Archivio del Tag ‘Micromega’
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Rivoluzione d’Ottobre, oggi, per demolire il potere dell’élite
La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.Noi oggi viviamo in un sistema economico e politico che ha esaurito tutte le proprie capacità riformiste. Un sistema incapace di qualsiasi vera mediazione sociale, chiuso in sé stesso e nelle sue élites. Un sistema non riformabile. Nel 1914 l’Europa si suicidò con la Prima Guerra Mondiale, una sporca inutile strage che non solo distrusse milioni di vite, ma anche quella che allora era la sinistra, la socialdemocrazia, che nella sua maggioranza tradì sé stessa e chi rappresentava approvando il massacro. Oggi l’Europa si sta suicidando con le politiche di austerità governate dalla Ue, politiche che fanno guerra sociale ai popoli e che hanno visto la stessa distruzione della sinistra ufficiale, che quelle politiche ha approvato e gestito. Oggi torna la necessità di rotture rivoluzionarie, che qui in Europa viene annunciata da crisi politiche diffuse e da una rabbia di massa, che viene espressa in varie e anche opposte forme con quello che oggi viene genericamente definito populismo. La crisi delle classi dominanti non ha ancora dispiegato tutta la sua portata, esse sono ancora capaci di coinvolgere nel proprio potere una parte degli oppressi e soprattutto delle loro rappresentanze. Tuttavia il logoramento del sistema avanza e le rotture avvengono, come sempre partendo dai punti più deboli.Le rivoluzioni le scatenano le masse e nessun surrogato è possibile di esse. Ma questo non significa che si debba stare con le mani in mano. Innanzitutto bisogna cogliere e capire le linee di rottura rivoluzionaria. Che proprio per il concetto stesso di rivoluzione sono sempre diverse da quanto normalmente si presenti sulla scena politica, sono rivoluzioni appunto. Qual era l’argomentazione di fondo dei menscevichi contro Lenin e Trotsky? Che non si dovesse far fare salti alla storia e che in Russia non ci fossero le condizioni oggettive per la rivoluzione. Oggi i neo menscevichi delle varie anime della sinistra usano gli stessi argomenti per giustificare Tsipras in Grecia: e come poteva lui da solo andare contro tutta l’Europa? Oppure per condannare senza appello la Catalogna: cosa c’entra quella mobilitazione popolare per l’indipendenza con la giusta lotta di classe? Oppure per non rompere con Ue e Nato: non sapete che disastro se ci isoliamo da quelle strutture, che in fondo ci tutelano da rischi peggiori?Tutte queste argomentazioni sono piene di parziali verità, ma assieme costituiscono un’unica menzogna. La menzogna è che si debba attendere una evoluzione di tutto il mondo verso momenti migliori, per il cambiamento. Questa evoluzione non esiste, o si arriva ad un processo rivoluzionario, o si precipita nella barbarie verso cui già stiamo scivolando. Lenin e Marx erano prima di tutto dei geni rivoluzionari e in quanto tali dei giganteschi scienziati sociali. Essi non attendevano la conferma delle proprie teorie, ma le verificavano nella rottura rivoluzionaria reale. Marx auspicò che la comunità contadina russa fosse alla base di una rivoluzione sociale, che in quel paese saltasse alcune fasi dello sviluppo capitalistico. Lenin mise in pratica quella intuizione adottando la parola d’ordine populista della terra ai contadini, che i bolscevichi avevano fieramente avversato, senza la quale non avrebbe vinto la guerra rivoluzionaria contro le armate bianche finanziate da tutto l’Occidente. Le rivoluzioni ci spiazzano sempre, proprio perché esse nascono dalla necessità delle masse. Esse per loro natura sono la rottura della politica consolidata, in tutte le sue espressioni.La soggettività rivoluzionaria si misura proprio in quel momento. Se essa è vera e sufficientemente preparata e forte, allora può svolgere il ruolo necessario di direzione del processo, che se ne avvantaggia. Se non lo è allora la rivoluzione va per conto suo, nel bene o nel male, e lascia le “avanguardie” a dare rancorosi voti alla storia. Per questo oggi io sento più attuale che mai la lezione dell’Ottobre sovietico. Quando il sistema è bloccato prima o poi le rivoluzioni esplodono e compito dei veri rivoluzionari è capire ciò che accade e provare a governarlo. Governarlo verso il consolidamento della rottura rivoluzionaria, anche se essa non corrisponde a quanto previsto dai manuali delle giovani marmotte marxiste leniniste, anche se essa non avviene dove si sperava e nel modo e con le dimensione e che si sperava. Perché l’alternativa alla rivoluzione non è un cambiamento più lento e più sicuro, ma la reazione, la regressione brutale. Per questo oggi più che mai dobbiamo prima di tutto essere grati a coloro che nel 1917 hanno dato l’assalto al cielo. E farci carico delle necessità rivoluzionarie del presente.(Giorgio Cremaschi, “L’attualità della Rivoluzione d’Ottobre”, da “Micromega” dell’8 novembre 2017).La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.
