Archivio del Tag ‘Micromega’
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.
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Tutto il potere alle multinazionali: è la legge del Ttip
La crisi sovverte il quadro geopolitico internazionale, rimettendo in discussione egemonie storiche. Potenze emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Messico continuano a crescere, rivelandosi difficilmente controllabili dai vecchi Forum internazionali come il G20 e creando nuove aree commerciali regionali sottratte all’influenza statunitense, come in America Latina. E nel Pacifico, l’asse tra Cina e Russia si va affermando come epicentro degli equilibri asiatici, verso una leadership globale. Secondo recenti statistiche, osserva Marco Bersani, il Pil di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 la produzione di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, ed entro il 2030 più dell’ 80% della classe media del mondo vivrà a sud. Con l’Europa intrappolata nella spirale dell’austerità, «lo stanco impero statunitense affila le unghie» per riconquistare l’egemonia vacillante e punta tutto sul Ttip per smantellare le residue barriere – commerciali, giuridiche, politiche – al libero commercio.Insieme al Trattato Trans-Pacifico, il Ttip punta a creare «la più grande area di libero scambio del pianeta, che comprenderà economie per circa il 60% del prodotto interno lordo mondiale, interamente governata dalle più potenti multinazionali economiche e finanziarie, agli interessi delle quali andranno sacrificati tutti i diritti sociali e del lavoro, i beni comuni e la stessa democrazia», scrive Bersani in un’analisi sul sito di “Attac”, ripresa da “Micromega”. «Se per gli Usa il Ttip rappresenta la necessità di “legare” alla propria economia il massimo numero di aree geo-politiche e commerciali possibili, per l’Unione Europea si tratta della più evidente e definitiva dichiarazione di resa di un continente che, già da tempo, attraverso la scelta della via rigorista e monetarista in economia, ha deciso di rinunciare alla propria originalità – quella di uno stato sociale, frutto del compromesso fra capitale e lavoro del secondo dopoguerra – per consegnarsi alle leggi dell’impresa».Se già ieri l’Europa si era presentata «come un continente che, lungi dal proteggere le popolazioni dalla globalizzazione neoliberista, si candidava ad assumerne la guida», oggi – con l’adesione ai negoziati per il Trattato Transatlantico, l’Unione Europea «dichiara il fallimento di quella strategia e, nel contempo, rinuncia ad ogni tentativo di esercitare un proprio protagonismo sociale, per giocare la partita di una competizione internazionale, tutta giocata al ribasso in tema di diritti del lavoro, di beni comuni e servizi pubblici, di diritti sociali e ambientali». Dietro la strategia di riconquista della scena internazionale da parte dei vecchi padroni del mondo (Usa, Ue e Giappone), traspare «il totale protagonismo politico delle grandi multinazionali, non più “relegate” ad un ruolo di influenza e pressione esterna sulle istituzioni politiche, bensì sedute a pieno titolo e in posizione privilegiata nei tavoli di negoziazione». Per la prima volta, attraverso il Ttip, l’élite transnazionale «supera i confini tradizionali fra Stato e privati, tra governi e imprese, e si sottrae ad ogni possibile controllo democratico».Di fatto, e se approvato, secondo Bersani il Ttip realizzerebbe l’utopia delle multinazionali: «Un pianeta al loro completo servizio, fino al punto di poter chiamare in giudizio presso una corte speciale, composta da tre avvocati d’affari rispondenti alle normative della Banca Mondiale, un qualsiasi paese firmatario», da minacciare con sanzioni temibili nel caso le leggi garantissero i diritti civili a scapito dei profitti. Per le élites dell’Ue, il Ttip «rappresenterebbe anche la possibilità di superare in avanti, attraverso un “meta-trattato” strutturale, l’attuale difficoltà nell’imporre, Stato per Stato e governo per governo, le politiche di austerità e di smantellamento dello stato sociale, artificialmente indotte dalla crisi del debito pubblico». L’opposizione radicale al Trattato Transatlantico è dunque l’unica via percorribile da parte dell’Europa dei popoli, quella dei beni comuni, dei diritti e della democrazia.La crisi sovverte il quadro geopolitico internazionale, rimettendo in discussione egemonie storiche. Potenze emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Messico continuano a crescere, rivelandosi difficilmente controllabili dai vecchi Forum internazionali come il G20 e creando nuove aree commerciali regionali sottratte all’influenza statunitense, come in America Latina. E nel Pacifico, l’asse tra Cina e Russia si va affermando come epicentro degli equilibri asiatici, verso una leadership globale. Secondo recenti statistiche, osserva Marco Bersani, il Pil di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 la produzione di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, ed entro il 2030 più dell’ 80% della classe media del mondo vivrà a sud. Con l’Europa intrappolata nella spirale dell’austerità, «lo stanco impero statunitense affila le unghie» per riconquistare l’egemonia vacillante e punta tutto sul Ttip per smantellare le residue barriere – commerciali, giuridiche, politiche – al libero commercio.
