Archivio del Tag ‘Micromega’
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Zupo, ex dirigente Pci: il M5S unico erede di Berlinguer
«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».Questione morale non significa solo “non rubare”, è l’idea che lo Stato e le istituzioni democratiche sono un bene pubblico, «da preservare con attenzione essendo di proprietà di una comunità, frutto di sforzi di generazioni che nel passato hanno costruito le fondamenta per quelle future». Per Zupo, la “questione morale” impugnata dal leader del Pci era figlia della grande tradizione liberale, proveniente dalla Rivoluzione Francese, «non relegabile al campo della sinistra» ma cara a qualsiasi sincero democratico. Poi, dopo Berlinguer, il declino inarrestabile dei grandi ideali, in quel partito. Zupo “salva” anche il successore di Berlinguer, Alessandro Natta: dice che fu «defenestrato, mentre era in ospedale, dai vari D’Alema, Occhetto e Veltroni: lo dichiararono dimissionario – mentre era un falso – e lui apprese dal giornale radio di non essere più segretario del Pci». Prima di morire, nel 2001, Natta ha rilasciato un’intervista all’Unità: denunciava «la degenerazione che si era creata con Occhetto».Domanda: tra le forze politiche organizzate di oggi, chi ha preso il testimone di Berlinguer sulla questione morale? «Lo so, farò inorridire i miei compagni di una volta», premette Zupo. «Sono comunista semel semper berlingueriano e dopo il Pci non mi sono iscritto a nessun partito perché nessuno ha portato più avanti quei valori. Ora – dichiara – vedo nel M5S l’unico possibile erede». Una convinzione radicata: «Ho votato il movimento alle ultime elezioni nazionali e – pur non essendo un uomo ricco – l’ho finanziato. Sono andato al comizio di San Giovanni a Roma, prima del voto, e sono rimasto colpito dall’enorme partecipazione e dalla composizione della piazza: cittadini, lavoratori, giovani. La rappresentanza come servizio nelle istituzioni, a termine, per poi ritornare al proprio status di prima. Senza fortune politiche come avviene per gli altri partiti». Confortante, per Zupo, anche il dopo-voto: «I parlamentari 5 Stelle sono persone normalissime: casalinghe, ingegneri, impiegati, gente dalla porta accanto, non arruffoni di soldi e poltrone. Per questo sono del M5S e tornerò a votarlo».«Dall’altra parte – continua l’avvocato – abbiamo quel Pd che, tra l’incostituzionale “Porcellum” e la nuova legge elettorale, ha abrogato le preferenze togliendo alle persone il diritto di poter selezionare la propria classe dirigente. Il nominare loro i parlamentari è solo l’ennesimo atto di autoreferenzialità di una politica ormai lontana dai cittadini». Ormai il Pd è il partito di Renzi. «Berlinguer riteneva che Occhetto fosse solo un venditore di slogan e non un costruttore di politiche. Io penso lo stesso del premier Matteo Renzi, non aggiungo altro: è il nulla». Nella sinistra ufficiale, ci sono anche personaggi come Civati, il quasi-dissidente. «Civati è una persona simpatica e educata ma è compatibile al sistema», dice Zupo: «Ogni volta è lì lì per rompere e poi rientra nei ranghi: voto il M5S perché voglio una forza capace di ribaltare il tavolo su cui questi signori consumano la politica, e non qualcuno che cambi loro le stoviglie».Ai 5 Stelle, conclude l’avvocato, sono stati tesi dei trabocchetti, per esempio da Bersani, e i neoparlamentari hanno commesso errori d’inesperienza e ingenuità: per questo vanno sostenuti, perché continuino a crescere. Il Pd, invece, «ha disperso un immenso patrimonio, quello del Pci». Come diceva Natta, «non hanno tenuto conto che eravamo il punto di arrivo di una particolarità storica, significativa e apprezzata a livello internazionale: un partito socialdemocratico, sul modello scandinavo, che aveva con sé la classe operaia». Tutto questo, sostiene Zupo, non deve andare perduto, e il Movimento 5 Stelle è un’occasione: «In Europa il malcontento si sta riversando verso partiti reazionari, fascisti o addirittura neonazisti, mente qui da noi prende le sembianze del M5S che è invece antifascista, democratico e progressista. Basta osservare come Grillo ha replicato al corteggiamento di Marine Le Pen. Questa specificità del M5S andava compresa e sostenuta, e non osteggiata come fatto dal Pd. Anche le istituzioni che continuano ad accusare il movimento di populismo sbagliano in maniera grossolana».«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».
