Archivio del Tag ‘mercato’
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Giovani al lavoro gratis per l’Expo dei ladri e degli ipocriti
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che l’Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che lo faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli. Sono solo due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice. Perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. C’era da pagare una montagna di mazzette, non si potevano retribuire anche gli addetti agli stand. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi, direbbero gli araldi del lavoro flessibile. Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto, l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, nonostante le critiche a quel “#jobsact” che l’accordo Expo già anticipava.Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti. Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà alla Nestlè il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione – e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree, che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto, sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo Ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il Primo Maggio, trasformando così la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.(Giorgio Cremaschi, “L’Expo della precarierà”, da “Micromega” del 5 febbraio 2015).Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.
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Eurispes: disastro Italia, uno su due non arriva a fine mese
Italiani sempre più poveri, euroscettici e sfiduciati per il futuro. Il popolo italiano arranca sempre più: lo confermano gli ultimi dati ufficiali. Quasi metà degli italiani non riesce ad arrivare alla fine del mese, sette italiani su dieci hanno visto ridursi il potere d’acquisto e tagliano su tutto, dai regali ai viaggi. Quasi un italiano su due accetta ormai l’idea di trasferirsi all’estero, e quattro connazionali su dieci uscirebbero dall’euro. Il rapporto Eurispes sul 2015 mostra un “mal d’Italia” ancora grave e fortemente diffuso, effetto di una crisi economica e finanziaria che morde ormai da molti anni. «Lo Stivale purtroppo continua a essere zavorrato e il tanto atteso decollo dell’economia e degli occupati cozza contro un muro di scetticismo», scrive il blog “Fronte di Liberazione dai Banchieri”. E mentre la crisi pesa, spiega il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, «lo Stato sopravvive nutrendosi dei propri cittadini e delle proprie imprese, cioè della società che lo esprime. Con evidente miopia: che cosa accadrà quando non ci sarà più nulla di cui nutrirsi?».«Mentre l’economia va a rotoli e la società vive un pericoloso processo di disarticolazione – aggiunge Fara – assistiamo al trionfo di un apparato burocratico onnipotente e pervasivo, in grado di controllare ogni momento e ogni passaggio della nostra vita». Da qui l’allontanamento dalle istituzioni dei cittadini italiani, che prosegue “indisturbato” da anni. Colpa anche della burocrazia, attacca Fara: «Con l’incredibile incremento della produzione legislativa necessaria a regolare la nuova complessità sociale ed economica, la burocrazia da esecutore si è trasformata prima in attore, poi in protagonista, poi ancora in casta e, infine, in vero e proprio potere al pari, se non al di sopra, di quello politico, economico, giudiziario, legislativo, esecutivo, dell’informazione». La cartella clinica del “paziente Italia” è «piena zeppa di diagnosi gravi», avverte l’Eurispes. La principale continua a essere la disoccupazione, che indirettamente ha rafforzato il plotone degli euroscettici, intaccando inevitabilmente anche la credibilità della politica.Il 47% degli italiani non riesce ad arrivare a fine mese con le proprie entrate. La percentuale è aumentata di 16,4 punti rispetto al 2014. Solo il 44,2% degli intervistati riesce a raggiungere fine mese senza grandi difficoltà. Registra ancora un calo il potere d’acquisto degli italiani. L’indagine Eurispes rileva che sette italiani su dieci (71,5%) hanno visto nell’ultimo anno diminuire nettamente o in parte il proprio potere d’acquisto, un dato in linea con quanto rilevato nel 2014 (70%). Dall’inchiesta emerge che l’82,1% dei cittadini ha ridotto le risorse per i regali, l’80,8% ha rinunciato ai pasti fuori casa, il 74,7% ha tagliato le spese per viaggi e vacanze, l’80,1% ha ridotto quelle per articoli tecnologici (+8,5%). Aumentano, ad esempio, le rateizzazioni per far fronte alle spese mediche: nel 2014 il 46,7% degli intervistati ricorre alle rate per pagare cure mediche, si tratta di un incremento di 24,3 punti percentuali rispetto al 2013. Si pagano a rate anche automobili (62,4%), elettrodomestici (60,4%), computer e telefonini (50,3%). Cresce il fenomeno dell’usura: sarebbero 40.000 gli usurai in attività, soprattutto nel Nord Italia. Vittime soprattutto i commercianti, ma non solo.Quattro italiani su dieci (40,1%) pensano che sarebbe meglio uscire dall’euro: il rapporto Eurispes 2015 segnala che a inizio 2014 la quota di delusi dalla moneta unica si attestava al 25,7%. Il 55,5% degli euroscettici è convinto che l’Italia debba uscire dall’euro perché sarebbe la moneta unica il motivo principale dell’indebolimento della nostra economia. Inoltre, per il 22,7% l’euro avrebbe avvantaggiato soltanto i paesi più ricchi. I meno convinti sulla moneta unica sono soprattutto i lavoratori atipici (47,5%), vale a dire, segnala l’Eurispes, «quelle categorie più indebolite dalla crisi economica e dall’instabilità del mercato del lavoro». Gli occupati con contratto a tempo determinato si dividono invece in due fasce quantitativamente simili, con un 47,4% di favorevoli e un 42,1% di contrari. E’ in crescita il numero di chi non si sente in grado di dare garanzie alla propria famiglia con il proprio lavoro (64,7%). Per l’ Eurispes, il 28% di chi lavora deve ricorrere all’aiuto di genitori e parenti.Inoltre, secondo l’indagine, riuscire a risparmiare qualcosa in futuro è un miraggio per 8 italiani su 10: per il 38,5% la risposta è “certamente no”, per il 41,2% “probabilmente no”. Oltre la metà dei lavoratori (57,7%) non è per nulla ottimista sulle possibilità che la propria situazione lavorativa permetta di fare progetti per il futuro. Inoltre, il 57% dice di non riuscire a fronteggiare spese importanti, anche qui tuttavia si registra un lieve miglioramento rispetto al precedente 66,1% del 2014. Quasi la metà degli italiani (il 45,4%) si trasferirebbe all’estero se ci fossero le condizioni. La percentuale, soprattutto a causa della crisi economica e delle difficoltà per chi cerca lavoro in Italia, è cresciuta di quasi otto punti dal 2006. «I dati appaiono come una conferma del fatto che oggi le condizioni di vita nel nostro paese sono più difficili che in passato per molti cittadini, al punto da indurre una parte di loro a valutare l’opportunità di trasferirsi».Italiani sempre più poveri, euroscettici e sfiduciati per il futuro. Il popolo italiano arranca sempre più: lo confermano gli ultimi dati ufficiali. Quasi metà degli italiani non riesce ad arrivare alla fine del mese, sette italiani su dieci hanno visto ridursi il potere d’acquisto e tagliano su tutto, dai regali ai viaggi. Quasi un italiano su due accetta ormai l’idea di trasferirsi all’estero, e quattro connazionali su dieci uscirebbero dall’euro. Il rapporto Eurispes sul 2015 mostra un “mal d’Italia” ancora grave e fortemente diffuso, effetto di una crisi economica e finanziaria che morde ormai da molti anni. «Lo Stivale purtroppo continua a essere zavorrato e il tanto atteso decollo dell’economia e degli occupati cozza contro un muro di scetticismo», scrive il blog “Fronte di Liberazione dai Banchieri”. E mentre la crisi pesa, spiega il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, «lo Stato sopravvive nutrendosi dei propri cittadini e delle proprie imprese, cioè della società che lo esprime. Con evidente miopia: che cosa accadrà quando non ci sarà più nulla di cui nutrirsi?».
