi le news che faranno mettere le mani sulla faccia ai vostri bimbi fra 30 anni, ma offrirvele oggi (vedi pezzo precedente su Agorastrea, anche se in altro ambito). E’ ciò che sto facendo da due anni, in un paese dove i lettori hanno una visione di 7 cm dal loro naso. Una siccità senza precedenti nella storia della Siria fu l’innesco della guerra civile là. Orde di disperati fuggirono nel 2006 dalle campagne verso le città perché morivano di fame. Il marasma di povertà, disperazione, orrore governativo di quella bestia umana di Assad, pari solo all’orrore delle bestie umane della “opposizione moderata di Hollywood”, e le tensioni derivanti, è precisamente ciò che oggi vedete come guerra civile in Siria.
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Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
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Macron, l’uomo dei Rothschild, non fermerà Marine Le Pen
Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.Mentre i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e il governatore della Bce ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica, ammettendo però implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose, Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia. E il governo italiano («forse bluffando, forse alienato dalla realtà») plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa. La situazione si fa incandescente, scrive Dezzani nel suo blog: «Messa di fronte al fallimento dell’euro come strumento politico per strappare gli Stati Uniti d’Europa (“nein” tedesco agli eurobond, all’unione bancaria, alla transfer-union), l’oligarchia euro-atlantica ha scelto di arroccarsi, difendendo strenuamente le posizioni dall’avanzata dei “populisti”, ossia dei partititi che catalizzano il malessere della società accumulato in sette anni di eurocrisi». L’apice della tensione sarà certamente toccato nelle elezioni transalpine, dove Marine Le Pen – vicinissima alla vittoria – potrà innescare la dissoluzione dell’Ue. La Francia è un paese-cardine dell’Unione, «è la seconda economia della moneta unica, nonché parte integrante del famigerato “motore franco-tedesco” (da tempo sbiellato)».Il successo dei “populisti” alle prossime presidenziali, dice Dezzani, sancirebbe automaticamente la fine dell’euro e delle istituzioni di Bruxelles, con buona pace delle pretese di irrevocabilità dell’euro ed i sogni di Angela Merkel di un’Europa a più velocità. «Il giorno dopo la vittoria dei populisti francesi, l’Unione Europea arriverebbe al capolinea, imboccando la strada della disgregazione, forse concordata, ma più probabilmente caotica». Da tempo la situazione sta precipitando, con «un capo dello Stato, François Hollande, tra i più impopolari della Quinta Repubblica», poi «un debito pubblico che è lievitato dal 60% al 100% del Pil da quando è stato adottato l’euro», nonché «una bilancia commerciale in cronico disavanzo e una disoccupazione record, pari al 10% della forza lavoro». Perché la Francia possa rimanere agganciata all’euro, «andrebbe anch’essa sottoposta alle dure ricette dell’austerità e della svalutazione interna». Ma la Francia non è l’Italia: «I cugini d’Oltralpe vantano una lunga storia di rivoluzioni e sono naturalmente inclini a ribellarsi se giudicano lo Stato troppo vessatorio. Lo hanno ricordato il piano di esuberi ad Air France, che per poco non è degenerato in un linciaggio dei dirigenti, e le proteste contro il “Jobs Act” francese», il pacchetto Loi Travail, che ha generato «mobilitazioni di massa di lavoratori e sindacati che hanno portato il paese ad un passo dalla paralisi».Dezzani spiega così l’offensiva terroristica (targata Isis) di cui è stata vittima la Francia: una vera e propria «strategia della tensione», nel tentativo di «sedare l’elettorato e soffocare le pulsioni populiste», rafforzando i «partiti di sistema». Dezzani sottolinea la progressione degli eventi: nell’autunno 2013 Hollande inanella un nuovo record di impopolarità; nella primavera 2014 Manuel Valls è nominato primo ministro; nel gennaio 2015 è inaugurata, con la strage di Charlie Hebdo, la lunga scia di attentati «gestita dalla Dgse», l’intelligence francese, «e dai servizi segreti atlantici (Mossad, Cia, Mi6)». Seguono la carneficina del Bataclan, la strage di Nizza e uno stillicidio di attentati minori con cadenza mensile: «Circa 200 persone muoiono nell’arco di due anni, ed è facile attendersi ancora qualche colpo di coda prima delle presidenziali». Sull’onda della strage di Parigi, è