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Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.(Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.
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Renzi e Berlusconi, una Costituzione riscritta dai bidelli
Appena uno si azzarda a mettere in dubbio la bontà della riforma elettorale “Italicum” o di quella del Senato, il premier e la sua vestale Maria Elena Boschi arrotano le boccucce a cul di gallina: «Il patto del Nazareno non si tocca». Trattasi dell’accordo siglato da Renzi e Berlusconi (attualmente detenuto ai servizi sociali) il 18 gennaio nella sede del Pd. Che, complice la toponomastica, evoca un che di sacrale: roba da tavole della legge, da arca dell’alleanza. Chiunque osi discostarsene – il presidente del Senato Piero Grasso, o i giuristi di “Libertà e Giustizia”, o il mite Vannino Chiti trattato ormai come un brigatista rosso – viene subito bollato di “rosicone”, “gufo”, “professorone”, “solone milionario”, “conservatore” e nemico del “cambiamento”. Il fatto è che questo patto Ribbentrop-Molotov all’amatriciana tutti lo evocano, ma nessuno – a parte i due firmatari, più Boschi e Verdini – lo conosce.Renzi ha appena annunciato la “total disclosure” sulle stragi di 40-50 anni fa, cioè la revoca del segreto di Stato, che però copre al massimo fatti di 30 anni fa, escluse le stragi, dunque non esiste. Ma forse farebbe cosa più utile a desegretare il Patto del Nazareno, così finalmente sapremmo cosa c’è scritto e potremmo regolarci. L’Italicum è notoriamente una boiata pazzesca che riproduce e talora peggiora i vizi del Porcellum, già bocciati dalla Consulta: liste bloccate con deputati nominati dai segretari di partito e premio di maggioranza-monstre per chi arriva primo, con spaventose soglie di sbarramento per escludere chi non s’intruppa. Però almeno si comprende la logica brutalmente partitocratica e semplificatoria dei due partiti – Pd e Forza Italia – che l’hanno partorito. La riforma del Senato, invece, è una porcata di cui sfugge pure la logica. E siccome persino Forza Italia se n’è resa conto, ed è sempre più tentata di appoggiare il testo di Chiti (che piace anche ai 5 Stelle), è giocoforza chiederne conto agli unici genitori rimasti: Renzi e la Boschi.Diamo pure per scontato ciò che non lo è affatto, e cioè che il nuovo “Senato delle autonomie” non sia più elettivo, non voti più la fiducia al governo e non possa esprimere che pareri consultivi sulle leggi votate dalla Camera (a parte quelle costituzionali). E cerchiamo di dare un senso alla sua nuova composizione: cioè alle modalità di accesso dei 148 senatori. I primi 21 li nomina il capo dello Stato (in aggiunta ai 5 senatori a vita): ma che senso ha che il 15 per cento dei membri del Senato li nomini una sola persona? Altri 21 saranno i governatori delle 19 regioni e i 2 presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano. Altri 21 saranno i sindaci dei capoluoghi di regione e di provincia autonoma. Altri 40 verranno scelti fra i consiglieri regionali: 2 per regione. E altrettanti fra i sindaci: 2 per regione. Ma perché mai tutta questa brava gente – in parte non eletta, in parte eletta per fare tutt’altro – dovrebbe approvare le leggi costituzionali ed eleggere il capo dello Stato, i membri del Csm e della Consulta?E, se tutti questi signori dovranno trascorrere metà della settimana a Roma, non rischiano di essere dei senatori e degli amministratori locali a mezzo servizio, svolgendo male l’un compito e l’altro? Siccome poi pochissimi saranno residenti a Roma e tutti gli altri in trasferta, andranno rimborsati per i viaggi e i pernottamenti nella capitale, riducendo i già magri risparmi (50-80 milioni all’anno) ricavati dall’abolizione del Senato