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Def Renzi-Fornero, la stessa droga che ci ha rovinato
«La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».Il Def confida negli investimenti privati – dati in crescita del 2% già quest’anno – e nell’export, che si mantiene sopra il 4% annuo: calcolando anche le importazioni, il saldo commerciale resta positivo, pari all’1,5% del Pil (contro il 2,5% della media dell’Eurozona e addirittura il 6% della Germania, sempre più mercantilista). I consumi delle famiglie, continua Pini in un’analisi pubblicata da “Micromega”, faticano invece a tenersi vicino all’1% di incremento se non alla fine del periodo, nel 2018, mentre alla crescita dei consumi non contribuisce certo la spesa pubblica, “azzoppata” dalla spending review che – a regime, nel 2016 – deve realizzare “risparmi” per 32 miliardi. Impensabile, peraltro, ipotizzare un aumento del reddito – aggiunge Pini – se lo Stato è costretto a “bruciare” l’avanzo primario per compensare gli interessi sul debito pubblico, che rappresentano il 5% del Pil italiano: i soldi che il governo non spende più per i cittadini vanno a tappare le falle della finanziarizzazione di un debito non più sovrano, non ripianabile in moneta sovrana.«D’altronde – osserva Pini – le regole del “rigore ad ogni costo” sono ferree e assai poco ammorbidite dai viaggi di Renzi prima in Germania e poi al Consiglio Europeo: il pareggio di bilancio strutturale viene quasi raggiunto nel 2015 (-0,1% del Pil), assicurato negli anni successivi sino al 2018, mentre per il 2014 siamo ancora sotto di oltre mezzo punto percentuale, anche perché il deficit sul Pil non diminuisce così tanto quanto raccomanda la Commissione per ridurre il debito, che infatti cresce alla soglia del 135% nel 2014 per attestarsi poi al 120% nel 2018». Sempre secondo Pini, «si intravvede così un primo rinvio del raggiungimento dell’obiettivo di medio termine imposto dal Fiscal Compact, e anche – ricordiamolo – dall’articolo 81 della nostra Costituzione, che ora impone il bilancio in pareggio (corretto dal ciclo) già per il 2014». Misura aberrante, ma approvata dal Parlamento nel 2012, proposta dal governo Monti e votata dal Pd di Bersani e dal Pdl di Berlusconi.Le tendenze economiche mondiali «penalizzano la competitività del made in Europe ed in particolare del made in Italy, che tende purtroppo più di altri a competere sul prezzo dei prodotti più che sul loro contenuto tecnologico». Eppure il Def di Renzi (e Padoan) presenta uno strano modello, trainato da esportazioni e investimenti, ma senza domanda interna. «A cosa attribuire questo slancio vitale dell’economia italiana», in un contesto «di quasi stazionarietà di consumi delle famiglie»? Risposta: si pensa di tagliare – ancora e sempre – il costo del lavoro, sostiene Pini. «Flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e semplificazioni: le fonti della crescita son tutte qui». Secondo l’analista, «gli effetti macro degli interventi appaiono risibili», nel 2014 valgono appena lo 0,2% sul fronte dell’occupazione. «Le riforme sul mercato del lavoro e le liberalizzazioni e semplificazioni spiegano da sole tutto l’impatto sul reddito, le riforme sul lavoro tutto quello sull’occupazione, mentre gli effetti delle detrazioni Irpef sono annullate dal modo scelto per finanziarle (spending review). Gli altri interventi, compreso il pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione e la riduzione dell’Irap, sono ad impatto nullo».Per registrare effetti consistenti, aggiunge Pini, occorre attendere il lontano 2018, con un contributo degli interventi pari a un 2,4% nella crescita del Pil (+1,3% sull’occupazione). «Ma anche al 2018, sono le riforme del lavoro ed il binomio liberalizzazioni/semplificazioni che spiegano quasi i 3/4 di questo impatto su reddito e occupazione». In particolare, sul mercato del lavoro si tratta per il governo Renzi del decreto Poletti sul contratto a termine e sull’apprendistato e degli eventuali provvedimenti prospettati con il Jobs Act, che non comportano oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche. Irrilevanti degli interventi di stimolo alla domanda interna – alleggerimenti fiscali per le famiglie – oppure alla domanda estera, cioè maggiore competitività di costo e prezzo per le imprese, mediante riduzione del cuneo fiscale. Interventi di sostegno della domanda pubblica? «Non sono previsti. Anzi: la spending review implica effetti negativi sulle componenti della domanda aggregata».Nulla in vista neppure per politiche industriali o di sostegno all’innovazione. Ricapitolando: interventi irrisori, a cui però «vengono attribuiti effetti a dir poco