dichiarato lo stato d’emergenza (novembre 2015) e la serie quasi interrotta di attentati permette di protrarlo ad ogni scadenza: «Per la prima volta dalla guerra in Algeria, i francesi voteranno quindi in un contesto di limitazioni alle libertà personali».Ma se gli attentati servano a mobilitare 10.000 riservisti, a ripetere il mantra “la Francia è in guerra” e ad iniettare «effimere dosi di popolarità alla presidenza di Hollande», in realtà i consensi dei principali partiti d’establishment «si squagliano come neve al sole», se è vero che «a distanza di un mese dalla carneficina del Bataclan il Front National si impone come prima forza politica alle regionali del dicembre 2015 e si rafforza la certezza che il Fn conquisterà il ballottaggio alle presidenziali del 2017». Se nel 2002 finì al ballottaggio il fascistoide impresentabile Jean-Marie Le Pen, cosa che spinse anche i socialisti a votare per Jacques Chirac, oggi il Front National è però rappresentato dall’accattivante volto della figlia, Marine Le Pen. E, «complice la grande debolezza dei repubblicani (ancora convalescenti dalla presidenza di Nicolas Sarkozy) e la liquefazione dei socialisti, il partito è ben posizionato per raccogliere voti a destra (sicurezza, lotta all’immigrazione, gaullismo anti-Nato) ed a sinistra (difesa dell’industria nazionale, contrasto all’impoverimento post-euro, attacco ai soliti notabili parigini). Le probabilità di una vittoria del Front National aumentano settimana dopo settimana, concretizzando i peggiori incubi dell’establishment euro-atlantico: dopo Donald Trump alla Casa Bianca, Marine Le Pen all’Eliseo».Marine Le Pen sarebbe «favorevole all’Europa della Nazioni, all’uscita dall’euro ed al ritorno al franco, allo svincolamento della Francia dalla Nato (con il probabile avvallo di Donald Trump) ed a rapporti solidi e proficui con la Russia (da cui ha sinora ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale)». Dopo Brexit e Trumo, la vittoria di Marine sarebbe «il colpo di grazia alla già traballante impalcatura Cee-Ue/Nato su cui basa da 70 anni il dominio angloamericano sul Vecchio Continente». Il potere è già corso ai ripari. Ma, puntando su Macron, secondo Dezzani sta sbagliando i suoi conti. Nell’arco di soli tre mesi, «l’oligarchia euro-atlantica ha mutato la strategia in base all’esito delle primarie, passando dall’iniziale scenario “Alain Juppé versus Marine Le Pen” a quello “Emmanuel Macron versus Marine Le Pen”, sacrificando nel mezzo il repubblicano François Fillon, reo di essere troppo filo-russo ed euro-tiepido: è stata una scelta non solo azzardata, ma quasi certamente anche errata, perché le probabilità di vittoria di Marine Le Pen, anziché diminuire come sperato, sono invece paradossalmente aumentate».Ebbene sì, madame Le Pen avrà l’onore di abbattere il Muro di Bruxelles. Convinzione che Dezzani ricava dalla ricostruzione delle manovre in corso in Francia per tentare di fermare la first lady del Front National. Punto di partenza, «l’impopolarità record di François Hollande e il conclamato sfaldamento del partito socialista», condannato all’esclusione dal ballottaggio. L’establishment punta dapprima sul navigato Alain Juppé, più volte ministro, europeista convinto, ostile a Putin. Ma ci sono ostacoli: «Il primo è Nicolas Sarkozy, la cui eliminazione politica è relativamente facile: è sufficiente rivangare i finanziamenti illeciti ricevuti durante la campagna elettorale del 2012 e l’ex-presidente è neutralizzato». Il secondo ostacolo è François Fillon, ultra-liberista ma indigesto all’élite: contrario al Trattato di Maastricht, critico sull’Ue e sulle sanzioni alla Russia. Ma i sondaggi (quelli veri) rivelano che nessuno di questi candidati può farcela, contro Marine Le Pen. Serve un nuovo personaggio, che sembri un outsider: Emmanuel Macron, 38 anni, già ministro dell’economia, fresco di dimissioni. Le probabilità di vittoria, scrive inizialmente “Le Monde”, sono esigue, perché Macron ha intenzione di correre senza l’appoggio di alcun partito tradizionale: il suo progetto è quello di “superare la sinistra e la destra”. «Già, però “Le Monde” dimentica che Macron dispone di qualche solida amicizia nel mondo della finanza: la banca Rothschild, dalle cui fila uscì a suo tempo il presidente Georges Pompidou».A testimonianza della ribellione che serpeggia tra l’elettorato, le primarie del centrodestra incoronano Fillon, che si impone su Juppé. «Considerato che i socialisti sono matematicamente estromessi dal ballottaggio, si figura