elettivo e retribuito. La Valle d’Aosta, poi, avrà tanti senatori quanti la Lombardia, che ha 80 volte i suoi abitanti, e così il Molise con la Campania, 20 volte più popolosa. Anche questa scemenza è scritta col sangue nel Patto del Nazareno, o se ne può discutere? Infine, last but not least, il Senato dura cinque anni, ma nelle Regioni e nei Comuni si vota in ordine sparso, sicché ogni anno qualche governatore e sindaco perde il posto. E Palazzo Madama diventa un albergo a ore con le porte girevoli, dove si entra e si esce. E le maggioranze sono affidate al caso. O al caos. Cose che càpitano quando, a furia di disprezzare i professori, la Costituzione la riscrivono i bidelli.(Marco Travaglio, “Una Costituzione riscritta dai bidelli”, da “L’Espresso” del 5 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Appena uno si azzarda a mettere in dubbio la bontà della riforma elettorale “Italicum” o di quella del Senato, il premier e la sua vestale Maria Elena Boschi arrotano le boccucce a cul di gallina: «Il patto del Nazareno non si tocca». Trattasi dell’accordo siglato da Renzi e Berlusconi (attualmente detenuto ai servizi sociali) il 18 gennaio nella sede del Pd. Che, complice la toponomastica, evoca un che di sacrale: roba da tavole della legge, da arca dell’alleanza. Chiunque osi discostarsene – il presidente del Senato Piero Grasso, o i giuristi di “Libertà e Giustizia”, o il mite Vannino Chiti trattato ormai come un brigatista rosso – viene subito bollato di “rosicone”, “gufo”, “professorone”, “solone milionario”, “conservatore” e nemico del “cambiamento”. Il fatto è che questo patto Ribbentrop-Molotov all’amatriciana tutti lo evocano, ma nessuno – a parte i due firmatari, più Boschi e Verdini – lo conosce.
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La sinistra europea è complice dei signori della crisi
La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
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Cina, gli operai-schiavi rialzano la testa (grazie al web)
Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.Il risultato, come racconta il “New York Times”, è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni, che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni, è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passaparola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla “primavera araba” l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come Evgenij Morozov.Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “La società armoniosa”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni ‘60 del ‘900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.(Carlo Formenti, “Se gli operai cinesi rialzano la testa”, da “Micromega” del 5 maggio 2014).Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.
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Scajola, il ministro che a Genova ordinò di sparare
Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, «un rompiscatole». Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo). Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto.Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di Stato e il ministero dell’interno dall’altro. Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vicecapo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti. Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di Stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente: «Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa».Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.(Lorenzo Guadagnucci, “Scajola e il dopo-Diaz della polizia”, da “Micromega” del 9 maggio 2014. Guadagnucci è un esponente del Comitato Verità e Giustizia per Genova).Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.