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Gli Usa nei guai, i sauditi boicottano il petrolio americano
Il prezzo del petrolio crolla e gli Usa sono davvero nei guai: da un lato il crollo dei prezzi colpisce anche la Russia, ma soprattutto mette fuori combattimento il petrolio americano, quello di scisto ottenuto col fracking. Geopolitica: al centro della scena c’è l’Arabia Saudita, che si sta “vendicando” degli Usa per la vicenda dell’Isis, la milizia sfuggita al controllo della Cia e decisa a rovesciare la monarchia saudita. Lo sostiene l’economista Dmitry Orlov, secondo cui si sta avvicinando la fine del petrodollaro. Nel corso del 2014 il prezzo del petrolio è caduto da oltre 125 a circa 45 dollari al barile, e potrebbe ulteriormente calare per poi risalire di nuovo. Questo selvaggio saliscendi del mercato del petrolio potrebbe portare l’economia al collasso, insieme alla lotteria dei mercati finanziari, la crisi valutaria, la bancarotta delle società energetiche e quella degli istituti che le hanno finanziate, nonché il default dei paesi che le hanno sostenute. «E senza un’economia industriale funzionante, il petrolio potrebbe essere riclassificato al livello di mero rifiuto tossico. Ma questo evento è da spostare in avanti di due o tre decenni». Nel frattempo, a crollare sarà il petrolio americano.Il gioco al ribasso dei sauditi, scrive Orlov in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, metterà fuori mercato molti produttori di petrolio non-convenzionale (quello convenzionale, facile da estrarre da pozzi verticali, ha raggiunto il picco di produzione nel 2005 e da allora è in calo). La produzione di petrolio non-convenzionale – compreso quello estratto in mare o derivato dalle sabbie bituminose, il petrolio di scisto (idro-fratturazione) o comunque quello la cui produzione richiede tecniche molto costose – è stato finanziato con notevole generosità per compensare il deficit energetico nazionale. Ma al momento, per essere prodotto costa ancora troppo: più di quanto si possa ricavare a venderlo. «Questo significa che intere produzioni – il petrolio pesante del Venezuela (che ha bisogno di essere migliorato per poter essere utilizzato), il petrolio estratto nel Golfo del Messico (Messico e Stati Uniti) e in altre località offshore (Norvegia e Nigeria), le sabbie bituminose del Canada, il petrolio di scisto (Stati Uniti) – rischiano di andare fuori mercato. I produttori, in questo momento, stanno bruciando i loro soldi. Se i prezzi del petrolio resteranno così bassi, saranno costretti a chiudere».Nel frattempo, continua Orlov, si sta impoverendo il petrolio di scisto americano: lo stanno pompando al massimo, stabilendo nuovi record di produzione, ma il numero di nuovi pozzi sta rapidamente crollando. «I pozzi si esauriscono molto velocemente: le portate si riducono della metà nel giro di pochi mesi e, dopo un paio d’anni, diventano del tutto trascurabili. La produzione può essere mantenuta solo facendo ricorso senza soste alla trivellazione di nuovi pozzi. Ma, al contrario, quest’attività si è pressoché fermata». Morale: «L’intera partita del petrolio di scisto, che alcuni pupazzi dalla testa ciondolante pensavano avrebbe fatto degli Stati Uniti una nuova Arabia Saudita, andrà a finire». Orlov ricorda che l’eccesso di produzione di petrolio, che ne ha fatto precipitare il prezzo, non è stato così grande: «Tutto è cominciato con la decisione, concertata fra Stati Uniti e Arabia Saudita, di scaricare sul mercato internazionale quantità maggiori di petrolio per farne scendere il prezzo». Oggi, «i leader degli Stati Uniti sanno benissimo che i giorni del loro paese come “più grande produttore mondiale di petrolio” si misurano in settimane o in mesi, e non in anni».Secondo Orlov, la leadership Usa si rende conto del fatto che «il crollo della produzione di petrolio di scisto causerà all’economia i tipici problemi che seguono un’ubriacatura». E se oggi tutti pompano petrolio di scisto più che possono, a prescindere dal prezzo, a un certo punto accadrà una di queste due cose: «O la produzione andrà a crollare, oppure i produttori si troveranno a corto di denaro – e la loro produzione crollerà di conseguenza». Secondo Orlov, «gli Stati Uniti stanno scommettendo sul fatto che prezzi del petrolio così bassi finiranno con il distruggere i governi dei tre grandi produttori di petrolio che non sono sotto il loro controllo politico-militare. Questi paesi sono il Venezuela, l’Iran e, naturalmente, la Russia. Le probabilità di successo sono minime ma, non avendo altre carte da giocare, gli Stati Uniti ci stanno disperatamente provando». Il Venezuela non è un “premio” sufficiente, mentre l’Iran si sta legando solidamente alla Cina, oltre che alla Russia. Quanto a Mosca, può fare profitti anche solo vendendo il suo petrolio a 25-30 dollari al barile.«Gli Stati Uniti – continua Orlov – stanno facendo un tentativo disperato per rovesciare uno o due o tre petro-stati», e di farlo «prima che il suo petrolio di scisto si esaurisca». Ci riusciranno? Ultimamente, gli Usa hanno collezionato solo sconfitte, specie nelle operazioni di intelligence. Persino la Turchia si è sfilata dalla “psy-op” parigina, targata “Charlie Hebdo”: strategia della tensione, per Erdogan, con “terroristi” telecomandati. «E’ la ragione per cui i presunti autori sono stati giustiziati sommariamente dalla polizia, prima che qualcuno potesse scoprire qualcosa su di loro», scrive Orlov. «E’ ormai diventato chiaro che questi eventi sono stati cucinati dallo stesso gruppo di hacker, tutto sommato non così terribilmente creativo. Sembrano stiano riciclando i “Powerpoint”: basta eliminare Boston e inserire Parigi». Idem per l’abbattimento del volo Malaysia Airlines Mh-17 avvenuto nell’Ucraina Orientale: «I funzionari pubblici occidentali addossarono istantaneamente la colpa ai “ribelli supportati da Putin”, che l’avevano proditoriamente abbattuto, ma quando i risultati della conseguente inchiesta portarono ad una diversa conclusione, essi furono secretati». E’ stato un disertore ucraino a rivelare che il jet fu abbattuto da un missile aria-aria sparato da un velivolo ucraino da combattimento. Notizia da prima pagina, censurata dai media occidentali.E poi c’è il nodo saudita: la monarchia dei Saud è «molto dispiaciuta con gli Stati Uniti», perché Washington «sta mancando il compito di “polizia di quartiere” che gli è stato affidato, e non è più in grado di mettere un coperchio sulle cose», cioè il dilagare dell’Isis,«inizialmente organizzato e addestrato dagli statunitensi», ma che ora «sta minacciando di distruggere la “Casa dei Saud”». Geopolitica fallimentare: «L’Afghanistan sta tornando ad essere il Talebanistan, l’Iraq ha ceduto una parte del suo territorio all’Isis e ora controlla solo quello corrispondente ai regni dell’età del bronzo (Akkad e Sumer), la Libia è preda della guerra civile, l’Egitto è stato “democratizzato” facendolo piombare in una dittatura militare, la Turchia (membro della Nato e candidata ad entrare nell’Ue) sta negoziando soprattutto con la Russia, la missione di rovesciare Assad in Siria è nel caos e i “partner” yemeniti degli Stati Uniti sono appena stati rovesciati dai miliziani sciiti». Infine, «la joint-venture statunitense-saudita, istituita per destabilizzare la Russia fomentando il terrorismo nel Caucaso del Nord, è completamente fallita», dopo aver inutilmente minacciato attentati terroristici alle Olimpiadi Invernali di Sochi (fu il principe saudita Bandar Bin Sultan a minacciare personalmente Putin).«E così i sauditi stanno pompando petrolio a tutta forza non tanto per aiutare gli Stati Uniti, ma per altre e più evidenti ragioni: per spingere fuori dal mercato i produttori di petrolio non-convenzionale e mantenere la loro quota di mercato», afferma Orlov, che ricorda come gli stessi sauditi siano «seduti su un’enorme riserva di dollari Usa, che vogliono mettere a frutto mentre valgono ancora qualcosa». Anche la Russia dispone di vaste riserve di dollari, e continua a sua volta a pompare petrolio. «Il bene più grande della Russia non è il petrolio, ma la pazienza della sua gente: i russi capiscono che dovranno attraversare un periodo difficile per sostituire le importazioni (da Ovest, in particolare) con la produzione nazionale (e con le importazioni da altri paesi). Tutto sommato possono permettersi una perdita, perché riavranno tutto indietro, una volta che il prezzo del petrolio tornerà a salire». Secondo Orlov, la risalita avverrà «non appena alcuni produttori di petrolio non-convenzionale cesseranno la loro attività, perché non più remunerativa». A quel punto «non ci sarà più alcuna produzione in eccesso, e il prezzo non potrà che risalire». L’instabilità continua moltiplicherà «i cadaveri delle compagnie petrolifere in fallimento», minacciando l’impero economico del petrolio e il suo attuale azionista principale, gli Usa.Il prezzo del petrolio crolla e gli Usa sono davvero nei guai: da un lato il crollo dei prezzi colpisce anche la Russia, ma soprattutto mette fuori combattimento il petrolio americano, quello di scisto ottenuto col fracking. Geopolitica: al centro della scena c’è l’Arabia Saudita, che si sta “vendicando” degli Usa per la vicenda dell’Isis, la milizia sfuggita al controllo della Cia e decisa a rovesciare la monarchia saudita. Lo sostiene l’economista Dmitry Orlov, secondo cui si sta avvicinando la fine del petrodollaro. Nel corso del 2014 il prezzo del petrolio è caduto da oltre 125 a circa 45 dollari al barile, e potrebbe ulteriormente calare per poi risalire di nuovo. Questo selvaggio saliscendi del mercato del petrolio potrebbe portare l’economia al collasso, insieme alla lotteria dei mercati finanziari, la crisi valutaria, la bancarotta delle società energetiche e quella degli istituti che le hanno finanziate, nonché il default dei paesi che le hanno sostenute. «E senza un’economia industriale funzionante, il petrolio potrebbe essere riclassificato al livello di mero rifiuto tossico. Ma questo evento è da spostare in avanti di due o tre decenni». Nel frattempo, a crollare sarà il petrolio americano.