sorprendenti sulla competitività del sistema produttivo italiano». Da oggi al 2018 si prevede un incremento del 4% della produttività, che invece dal 2000 al 2012 è stato di appena lo 0,03% annuo. «Cosa mai potrà determinare tale inversione di marcia dal 2014 in poi è per noi un mistero», scrive Pini. «L’unica politica annunciata che vediamo all’opera per ora è quella della deregolamentazione del mercato, del lavoro in particolare con il decreto Poletti ed il Jobs Act presentato al Parlamento». Deregolamentazione del mercato del lavoro: si prosegue cioè sulla strada tracciata nel 1997 dalla legge Treu (governo Prodi), per arrivare alla legge Maroni del 2003 (governo Berlusconi), sino ai più recenti “indirizzi” di Sacconi e alla legge Fornero del 2012 (govenro Monti). Col Jobs Act, la flessibilità non fa che aumentare ancora.Si è ormai capito, però, che la precarizzazione del lavoro non è certo un toccasana per l’economia. Ma il Def di Renzi non ne tiene conto. Eppure, osserva Pini, il lavoro flessibile meno tutelato e la diffusione di contratti che rendono più instabili i rapporti di lavoro «induce le imprese a investire meno sulla formazione, sull’innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica», e le spinge «a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica». Al contrario, la crescita delle imprese che innovano «è frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione». In realtà, «la deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella “trappola della stagnazione della produttività” nella quale siamo immersi da oltre dieci anni».È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato, conclude Pini. «La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente». La flessibilità? E’ come una droga: «Più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, ed al contempo ti indebolisce fino a farti schiattare». La ricetta che ci raccomanda l’Europa delle tecnocrazie, e che l’Italia fa sua con il Def 2014, è purtroppo un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”.«Consolidamento fiscale e riforme strutturali vengono declinate a senso unico in termini di tagli alla spesa pubblica e al welfare sociale, svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione, contenimento dei salari: tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione e accrescono il debito». Tutto ciò, sostiene Pini, favorisce anche le divergenze tra nazioni e le divisioni tra i popoli: «Una miscela esplosiva che gioca a favore dei populismi europei, di ogni natura ed in ogni paese, e contro l’Europa stessa. Non sarebbe il caso a questo punto di rivedere la diagnosi e quindi finalmente cambiare prognosi, rinunciando alla droga, prima che il popolo-malato si ribelli e “rottami” anche questo medico fiorentino?».«La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».
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Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra
La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
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Stato e mafia: vent’anni senza verità per Ilaria Alpi
Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione umanitaria italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».Sebri dice di esser stato contattato in Italia da due personaggi-chiave della vicenda, il cui ruolo non è mai stato completamente chiarito: l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e il trasportatore Giancarlo Marocchino. Oggi, scrive Palladino, il racconto di Sebri va oltre, arrivando ad ipotizzare un ruolo attivo della mafia nel doppio omicidio, maturato nel caos della Somalia sconvolta da tre anni di guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, con la missione Unosom allo sbando e i caschi blu italiani ormai reimbarcati sulla nave Garibaldi. Ilaria e Miran caddero sotto i colpi di un commando composto da 7 persone. «Questa – sottolinea Palladino – è l’unica verità a distanza di vent’anni». Tutto il resto è «un’immensa nebulosa di depistaggi, di testimoni che spariscono, fuggiti o morti per overdose». Per le informazioni che aveva raccolto, Ilaria Alpi «era in grado di creare problemi enormi all’interno di governi e gruppi bancari», dice Sebri, che in tribunale sostenne che i servizi segreti gli avevano detto che quella giornalista era stata “sistemata”. Sebri venne querelato e infine prosciolto. Per Palladino, a pesare è «il silenzio dello Stato».La prima clamorosa contraddizione nasce proprio da un rapporto del Sismi: l’agente Alfredo Tedesco scrive che Ilaria Alpi è stata minacciata di morte a Bosaso il 16 marzo, e che l’attentato è stato pianificato con cura e poi eseguito da un