quindi un singolare duello tra “les amis de Vladimir Poutine”, Fillon e Len Pen. Il colpo incassato dall’oligarchia euro-atlantica è molto duro, forse anche un po’ troppo, considerata la sua successiva mossa che sembra davvero poco lucida: segare le gambe a François Fillon, per portare al ballottaggio il suo “protégé” Emmanuel Macron». Contro Fillon «è scatenato il solito scandalo mediatico-giudiziario, incentrato sui compensi ricevuti dalla moglie, assunta come assistente parlamentare». Fillon denuncia pubblicamente il “colpo di Stato istituzionale” ai suoi danni, ma il battage della stampa martella senza sosta: «Benché non ci sia nulla d’illegale nella condotta di Fillon, sono forti le pressioni perché si ritiri dalla campagna elettorale. L’ex-primo ministro ha recentemente asserito di non voler gettare la spugna, ma è chiaro che la sua corsa verso l’Eliseo è stata gravemente compromessa, a vantaggio dell’astro nascente di queste ultime settimane, l’ex-banchiere Emmanuel Macron».Tra il 2008 ed 20126, Macron, «già pupillo di quel Jacques Attali che contribuì a scrivere il Trattato di Maastricht», ha lavorato infatti presso la Rothischild & Compagnie. «E ci sono pochi dubbi che dietro la sua fulminea ascesa si nasconda la solita oligarchia finanziaria liberal: quella che tira i fili dell’Unione Europea, quella che sogna il cambio di regime in Russia, quella che aveva scommesso tutto su Hillary Clinton, quella che ha portato Bergoglio al soglio pontificio». È così evidente il nesso tra Macron ed i circoli dell’alta finanza, continua Dezzani, che «gli osservatori, specie se italiani, non possono che sorridere, notando le incredibili analogie tra Macron e l’ex-premier Matteo Renzi, a sua volta espressione di Jp Morgan. Entrambi “rottamatori”, entrambi per il superamento della sinistra e della destra (vedi Partito della Nazione), entrambi “ultimo argine” contro i populismi, entrami “europeisti”, entrambi creati artificialmente in laboratorio, con l’auspicio che l’elettore voti “la novità” come compera un detersivo pubblicizzato in televisione. Il motto scelto da Macron per la campagna elettorale, “En marche!”, è addirittura quasi la traduzione de “l’Italia riparte” usato dallo sfortunato Renzi».Basta un mese scarso di campagna elettorale perché si imponga, sui media, il “fenomeno Macron”, «il giovane rottamatore che conquista i cuori e le menti degli elettori grazie ai social network, al sorriso accattivante, al superamento delle ideologie e alla retorica liberal». A cronometro, ai primi di febbraio, «escono (dietro suggerimento dei soliti noti) sondaggi sorprendenti. il sorpasso è avvenuto!». Sicché, il ballottaggio del 7 maggio non vedrà più fronteggiarsi i due filo-russi Fillon e Le Pen, ma l’europeista Macron e la populista Le Pen. E poi, perché fermarsi al ballottaggio? “Francia, sondaggio: Macron 65% al ballottaggio contro Le Pen. Fillon si scusa ma va avanti”, titola il “Sole 24 Ore” il 6 febbraio. «L’ex-banchiere della Rothschild & Compagnie ha già vinto, 65% contro 35! Et voilà! Il voto della prossima primavera è solo una formalità: anche la più grande minaccia per l’impalcatura euro-atlantica è stata scongiurata e l’establishment può tirare un sospiro di sollievo. Ma è davvero così?». Dezzani scommette di no: «Supponiamo che i sondaggi siano effettivamente corretti ed il “rottamatore” Macron conquisti il ballottaggio a discapito di François Fillon, dimezzato dagli scandali. La domanda da porsi è: la banca Rothschild, così facendo, ha ridotto le probabilità di una vittoria finale della populista Le Pen? La risposta è no». Anzi, le chance di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio sono virtualmente in aumento.Per Dezzani, la strategia dell’oligarchia euro-atlantica sta sbagliando tutto, «ennesimo sintomo dell’incapacità delle élite di leggere la realtà: la stessa incapacità già riscontrata in Italia, dove l’enorme capitale politico di Matteo Renzi è stato dilapidato in soli tre anni, fino all’esaurimento totale con la sconfitta referendaria del 4 dicembre». In un ballottaggio tra François Fillon e Marine Len, giocato tutto alla destra dell’arena politica, il candidato repubblicano aveva (e forse ha) qualche possibilità di successo, perché «in grado di intercettare i voti dei socialisti e del centro, sommandoli a quelli dell’Ump/repubblicani». Con Fillon, «l’opinione pubblica avrebbe percepito il ballottaggio come una sfida tra due “outsider”, rendendo più difficile al Front National catalizzare il voto anti-sistema, divenuto