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E bravo Draghi, che ricompra i titoli dei suoi amici bankster
«Le ricche istituzioni finanziarie che hanno acquisito a prezzi bassi il travagliato debito pubblico di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna ora ne vendono i titoli alla Bce a prezzi elevati». Ecco a chi serve il “quantative easing” di Mario Draghi, «ex dirigente della Goldman Sachs», come ricorda Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Sono loro, i grandi padroni dell’élite finanziaria, i primi a rallegrarsi all’annuncio che la Banca Centrale Europea avrebbe emesso 720 miliardi di euro all’anno «con cui acquisire crediti inesigibili dalle grandi banche, collegate politicamente». Come negli Stati Uniti, «l’alleggerimento quantitativo (Qe) serve ad arricchire chi è già ricco. Non ha alcun altro scopo». E attenzione: il mercato finanziario è cresciuto «nonostante il livello di recessione, la disoccupazione in gran parte dell’Europa nonché l’austerità imposta ai cittadini». Aumenta, il business finanziario, «in previsione del fatto che gran parte dei 60 nuovi miliardi di euro che saranno creati ogni mese troverà la sua strada nelle quotazioni dei capitali: la liquidità alimenta il mercato borsistico», arricchendo ulteriormente l’1% dei possessori di titoli. «La Federal Reserve e la Bce hanno riportato l’Occidente al tempo in cui un gruppetto di aristocratici era padrone di tutto».«Le Borse – continua Craig Roberts in un post tradotto da “Megachip” – sono bolle gonfiate dalla creazione di moneta della banca centrale». E dato che le banche centrali «sono gestite dai ricchi per i ricchi», questo dimostra che «la corruzione può prevaricare i principi di base per un periodo indeterminabile». Craig Roberts lo spiega in un libro del 2012, “The Failure of Laissez Faire Capitalism and Economic Dissolution of the West” (“Il fallimento del capitalismo liberista e il deterioramento economico dell’Occidente”). Ecco lo schema: «Prima la Goldman Sachs ha ingannato i finanziatori con prestiti esagerati (“overlending”) al governo greco, poi suoi ex dirigenti hanno assunto il controllo degli affari finanziari della Grecia e costretto all’austerità la popolazione per evitare perdite a carico dei creditori stranieri». Questo, continua Craig Roberts, «ha stabilito un nuovo principio in Europa, che il Fondo Monetario Internazionale ha inesorabilmente applicato ai debitori dell’America Latina e del Terzo Mondo». Il principio è che «quando i creditori stranieri commettono errori e prestano in eccesso ai governi stranieri, caricandoli di debiti, gli errori dei banchieri sono rimediati derubando le popolazioni povere. Pensioni, servizi sociali e pubblico impiego sono tagliati, risorse preziose vengono svendute agli stranieri per pochi spiccioli e il governo è costretto a sostenere la politica estera statunitense».Lo chiarisce in modo inequivocabile John Perkins in “Confessioni di un sicario dell’economia”, edito da Minimun Fax nel 2004. Perkins descrive perfettamente il processo: «Se non avete letto il libro di Perkins – dice Craig Roberts – avete solo una vaga idea di come sono corrotti e senza scrupoli gli Stati Uniti. Infatti, Perkins dimostra che l’eccesso di prestiti è fatto apposta per preparare il paese al saccheggio. Questo è ciò che Goldman Sachs ha fatto in Grecia», anche i greci «hanno impiegato molto tempo per accorgersene». A quanto pare, il 36,5% della popolazione è stato svegliato da un aumento della povertà, della disoccupazione e dei suicidi. «Tale cifra, poco più di un terzo dei voti, è bastata a portare al potere “Syriza” nelle elezioni greche appena concluse e a cacciare il corrotto partito “Nuova Democrazia”, che ha sempre venduto il popolo greco alle banche estere». Tuttavia, aggiunge Craig Roberts, il 27,7% dei greci «ha votato per il partito che ha sacrificato il popolo greco ai bankster, i banchieri gangster». E questo perché «anche in Grecia, un paese abituato a manifestazioni popolari nelle strade, una percentuale significativa della popolazione ha subìto un lavaggio del cervello sufficiente a farla votare contro i suoi stessi interessi».“Syriza” potrà fare qualcosa? «Si vedrà, ma probabilmente no», dice Craig Roberts: altro discorso se Tsipras avesse ottenuto il 60-70% dei voti, «ma una maggioranza del 36,5% non rappresenta un paese compatto, consapevole della propria condizione e spoliazione per mano di ricchi banchieri gangster». Il voto dimostra che una percentuale significativa dei greci appoggia ancora il saccheggio estero del paese. «Inoltre, “Syriza” è contro i pezzi grossi: le banche tedesche e olandesi che detengono i crediti verso la Grecia e i governi che sostengono le banche; l’Ue che usa la crisi del debito pubblico per distruggere la sovranità dei singoli paesi membri della stessa unione; Washington che sostiene il potere sovrano dell’Ue sui singoli paesi, in quanto è più facile controllare un solo governo piuttosto che un paio di decine». I media della grande finanza stanno già avvertendo “Syriza”: non metta in pericolo la sua adesione all’euro e non abbandoni il modello di austerità imposto ai cittadini greci con la complicità di “Nuova Democrazia”.Potrebbero minacciare di espellere Atene dall’Eurozona? «È una cosa di cui la Grecia dovrebbe rallegrarsi». «Uscire dall’Ue e dall’euro – scrive Craig Roberts – è la cosa migliore che possa capitare alla Grecia, perché un paese senza una propria moneta non è un paese sovrano, è uno Stato vassallo di un altro potere. Un paese senza una propria moneta non può finanziare i propri bisogni». Infatti, anche se è membro dell’Unione Europea, «il Regno Unito ha mantenuto la sua propria moneta e non è soggetto a controllo da parte della Bce». Insiste Craig Roberts: «Un paese senza il suo denaro è impotente, è niente. Se gli Stati Uniti non avessero il proprio dollaro, non avrebbero nessuna importanza sulla scena mondiale. L’Unione Europea e l’euro sono stati solo trucchi e inganni. I paesi hanno perso la loro sovranità, alla faccia dei concetti occidentali di “autogoverno”, “libertà”, “democrazia”: tutti slogan senza contenuto. In tutto l’Occidente non troviamo nient’altro che persone derubate da quell’1% che controlla i governi».«Le ricche istituzioni finanziarie che hanno acquisito a prezzi bassi il travagliato debito pubblico di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna ora ne vendono i titoli alla Bce a prezzi elevati». Ecco a chi serve il “quantative easing” di Mario Draghi, «ex dirigente della Goldman Sachs», come ricorda Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Sono loro, i grandi padroni dell’élite finanziaria, i primi a rallegrarsi all’annuncio che la Banca Centrale Europea avrebbe emesso 720 miliardi di euro all’anno «con cui acquisire crediti inesigibili dalle grandi banche, collegate politicamente». Come negli Stati Uniti, «l’alleggerimento quantitativo (Qe) serve ad arricchire chi è già ricco. Non ha alcun altro scopo». E attenzione: il mercato finanziario è cresciuto «nonostante il livello di recessione, la disoccupazione in gran parte dell’Europa nonché l’austerità imposta ai cittadini». Aumenta, il business finanziario, «in previsione del fatto che gran parte dei 60 nuovi miliardi di euro che saranno creati ogni mese troverà la sua strada nelle quotazioni dei capitali: la liquidità alimenta il mercato borsistico», arricchendo ulteriormente l’1% dei possessori di titoli. «La Federal Reserve e la Bce hanno riportato l’Occidente al tempo in cui un gruppetto di aristocratici era padrone di tutto».
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Die Welt: un tedesco su 6 non arriva più alla fine del mese
L’ufficio federale di statistica tedesco ha pubblicato dati allarmanti. Il rischio di impoverimento non è mai stato così alto. Addirittura 3,1 milioni di lavoratori guadagnano così poco da scivolare al di sotto della soglia di povertà. Il rischio di povertà è sensibilmente maggiore tra le donne che tra gli uomini. Per circa la metà dei colpiti (1,5 milioni), già una vacanza di 1 settimana all’anno fuori casa non rientra nelle possibilità. Quasi 600.000 poveri hanno rinunciato ad una autovettura propria perché non se la possono permettere. Questi dati si basano sulle indagini delle famiglie. «Il numero di lavoratori che con il loro reddito stanno appena sotto o appena sopra la soglia per le prestazioni Hartz-IV è spaventosamente alta», ha detto al giornale la presidente della Vdk (Sozial Verband Vdk Deutschland), Ulrike Mascher. Per molte di queste famiglie il sussidio è evidentemente insufficiente per superare in un certo qual modo le difficoltà. La responsabile delle politiche sul mercato del lavoro dei Linke, Sabine Zimmermann, chiede un rapido aumento del salario minimo a 10 euro.Per combattere il trend negativo serve inoltre, secondo la Zimmermann, introdurre dei limiti nei rapporti di lavoro, come anche arginare o abolire il lavoro interinale e i Minijob. Un’occhiata alle statistiche svela anche come ci siano grosse differenze regionali. Nel 2013 il rischio povertà era chiaramente più alto della Germania Orientale che nella ex Repubblica Federale. Il numero delle persone a rischio è del 19,8% nei nuovi Land e del 14,4% nella Germania occidentale, chiaramente superiore rispetto al valore degli anni scorsi. L’ufficio di statistica presenta i dati sul rischio di povertà sulla base del censimento del 2005. Da allora gli indici di povertà dell’est e dell’ovest si sono certamente avvicinati, tuttavia la minaccia della povertà rimane sensibilmente più alta nella Germania orientale. Nel 2005 il 20,4% dei tedeschi dell’est e il 13,2% dei tedeschi dell’ovest era ritenuto a rischio di povertà.In Germania sempre più lavoratori riescono, a quanto pare, a vivere a malapena col loro reddito. Come riferisce il “Saarbrücker Zeitung”, secondo i dati dell’ufficio federale di statistica, alla fine del 2013 circa 3,1 milioni di lavoratori percepiscono un reddito al di sotto della soglia di povertà. Nel 2008 erano almeno 2,5 milioni. E’ un aumento del 25%. Soprattutto la cosiddetta quota a rischio di povertà raggiunge il livello record di 16,1%. E’ considerato a rischio di povertà chi, compresi tutti i sussidi statali come, per esempio, fondi per la casa o per i figli, raggiunge meno del 60% del reddito medio. Nel 2013 la soglia era di 939 euro netti al mese. Per le famiglie con 2 figli si parla di soglia di povertà quando il reddito familiare netto è inferiore a 2.056 euro. Molti non ce la fanno ad andare in vacanza. Una analisi dettagliata delle statistiche ci offre una visione più precisa della sgradevole situazione di molti cittadini. Svela che nel 2013, 370.000 lavoratori poveri non sono riusciti a pagare l’affitto entro la scadenza, 417.000 hanno rinunciato ad un riscaldamento adeguato, e 538.000 hanno risparmiato sul cibo e si sono preparati un pasto completo soltanto un giorno ogni due.Nel 2005 Il pericolo di povertà è al minimo sia nel Baden-Wurttemberg che nella Baviera, è il più alto a Brema e nel Mecleburgo – Pomerania Anteriore. Nel 2013 il rischio di povertà è all’11,4% in Baden-Wurttenberg, e all’11,3 % in Baviera. A Brema e nel Meclemburgo è circa il doppio (24,6% Brema, 23,6 % Meclemburgo). A confronto con l’inizio della rilevazione nel 2005, il rischio di povertà è sceso con più vigore in Turingia e in Sassonia-Anhalt. E’ salito di più nel Nordreno-Vestfalia e a Berlino. Osservando le 15 città più popolose, il rischio povertà è il più basso a Monaco (11,4%) e a Stoccarda (13,4 %). Il più alto a Dortmund (26,4%) e a Lipsia (25,9%). Nel confronto col 2005 il rischio povertà è sceso ad Amburgo, Norimberga e Dresda. Nelle restanti città esaminate, il pericolo di povertà è salito dal 2005: l’aumento maggiore si è verificato a Duisburg, Dortmund, Düsseldorf e Colonia. Deludente è anche riconoscere che la Germania, col suo tasso di povertà medio del 16.1%, non se la cava bene in confronto all’Europa. Per la maggiore economia sociale e simbolo economico del continente non è certamente motivo di gloria che paesi come l’Irlanda, scossa dalla crisi, e la malata Francia, mostrino un tasso di povertà inferiore. Per non parlare di nazioni come i Paesi Bassi, la Norvegia (entrambi al 10.1%) o la Repubblica Ceca (9.6%), che chiaramente hanno punteggi migliori. Solo nazioni veramente in crisi come la Grecia (23.1%), la Spagna (22.2%) o l’Italia (19.4%) battono di molto la Germania.(Nando Sommerfeldt, “La povertà minaccia un tedesco su sei”, da “Die Welt” del 24 genaio 2015, tradotto da “Voci dal Mondo” e ripreso da “Blog-VoxPopuli”).L’ufficio federale di statistica tedesco ha pubblicato dati allarmanti. Il rischio di impoverimento non è mai stato così alto. Addirittura 3,1 milioni di lavoratori guadagnano così poco da scivolare al di sotto della soglia di povertà. Il rischio di povertà è sensibilmente maggiore tra le donne che tra gli uomini. Per circa la metà dei colpiti (1,5 milioni), già una vacanza di 1 settimana all’anno fuori casa non rientra nelle possibilità. Quasi 600.000 poveri hanno rinunciato ad una autovettura propria perché non se la possono permettere. Questi dati si basano sulle indagini delle famiglie. «Il numero di lavoratori che con il loro reddito stanno appena sotto o appena sopra la soglia per le prestazioni Hartz-IV è spaventosamente alta», ha detto al giornale la presidente della Vdk (Sozial Verband Vdk Deutschland), Ulrike Mascher. Per molte di queste famiglie il sussidio è evidentemente insufficiente per superare in un certo qual modo le difficoltà. La responsabile delle politiche sul mercato del lavoro dei Linke, Sabine Zimmermann, chiede un rapido aumento del salario minimo a 10 euro.