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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Giacché: l’Europa ha un nemico, si chiama Unione Europea
Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto. In Germania, malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di sistema? Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi. Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari.I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza. Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, “Anschluss” – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est.A questo punto tutti gli asset industriali dell’Est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente. Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti? L’Afd non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente. La Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra? La Linke prende mezzo milione di voti dalla Spd, ma cede poco meno alla Afd. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie.Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla Spd. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni. E la Francia? Era a un bivio: accodarsi all’Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell’austerity o far cambiare marcia all’Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Macron ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.L’Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco, e il vento populista ha terreno fertile? Direi che più importante della velocità qui è la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano. Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente – avevano avuto la saggezza di sostituire il “plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il Fiscal Compact. Quel Fiscal Compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.Come uscirne? Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro paese, e favorevole ad altri. L’Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles? Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni.(Vladimiro Giacché, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “In Germania ha vinto la protesta e l’Ue è irriformabile, come non capirlo?”, pubblicata su “Micromega” il 28 settembre 2017. Eminente economista, Giacché è presidente del centro studi Europa Ricerche).Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.
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Scienza express: tutto pubblicabile, su riviste a pagamento
Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.La mail invitava il medico a inviare un articolo per contribuire alla pubblicazione di un nuovo numero. McCool, il quale ha fondato un sito dedicato a coloro che desiderano ricevere un aiuto per la costruzione di un articolo scientifico da pubblicare in inglese, ha da subito sentito puzza di imbroglio, l’invito gli è sembrato inopportuno non essendo un esperto di urologia o nefrologia, e ha deciso di verificare la qualità del giornale provando a proporre un articolo totalmente inventato. Essendo un grande fan della serie “Seinfeld”, l’autore ha preso spunto da un vecchio episodio della serie per inventarsi il caso di studio: durante una puntata il protagonista si trova costretto da varie disavventure a dover urinare all’interno di un parcheggio pubblico; sorpreso dalla guardia si inventa una malattia rarissima che lo costringe a dover urinare forzatamente ogniqualvolta ne abbia necessità, pena un possibile avvelenamento da “uromisite” e una morte atroce. L’articolo contenente la descrizione di questo caso a dir poco peculiare è stato condito con varie citazioni inventate e da una serie di nomi sempre ripresi dalla medesima sitcom.L’articolo è stato dunque inviato alla rivista affinché potesse essere sottoposto al processo di peer-review: il processo di revisione del contenuto dell’articolo da parte di esperti del settore. Si tratta di una pratica fondamentale all’interno della comunità scientifica, perché questo passaggio dovrebbe essere il momento del controllo imparziale della plausibilità, della ripetibilità e dell’utilità conoscitiva dello studio. Per essere pubblicato l’articolo deve essere accettato dalla totalità o dalla maggior parte dei revisori. In questo caso, con non troppa sorpresa dell’autore, l’articolo è stato accettato in tempi brevissimi, sono bastati tre giorni: i recensori hanno indicando solamente qualche correzione da aggiungere nell’abstract e altre sottigliezze di poco conto. L’articolo sarebbe stato dunque pubblicato, ma a una condizione: che venissero pagati 799 dollari più tasse. Ed ecco svelato l’imbroglio. Quello che interessa ai fantomatici editori della rivista sono i soldi che possono sottrarre a ricercatori alla disperata ricerca di pubblicazioni.Per chi è del settore questo genere di riviste ha un nome: “predatory journals”. Si tratta di “riviste” fittizie, che si propongono come open access, nella maggior parte dei casi senza una vera redazione, senza un comitato scientifico reale. Si presentano spesso come nuove risorse emergenti alla ricerca di giovani talenti da mettere in luce e offrono opportunità di pubblicazione a coloro che bramano espandere il proprio curriculum. Le loro strategie sono stereotipate: solitamente si riceve una mail dove si viene invitati a scrivere un articolo per un nuovo numero (in altri casi si chiede di diventare membri dell’editorial board), viene presentato un sito dedicato apparentemente regolare dove si troveranno nomi di sconosciuti o di persone che inconsapevolmente fanno parte della redazione, ma per chiunque abbia tempo per approfondire la qualità di questi siti