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Un mondo diverso: quello che non ci avete lasciato
Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?Noi, che siamo i figli di quella generazione, siamo probabilmente – anzi no: ne sono sicuro – la gioventù o post gioventù più conformista e innocua che l’Italia da inizio ‘900 in poi abbia conosciuto. Ed è vero che il crollo delle ideologie, il consumismo, la televisione, il web eccetera, ok. È vero però che qualcuno dovrà pur averci educato, e forse non lo ha fatto bene, o forse quella ribellione di allora non era così sincera, o forse nel frattempo chi combattevate vi ha blandito e infine comprato. Fosse solo una questione economica, poi. I soldi dopotutto non ci sono mai mancati, anche adesso che il lavoro scarseggia, perché c’eravate e ci siete voi.Quel che non ci avete insegnato è invece il poter credere che esista un’altra possibilità oltre all’adesione ad un sistema che ci è stato raccontato così, come se fosse dio, come se fosse legge di natura. Perché dovevamo essere performanti, noi. Pragmatici come lo siete diventati voi. Meno coraggio, meglio un sei politico esistenziale. Meno utopia, più piccola bottega. E comunque tranquilli, perché la cosa più bella che ci avete regalato è una: l’incoscienza. Il progresso è finito da un pezzo, le cose vanno oggettivamente peggio e noi non ce ne stiamo nemmeno accorgendo.(Matteo Pucciarelli, “Quel che non ci avete lasciato”, da “Micromega” del 13 aprile 2014).Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?
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In bikini per Tsipras, che ignora le cause dell’euro-lager
«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?Come può convivere l’etica del marketing con la lotta al mercato e al capitalismo? «Marxisti in crisi di identità? Marxisti dell’Illinois? (da una famosa scena del film “The Blues Brothers”, anche se là erano nazisti)», scrive la Spadini su “Come Don Chisciotte”. «Gli tsiprioti infatti sono quegli esseri che viaggiano sollevati a un palmo da terra (come Remedios la Bella di “Cent’anni di solitudine”), sono entità moralmente sovrannaturali, si spendono e si spandono per i diritti umani di tutta l’umanità, sono gli oracoli viventi dell’“unico dogma” che può salvare la pace, la libertà, la democrazia, sono i profeti dell’“unica verità socialista, marxista, comunista”. Quale complicità ci può essere tra i novelli Templari del marxismo, i monaci militanti della fratellanza universale e la subdola seduzione del mercato? Quale connivenza tra le loro esistenze votate all’ideale universalistico della distribuzione globale dei diritti e la sporcizia morale di chi seduce con una sveltina (per di più anale) in cambio di un voto?».Senza considerare, aggiunge Spadini, che spesso gli “tsiprioti” provengono dalle vaste e profonde gole di “Micromega”, frequentate da intellettuali che hanno attraversato gli anni tormentati del berlusconismo «ragionando sapientemente dei massimi sistemi dell’esistenza, senza che il loro nobile pensiero si traducesse mai in risoluzione pratica dei problemi sociali, confondendo spesso l’astrattezza della loro speculazione filosofica con l’astuta strategia politica di chi intercetta e decifra le esigenze del reale». Ecco perché gli “tsiprioti” sono andati in Grecia a cercarsi un loro degno rappresentante: «Perché in Italia non c’era nessun Zarathustra degno di fede, non c’era nessuno che potesse corrispondere ai loro criteri di selezione darwiniana della specie eletta degli ubermensch». Ma Tsipras e i suoi followers, a partire da Barbara Spinelli, «non sembrano capire che un’Europa federale e democratica dei popoli fratelli non è possibile se non uscendo da quel lager eurocratico che la sta devastando».Secondo Rosanna Spadini, «non ci può essere democrazia se non all’interno dello Stato-nazione, non ci può essere sovranità economica se non restaurando la collaborazione tra Tesoro e Bankitalia che è stata interrotta dal “divorzio” del 1981 (legge Ciampi-Andreatta), e non ci può essere benessere sociale se non recuperando la nostra indipendenza politica e democratica». Per di più, «questi monaci militanti della fratellanza globalizzata, che ha anche impedito in Italia la nascita di una coscienza nazionale, concezione da loro soavemente disprezzata, confusa con quella di nazionalismo (che è decisamente un’altra cosa), questi sacerdoti laici che celebrano quotidianamente il loro anacronistico rito liturgico, sono stati sempre la ruota di scorta dei poteri forti, “utili idioti” al servizio del sistema neoliberista, ottusi strumenti nelle mani del potere eurocratico, tribuni di strategie politiche del nulla, sempre e comunque perdenti, proprio perché connaturate amabilmente al potere costituito (vedi Laura Boldrini)».Non si rendono conto, aggiunge Spadini nella sua requisitoria, che l’Europa odierna sta vivendo uno dei momenti più tragici della propria storia: non potrà cambiare il proprio destino se non facendo una diagnosi precisa della cause che hanno provocato il disastro. E’ «un “golpe bianco” che viene da lontano, dal crollo del muro di Berlino del 1989, quando il sistema capitalistico-imperialistico-neoliberista rimasto unico ordine mondiale, si apprestò a dissolvere gli Stati-nazione, privandoli della loro sovranità politico-economica, per ricomporli in quell’orrido organismo sovranazionale, privo di identità e di cultura, che è appunto l’Unione Europea». Un “golpe bianco” che «si serve dell’euro come arma di distruzione di massa per imporre politiche di austerity che devastano l’economia e i diritti, una dittatura finanziaria che ha imposto i trattati-capestro, dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), quando al contrario i popoli di Francia e Olanda avevano ampiamente bocciato la Costituzione Europea».Il “nemico” da riconoscere «una dittatura finanziaria che ha poi aperto la strada all’inarrestabile corso dei tagli alla spesa pubblica (che invece statisticamente non oltrepassa la media dei paesi europei), al ciclo delle privatizzazioni, alla precarizzazione a vita del lavoro e alla devastazione del welfare, straordinaria conquista sociale delle lotte del Novecento, ma anche strategia funzionale all’antagonismo tra il benessere capitalistico dell’ovest europeo, opposto al malessere comunista del suo nemico storico, rappresentato dall’Urss, durante il periodo della guerra fredda». Pertanto, Tsipras e «i suoi gattopardeschi followers» vorrebbero rimuovere gli effetti disastrosi della dittatura eurocratica «senza toccarne le cause, rappresentate dall’euro e dai trattati». E questo, purtroppo o per fortuna, è ben più importante dell’ostentata esposizione delle terga della giovane portavoce in bikini.«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?
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Brancaccio: il Jobs Act è peggio della riforma Fornero
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.In realtà l’austerity ha depresso l’economia e non ha risanato i conti. Su indicazione della Bce e della Commissione, allora, il ministro oggi propone una nuova ricetta: la ulteriore flessibilità dei contratti di lavoro aiuterà a creare nuovi posti di lavoro e a ridurre la disoccupazione. Ma le evidenze empiriche ci fanno ritenere che si sbaglino di nuovo. In una rassegna pubblicata qualche anno fa, gli economisti Tito Boeri e Jan van Ours hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione. Alla luce di queste evidenze persino Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra le due variabili. Una spiegazione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono indurre le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere facilmente quegli stessi posti di lavoro nelle fasi di crisi.Alla fine, tra creazione e distruzione dei posti di lavoro l’effetto complessivo risulta essere nullo, con buona pace di Padoan e di Draghi. Il M5S si è scagliato contro il Jobs Act parlando di “ritorno alla schiavitù”. Credo vi sia un’espressione più adatta al nostro tempo: intensificazione dello sfruttamento capitalistico del lavoro. E’ un fenomeno che si è verificato in misura particolarmente accentuata negli ultimi vent’anni, durante i quali abbiamo assistito a uno smantellamento progressivo del diritto del lavoro. Il fenomeno si è verificato il larga parte dei paesi industrializzati, anche se in Italia vantiamo un record: dal 1998 l’indice generale di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse è crollato più che in ogni altro paese europeo. I primissimi provvedimenti risalgono persino a Ciampi. E’ vero tuttavia che il pacchetto Treu determinò una caduta molto accentuata dell’indice di protezione dei lavoratori, alla quale seguì un calo ulteriore con la legge Biagi del governo Berlusconi.Il Jobs Act di Renzi non è altro che il sequel del medesimo film, che i governi che si sono succeduti in questi anni hanno quasi ininterrottamente mandato in onda. Con risultati irrilevanti sul terreno dell’occupazione. Del resto, la creazione di lavoro dipende soprattutto da altri fattori, tra cui l’orientamento espansivo o restrittivo elle politiche economiche. Renzi ha scelto di porsi in sostanziale continuità con le politiche di austerity che fino ad oggi sono state adottate in Europa. Proprio per questo, tuttavia, rischia di non raggiungere gli obiettivi di contenimento del deficit che si è dato. Nel 2014 la crescita del Pil potrebbe rivelarsi inferiore al già risicato 0,8% annunciato dal governo. La conseguenza è che il