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Le fiabe di Pinocchio Renzi e l’agonia terminale dell’Italia
Dobbiamo aumentare la produttività degli italiani? Essere più competitivi? Rilanciare le privatizzazioni e rendere meno rigido il mercato del lavoro? Nemmeno per sogno, caro “Pinocchio” Renzi. Secondo Paolo Barnard, bastano «parole da terza media» per «asfaltare» il pensiero economico di “Renzino”. A cominciare dal falso dogma della produttività: gli italiani dovrebbero produrre di più, sul lavoro? «Ma questo cosa ci risolve? Il problema che spacca il paese oggi è la disoccupazione, con percentuali da record africano e almeno 300 miliardi all’anno di ricchezza perduta, per questo». Domanda: a che ci serve far diventare più produttivi quelli che già lavorano? «Vuol dire avere sempre mente gente a lavorare, perché gli occupati lavoreranno come delle furie (e poi crepano)». Parabola: se hai 100 cani ma gli butti solo 50 ossi (posti di lavoro), 50 cani torneranno a cuccia senza mangiare. Gli fai dei corsi di formazione per imparare a correre e mordere meglio? Se gli ossi restano 50, metà dei cani (formati o meno) resteranno affamati. E poi: «La produttività tedesca per ora lavorata è la più bassa d’Europa, ma da loro la disoccupazione è molto più bassa: ti dice nulla, Pinocchio?».Essere più competitivi? «Lo siamo già». Lo dice uno dei maggiori centri di studio economici del mondo, la Ert, European Roundtable of Industrialists: «Fa ogni anno la classifica dei lavoratori più competitivi d’Europa. Be’, gli italiani sono sempre fra i primi, meglio di Gran Bretagna e Danimarca, e solo un pelo sotto la Germania». La competitività? «Si misura con una formula da Mago Merlino che si chiama “Unit Labour Cost”, che fa la media fra quanto ti costa un lavoratore e quanto ti produce. Noi siamo già fra i migliori». Al che, Renzi cambia discorso e dice che il settore privato deve rilanciarsi, e il governo gli darà sempre più spazio (privatizzazioni) per arricchire l’Italia. Altro errore madornale: «I soldi, o li fa lo Stato o li fanno le banche, punto. Se tu obbedisci ai diktat dei tecnocrati Ue che proibiscono (coi limiti di deficit e di debito) allo Stato di creare soldi per noi tutti, allora non ci rimane che sperare che siano le banche a creare la ricchezza finanziaria». Le banche: «Vuol dire che i privati italiani devono indebitarsi come pazzi in banca, e coi debiti arrivano gli interessi, lo strangolamento, l’anatocismo e altre porcate delle banche».I soldi, quelli veri, «o li crea lo Stato investendo per noi, e quelli noi non dobbiamo restituirli, sono ricchezza al netto, oppure li creano le banche, e sono debiti di noi privati, non ricchezza al netto». Renzi? Un «codino dei tecnocrati», quelli che «stanno dando tutta l’Italia in mano alle banche, con ’sta storia che il rilancio viene dal privato: così le banche diventano lo Stato». Poi, continua Barnard, «quando privatizzi che fai? Togli un bene costruito per tutti da generazioni di italiani, e lo vendi a prezzi stracciati ai privati. Questi devono fare profitto, gliene fotte di noi, e quindi tagli all’occupazione, cali dei salari, intrighi con le banche (che sulle privatizzazioni guadagnano parcelle da sogno), e zero interesse pubblico». Il rilancio dal settore privato come lo intende Renzi «non avverrà mai senza debiti bancari e senza danni ai cittadini». Per Barnard, al contrario, «Deve tornare in gioco la spesa pubblica, l’investimento di Stato, che è ricchezza al netto per noi privati, perché lo stipendio di un medico pubblico, di un operaio che lavora per lo Stato o un servizio pubblico non sono soldi che noi dobbiamo restituire con interessi, mai!».Altra favola: il mercato del lavoro italiano “troppo rigido”, per colpa dell’articolo 18. “Facciamo come gli stranieri, basta con ’sta rigidità antimoderna”. «Come gli stranieri? Chi? Il World Economic Forum di Davos, il top del top della finanzia e dell’industria mondiale, ogni anno scrive pagelle sui vari Stati. Andiamo vedere l’ultima», propone Barnard. «I bocciati per troppa rigidità sul mercato del lavoro sono: Germania, Finlandia, Svizzera, Svezia e Giappone». Chiaro, no? «Evidentemente non è la protezione del lavoro che ci fa danni economici». Per fortuna, dice Renzi, col ministro Poletti il governo sta trovando risorse finanziarie per aiutare le imprese, le famiglie, l’occupazione. Macché, «voi non state trovando un accidenti», protesta Barnard. «Voi fate il gioco delle tre carte, cioè fate entrare 10 soldi dalla porta dell’Italia e intanto gliene sfilate 10 o 15 dalla finestra. Non siamo tutti idioti, qui, perché ce ne accorgiamo che, quatti quatti, sono sbucati 10.000 aumenti di balzelli strani a tutti i livelli». Inoltre, come insegna la Modern Money Theory sviluppata da Warren Mosler e diffusa in Italia da Barnard, «se un governo vuole dare soldi ai suoi cittadini e alle sue aziende al netto, cioè senza poi volerli indietro, o li sborsa lui a deficit (cioè ci dà più soldi di quanto ci tassa), o ci riduce le tasse in modo drammatico». In economia non c’è altro modo, conclude Barnard. «Ma il governo Renzi deve obbedire al pareggio di bilancio imposto dalla Ue (lo Stato ci dà 100 e ci tassa 100)», quindi i famosi fondi li allunga con la destra e poi li ritira con la sinistra, sotto forma di imposte.«Lo raccontate ai fagiani e ai cefali – aggiunge Barnard – che senza un esborso di Stato superiore alle tasse voi ci darete qualcosa da masticare: no, è matematicamente impossibile. E infatti raccontate balle, buffoni». Anche per questo, Renzi continua ad annunciare grandi svolte e grandi decisioni. Mente, sapendo di mentire: sa benissimo, infatti, che «l’Italia ha firmato e ratificato tutti i Trattati europei sovranazionali, cioè più potenti delle leggi italiane, che hanno totalmente tolto potere decisionale al governo e al Parlamento nazionale». Così, l’Italia «oggi può solo obbedire alle decisioni della tecnocrazia europea», la Troika Ue che esegue gli ordini di Berlino attraverso la Commissione e la Bce, col supporto del Fmi. Inutile agitarsi, fingendo di non essere un «pagliaccio fiorentino, parto del popolo bue del Pd». Renzi non conta nulla, e ogni esperto d’Europa lo sa benissimo. Lo sa anche Renzi, putroppo. Per questo, continua a inventare fiabe su come risollevare l’economia di famiglie e aziende, ben sapendo che si tratta soltanto di favole.Dobbiamo aumentare la produttività degli italiani? Essere più competitivi? Rilanciare le privatizzazioni e rendere meno rigido il mercato del lavoro? Nemmeno per sogno, caro “Pinocchio” Renzi. Secondo Paolo Barnard, bastano «parole da terza media» per «asfaltare» il pensiero economico di “Renzino”. A cominciare dal falso dogma della produttività: gli italiani dovrebbero produrre di più, sul lavoro? «Ma questo cosa ci risolve? Il problema che spacca il paese oggi è la disoccupazione, con percentuali da record africano e almeno 300 miliardi all’anno di ricchezza perduta, per questo». Domanda: a che ci serve far diventare più produttivi quelli che già lavorano? «Vuol dire avere sempre mente gente a lavorare, perché gli occupati lavoreranno come delle furie (e poi crepano)». Parabola: se hai 100 cani ma gli butti solo 50 ossi (posti di lavoro), 50 cani torneranno a cuccia senza mangiare. Gli fai dei corsi di formazione per imparare a correre e mordere meglio? Se gli ossi restano 50, metà dei cani (formati o meno) resteranno affamati. E poi: «La produttività tedesca per ora lavorata è la più bassa d’Europa, ma da loro la disoccupazione è molto più bassa: ti dice nulla, Pinocchio?».