essi risulteranno irrimediabilmente vuoti. Il loro fine è riuscire a farsi pagare per la pubblicazione dell’articolo, che si può star sicuri non verrà rifiutato dai revisori. Coloro che decidono di pagare possono veder scomparire la rivista non appena effettuato il bonifico, oppure rimangono delusi dal veder pubblicato il proprio articolo su un qualche sito vuoto, delegittimato e screditato.McCool ha voluto prendersi gioco in maniera esemplare di uno di questi approfittatori per riportare ancora una volta l’attenzione su un fenomeno in aumento. Sono state contate circa 10.000 riviste del genere sulle quali sono stati pubblicati nel 2015 circa mezzo milione di articoli. Nell’epoca del “publish or perish”, o si pubblicano tanti articoli oppure si muore affogati nel mare della competizione spietata. Essendo i ricercatori valutati soprattutto per il peso e la quantità delle loro pubblicazioni, trovare una rivista dove pubblicare è una necessità vitale. Le possibilità di fare carriera o di ricevere sostanziosi finanziamenti ruotano tutte attorno alle proprie pubblicazioni. Per molti scendere a compromessi con riviste dall’impact factor nullo o dalla dubbia reputazione è una via di fuga disperata. Si è così innescato questo circolo vizioso che spinge i ricercatori a trovare qualsivoglia piattaforme sulle quali pubblicare i propri articoli, dall’altra parte molti furbi hanno trovato un modo semplice per fare danari. Recentemente ha suscitato altrettanta ilarità una denuncia simile a quella di McCool: la rivista “International Journal of Comprehensive Research in Biological Sciences” ha pubblicato senza troppe remore un articolo scritto da un bambino di sette anni incentrato su quanto fossero “cool” i pipistrelli.Navigando sul web si possono trovare altri simpatici esperimenti del medesimo tipo e come ultimo esempio non si può non menzionare l’articolo “Get me off your fucking mailing list”, il cui titolo e il lungo contenuto coincidono pedissequamente e in modo ossessivo. Questo memorabile sunto di scienza è stato accettato da una rivista ed è divenuto tanto famoso da meritarsi una pagina su Wikipedia. Tutti questi esempi mettono in luce l’intreccio dannoso di certe caratteristiche del mondo della ricerca scientifica che si sono ormai consolidate. Le modalità di pubblicazione in seguito al pagamento di una sorta di tassa sono divenute una pratica sempre più frequente con il crescere delle riviste open access. È oggi difficile discriminare quando si debba o meno pagare la giusta cifra, e più in generale quanto sia etica questa forma di pagamento. Purtroppo le denunce non hanno fino ad oggi sortito un reale effetto positivo, gli sciacalli continuano a proliferare e i ricercatori ad essere turlupinati. Sul web esistono però programmi e liste in grado di rintracciare e scovare i predatory journals, utili a non far cadere in trappola i più sprovveduti. L’intreccio di interessi economici ed esigenze di carriera genera ancora una volta effetti perversi nel mondo della ricerca scientifica, anche se talvolta questi effetti riescono a regalarci qualche risata.(Olmo Viola, “Tutto è pubblicabile, purché si paghi?”, da “Micromega” del 22 agosto 2017).Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.
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Antenati misteriosi: chi è Homo Naledi, l’Uomo delle Stelle?
Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».La pubblicazione, aggiunge Parravicini, ha avuto risonanza in tutto il mondo, anche per via di un’abile operazione di marketing. Situato nell’area dove si trova la cosiddetta “Culla dell’umanità”, un sito dichiarato patrimonio dell’Unesco dal 1999 e che ha restituito parecchi resti di forme ominine, “Rising Star” è un intricato complesso di grotte a circa 50 chilometri da Johannesburg, in Sudafrica. Tra queste grotte, una camera posta a una trentina di metri di profondità e raggiungibile solo attraverso uno stretto pertugio si è rivelata una miniera d’oro per gli studiosi di evoluzione umana. In essa, chiamata “Dinaledi chamber”, il team di Lee Berger dell’Università Witwatersrand ha rinvenuto più di 1.550 ossa umane, appartenenti ad almeno 15 individui (se si contano solo le ossa associate tra loro, e non le innumerevoli altre appartenenti a parecchi altri individui). Scoperta che «coincide con il più grosso ritrovamento di ossa di ominini mai avvenuto, un vero e proprio giacimento, che permetterà agli scienziati di condurre uno studio esteso e approfondito, con un confronto tra le parti anatomiche di molti individui diversi, maschi e femmine, vecchi e giovani».Dai primi studi è emerso subito chiaramente che le ossa appartenevano tutte a una nuova specie umana, l’Homo Naledi per l’appunto. Mostra una conformazione di tratti “a mosaico”, antichi e più recenti, spiega Parravicini: siamo di fronte a una specie dalla morfologia «sconcertante, con una statura di circa un metro e mezzo per un peso di 40-55 kg, con una conformazione del cranio simile agli altri Homo ma con un cervello molto piccolo, grande un terzo del nostro (560cc nei maschi), con spalle e mani adatte all’arrampicata e ad afferrare rami, con dita ricurve ma pollici lunghi e solidi, e polsi e palmi dotati, come i nostri, di adattamenti per la manipolazione fine e la presa di precisione». Anche i piedi e gli arti inferiori sono simili a quelli dell’uomo moderno. «E non c’è dubbio che, da quanto si è inferito dalle conformazioni del tarso, dell’alluce e dall’articolazione della caviglia, Homo Naledi fosse in grado di camminare e di mantenere la stazione eretta», anche se «la presenza di falangi prossimali ricurve fa pensare a