commando ben addestrato. «Queste parole», scrive Palladino, «in buona parte spariranno», perché «una penna – ancora anonima – cancellò e modificò» i passaggi-chiave: scompaiono le minacce e quindi le tracce del movente. Il 24 marzo, lo stesso Tedesco accusa i militari dell’Onu: «Appare evidente la volontà dell’Unosom di minimizzare sulle reali cause». Ma l’agguato, dopo l’intervento della “mano anonima” che da Roma altera le carte, cambia natura: «L’Unosom sta orientando le indagini sulla tesi della tentata rapina». Ed ecco pronta la tesi di comodo, quella dell’incontro “sfortunato” con semplici banditi di strada. Ed è solo l’inizio: per quattro anni, le indagini non approderanno a nulla.Confusa anche la vicenda dell’unico ipotetico testimone rintracciato, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che racconta di esser stato presente sul luogo dell’agguato e dice di riconosce uno dei componenti del gruppo di fuoco, Hashi Omar Assan, detto Faudo, tradotto in Italia e arrestato dalla Digos subito dopo la sua deposizione davanti alla commissione parlamentare. Gelle, il testimone-chiave, tre mesi dopo l’interrogatorio sparisce: non deporrà mai davanti ai giudici. Nel 2002 arriva la condanna per Hashi, ancora oggi in carcere scontando la pena di 26 anni di reclusione. Ma accade qualcosa di imprevisto: un giornalista somalo di “Rai International”, Mohamed Sabrie Aden, riceve una telefonata proprio da Gelle – o da qualcuno che si spaccia per il testimone – e dice: «Ho inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane». Interrogarlo di nuovo, rileva Palladino, sarebbe la prova del più clamoroso depistaggio. E soprattutto potrebbe portare a quelle “autorità” che hanno sempre avuto l’interesse a non far uscire la verità sull’agguato di Mogadiscio. «Eppure Gelle non si trova, spiegano gli uomini della Digos. Sanno che sta in Inghilterra, conoscono il suo nuovo nome, Abdi Ali Rage, il nome della moglie, il suo numero del sistema sanitario britannico, l’indirizzo dell’ufficio dove va a ritirare il sussidio ogni quindici giorni. Niente da fare, è una vera primula rossa per il governo italiano».L’elenco dei nodi irrisolti è infinito, come lo strano movimento di navi a Bosaso, proprio nei giorni del viaggio di Ilaria e Miran. Tra queste il peschereccio della compagnia italo-somala Shifco, sequestrato dai pirati della Migiurtina. Nel 2003, l’Onu indicherà la Shifco come una compagnia coinvolta nel traffico d’armi, ma la relazione verrà mai presa in considerazione dalla commissione d’inchiesta guidata da Carlo Taormina, che alla fine abbraccerà la tesi Unosom, l’omicidio casuale. Oggi, dopo una denuncia pubblica di “Greenpeace” e una petizione di “Articolo 21” per desecretare tutti i documenti, sul caso irrompono le dichiarazioni che Piero Sebri affida al libro di Palladino. «Ilaria Alpi era già stata minacciata e lei non se ne andava, anzi insisteva. E a mano a mano che andava avanti acquisiva sempre maggiori informazioni. A questo punto il lavoro del trafficante è di segnalare a chi di dovere, al politico, ai servizi: “Attenzione, che qua vanno a monte alcuni affari”. C’era solo una soluzione: eliminarla immediatamente».Secondo Sebri, nell’organizzazione di un traffico internazionale, la mafia è prima di tutto la garanzia assoluta dell’affidabilità di un’operazione delicata. «Se io sono in Somalia, e la giornalista non se ne va, io informo i politici, informo chi di dovere, magari gli stessi servizi. Anzi, magari sono proprio loro che m’informano, dicendo che c’è un problema. Mi dicono: attenzione, noi giriamo la faccia dall’altra parte… E adesso basta – mi dicono – questa persona va eliminata. A quel punto la questione è: a chi la faccio eliminare? Io, la elimino? Ma neanche per sogno. La faccio eliminare da un somalo? Può anche essere, ma devo avere la certezza assoluta che Ilaria Alpi e Hrovatin siano eliminati. Non si può sbagliare. Se fossero stati in quattro, dovevano essere eliminati in quattro, se erano in dieci ne ammazzavano dieci, non gliene fregava nulla».Da parte della mafia, dunque, una sorta di supervisione in un territorio ostile. «Se il somalo incaricato dell’omicidio – per ipotesi – sbaglia, ci deve essere una persona della mafia presente in quel posto. E chi è questo tipo di persona presente in quel momento a Mogadiscio? Qual è l’unica persona che ha dei debiti, ha delle cambiali personali nei confronti dell’organizzazione che stava agendo in quei mesi? Un’organizzazione di trafficanti, che a sua volta è in debito con i referenti politici italiani, che coprivano quei traffici». Il terreno, avverte Palladino, a questo punto diventa minato. Sebri pronuncia senza timore i nomi: personaggi che furono analizzati solo superficialmente dalla commissione parlamentare e mai interrogati dalla magistratura. Eppure, «secondo alcuni documenti attendibili, si trovavano nell’area di Bosaso nei giorni cruciali che hanno preceduto la morte di Ilaria Alpi. E – secondo alcune testimonianze – furono gli ultimi ad incontrare la giornalista del Tg3, poco prima dell’agguato, nella hall di un hotel».