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Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano
In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banche centrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia (crescita del Pil) e lo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci delle banche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente strutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà: quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto pericoloso concorrente economico: il debito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
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Uomini e topi, le cavie greche e la sinistra che tifa Draghi
Attenti a Tsipras: anche se finora ha tenuto un profilo molto basso, fingendo di rispettare i mostruosi vincoli europei contro il suo popolo, con la sola vittoria di Syriza potrà ora sottrarre il “laboratorio greco” al completo dominio dell’élite che s’è divertita a trasformare gli uomini in topi, per vedere fino a che punto sarebbero stati capaci di resistere per sopravvivere. «Se consideriamo la Grecia come un laboratorio», osserva Pino Cabras, «in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all’incendio di molti alambicchi». Test pericoloso: se funziona sarà applicato a nuove vittime, se invece fa cilecca si aumenterà il livello di sofferenze sulle solite cavie. «La Grecia è stata già altre volte un’officina per gli sperimentatori delle élite occidentali», ricorda Cabras: «Negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l’istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori».L’esperimento non funzionò: il golpe classico suscitava troppa opposizione interna e internazionale, i più intraprendenti fuggivano e l’economia diventava insostenibile. «Negli anni successivi, in Italia, appresa la lezione greca, si dimostrò che funzionava meglio un condizionamento di tipo piduista, che faceva sentire la minaccia della violenza, ma usava un approccio più graduale e tentacolare», scrive Cabras su “Megachip”. Il prezzo del test militare? Lo avevano già pagato i greci. Poi, nel nuovo secolo, «dall’instancabile cantiere oligarchico è partito un ulteriore “esperimento greco”, proprio negli anni in cui si è via via instaurato un nuovo tipo di regime europeo: cioè un regime che ha portato alle estreme conseguenze i difetti sempre più odiosi e antidemocratici della costruzione comunitaria e ha imposto le disfunzioni permanenti dell’euro, una moneta “che non dovrebbe esistere”, (come ha scritto finanche il servizio studi del colosso bancario svizzero Ubs), e che impone anche notevoli costi per un’eventuale uscita». La Grecia «sarebbe stata sufficientemente piccola da poter disinnescare il suo debito sovrano senza spargimenti di sangue, senza imporre fiscalità assassine, senza deprimere l’economia». E invece «le sono state imposte regole rigidissime», partorite da «un mondo intellettualmente fallito di pseudo-economisti traditori e ben pasciuti».Morale: «Si è abusato impunemente di un intero popolo, quello greco, che aveva la colpa di non essere numeroso e di avere un Pil che incideva sull’Europa quanto quello della provincia di Treviso sul Pil italiano». La spirale del debito non è stata interrotta, ma sovralimentata. Persino il Trattato di Maastricht citava la “solidarietà fra gli Stati membri”? I padroni del laboratorio, aggiunge Cabras, hanno invece deciso che quell’ingrediente doveva restare lettera morta: sulla pelle dei greci, hanno così potuto misurare in scala ridotta «quanto può crescere la disoccupazione in un paese e fino a che punto si deprezzano i beni, quand’è che un sistema sanitario crolla, qual è il punto di ebollizione da cui partono le rivolte violente e gli assalti ai fornai, come si dosa il monopolio della violenza affidato alla polizia, in che proporzione crescono i voti ai nazisti e quanto questi siano utilizzabili per dividere il popolo, quale livello di passività politica può raggiungere chi non ha più tempo per un proprio ruolo sociale e deve pensare solo a sopravvivere mentre evaporano stipendi e pensioni». E ancora: «Fino a che punto i partiti che reggono il sacco alle banche straniere resistono ancora all’erosione dei voti perché offrono ancora in cambio briciole residue per tenersi in vita? Qual è la chimica di una nazione disperata? Esplode, si evolve o implode?».La Troika Ue ha proseguito impassibile, recitando le sue orazioni neoliberiste. «Naturalmente il messaggio mafioso arrivava agli altri Piigs, maledetti maiali-cicala: avete vissuto troppo al disopra dei vostri mezzi, siete nati per soffrire e per “fare le riforme strutturali”, con una svalutazione del lavoro in favore del capitale finanziario». Nel “Laboratorio Grecia” si esagerava, fino a volerlo trasformare in una Zona Economica Speciale alla cinese, con salari da poche centinaia di euro, non senza aver distrutto quasi un milione di posti di lavoro. «Questo calvario è richiesto ai greci ancora una volta dalla comare secca che guida il Fmi, Christine Lagarde, che ha rilasciato una tempestiva intervista su “Le Monde” e “La Repubblica”, il 27 gennaio 2015». Aggiunge Cabras: «Sarebbe stato interessante chiedere alla Lagarde se è vero quel che dice su di lei il Gran Maestro Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”, cioè se appartenga a ben due logge massoniche ultraoligarchiche transnazionali, la “Pan Europa” e la “Three Eyes”, alla quale ultima – sostiene Magaldi – sarà possibile rivelare l’affiliazione anche di Giorgio Napolitano e Mario Draghi».E’ evidente che i padroni d’Europa la pensano allo stesso modo. A caldo, Draghi ha persino fatto notare che la pressione fiscale in Grecia resterebbe «ben inferiore sia alla media dell’area euro, sia a quella di tutta l’Unione europea a 28» Ossia: «C’è ancora un po’ di carne da staccare dall’osso». Fabio Scacciavillani twitta: «Un popolo di parassiti elegge una banda di ferrivecchi falliti». Scacciavillani, per chi non lo sapesse, è “chief economist” del Fondo d’investimenti dell’Oman, spiega Cabras: «Per la sua ideologia, un insegnante greco è dunque un parassita, laddove il Sultano dell’Oman è un adorabile filantropo e i grandi fondi speculativi sono immacolati agenti del Bene, purché ogni tanto li si foraggi con pubblico denaro: insomma, il solito neoliberista con il mercato degli altri, con proiezioni freudiane sul parassitismo». L’ascesa di Syriza è nata dunque in reazione a questo esperimento «crudele e interminabile, perpetuato da tanti reggicoda e ideologi in seno all’establishment». Tsipras ha dovuto «individuare il nemico sin da subito». Non come Vendola, che nel 2011 – intervistato da “L’Espresso” – credette di riconoscere «l’impegno di due grandi cattedre: quella di Papa Ratzinger e quella del papa laico, Mario Draghi».«Vendola – continua Cabras – associava uno dei più venerabili maestri della prassi oligarchica, Draghi il “papa laico”, nientemeno che a un nuovo “formidabile processo di critica verso le oligarchie” fra i giovani e i movimenti». Ecco perché la sinistra italiana non capirà mai la “lingua” della sinistra greca. Il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella (Pd), ha invitato Tsipras ad avviare negoziati «con le forze progressiste ed europeiste greche». Ma le “forze progressiste europeiste”, dice Cabras, sono «i complici più ipocriti dell’austerity». Tsipras si è guardato bene dal dargli retta, e un minuto dopo ha invece concluso un accordo di governo con un altro partito: «Un partito di destra, ma con la faccia al posto della faccia, a differenza di Pittella. Il quale continua il comunicato invitando il buon Alexis ad affrontare insieme le “sfide enormi come la lotta alla corruzione, all’evasione fiscale e alla disoccupazione”, cioè gli effetti secondari delle cause che Pittella e sodali hanno favorito, ad esempio promuovendo i Mario Monti e i Papademos, i Jobs Act e le iniquità strutturali dell’attuale moneta».Un economista anti-euro come Alberto Bagnai si è affrettato a dire che Tsipras è solo uno specchietto per le allodole che serve ad anestetizzare il dissenso? Giuseppe Masala riconosce che le armi in mano al nuovo primo ministro greco sono poche e spuntate, mentre tante armi potenti sono in mano straniera: Tsipras potrà fare politica e trovarsi alleati in Europa, ma l’esperimento (e anche l’incendio del laboratorio) è ancora in corso. «In troppi dimenticano che il primo partito greco, Syriza, ha ottenuto solo il 36,3% dei voti validi, i quali a loro volta sono da calcolare su appena il 64% del corpo elettorale». Attualissimo il monito di Enrico Berlinguer: sarebbe illusorio sperare in una svolta politica radicale, quand’anche si ottenesse il 51% dei voti. «La frase è del 1973: in Cile è appena andato al potere il generale golpista Pinochet che ha rovesciato Allende, mentre i colonnelli governano ancora Atene. Il dollaro da due anni non è più convertibile in oro, e la domanda di dollari esplode con il boom del prezzo del petrolio. In Italia settori rilevanti delle classi dirigenti atlantiste fanno sentire “tintinnio di sciabole”, in piena strategia della tensione». Finché in Italia ci furono partiti forti e di massa, continua Cabras, questi esercitarono una semi-sovranità in grado di correggere e contenere l’esercizio di poteri sovrani esterni che limitavano la sovranità italiana. Ma c’era evidentemente un limite invalicabile, oltre il quale la semi-sovranità soccombeva ai rapporti di forza opachi del sistema atlantico.Similmente, Tsipras ha massimizzato la forza politica ottenibile con il voto degli elettori in presenza di una proposta di governo riformatrice, consapevole di muoversi all’interno di vincoli letteralmente incontrollabili. Come quella di Berlinguer, «anche la scommessa di Alexis Tsipras è estremamente difficile, perché è condizionata da un campo internazionale molto maldisposto verso spinte contrarie al vento neoliberista, nel momento in cui sul piano militare si