rapporto tra deficit e Pil potrebbe rivelarsi maggiore del previsto. Sarebbe l’ennesima smentita per la dottrina della “austerità espansiva”.Renzi rivendica gli 80 euro al mese per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25.000 lordi? Prima di definirla una mossa “di sinistra” vorrei capire più in dettaglio dove nei prossimi anni la spending review andrà a tagliare. Se ad esempio colpisse i servizi pubblici, i lavoratori subordinati potrebbero trarre più svantaggi che benefici. Riguardo agli effetti sulla crescita, vorrei ricordare che in Italia negli ultimi 5 anni abbiamo perso un milione di posti di lavoro e abbiamo registrato un incremento del 90% delle insolvenze delle imprese. Sono perdite colossali, di proporzioni storiche, che dovremmo affrontare con una concezione completamente nuova della politica economica pubblica. Chi pensa che invertiremo la rotta con 80 euro in più al mese in busta paga non sa quel che dice.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act? Peggio della riforma Fornero”, pubblicata da “Micromega” il 23 aprile 2014).Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.
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Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina
Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.(Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.
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Vergogna Europa, critica Putin ma non tutela Snowden
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».In Ucraina, «l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia», scrive la Spinelli in un intervento su “Repubblica”, ripreso da “Micromega”. «Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe». Così, non sapendo parlare con Mosca, gli europei «lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos, inasprendolo: è Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est». L’Europa «sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita, quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario».Depoliticizzata, l’Europa «subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano», che vorrebbe fare di Kiev il nuovo scudo orientale della Nato, «nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità». Si pensa ad un’Ucraina «occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia». Ha ragione Mosca, che «chiede che il paese diventi una federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti». Strano, aggiunge Barbara Spinelli, che a domandarlo «non sia l’Europa, con le sue esperienze». Ma è questa Europa, assolutamente passiva nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). «Una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici».Anche Barbara Spinelli condivide l’allarme da più parti segnalato: «Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti». Salute a rischio: «I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost». E sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica. «Una controffensiva Ue contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa». Il piatto è magro: solo un aumento dello 0,5% del Pil, a pieno regime (nel 2027) secondo l’istito “Prometeia”, mentre l’istituto austriaco “Öfse” (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione del mercato del lavoro imposta dal Trattato Transatlantico.Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. «Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe». Tutto questo, in nome della “semplificazione burocratica”: «Parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa». Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè «parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci e molto altro ancora». Eppure, per l’Europa va bene così. D’altronde, questa è l’Europa della battaglia «indolente e infruttuosa» contro i piani di sorveglianza della Nsa disvelati da Edward Snowden nel 2013.Un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici: «Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza». I governi dell’Unione? «Hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente». In un messaggio al Parlamento Europeo, stesso Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati: totalmente impotenti di fronte al Datagate. «La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica», osserva Spinelli. «L’esistenza di smascheratori di misfatti – non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione – potenzia la democrazia». Proprio per questo, è paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso – il “soffiatore di fischietto” – abbia trovato riparo «non in un’Europa che promette nella sua Carta la “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, ma nella Russia di Putin».Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».