una forma particolarmente idonea all’arrampicamento sugli alberi». Infine, «la meccanica dell’anca e la conformazione del bacino ricordano quelle degli australopitechi, ma la mandibola debole e i denti piccoli sono caratteristiche derivate». L’impressione, osserva Parravicini, è quella di trovarsi di fronte a una forma di transizione tra l’australopiteco e forme più recenti come Homo Habilis», vissute circa 2 milioni di anni fa, insieme a Homo Rudolfensis e Homo Ergaster.Ma in che modo quelle migliaia di ossa trovate a Rising Star sono finite in quell’anfratto recondito e buio, a molti metri di profondità e difficilmente raggiungibile da chiunque? Su “eLife”, Paul Dirks e colleghi escludono che siano state cause accidentali ad accumulare una massa di resti ossei così ingente: improbabile un cataclisma. Forse, ipotizzano gli studiosi, «siamo di fronte a una deposizione intenzionale e ripetuta di corpi, o a un qualche tipo di sepoltura», anche se non per forza un comportamento “ritualizzato” o con significati simbolici. «Io penso che dev’esserci un’altra spiegazione, solo che non l’abbiamo ancora trovata», afferma Bernard Wood, paleoantropologo della George Washington University. Qualcuno ha anche proposto che quell’accumulo impressionante di corpi possa essere la conseguenza di omicidi per via di guerre o sacrifici: sarebbe il primo, antecedente al Neolitico; finora, i reperti rinvenuti nel Paleolitico – secondo gli studiosi – non suggeriscono la presenza della guerra, mancando ritrovamenti di più corpi nello stesso luogo, con segni evidenti di violenza (cranio sfondato).La precisa datazione dei reperti è stata recentemente stabilita dall’équipe di Paul Dirks della James Cook University, in Australia, combinando differenti metodologie di analisi. «Lo studio ha ottenuto risultati davvero sorprendenti, che assegnano Homo Naledi allo scenario meno prevedibile: esso risalirebbe a un periodo collocabile tra 236.000 e 335.000 anni fa, quando i primi umani moderni stavano emergendo in Africa e i Neanderthal stavano evolvendo in Europa». Questo significa che «un omino con un cervello grande un terzo rispetto al nostro e una corporatura tipica di forme di più di 2 milioni di anni fa, pur esibendo qui e là caratteri sorprendentemente moderni, si aggirava nelle stesse zone in cui stavano emergendo umani già pienamente moderni». Una datazione, osserva Parravicini, che pone agli studiosi di evoluzione non pochi problemi. Dirks colloca Homo Naledi «in un momento in cui troviamo molti strumenti in Africa. E ciò significa che non è più possibile dare per scontato che questi strumenti siano stati costruiti dai primi Homo Sapiens».Un’ulteriore scoperta, aggiunge Parravicini, è stata fatta in un’altra grotta del complesso di Rising Star. Nella Lesedi Chamber, posta a un centinaio di metri dalla Dinaledi Chamber e a trenta metri di profondità, sono stati trovati altri 131 reperti fossili associati a Homo Naledi, appartenenti almeno a tre individui, due adulti e un individuo molto giovane, presumibilmente di età inferiore a 5 anni. Da questi ultimi ritrovamenti è emerso «uno dei più completi scheletri mai scoperti, tecnicamente più completo del famoso fossile di Lucy grazie alla conservazione del cranio e della mandibola». Accedere alla Lesedi Chamber è ancora più difficile rispetto alla Dinaledi. E questo, rileva John Hawks, antropologo all’Università di Wisconsin-Madison, «dà peso all’ipotesi che Homo Naledi sfruttasse luoghi scuri e remoti per conservare i suoi morti». Un comportamento analogo a quello ipotizzato per i 6.500 resti umani trovati a Sima de los Huesos, nella Sierra de Atapuerca in Spagna, in cui pare che anche Neanderhtal occultasse i propri compagni morti già 400.000 anni fa. «Ma l’aspetto sconcertante – osserva Parravicini – è che questo comportamento, profondamente tipico di noi esseri umani, di prenderci cura dei nostri simili anche dopo la loro morte, possa essere condiviso da una forma umana da un cervello grande come quello di un gorilla».Ma, in definitiva, cos’è questa bizzarra specie umana vissuta alle soglie della storia? E come va collocata all’interno dell’intricato cespuglio dell’evoluzione umana? Secondo Chris Stringer del National History Museum di Londra, Homo Naledi potrebbe essersi originato in un’epoca vicina all’emergere del genere Homo, più di 2 milioni e mezzo di anni fa, suggerendo che si tratti di una “specie fossile”, un relitto evolutivo isolato che ha mantenuto molti tratti primitivi sviluppati parecchio tempo prima. Qualcosa di analogo potrebbe essere accaduto anche a Homo Floresiensis, un’altra misteriosa specie rinvenuta sull’isola di Flores, in Indonesia, denominata “hobbit” per il corpo piccolo ed esile, i cui più recenti rappresentanti sono vissuti fino a 60.000 anni fa, forse «diretti discendenti di una popolazione di antenati di Homo Habilis». Tuttavia, fa notare Stringer, le condizioni di isolamento dello “hobbit” di Flores (Isole della Sonda) hanno senz’altro contribuito alla sua grande longevità, mentre nel caso del Naledi lo scenario è quello sudafricano, aperto, in cui si aggiravano altre forme ben più “avanzate” di esseri umani, dal cervello molto più grande. Lee Berger e colleghi accarezzano l’idea che Homo Naledi possa addirittura essere «il frutto di un’ibridazione tra una specie tarda di australopitecina e una popolazione più simile a una specie umana». Quel che è certo, conclude Parravicini, è che la storia evolutiva del nostro genere diventa sempre più intricata e complessa: in altre parole, quel che credevamo di sapere non era esatto.Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».