moltiplicano i focolai di guerra lungo i confini sempre più larghi della Nato, e sul piano economico si va a grandi passi verso una “Nato economica” da regolare con i nuovi trattati atlantici sul commercio e la finanza, con l’obiettivo di abbattere il ruolo della Russia e consolidare un’Europa più debole». In quel contesto «avremmo una Germania gendarme, circondata da un immenso Mezzogiorno europeo impoverito: la versione upgraded del “Laboratorio Greco”. Un incubo reale». Eppure, forse le strade non sono state tutte percorse, e il futuro può riservare «quote di imprevedibilità in grado di scottare gli scienziati pazzi». Cabras cita il nuovo ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, «un comunista determinato e molto preparato» che «parla l’inglese meglio dei maggiordomi europei che biascicano un misero anglofinanziese». E’ amico di James Galbraith, figlio del grande economista John Kenneth, a sua volta primo consigliere economico di Jfk e indimenticato autore di “L’economia della truffa”, «un libro che faceva già anni fa il ritratto dei nemici della Grecia, i nemici di tutti noi».Oggi è cresciuto il caos sistemico: c’è sempre chi scommette «sulla controllabilità di questo caos per ottenere nuovi vantaggi», ma non è detto che ci riesca. Troppe variabili in corso: dall’Ucraina, dove è in corso un nuovo laboratorio diretto da «plenipotenziari neocoloniali dell’élite oligarchica e finanziaria», con il Donbass «percorso da milizie nazistoidi e da mercenari», alla Spagna, dove un fenomeno elettorale nuovo, “Podemos”, con il vento in poppa come Syriza, individua già un tema chiave: uscire dalla Nato. «È perciò significativo che uno dei primissimi pronunciamenti del governo Tsipras sia stato quello di sconfessare il comunicato dei leader europei che prefigurava nuove sanzioni contro la Russia, con tanto di telefonata di Tsipras all’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini per esprimerle solennemente “il suo malcontento”». La Grecia diventerà un soggetto combattivo, avverte Cabras: «L’Europa che ha affossato il gasdotto South Stream ma non vuole rinunciare al gas dovrà passare proprio dalla Grecia, visto che le pipelines convergeranno in Turchia». Certo, l’Italia resta lontana dai germi di intelligenza che stanno sbocciando in Europa: non se esce né con i tirapiedi di Vendola, né con «le tristi derive del M5S».Non sparate su Tsipras: anche se finora ha tenuto un profilo molto basso, fingendo di rispettare i mostruosi vincoli europei contro il suo popolo, con la sola vittoria di Syriza potrà ora sottrarre il “laboratorio greco” al completo dominio dell’élite che s’è divertita a trasformare gli uomini in topi, per vedere fino a che punto sarebbero stati capaci di resistere per sopravvivere. «Se consideriamo la Grecia come un laboratorio», osserva Pino Cabras, «in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all’incendio di molti alambicchi». Test pericoloso: se funziona sarà applicato a nuove vittime, se invece fa cilecca si aumenterà il livello di sofferenze sulle solite cavie. «La Grecia è stata già altre volte un’officina per gli sperimentatori delle élite occidentali», ricorda Cabras: «Negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l’istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori».
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Mattarella al Quirinale, Renzi accolto nel Tempio di Draghi
«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.«Mario Draghi ha aperto le porte del tempio all’aspirante massone Matteo Renzi», scrive Toscano nel blog “Il Moralista”. Toscano è uno stretto collaboratore di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” e autore di “Massoni” (Chiarelettere), inedita rilettura del ‘900 partendo dal ruolo decisivo delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali al crocevia del massimo potere mondiale. «Dopo il lungo e nefasto regno di Napolitano – scriveva Toscano alla vigilia del voto per il Quirinale – si intravede all’orizzonte la possibilità che al Colle ci finisca ora un personaggio grigio e oscuro come Sergio Mattarella». Fra tutti i nomi circolati sui quotidiani, «quello di Mattarella è certamente il più modesto e dimesso; così dimesso da far tornare alla mente quella famosa massima democristiana che spiegava come “alcune nomine servano in realtà a rendere strutturalmente vacante la posizione occupata”». Toscano parla di «un mosaico solo in parte visibile». Domanda: chi comanda davvero in Italia? Quali uomini decidono davvero le linee di indirizzo politico «poi pedissequamente recepite da partiti eterodiretti dall’esterno?».Fino a ieri il gioco era abbastanza scoperto, continua Toscano: «Giorgio Napolitano, iniziato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” al pari di Mario Draghi, supervisionava il progressivo svuotamento del benessere e della democrazia italiana per assecondare le bramosie speculative del mercato finanziario privato». Esaurito il mandato di Napolitano, «il sistema è costretto a ridisegnare un equilibrio di potere che finga di cambiare tutto per non cambiare nulla». Secondo Toscano, «l’occulto padrone e regista della vita politica italiana è il “venerabilissimo maestro” Mario Draghi, padre dell’austerità in Europa, che tratta l’Italia quasi fosse una sua dependance personale». Il presidente della Bce «esercita il suo potere riservatamente e con discrezione, lasciando che la pubblica opinione si distragga osservando le gesta di tanti figuranti che popolano il Parlamento con lo specifico compito di fare ammuina». Ma, «come ogni Sultano che si rispetti», anche Draghi «ha bisogno di nominare un Gran Visir al quale affidare il disbrigo degli affari correnti». E dunque chi, dopo Napolitano, «interpreterà ora il ruolo di cinghia di trasmissione dei voleri delle potentissime Ur-Lodges frequentate con costrutto dal capo della Bce? Mattarella? Niente affatto».Per Toscano, «il nuovo portavoce e plenipotenziario della massoneria reazionaria in Italia è Matteo Renzi, pronto per essere iniziato presso una delle Ur-Lodge più potenti e perverse del pianeta». Finito il periodo di “tegolatura”, cioè di attesa, l’ex sindaco fiorentino sarebbe oramai «sulla soglia del Tempio». Una volta «divenuto organico alle superlogge», il nuovo Renzi «potrà quindi finalmente rapportarsi direttamente con i “padroni”». Ma attenzione: «Per calarsi compiutamente nei panni di longa manus della massoneria oligarchica, Renzi ha però bisogno che sul Colle venga eletto un uomo incapace di fargli ombra. Un uomo cioè che si limiti a interpretare il ruolo in maniera neutra e notarile, lasciando cioè mano libera ad un premier oramai pienamente riconosciuto e legittimato dai vertici delle istituzioni latomistiche mondiali». Questo schema soddisfa tutti tranne Berlusconi: «Il vecchio re di Arcore è stato bastonato di nuovo da quegli stessi poteri che nel novembre del 2011 lo cacciarono senza complimenti e a calci in culo per fare spazio a Mario Monti con la scusa dello spread». Come aveva più volte preannunciato lo stesso Gioele Magaldi, il Patto del Nazareno «altro non era se non un patto “fra straccioni”, già pubblicamente sconfessato dalla massoneria che conta, per tramite di un articolo vergato tempo fa sul “Corriere della Sera” dal fedele scrivano Ferruccio De Bortoli».«Mattarella è stato indicato da Draghi», scrive Toscano, spiegando che «l’operazione portata a termine con astuzia dal capo della Bce è chiarissima». Il defunto Patto del Nazareno, amplificato ad arte dalla stampa, «univa in realtà due debolezze». Ovvero: «Due parvenu, Renzi e Berlusconi, estranei ai circoli massonici più elitari ed esclusivi, avevano deciso di stipulare un patto potenzialmente in grado di affrancarli in parte dal controllo delle Ur-Lodges più importanti. Tale accordo, che esprimeva come garante un massone casereccio e di basso livello come Denis Verdini, non poteva reggere di fronte all’offensiva di un peso massimo del livello del “venerabile” Draghi. E infatti non ha retto». A Renzi, continua Toscano, del “Nazareno” non è mai importato nulla: «Il nostro spregiudicato Rottamatore ha semplicemente usato il decadente Berlusconi per aumentare il suo potere contrattuale nei confronti dell’aristocrazia massonica sovranazionale. “O fate entrare in Loggia anche me”, questo lo spirito con il quale Renzi ha vissuto lo strumentale abbraccio con il Biscione, “oppure io riabilito il puzzone e comincio a menare fendenti contro l’Europa dei burocrati”». Alla fine, conclude Toscano, Renzi «ha ottenuto con il ricatto quello che voleva: a breve infatti il pinocchietto fiorentino verrà ritualmente iniziato presso una delle Ur-Lodge più influenti del globo terracqueo».Secondo indiscrezioni circolate nell’ambiente massonico, aggiunge ancora Toscano, Renzi potrebbe essere affiliato a breve alla superloggia di destra “Compass-Star Rose” o alla gemella “Pan-Europa”, entrambe caratterizzate dalla presenza di Christine Lagarde, esponente dell’oligarchia neo-aristocratica europea, secondo cui gli Stati dovrebbero prepararsi a tagliare drasticamente le pensioni a causa dell’innalzamento dell’aspettativa di vita degli anziani in Europa. Secondo le esplosive rivelazioni fornite da Magaldi, le superlogge come la “Three Eyes”, la “Pan-Europa” e la “Compass-Star Rose” costituirebbero la “cupola di potere” protagonista della sconfitta storica della sinistra sociale in tutto l’Occidente: dal declino insanguinato dei Kennedy alla fine del glorioso welfare europero, seppellito dal neoliberismo selvaggio e globalizzatore imposto attraverso l’influenza di istituzioni “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale fondata da David Rockefeller. Di qui l’assetto oligarchico dell’Unione Europea e l’imposizione delle “riforme strutturali”, brandite infatti anche da Renzi, con le quali colpire il mondo del lavoro e svuotare lo Stato, a beneficio delle grandi lobby economico-finanziarie.Sergio Mattarella è accolto al Quirinale tra