«Il nome che Sebri pronuncia – scrive Palladino – è quello di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto del 2011». Cammisa, originario di Mazara del Vallo, nella comunità Saman fondata da Cardella e Mauro Rostagno era entrato come tossicodipendente, per sottoporsi a un programma di recupero. Dopo l’omicidio di Rostagno – avvenuto il 26 settembre 1988 – divenne il braccio destro di Cardella, che prese in mano l’amministrazione di Saman. Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola, imprenditore edile legato a Cosa Nostra già inquisito da Giovanni Falcone, alla Procura di Trapani descrisse Cammisa come «un buon conoscitore del procedimento di raffinazione dell’eroina», che per suo conto aveva pedinato anche un maresciallo dei carabinieri. Accusati di aver organizzato l’uccisione di Rostagno, Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti: secondo la Dda di Palermo, Rostagno sarebbe stato ucciso da una cosca di Trapani, città utilizzata da Cosa Nostra come piattaforma logistica per i traffici illeciti con il Nord Africa.«Del possibile coinvolgimento di alcuni esponenti della Saman nei traffici illeciti non parla solo la Digos», scrive Palladino. «Tra gli atti acquisiti dalla commissione Alpi c’è un documento del Sismi – desecretato nel 2006 – che ipotizza il coinvolgimento della comunità terapeutica guidata da Cardella in rotte riservate verso la Somalia». L’ammiraglio Gianfranco Battelli, allora direttore dell’intelligence militare, nel 2000 scriveva che Cardella era proprietario di una motonave che nel 1994 aveva raggiunto la Somalia «con un carico di cibo e medicinali», dopo aver effettuato a Malta una strana riparazione che il Sismi definisce “riservata”. Sempre il servizio segreto militare smentisce l’esistenza della missione umanitaria che Saman dichiara di aver attrezzato a Las Korey, a cento chilometri da Bosaso. Su quella missione di aiuti – aggiunge Palladino – nulla risulta neppure dalla documentazione sulla cooperazione italiana in Somalia acquisita dalla commissione Alpi.Bosaso è una città cresciuta grazie alla cooperazione governativa italiana. Il porto e la principale strada di collegamento – la Bosaso-Garowe – nonché i pozzi per l’acqua potabile sono infrastrutture realizzate negli anni ‘80, all’epoca del governo di Siad Barre, dalle principali imprese italiane specializzate in infrastrutture. «Colossi come la Techint, la Lodigiani, la Federici, la Montedil e la Lofemon hanno lavorato per anni in questa zona strategica del Corno d’Africa». Dietro all’ufficialità della cooperazione, si domanda Palladino, si potrebbe nascondere «un intreccio micidiale tra traffico di armi e di rifiuti, che avrebbe utilizzato il porto della capitale della Migiurtinia come luogo riservato per affari segreti»? Per la Direzione investigativa antimafia di Genova, la provincia di Bosaso «è la zona interessata allo scambio di armi e di scaricamento di rifiuti nucleari e industriali». Un’area che già nel 1993 «era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani».Piero Sebri associa la presenza di Cammisa in Somalia nel marzo del 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Secondo Palladino, risulta che il braccio destro di Cardella si trovasse nella zona di Bosaso proprio in quei giorni: un documento a lui intestato comprova che la comunità Saman importò dagli Emirati Arabi una Mitsubishi che sarebbe stata trasferita nel Corno d’Africa entro il 12 marzo 1994, cioè una settimana prima dell’agguato. «Ma c’è di più. Sempre negli archivi della Saman c’è un fax inviato da Gibuti – paese confinante con il Nord della Somalia – diretto a Francesco Cardella». Nel fax, firmato da un certo Omar e da Jupiter (il soprannome di Cammisa) si dice i due sarebbero partiti l’indomani, 16 marzo, «per Bosaso e oltre». Riassumendo: «L’8 marzo il braccio destro di Cardella importa negli Eau un’automobile, che trasporta – come? – in Somalia il 12 marzo. Il 15 marzo è a Gibuti, pronto per viaggiare il giorno dopo verso Bosaso “e oltre”. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano intanto giunti a Bosaso, per l’ultimo reportage, per quel “caso particolare” che non riuscirono poi a raccontare».Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».