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Dietro la maschera, la piccola Italia (padronale) di Di Maio
La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.Ma che Di Maio sia un destrorso in proprio lo dimostra già la scelta dei consulenti: un po’ di politologi NeoLib della Luiss, suggeritori del posizionamento ottimale nel bacino del revival destrorso più oscurantista (da qui la scelta avversa allo jus soli e contro le nozze omosessuali; toni insolitamente trucidi in bocca a un perbenino, tipo la definizione di “taxi del mare” per le Ong), soprattutto l’incarico per un paper sul tema del lavoro affidato al sociologo de La Sapienza Mimmo De Masi (pare per la modica cifra di 50mila euro). E De Masi, magari cazzeggiando in un caffè vista mare di Ravello, celebra da una vita l’ozio inteso come il massimo della civiltà post-industriale; alla faccia di torme crescenti di inoccupati e precarizzati, che non sanno come quadrare i conti già dalla seconda settimana del mese. Ma questo approccio tanto piace al giovane Cinquestelle, proprio per le fisime subliminali evocate: il modello latifondistico-fancazzista da baroni meridionali; quelli che si facevano crescere l’unghia del mignolo, come i mandarini confuciani, per esplicitare la loro assoluta estraneità a qualsivoglia attività manuale.Quella manualità su cui si è costruita la cultura operaia, che pone al centro della propria visione del mondo il lavoro come riscatto. Ma che terrorizza i ceti premoderni della rendita e del parassitismo; propugnatori di istanze che hanno alimentato tutte le insorgenze reazionarie del passato, prossimo e remoto. Sempre combattendo il lavoro organizzato. E – quindi – la cultura della modernità. Affidandosi a leader incolti, come il nostro fuori corso arrembante. Che non solo confonde Venezuela con Cile o ignora chi sia un maestro quale Luciano Gallino. Peggio, identifica il reddito di cittadinanza in qualcosa di analogo al New Deal. Per cui un paracadute contro la miseria diventerebbe un improbabile investimento riproduttivo di sviluppo che si auto-alimenta. E quando parla di finanziare le attività economiche non sa distinguere l’impresa innovativa dall’azienducola interstiziale.Quello che conta sono le dimensioni micro, nella permanente avversione verso il lavoro organizzato. Lo spauracchio di padroni e padroncini che accomuna un altro golden boy della nostra politica: il ministro Calenda, il cui curriculum professionale si riduce al ruolo d’assistente alla corte di quell’uomo del fare, quel risanatore d’aziende del Cordero Di Montezemolo. Perché stupirsi se con la fanfaluca ministeriale dell’impresa 4.0, quella che espelle lavoratori investendo in robotizzazione, ci troviamo in presenza di una (modesta) ripresa senza nuova occupazione. Con questi giovanotti da aperitivo spritz h24, presunti rifondatori, il mondo operoso se ne va a ramengo. Per un vecchio liberale gobettiano, che in giovinezza propugnava il progetto “alleanza dei produttori”, il messaggio è oltremodo deprimente.(Pierfranco Pellizzetti, “Di Maio leader, il M5S getta la maschera”, da “Micromega” del 19 settembre 2017).La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.
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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Brxelles la partita è persa, resta solo la fuga.Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello». Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti. Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale». Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati. In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro». Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale». Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. «A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista». Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale. Le sinistre radicali? Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta». Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.