cori di rispettoso consenso: il mainstream gli riconosce estrema sobrietà personale e rigorosa lealtà verso la Costituzione. Riuscirà a opporsi al disegno oligarchico euro-diretto contro l’Italia, nonostante sia stato candidato proprio dagli esecutori nazionali del sabotaggio dell’economia italiana? Il blog “Senza Soste” è pessimista, e parla dell’Italia come di «un paese che si spegne nel silenzio». La carriera di Mattarella si sarebbe sviluppata in modo “coestensivo” rispetto al declino italiano: «Se c’è un nucleo di scelte, tra gli anni ’80 e ’90, che hanno portato questo paese al disastro, Sergio Mattarella, da democristiano e da ministro della Repubblica, le ha condivise tutte». Tra le maggiori ombre, la legge che inaugurò il sistema elettorale maggioritario e la fedeltà atlantica dimostrata nella Guerra del Kosovo, coi bombardamenti sulla Serbia costati tremila vittime inermi. «Nella vicinissima Libia – continua “Senza Soste” – è in corso una guerra civile senza quartiere con una delle fazioni in campo direttamente affiliata all’Isis: in caso di necessità, il decisionismo militare di Mattarella sarebbe già stato testato per lo sforzo bellico». Stessa situazione «a quattro guanciali» per Bce, Ue e Fmi: «Non sarà certo Mattarella a mettere in discussione l’assetto continentale».A pochi giorni dal voto greco, aggiunge “Senza Soste”, «in risposta a quanto avvenuto ad Atene, l’Italia renziana e liberista ha dato quindi la sua risposta alla delegittimazione ellenica della Troika eleggendo un presidente di provata compatibilità con un ordoliberismo sottile quanto feroce». Mentre il paese affonda, «il settennato di Sergio Mattarella si avvia in democristiano torpore», anche grazie a una nomenklatura che riesce sempre a proteggere se stessa dal disastro nel quale sprofonda la nazione. Altrettanto diffidente, sul nuovo capo dello Stato, il blog “Sollevazione”: «C’è chi dice che non sarà solo un passacarte, che Mattarella si farà valere, che farà rispettare la Costituzione. Noi non ci crediamo. Renzi prima di renderlo papabile avrà ottenuto dal Nostro le sue garanzie. Mattarella non solo è stato un uomo chiave democristiano della “Seconda Repubblica”, ne è stato anzi uno degli architetti – la infame legge elettorale che nel decisivo 1993 scardinò il principio proporzionale non a caso porta il suo nome». La sinistra Pd e Sel lo hanno votato sperando che freni l’azione di Renzi? Si illudono: «Nelle prossime settimane si vota sulle “riforme” (leggi scasso) della Costituzione e sulla legge elettorale Italicum. Noi scommettiamo che Mattarella seguirà, pur con un più basso profilo proprio per non fare ombra a Renzi, le orme di chi l’ha preceduto e che non a caso è stato il suo principale sponsor». Perlomeno, il suo sponsor italiano. Se è vero – come scrive Toscano – che il vero sponsor risiede lontano dall’Italia, ben al di sopra del Parlamento di Roma.«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.
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Giannuli: disfare l’euro e subito, prima che ci crolli addosso
Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.Quindi, la Grecia non può permettersi di pagare questi interessi sul debito e, tantomeno, di pagare un debito ormai non restituibile. Ma questo significa dichiarare default: è compatibile con l’appartenenza all’euro? Non ci sono precedenti, per cui non sappiamo come il default di un componente possa riflettersi sulla moneta comune e neppure se il paese fallito possa continuare a far parte del patto monetario e a quali condizioni; però ci pare scarsamente realistico che tutto possa restare come prima, dopo il default di uno dei paesi membri, anche se piccolo come la Grecia. La Bce potrebbe continuare a fornire allo Stato greco le banconote per il circolante necessario? Se ciò non fosse, Atene sarebbe costretta a battere moneta in proprio, anche solo in forma di moneta provvisoria o di buoni rimborsabili o altro, perché diversamente non avrebbe di che pagare gli stipendi statali e le pensioni e, più in generale, l’intera economia del paese si paralizzerebbe. E a quel punto, la scelta spetterebbe alla Bce: o continuare a fornire in qualche modo la propria moneta alla Grecia o accettare la sua uscita dal patto e aprire la crisi della moneta e del suo stesso patto istitutivo, che non prevede l’uscita di nessuno.Insomma, questa, più che una moneta, sembra essere un penitenziario di massima sicurezza. D’altro canto, una moneta che diventasse l’hotel del libero scambio, con gente che va e gente che viene, crollerebbe in brevissimo tempo sui mercati. Perché, se si accettasse di tenere nel club un paese in default, poi la stessa scelta potrebbe essere fatta da altri, magari Lisbona, Bruxelles, Madrid, Cipro e (perché no?) Roma. Stabilito il precedente, sarebbe difficile impedire agli altri di fare altrettanto, qualora le condizioni costringessero a quel passo. E così la moneta diventerebbe un aggregato molto instabile, troppo instabile per poterci investire qualsiasi cifra: io compero un qualsiasi titolo finanziario in euro (non importa se di uno Stato o una impresa) però non so, fra cinque anni, chi ci sarà dietro questa moneta, forse nessuno, perché uno alla volta se ne saranno andati tutti e resta solo la Bce come sorta di banca privata. Chi scommetterebbe un centesimo su una moneta così?D’altro canto, se la Bce decidesse di continuare a tenere la Grecia anche in stato di insolvenza, questo avrebbe inevitabilmente conseguenze sull’apprezzamento della moneta, perché, anche in questo caso, stabilito il precedente, non ci sarebbe modo di evitare l’assalto degli altri scarsamente solventi. In fondo, per i primi cinque anni di esistenza dell’euro, anche i paesi più indebitati (come l’Italia) hanno avuto la possibilità di emettere titoli a interessi bassissimi (ricordiamo, non troppo superiori all’1%) nel presupposto che vi fosse una garanzia implicita della Bce. Oggi si scopre che così non è, ma a questo punto chi volete che investa il becco di un quattrino in titoli del genere, se non per una sostanziosa rivalutazione degli interessi? E con un salto in avanti degli interessi, quanti Stati fallirebbero? Qui avrebbero da temere non solo l’Italia o la Spagna, ma anche la Francia e molti minori.Ci sarebbe la strada dell’haircut: una rinegoziazione parziale del debito greco, ribassando gli interessi e allungando i tempi per dar fiato alla Grecia. Ma, anche qui, il problema sarebbe il precedente: passato il precedente, che si fa se anche gli altri si mettono in fila per una transazione del genere? E se il debito greco è intorno ai 350 miliardi di euro, e una rinegoziazione potrebbe essere sopportata soprattutto dalle banche tedesche e francesi che ne detengono una bella fetta, se poi la cifra da rinegoziare dovesse raggiungere alcune migliaia di miliardi per l’arrivo di tutti gli altri, la cosa diventerebbe assai meno praticabile. Il punto è che l’euro è stato il più clamoroso abbaglio della storia economica mondiale: non si mettono insieme 27 economie diverse e con esigenze opposte, sotto lo stesso tetto monetario. O meglio, lo si può anche fare ma dandosi un unico centro decisionale, un unico sistema fiscale, un unico sistema sociale e contributivo, una stessa contabilità pubblica, insomma un governo comune.In effetti, l’euro fu venduto all’opinione pubblica mondiale e agli ignari europei come l’immediata premessa dell’unificazione politica, di cui, manco a dirlo, non si è visto neppure l’ombra, perché mancavano le più elementari premesse, per lo meno in tempi brevi o anche medi. E la realtà si vendica sugli architetti troppo audaci che costruiscono cattedrali su malferme palafitte. Il problema oggi non è se abbandonare l’euro, ma in che tempi e in che modi. L’euro è un esperimento fallito politicamente, prima ancora che monetariamente, e non c’è prova d’appello. Il crollo di questa moneta è solo questione di tempo. Il problema è quello di decidere se restare sotto la volta, ad aspettare che ci cada addosso, o magari prepararci ordinatamente ad uscire, prima che accada l’irreparabile. Il guaio è che dall’euro non si può uscire unilateralmente, con un colpo di testa – o, per lo meno, chi lo facesse si candiderebbe a sfasciarsi le ossa, e così uno alla volta, sino all’ultimo. E quel che è peggio è che non ci sono procedure previste per uscirne: che io sappia, l’euro è l’unico trattato al mondo senza procedure di recesso. Una follia unica.Immaginiamo che domani si faccia un referendum sull’euro, magari perché ammesso dalla Corte Costituzionale sulla base di non so quali ragionamenti giuridici, e immaginiamo che vinca la tesi favorevole all’uscita, cosa accadrebbe? Nulla, non accadrebbe nulla; e il referendum resterebbe senza conseguenze, perché l’Italia si è impegnata sottoscrivendo un trattato che non prevede libertà di recesso. Però, la realtà è sempre più testarda delle parole, anche se in forma di trattati. Per cui, possiamo fare i trattati che vogliamo, ma se le dinamiche oggettive vanno verso il crollo, non c’è nulla da fare. Per cui, non sarebbe il caso di iniziare a discutere su come se ne può uscire? Ad esempio, perché non fare una campagna per un referendum sull’euro in tutti i paesi dell’Eurozona e nello stesso giorno? Avremmo almeno un indirizzo su cui ragionare. Oppure, perché non provare a dar vita a un movimento europeo per la revisione del trattato, a cominciare dall’introduzione di procedure di regresso? Magari potremmo anche varare una doppia circolazione, o anche tenere l’euro come unità di conto, articolato in monete nazionali con parità variabili in una certa banda (come era lo Sme). Insomma ci si può pensare, ma in fretta. Qui il tema è molto più complesso del solito e non conviene pensarci ciascuno per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Disfare l’euro: il problema non è se, ma come e quando”, dal blog di Giannuli del 4 gennaio 2015).Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.