sempre più importante in termini numerici». In un ballottaggio tra Macron e la Le Pen, invece, «tutto il bacino della destra francese, repubblicana, gollista e nazionalista (in sostanza i due principali partiti politici), confluisce verso il Front National, aprendo le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen con una facilità persino maggiore che in duello con Fillon».Non solo: quel ballottaggio «si configurerebbe anche come una sfida tra “le candidat du fric” (il candidato dei soldi) e la populista, tra l’ex-banchiere dei Rothschild e la candidata che raccoglie i voti nelle periferie, tra i notabili di Parigi ed il resto della Francia. Poteva chiedere di meglio il Front National?». Aggiunge Dezzani: «Azzoppando Fillon e scommettendo tutto su Macron, la banca Rothschild & Compagnie ha in sostanza commesso un clamoroso errore politico, frutto di una valutazione completamente distorta della realtà: non c’era modo migliore che aprire le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen che schierarle contro un ex-banchiere d’affari, discepolo di Jacques Attali, ministro dell’economia sotto la presidenza Hollande ed espressione del grande capitale internazionale». In più, «circolano voci di imminenti rivelazioni su Emmanuel Macron, compromettenti notizie sui suoi legami con l’alta finanza e/o con la lobby omosessuale: sarebbe, secondo alcune ricostruzioni, un tentativo della Russia di soccorrere il “proprio candidato”, quella Marine Le Pen che promette di liberare la Francia dal giogo dell’euro e della Nato». Morale: «Il Front National vincerà con alte probabilità le elezioni presidenziali, ma non dovrà sdebitarsi col Cremlino», perché «l’assist più prezioso» le è stato involontariamente fornito dai Rothschild e dal loro “candidat du fric”».Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.
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“Ma Trump voleva solo appalti, non diventare presidente”
Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».Affermazioni clamorose, che Carpeoro affida alla diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nighs” il 29 gennaio. Sul tappeto, le roboanti iniziative del neo-presidente in materia di immigrazione. «Il Muro alla frontiera col Messico? Pochi lo dicono, ma quel muro esiste già: lo eresse Bill Clinton. Trump si è solo ripromesso di completarlo». In altre parole: cambiano gli orchestrali, non lo spartito. «Per il potere è indifferente il pullman su cui salire». L’annuncio del trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme? «Non è un fatto epocale, come si pretende: Gerusalemme è già sotto il pieno controllo ebraico». Nel suo saggio sul rapporto fra massoneria e terrorismo, lo stesso Carpeoro racconta che, a Yalta, «due massoni e mezzo», cioè Roosevelt e Churchill, più Stalin, «negando la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico stabilirono, già nel 1945, che in Medio Oriente la guerra sarebbe durata per sempre: questo era l’interesse del grande potere, che non ammette deroghe». La riprova? «Chiunque si sia opposto, scommettendo sulla pace, ha fatto una brutta fine: Arafat, Hussein di Giordania e lo stesso Rabin, ucciso da estremisti ebraici».Morale: «Non aspettiamo chissà cosa, da Trump. Il neoeletto vedrà il da farsi, volta per volta». Secondo Carpeoro, “The Donald” è alla Casa Bianca essenzialmente per via della defaillance di Hillary. Ed era stato candidato per opporsi, anche con l’aiuto inatteso della super-massoneria “progressista”, al pericoloso Jeb Bush, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”) riconduce alla filiera della Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, creata da George Bush (padre) nel 1980, dopo la sconfitta subita per mano di Reagan alle primarie repubblicane. Magaldi la definisce «loggia del sangue e della vendetta», descrivendola come un circolo esclusivo e sanguinario, responsabile della strategia della tensione a livello internazionale, con il contributo di personaggi come George W. Bush, Nicolas Sarkozy, Tony Blair, Recep Tayyip Erdogan. «Quanto sta emergendo sul ruolo della “Hathor Pentalpha” in relazione al caso Bin Laden e all’Isis – afferma Carpeoro – ha motivato il sostegno a Trump per fermare Jeb Bush». E ora che Trump è alla Casa Bianca? Niente paura, conclude Carpeoro: «Come presidente non potrà più auto-assegnarsi appalti, ma li riceverà da Putin in Russia. E Trump contraccambierà, concedendo appalti a Putin in America».Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».