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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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Erri De Luca: manca un partito che dia voce a noi italiani
Gianluca Di Candia è un avvocato che ha criticato il decreto Minniti-Orlando in toni civili e argomentati. È appunto un avvocato. Io non lo sono, e considero il decreto una infamia, perché toglie il diritto di appello alla persona richiedente asilo che si vede respingere la sua istanza in prima battuta. A una persona che ha perso in vita sua tutto quello che si può perdere e che si trova costretta a cercare riparo lontano dalla sua terra, si toglie anche questa garanzia. La sua pratica passa in Cassazione dove non potrà difenderla con la sua persona. E perché questo decreto si accanisce contro un diritto garantito dalla Costituzione? Perché il 70% delle sentenze di appello sono favorevoli al richiedente asilo. E’ una volontà di persecuzione e perciò una infamia. Se questa convinzione è un reato, me ne assumo la responsabilità. Il reato articolo 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate) è stato utilizzato soprattutto negli anni ‘70. Come mi spiego questo suo ritorno, tra l’altro, nei confronti di un avvocato che era presente ad una mobilitazione totalmente pacifica e dai toni bassi? Volontà di censura nei confronti di chi si adopera per offrire aiuto e sostegno ai casi di estrema necessità.Le navi dei volontari che salvano naufraghi dall’annegamento sono state bersaglio di calunnie e diffamazioni lasciate poi cadere senza neanche chiedere scusa. Oggi il ministero del decreto infame stila nuove misure per intralciare il loro intervento di soccorso. C’è volontà di ostacolare i salvataggi e c’è volontà di censura contro il diritto di critica. Mentre aumentano povertà e diseguaglianze sociali, diminuiscono gli spazi di partecipazione tanto che cresce la disaffezione dei cittadini nei confronti della res publica come dimostra anche il tasso di astensionismo alle recenti elezioni amministrative. Non so cosa vuol dire post-democrazia, noi siamo in una democrazia che possiede una carta costituzionale spesso calpestata, aggirata, ignorata. Noi siamo nel tempo della legittima e necessaria difesa di quella Carta e della sua attuazione. Vedo la condizione di cittadino degradata a quella di cliente. Lo Stato – da garante del diritto alla salute, alla istruzione, alla giustizia – diventa erogatore di servizi alla clientela.Il cliente è valutato in base al suo potere di acquisto: se ha denaro può accedere a una buona difesa in tribunale, a una buona istruzione, a un buon trattamento sanitario. Lo Stato diventa azienda, questa è la bestemmia in corso contro la quale si deve rianimare la condizione opposta di cittadino di una comunità di uguali. Manca una rappresentanza politica dell’enorme potenziale civile del nostro paese. Non si tratta di protesta, ma di dare valore aggiunto all’innumerevole attività di volontari e di piccole amministrazioni impegnate a governare bene con pochissimi mezzi. Esiste un’Italia eccellente che aspetta una proposta politica per raccogliersi.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Decreto Minniti, vogliono censurare il diritto di critica”, pubblicata su “Micromega” il 19 luglio 2017. Lo scrittore della “parola contraria” si schiera col giovane avvocato denunciato con l’accusa di vilipendio per aver constestato pubblicamente il decreto Minniti-Orlando durante un pacifico flash-mob al Pantheon, a Roma).Gianluca Di Candia è un avvocato che ha criticato il decreto Minniti-Orlando in toni civili e argomentati. È appunto un avvocato. Io non lo sono, e considero il decreto una infamia, perché toglie il diritto di appello alla persona richiedente asilo che si vede respingere la sua istanza in prima battuta. A una persona che ha perso in vita sua tutto quello che si può perdere e che si trova costretta a cercare riparo lontano dalla sua terra, si toglie anche questa garanzia. La sua pratica passa in Cassazione dove non potrà difenderla con la sua persona. E perché questo decreto si accanisce contro un diritto garantito dalla Costituzione? Perché il 70% delle sentenze di appello sono favorevoli al richiedente asilo. E’ una volontà di persecuzione e perciò una infamia. Se questa convinzione è un reato, me ne assumo la responsabilità. Il reato articolo 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate) è stato utilizzato soprattutto negli anni ‘70. Come mi spiego questo suo ritorno, tra l’altro, nei confronti di un avvocato che era presente ad una mobilitazione totalmente pacifica e dai toni bassi? Volontà di censura nei confronti di chi si adopera per offrire aiuto e sostegno ai casi di estrema necessità.