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Si chiama post-democrazia, è il regime in cui viviamo
La democrazia «è la società in cui non è solo permesso ma è addirittura richiesto essere persona», sosteneva Maria Zambrano in “Persona e democrazia”, 1958. Ma oggi, a mezzo secolo di distanza, chi vuole per davvero “essere persona” e sostenerne l’onere? La partecipazione attiva al dibattito politico è la caratteristica fondamentale di una società democratica. In questo primo decennio del terzo millennio assistiamo, invece, a una crescente passività dei cittadini occidentali. Finite le elezioni, trasformate in uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti, esperti nelle tecniche di persuasione, la politica viene poi decisa in privato dallo scambio di favori tra i governi eletti e le lobbies che rappresentano, in forme sempre più marcate, gli interessi economici. E in una società in cui la democrazia rappresentativa sembra al tramonto, la gente vive la politica come un corpo estraneo, lontano, inafferrabile. Qual è allora il destino della democrazia?“Postdemocrazia” è il fortunato titolo di un libro di Colin Crouch del 2003, in cui l’ex docente di sociologia alla London School of Economics propone un’analisi lucida dell’avvenuto superamento della democrazia nei paesi occidentali. In Gran Bretagna, all’epoca, servì ai conservatori per contestare Tony Blair. Volendo riassumere in poche parole, Crouch teorizza il fatto che le democrazie avanzate, pur rimanendo di fatto tali, si avviino inesorabilmente verso un’inedita oligarchia. Tuttavia, ricorda il politologo, in apparenza le forme sono salve perché la democrazia non viene cancellata ma svuotata di contenuti, passando dalla problematica del government a quella della governance. «Mentre le forme della democrazia rimangono pienamente in vigore – sostiene – e oggi in qualche misura sono anche rafforzate, la politica e i governi cedono progressivamente terreno cadendo in mano alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica».Per giungere a questa conclusione Crouch mette sotto la lente d’ingrandimento le odierne tensioni tra uguaglianza e liberalismo, professionismo politico e partiti, modello aziendale e funzionamento delle istituzioni, mercato e cittadinanza, con una visione che ha del profetico. Il suo libro nacque da un primo nucleo costituito da un articolo pubblicato nel 2000 su Fabian Ideas (della Fabian Society), e ha avuto la sua prima edizione proprio in italiano (con l’editore Laterza nel 2005). In queste pagine Forza Italia viene espressamente indicata come realizzazione di un partito postdemocratico. «Se ci basiamo sulle tendenze recenti – scrive Crouch – il classico partito del XXI secolo sarà formato da un élite interna che si autoriproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben inserita in mezzo a un certo numero di grandi aziende, che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi d’opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo».Dopo il partito azienda, quello di plastica e il partito della Rete, dopo il leaderismo e il populismo, gli elementi chiave per l’affermarsi di un regime postdemocratico, segnalati dal politologo inglese, sono oggi tutti visibilmente presenti in Italia. Anche lo stesso accento posto sulla “democrazia diretta” e non piuttosto sulla “democrazia rappresentativa” è funzionale al modello postdemocratico, mentre perde terreno qualsiasi appello all’egualitarismo. Il fatto stesso che si sia costretti a discutere sul metodo delle riforme istituzionali, benché tirati per i capelli, è addirittura irritante per coloro che considerano tutto ciò una procedura ormai superata, in grado di creare solo impacci e rallentare inutilmente la naturale evoluzione degli eventi. Per quanto tutto questo possa piacere o meno, occorre farci i conti. Ora, non poi.(Rossella Guadagnini, “Riforme pericolose? Siamo in piena post-democrazia”, da “Micromega” del 9 aprile 2014).La democrazia «è la società in cui non è solo permesso ma è addirittura richiesto essere persona», sosteneva Maria Zambrano in “Persona e democrazia”, 1958. Ma oggi, a mezzo secolo di distanza, chi vuole per davvero “essere persona” e sostenerne l’onere? La partecipazione attiva al dibattito politico è la caratteristica fondamentale di una società democratica. In questo primo decennio del terzo millennio assistiamo, invece, a una crescente passività dei cittadini occidentali. Finite le elezioni, trasformate in uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti, esperti nelle tecniche di persuasione, la politica viene poi decisa in privato dallo scambio di favori tra i governi eletti e le lobbies che rappresentano, in forme sempre più marcate, gli interessi economici. E in una società in cui la democrazia rappresentativa sembra al tramonto, la gente vive la politica come un corpo estraneo, lontano, inafferrabile. Qual è allora il destino della democrazia?