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Trump e il Muro: il lavoro viene prima del business parassita
Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».Prima vittima del neopresidente, i poveri emigranti: bloccati, a quanto pare, dall’estensione del Muro (che già esiste, per ampi tratti, lungo le frontiere di California e Texas). «E adesso arriva l’altra metà della promessa: lo pagheranno i messicani. Da oggi sappiamo pure il come: con un dazio del 20% sui prodotti che varcheranno la frontiera, ogni merce “made in Mexico” importata negli Stati Uniti». Due le domande, osserva Rampini. La prima: è lecito? Il Messico fa parte del trattato Nafta che istituì con Usa e Canada il mercato unico nordamericano nel 1994. Ma se un presidente Usa vuole recedere dall’accordo, gli basta annunciarlo con preavviso unilaterale di sei mesi. Seconda domanda: cosa può fare il Messico per difendersi? «Certo è sempre possibile immaginare una serie di ritorsioni e rappresaglie a cominciare da un analogo dazio sul “made in Usa”. Qui però entra in gioco l’evidente asimmetria: il Messico esporta sul mercato Usa più di quanto i vicini settentrionali riescano a vendere ai consumatori messicani».L’asimmetria – che si traduce in un deficit commerciale visto dagli Stati Uniti – fa sì che nella guerra commerciale il Sud abbia molto più da perdere, scrive Rampini, secondo cui «l’unica vera incognita riguarda le multinazionali americane». Molte di loro, ricorda il giornalista, cominciarono a delocalizzare in Messico negli anni ‘90 per sfruttare i costi di produzione inferiori (soprattutto salariali) nelle cosiddette “maquiladoras”, stabilimenti che assemblano per riesportare negli Usa. Di fatto, quindi, «buona parte del commercio tra le due nazioni è in realtà commercio “interno” ad aziende transnazionali che hanno il quartier generale e gli azionisti negli Stati Uniti. Sono loro a trovarsi “prese in mezzo”, e di certo si muoveranno per ridurre i danni». Ai colossi dell’automobile, Trump ha già proposto un do ut des: voi la smettete di costruire fabbriche oltre confine, tornate a produrre negli Stati Uniti, e io in cambio vi riduco le tasse sui profitti e le regole anti-inquinamento.«Vedremo se può proporre contropartite attraenti anche ad altri settori industriali», aggiunge Rampini, sapendo che, in ogni caso, «per le multinazionali Usa si pone il problema delle fabbriche già esistenti». Esempio: Ford può cancellare, come ha fatto, il progetto di costruirne una nuova in Messico, «ma su quelle che ha già, subirà la mannaia del superdazio, 20% di sovrapprezzo se prova a rivendere quelle Ford “messicane” ai suoi clienti americani». E’ un problema enorme, «che riguarda una lunga lista di aziende», le cui voci «ora è presumibile che si faranno sentire». Per la cronaca: è anche la prima volta, dopo almeno trent’anni, che un politico al vertice dell’Occidente antepone l’occupazione al super-reddito dell’élite, vincolandolo alla protezione sociale della comunità nazionale.E’ il contrario esatto del dogma neoliberista spacciato per Vangelo da tutte le destre (e le sinistre) che si sono avvicendate, in apparente alternanza, al governo dei nostri paesi, “sbriciolati” proprio dal crollo della domanda interna (meno lavoro e quindi meno redditi e meno consumi, meno gettito fiscale e dunque più tasse e più debito) fino a gonfiare l’ondata di “populismo”, in cui è presente anche il rifiuto democratico dell’attuale gestione tecnocratico-finanziaria presentata come “inevitabile”, ad esempio nell’Europa del rigore “tedesco” imposto attraverso Bruxelles con la politica dell’euro. Quella di Donald Trump (“gli americani prima di tutto”) è una politica di assoluta rottura, di cui oggi l’inquilino della Casa Bianca si presenta come il nuovo campione mondiale. Un virus che potrebbe contagiare l’Unione Europea? Se si dovesse invertire anche da noi l’ordine delle priorità strategiche – il lavoro prima del business – è evidente che l’euro salterebbe: senza moneta sovrana e piena autonomia fiscale, nessun governo avrebbe la possibilità di incrementare, con investimenti e sgravi, la domanda interna, unica possibile soluzione per ridare fiato alle aziende, al lavoro, al paese.Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».