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Erik Olin Wright: democrazia, per erodere questo capitalismo
In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.Il potere oggi è più difficile da limitare, a causa della globalizzazione e della finanziarizzazione del capitale. E poi emergono due questioni. La prima è quella della riforma democratica: quali sono le politiche che possono estendere la democrazia nell’economia e nella società civile? Come creiamo una società democratica? E la seconda è quella economica: come creiamo le condizioni per una vita economica che sia più geograficamente radicata, nei territori, invece di essere globalmente mobile? Transizione a una società post-capitalistica? Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo. Si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?Non c’è una ragione intrinseca per cui uno Stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-Stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di Stati sovrani di medie dimensioni, che dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri Stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli Stati membri e ci liberassimo dell’Ue. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.Parlando di globalizzazione, che relazione c’è, oggi, tra le lotte nel mondo occidentale e quelle sul piano globale? Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno. Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.Bisogna cominciare da qualche parte. L’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla. Questo chiaramente è più importante se si pensa alla trasformazione come rottura: giovedì avremo un’isola felice in Italia, e poi potremo provare ad avere un mondo felice domenica. Questa è la logica della rottura, non quella del processo. Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei Comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative.Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali; ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.La strategia di erosione del capitalismo che io propongo ha al centro la democrazia, con l’idea che se si riesce a rendere il capitalismo subordinato alla democrazia, si creano le condizioni per sviluppare alternative al capitalismo. Tradizionalmente, la forma di espressione della democrazia nell’era moderna è stata lo Stato. Sto proponendo che per democratizzare l’economia dobbiamo lavorare per un nuovo ruolo dello Stato nell’economia, o sto immaginando forme di democrazie che non sono basate sulle istituzioni rappresentative? Penso a entrambe le cose. Abbiamo bisogno di uno Stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello Stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo Stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri.Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo Stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento. Se fosse vero che lo Stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo Stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno Stato democratico, perché la democraticità dello Stato sarebbe un’illusione.In questo senso lo Stato non sarebbe solo uno Stato capitalistico, sarebbe uno Stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello Stato soddisfacente. Penso che lo Stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo Stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello Stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello Stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello Stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello Stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello Stato nazionale, due ministeri che non collaborano.Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo Stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello Stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo Stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno. I sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials negli Stati Uniti e la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo: un’ondata di anticapitalismo? Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan “Il capitalismo non funziona, un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza e l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle.Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosione perché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.(Erik Olin Wright, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Zamponi e Marta Fana per l’intervista “Estendere la democrazia per erodere il capitalismo”, pubblicata da “Micromega” il 5 luglio 2017. Sociologo marxista statunitense, attento osservatore delle diamiche di trasformazione della società, Erik Olin Wright insegna all’università del Wisconsin).In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.
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Brancaccio: il liberismo razzia lo Stato e la sinistra applaude
Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008. Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.Gli economisti liberisti continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra, per il capitale privato? Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’Ocse effettuata sulle prime 2.000 aziende della classifica mondiale di “Forbes”, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.Bisognerebbe ricordare che al momento della privatizzazione dell’Iri, molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani.Sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia. Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia? Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti. Certo, sono trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe.Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra. Che fa la sinistra in Italia? Sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro. Nel Pd ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo.Soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2017).Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.
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Banchieri marci e oligarchi, la vera Bad Company è l’Ue
Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.Secondo il precedente capo della Commissione Europea, Barroso, ben 4.000 miliardi di danaro pubblico in tutta Europa furono spesi per salvare le banche. Questa denuncia non ha avuto alcun seguito nella politica europea e neppure il suo estensore se ne é sentito toccato, visto che ora opera in Goldman Sachs. Una valanga di soldi dei cittadini europei ha difeso e rafforzato il potere dei banchieri, ma non un solo istituto di credito è stato assunto in mano pubblica per questo. La Germania, sempre ultra rigorista verso i paesi del Sud, ha speso 247 miliardi solo per salvare le sue banche locali. Alla fine la crisi bancaria globale nella Unione Europea fu scongiurata e come ringraziamento un finanziere britannico, prima della Brexit a cui ovviamente era contrario, affermò: l’economia è ripartita ed è ora che noi banchieri la si finisca di sentirci in colpa. Salvato il sistema coi soldi dei cittadini, cioè coi tagli allo stato sociale, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, l’Unione Europea decise che era giunto il momento di essere davvero per il libero mercato.È quindi stata varata l’Unione Bancaria, da noi ovviamente presentata come un altro passo verso i meravigliosi Stati Uniti d’Europa. L’unione bancaria, come il Fiscal Compact e altre sconcezze, in realtà era solo una ulteriore sottrazione di sovranità economica agli Stati, a favore delle banche, della burocrazia europea e naturalmente del potere del solo Stato diverso da tutti gli altri, la Germania. Ai governanti e ai politici italiani, da Monti, a Letta, a Renzi, che hanno gestito l’adesione dell’Italia alla unione bancaria, secondo me una causa per danni andrebbe fatta. Infatti quella decisione, invece che mettere in sicurezza il sistema bancario del nostro paese, lo ha esposto a tutte le tempeste. Il succo del nuovo trattato era proibire i salvataggi di stato delle banche, cui finora tutti i paesi più ricchi d’Europa erano ricorsi. Dal 2016, le banche in crisi avrebbero dovuto essere salvate con i soldi dei loro azionisti e dei loro correntisti, per deposti superiori a 100.000 euro. Non so come si traduca in tedesco “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, ma il concetto è quello. In inglese, la lingua che si usa sempre per fregarci, invece tutto questo è stato definito: passare dal “bail out” al “bail in”.Ovviamente la chiusura dell’ombrello di Stato, usato in tutta Europa, ha accelerato le sofferenze delle banche gia in difficoltà, ed in Italia abbiamo avuto il crollo prima delle banche toscane, legate al Pd e poi di quelle venete legate storicamente al centrodestra. Un fallimento bipartizan. Il primo fallimento, quello toscano, è stato affrontato proprio con il bail in e ha provocato una catastrofe economica e sociale. Per questo, al crollo delle banche venete tutto il potere governativo italiano ed europeo ha deciso di reagire in altro modo. È il metodo europeo della cavia, usato brutalmente sulla Grecia e calibrato più prudentemente sugli altri paesi Piigs. Si sperimenta una misura brutale e poi si aggiusta la dose tenendo conto delle vittime e soprattutto delle ribellioni provocate. Così per le banche venete gli aiuti di Stato, fieramente avversati dalla Ue quando si tratti di chiudere fabbriche e tagliare servizi, sono stati subito approvati dai vertici europei. Lo strumento trovato per salvare l’ipocrisia e favorire gli affari è, anche qui c’è l’inglese, la “bad company”. Letteralmente la cattiva impresa, quella sulla quale vengon scaricati, debiti, costi, personale in esubero, in modo che la nuova impresa che rileva l’attività, la “new company”, parta solo con il miglior cuore del carciofo.L’uso della bad company in Italia non è nuovo. In Alitalia il governo Berlusconi la adoperò per permettere alla crema della imprenditoria italiana di salvare la compagnia aerea, con i risultati che abbiamo visto e pagato. Il top manager modello per Renzi, Marchionne, fece lo stesso alla Fiat di Pomigliano. Da un lato la bad company che aveva come unica ragione sociale la cassa integrazione per migliaia di operai, dall’altro la newco dove venivano selezionati uno per uno coloro che avrebbero ripreso a lavorare in condizioni durissime. La bad company è diventata il modello italiano di gestione di crisi e ristrutturazioni, da ultimo in Ilva, ed è quindi stato adottato anche per le banche venete. Non c’è strumento migliore per socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Lo Stato si è accollato tutti i costi e gli esuberi delle banche fallite, Banca Intesa ne ha rilevato le attività al prezzo di 1 euro, naturalmente a condizione di ricevere finanziamenti e garanzie adeguate. Che potrebbero arrivare fino a 17 miliardi, con un costo virtuale medio di 440 euro per ognuno dei 38 milioni e mezzi di contribuenti. Il titolo Intesa è volato in Borsa.La banca Santander di Spagna ha protestato per questo salvataggio, perché in condizioni analoghe essa aveva dovuto rilevare anche tutte le passività, senza scaricarle su una bad company, dell’istituto di credito che salvava, ma La Ue ha risposto che in Italia era tutto regolare. Sono diventati più buoni? No le ragioni del sì europeo all’intervento pubblico italiano sono tre. La prima è che lo Stato paga, ma il privato guadagna. Se le banche venete fossero state nazionalizzate, allora sì che la Unione Europea sarebbe insorta gridando alla violazione del libero mercato. L’importante è che lo Stato, coi soldi dei cittadini, non aiuti se stesso e i cittadini che pagano, poi si può fare tutto. In secondo luogo si può sospettare che Banca Intesa, che usufruisce del salvataggio, sia in tali buoni rapporti con la finanza internazionale, magari anche con quella tedesca, da far presagire nuovi più vasti affari europei.In terzo luogo c’è la certezza che il governo italiano, per ottenere il via libera al salvataggio delle banche, abbia promesso alla Ue un bel po’ di massacro sociale e privatizzazioni, da realizzare con la prossima finanziaria. Che dovrebbe procedere a tagli e svendite di servizi e beni pubblici per una cifra superiore ai 20 miliardi stanziati per le banche. Così i conti tornano e del resto la logica è sempre la stessa: si prendono in ostaggio i lavoratori, i risparmiatori, i cittadini colpiti dalle crisi e poi, per salvarli, si autorizzano le speculazioni più sfacciate. Nonostante ciò che urla la propaganda di regime, l’alternativa reale non è salvataggi pubblici o libero mercato. La scelta vera è tra spendere il danaro pubblico a favore del profitto privato e della finanza, oppure per la proprietà pubblica e i cittadini. A quest’ultima scelta si oppone oggi pesantemente l’Unione Europea, la più grande bad company di cui è necessario liberarsi.(Giorgio Cremaschi, “La bad company è l’Unione Europea”, da “Micromega” del 4 luglio 2017).Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.