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Polizia violenta? L’Italia può ringraziare i suoi politici
«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura». Parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, la polizia che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».Censura e condiscendenza, rabbia e difesa corporativa, sconcerto e meraviglia: sono le emozioni che, dopo gli ultimi scontri di piazza, hanno scosso l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici, scrive Guadagnini su “Micromega”. «Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network», e la foto-shock dei ragazzi schiacciati per terra «ha fatto il giro del mondo». Le “cose” si sono viste, eccome: «I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura». Per Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani, «sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico». Lo dicono i nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva. «Raccontano una storia fatta di sopraffazioni e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci», scrive la Guadagnini. «Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli».Indossare una divisa non significa essere autorizzati a travestirsi da giustizieri armati. «La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia», spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per “Chiarelettere”, intitolato “Il partito della Polizia”. «Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica». Nessuno Stato può fare a meno della polizia, ammette Preve, perché ad essa sono affidati l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Dunque, «il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi. Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così – aggiunge Preve – i responsabili devono saltare, ma in Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga».Il perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. «Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha “osato” mettersi di traverso». Imputati, condannati, premiati: a vincere è la paura, riassume Rossella Guadagnini. Il “partito della polizia” è «troppo forte», conta su «troppe protezioni politiche a destra e a sinistra», ricorda Preve, «da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi». De Gennaro, capo della polizia al G8 di Genova? «E’ diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari».Il “partito della polizia” è anche un partito degli affari: «Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea». Un ragionamento che, volenti o nolenti, secondo Guadagnini non fa una piega. Per Preve, i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza «hanno potuto permettersi, o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni». E questo, precisa Preve, nonostante una “base” «sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione». Il giornalista fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della “macelleria messicana” della scuola Diaz.«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura»: parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, quella che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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E bravo Renzi, hai bruciato un milione di posti di lavoro
Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.A colloquio con Giacomo Russo Spena per “Micromega”, il sociologo dell’ateneo torinese denuncia il Jobs Act come un residuato bellico che porta la firma dell’Ocse, cioè «uno dei tanti organismi internazionali che entrano negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, concertazione, taglio dello stato sociale». Esattamente vent’anni fa, spiega Gallino, l’Ocse produsse uno studio sull’indice di Lpl, cioè “legislazione a protezione dei lavoratori”, un indicatore di rigidità del mercato. Tesi: più alto è l’indicatore, più alta è la disoccupazione. «Da allora – dice Gallino – molti giuristi, economisti e sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero l’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà – conclude il sociologo – non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice Lpl possa portare ad aumento dell’occupazione».Nel 2006, continua Gallino, la stessa Ocse, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento: l’indice Lpl per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5. Dopo 12 anni, con le riforme delle leggi Treu 1997 (govenro Prodi) e Maroni-Sacconi 2003 (governo Berlusconi), era sceso ad 1,5. Più che dimezzato, eppure «i precari sono diventati 4 milioni». Identica musica col governo Monti: «La riforma Fornero ha seguito la stessa scia». E ora ecco il Jobs Act, a favorire ancora una volta la mobilità in uscita. «Nel 2014 ci ritroviamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994». Sicché, «l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante». Sintetizzando: con Renzi, «siamo di fronte a un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore: una cosa pericolosa, da non fare».Precarizzazione “espansiva”, come l’austerity “felice” spacciata dai guru di Harvard e adottata dalla Troika europea? «La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro, come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione». Tutto questo, «invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi: così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata». A questo punto sarebbe fondamentale una vera opposizione. La Cgil? Non pervenuta: il sindacato della Camusso è ormai «appannato».Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Jobs Act, il ricatto: precari per decreto e per sempre