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Più crisi, meno democrazia: l’élite “deve” sottometterci
Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».L’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza, scrive Formenti su “Micromega”, non viene nemmeno presa in considerazione, «quasi si trattasse di fenomeni “naturali”». Meglio dunque ricorrere al comodo fantasma del “populismo”, «termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi». Se tale è lo scenario, tanto vale ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, cambiando le regole, in modo da rendere superflua l’approvazione popolare. Un esempio, dice Formenti, viene dal “New York Times”, dove Eduardo Porter auspica leggi speciali e riforme che diano più potere al governo, «dopo essersi chiesto se globalizzazione, mutamenti demografici e rivoluzione culturale abbiano eroso il consenso del popolo americano nei confronti della “democrazia del libero mercato”, al punto da indurlo a votare per un uomo come Trump (Sanders non è nemmeno citato!), che ha fatto campagna sostenendo che il sistema serve gli interessi di un’élite cosmopolita contro quelli della gente comune».Porter, «bontà sua», ammette che «il popolo ha molte ragioni per lamentarsi», ma poi «conclude incongruamente che il vero motivo del successo populista non sta in queste ragioni, bensì nei difetti del sistema elettorale (!?)», quindi conclude «citando i suggerimenti di riforme orientate a garantire la “governabilità” offerti da alcuni solerti politologi». Stessa musica sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio, dove Michele Salvati «ribadisce che sì, la vita della maggioranza dei cittadini è grama e tale resterà a lungo» per cui, appurato che «le “leggi” dell’economia non ammettono deroghe e che dunque occorrerà in ogni caso farle digerire al popolo», a tale scopo «servirà comunque “riformare” la Costituzione». Il compito si è rivelato impossibile per un’unica forza politica? E allora «non resta che lavorare alla costruzione di una grande coalizione “anti populista” che abbia la maggioranza necessaria per compiere le riforme senza che poi debbano essere sottoposte a referendum».Sempre sul “Corriere”, Gustavo Ghidini rilancia con forza «l’imprescindibile esigenza di “normalizzare” la comunicazione online». Gli argomenti sono i soliti: combattere le bufale, gli incitamenti all’odio, l’uso di termini offensivi e “politicamente scorretti”. E’ evidente, scrive Formenti, come «il senso di queste e altre definizioni possa essere opportunamente dilatato per colpire ben altri bersagli, come la libertà di opinione ed espressione, ed è altrettanto evidente come questa crociata sia, non casualmente, iniziata subito dopo che sondaggisti e studiosi di comunicazione hanno accusato Internet di avere favorito i successi elettorali “populisti”, bypassando un sistema dei media mainstream sempre più blindato a sostegno del pensiero unico liberal-liberista e delle forze politiche che ne incarnano gli interessi». Insomma: per Formenti «la grande controffensiva è iniziata, ed è destinata a farsi più feroce a mano a mano che l’insofferenza dei cittadini nei confronti delle élites si farà più forte, fino a generare (si spera) una domanda esplicita di rottura sistemica».Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».