C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.Si dirà, ipocritamente, che questo vale solo per il “primo contratto” a termine tra lo stesso datore di lavoro e il lavoratore, ma l’ipocrisia è evidente, perché a ben guardare, il primo contratto a termine acausale sarà anche l’ultimo, in quanto dopo i 36 mesi di lavoro scatterebbe la regola legale, già esistente, secondo la quale continuando la prestazione di lavoro il contratto si trasforma a tempo indeterminato. Quale è, allora, la formula semplicissima che il decreto offre e suggerisce al datore? Tenere il lavoratore con contratto acausale e alla scadenza sostituirlo. Dal punto di vista del lavoratore significa cercare ogni tre anni un diverso datore di lavoro, e ciò all’infinito, concedendo a Dio la dignità, e rassegnandosi ad una totale sottomissione a ricatti di ogni tipo, sperando di essere confermato a tempo indeterminato una volta o l’altra. È evidente che così, lo stesso datore di lavoro nel suo complesso diventerà una sorta di favola non traducibile in realtà.Rispondo subito ad una prevedibile obiezione: si dirà che però, secondo la bozza del decreto, i lavoratori a contratto a termine acausale non potranno superare il 20% dell’occupazione aziendale: si tratta comunque di una percentuale assai alta (attualmente i contratti prevedono il 10–15%), ed è evidente che quella “fascia” del 20% funzionerà come una sorta di anello esterno all’azienda, nella quale finiranno imprigionati i nuovi assunti e dal quale usciranno solo per entrare in analogo anello di altra azienda. Per i giovani e per i disoccupati, dunque, vi è un solo futuro: restare per sempre precari triennali, ora presso una azienda, ora presso un’altra, ma la stessa sorte attende i lavoratori già stabili i quali magari si sentiranno grati a Renzi per quella mancia economica nel caso dovessero per qualsiasi ragione perdere quel posto di lavoro.Va poi aggiunto che il rispetto effettivo della percentuale massima di occupati a termine su un organico è di difficile monitoraggio: come si farà a sapere se l’azienda alfa di 100 dipendenti o con 100 dipendenti ha già colmato la suo quota di 20 lavoratori a termine? I dati già ci sarebbero presso i Centri per l’impiego, ma sono riservati. Occorrerebbe istituire, presso i Centri per l’impiego, una anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro per ottenere l’indispensabile trasparenza: sarebbe una dimostrazione minima di onestà da parte del governo e dell’azienda, ma dobbiamo confessare tutto il nostro scetticismo. Resta da considerare la conformità di questo decreto alla normativa europea in tema di contratto a termine. Il pericolo di abuso che la normativa Ue connette alla ripetizione di brevi contratti a termine, è tutto condensato nella previsione di un lungo contratto a termine acausale, dopo il quale, se il datore consentisse di continuare la prestazione vi sarebbe la trasformazione a tempo indeterminato, ma poiché non la consentirà, vi sarà una condizione di disoccupazione e sottoccupazione, perché il prossimo datore di lavoro si comporterà nello stesso modo.Il principio europeo che la bozza del decreto con vistosa ipocrisia ripete, per il quale la forma normale del contratto di lavoro è quella a tempo indeterminato, viene così non solo aggirato e violato, ma ridotto ad una burletta e questo potrà essere fatto valere di fronte alla Corte di Giustizia Europea. Per fortuna, nel nostro paese fra il tanto diffuso conformismo anche tra le forze politiche e sindacali, esiste la coscienza critica dei singoli operatori indipendenti. Resta da esaminare lo scempio del contratto di apprendistato che viene banalizzato, eliminando qualsiasi severo controllo sulla effettività della formazione professionale ed eliminando altresì quella elementare regola antifrode per la quale non potevano essere conclusi nuovi contratti di apprendistato dal datore di lavoro che non avesse confermato a tempo indeterminato i precedenti apprendisti. È evidente che una regola di questo genere andrebbe introdotta anche per la possibile stipula di contratti a termine ed, invece, la volontà di eliminarla ove già esiste, e cioè nell’apprendistato, dimostra quali sono le vere intenzioni del governo di Matteo Renzi.(Piergiovanni Alleva, “Jobs Act, precari per decreto e per sempre”, da “Il Manifesto” del 14 marzo 2014, ripreso da “Micromega”).C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.
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Ai vertici dell’Ue una banda di criminali: processateli
Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.A sua volta, aggiunge Luciano Gallino in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. «Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja». Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone, dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, fino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un terzo documento, infine, che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, è stato pubblicato a fine 2013 dal centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.Documenti che «giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari», benché rinverditi da clamorose denunce come quella della rivista medica “Lancet” «circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue». In pratica, «chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose», e «la quota di bambini a rischio povertà supera il 30%». In Grecia sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi, mentre i suicidi sono aumentati del 45% e chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono ormai centinaia. Attenzione: «L’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia», avverte Gallino.Il sistema sanitario nazionale italiano è alle corde: «Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati». Inoltre, le prestazioni sono sempre più costose, al punto che molti rinviano le analisi o «rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli». Paradossale: «Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket». Senza contare che «molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte».La Grecia è vicina, ammonisce il rapporto di “Lancet”: «Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto perfino il Fmi». In altre parole, riassume Gallino, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una «scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette», ma queste sciagurate politiche «si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate». Nel 2008, diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma nel caso della crisi europea non si tratta più di attori privati (banchieri-pirati), bensì dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi.I vertici dell’Ue «hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi», e hanno scelto di «favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni». Di fatto, «hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte». Soprattutto, «hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche». Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Domanda: «È mai possibile che non siano chiamati a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?».Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.