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La Germania sta distruggendo l’Europa, ancora una volta
La riunificazione tedesca è, fra l’altro, un grande esperimento di ingegneria sociale: scompare mezzo secolo di economia totalitaria, prima nazista poi comunista, che è riorganizzata dalle fondamenta e nello stesso tempo adattata in tempi brevissimi a un sistema industriale e finanziario, fortemente strutturato, che preesiste. Un esperimento forse senza precedenti nella storia: rivoluzioni come quella sovietica hanno distrutto l’economia esistente per rifarla ex novo e non per incollarla come appendice a un’altra già funzionante; transizioni complesse come quella cinese hanno introdotto nell’economia novità dirompenti, ma con tempi lunghi e mediazioni sottili quanto estese. Lo smontaggio dell’economia tedesco-orientale non è l’unico esperimento di ingegneria sociale che si svolge in Europa negli anni ‘90: anche se procede con mezzi meno cogenti, la costruzione – a partire dall’adozione della stessa moneta – di un’area economica integrata ha un tratto consimile che consiste nell’idea di riorganizzare una vasta serie di attività industriali e finanziarie secondo un disegno preordinato ad alta intensità ideologica.In un libro denso di informazioni e lucido nell’analisi (“Anschluss – L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, Imprimatur editore) Vladimiro Giacché, dirigente di Sator (boutique finanziaria di Matteo Arpe) e studioso di impianto marxista, paragona i due esperimenti e rintraccia temi ricorrenti, analogie operative, intenzioni convergenti. L’“annessione” dell’economia pianificata dell’est a quella di mercato dell’ovest, che l’autore racconta in dettaglio, si basa su tre capisaldi. Anzitutto il primato, temporale e strutturale, dell’unione monetaria: il 7 febbraio 1990, a meno di tre mesi dalla caduta del Muro, Kohl, il cancelliere federale, propone alla Rdt, lo stato tedesco-orientale, di unificare in tempi brevi la moneta e poco dopo, durante la campagna elettorale a est (le prime elezioni politiche libere dopo quasi 60 anni si tengono il 19 marzo), promette un cambio alla pari che si realizza il 18 maggio quando i due Stati tedeschi firmano il Trattato sull’Unione monetaria economica e sociale (in vigore dal 1° luglio).Il marco dell’est non era convertibile, ma negli scambi commerciali fra le due Germanie l’uso pratico ne richiedeva 4,4 per fare un marco dell’ovest. Il cambio alla pari, così sproporzionato, ha conseguenze profonde sulla vita dell’est: risparmiatori e creditori lucrano forti vantaggi, si agevola l’accesso alle merci occidentali (ma subito parte l’aumento dei prezzi), le imprese, già obsolete, finiscono fuori mercato: la debole economia dell’Est va in pezzi ed è pronta per rimodellarsi secondo il disegno dell’ovest. La moneta è fin dall’inizio lo strumento per mutare i rapporti economici e per questa via riorganizzare l’Est: Wolfgang Schäuble, attuale ministro delle finanze e all’epoca uno dei responsabili di Bonn nel negoziato per il Trattato sull’Unione, lo dice senza giri di parole: «A de Maizière (primo ministro a Berlino) era ben chiaro, come a Tietmeyer (capo negoziatore e futuro presidente della Bundesbank) e a me, che, con l’introduzione della moneta occidentale, le imprese della Rdt di colpo non sarebbero più state in grado di competere».In secondo luogo c’è l’invenzione della Treuhandanstalt, una sorta di istituto di amministrazione fiduciaria che ottiene quasi tutto il patrimonio della Rdt allo scopo di privatizzarlo nei tempi più brevi. Alla fine del 1994 “la più grande holding del mondo”, che il 1° luglio 1990 concentra in sé 8.500 imprese, 20.000 esercizi commerciali e 25 miliardi di metri quadri (terreni, foreste, immobili), conclude il suo compito. Molto è liquidato a inizio opera, poco è risanato, la gran parte del patrimonio è venduta a prezzi stracciati e trattativa privata a compratori tedesco-occidentali (a loro va l’87 per cento delle imprese privatizzate). Il bilancio finale è in perdita per 257 miliardi di marchi: a fronte di 73 miliardi di ricavi (37 soltanto realmente riscossi) stanno spese di risanamento (154 miliardi), bonifiche ambientali (44 miliardi), debiti pregressi (101 miliardi) e altri costi. Dei 4 milioni di lavoratori che secondo stime del governo Kohl sono impiegati a fine 1989 nelle imprese poi gestite dalla Treuhand, solo un milione e mezzo – secondo valutazioni degli acquirenti – mantiene un posto di lavoro dopo il risanamento. Per Giacché l’opera della Treuhand, alla fine, non fu altro che «distruzione della base industriale della Germania Est». Infatti, «la vecchia Rdt era un paese solido almeno sotto un profilo: il patrimonio dello Stato era un multiplo del debito pubblico».Infine il privilegio accordato alle banche dell’ovest: acquirenti a prezzi di saldo e quasi in esclusiva delle banche orientali, si ritrovano in pancia una massa ingente di crediti (per lo più partite di giro fra articolazioni dello stato, unico proprietario esistente nel regime comunista) coperti, a norma del Trattato sull’unione, da garanzie del nuovo stato unificato. In totale sono acquisiti «crediti per 44,5 miliardi di marchi: una cifra pari a 55 volte il prezzo pagato dai compratori. Già i soli interessi del 10 per cento che le banche cominciano a praticare rappresentano un multiplo del prezzo d’acquisto». I capisaldi che creano l’“annessione” sono applicati, nota Giacché, in modo radicale, con intensità fondamentalista: la Germania Est, sbandata e inerme, è in condizioni simili a quelle di un paese che ha perso la guerra. «Si tratta di un ingresso della Rdt nella Repubblica federale, e non di un’unione tra pari di due Stati» (è sempre Schäuble che parla, con l’abituale ruvidezza).Nel caso dell’Eurozona i tempi sono allungati, il radicalismo della gestione è smussato, quasi dissimulato, ma i princìpi, le linee di fondo si mantengono. Anche in Europa la moneta è l’elemento fondante del nuovo rapporto fra gli Stati: precede ogni altra decisione, vincola la politica, indirizza l’economia. Chi decide il cambio e governa la moneta poi comanda l’unione fra gli Stati e fa la politica comune. Quando nel 1991-’92 negozia l’abbandono del marco e dà via libera alla moneta comune, Kohl sa bene, a differenza degli altri leader europei, quanto conti il vincolo monetario: ha già fatto un test. La storia dell’euro con i numerosi vantaggi offerti alla Germania e la progressiva riduzione della base industriale in molti paesi – soprattutto dell’orlo sud – conferma la dirompente forza politica della scelta che mette la moneta al primo posto e «costringe a chiedersi se l’unione monetaria non abbia replicato lo stesso meccanismo» all’opera nella Germania unificata.Il secondo caposaldo che caratterizza l’annessione dell’est tedesco e poi ricompare in grande formato sulla scena europea è l’indifferenza per la ricchezza (umana, produttiva, fisica) presente nei paesi che hanno difficoltà con l’impianto monetario reso vincolante: le ricette imposte a Grecia, Portogallo, Spagna o lo strisciante degrado industriale e tecnico vissuto dall’Italia fanno da testimonianza. Giacché cita, a suggello, dichiarazioni di Steinmeier, oggi ministro degli esteri in quota Spd (ma Juncker e Schäuble ne hanno fatte di analoghe), che offrono il modello Treuhand quale via di risanamento: «Vale la pena di riflettere sulla proposta di un modello europeo di Treuhand a cui apportare il patrimonio statale della Grecia da privatizzare in 10-15 anni. Col ricavato la Grecia potrebbe ridurre il suo indebitamento». Infine, ed è il terzo caposaldo, la struttura stessa degli algoritmi di Maastricht è pensata per proteggere i creditori e nei casi di crisi acuta, come in Grecia, è stata efficace nell’aprire alle banche una via d’uscita.Incorporazione della Germania est, creazione dell’area a moneta unica, conferma delle regole dell’euro nonostante le pessime prestazioni e l’ostilità del resto del mondo (Stati Uniti in testa: tutti vedono dissolversi nell’inanità contabile un partner come l’Europa essenziale per la crescita). La sequenza, che allinea un mezzo successo pagato a carissimo prezzo (non solo dai tedeschi) e un disastro economico-sociale reiterato senza correzioni per quasi sette anni, impressiona non solo per la durata temporale ma soprattutto per la resistenza alle confutazioni della realtà. Quali sono le forze potenti che hanno imposto all’Europa, senza chance di revisione, un modello tedesco così squilibrato e asimmetrico? Occorre un flashback. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, non crolla soltanto un pugno di regimi totalitari: si dissolve un ordine mondiale, quello che si era formato nel 1946-’48 con l’avvio della Guerra Fredda. Era un sistema “westfaliano”, come spiega il novantenne Kissinger nel suo ultimo splendido libro, “World Order”: al pari di tutti gli altri sistemi d’ordine succedutisi dopo la pace tedesca del 1648, anche la Guerra Fredda si basava su blocchi di alleanze disciplinati al proprio interno, regole di confronto fra i blocchi, gerarchie fra gli Stati, bilanciamenti di potere come criterio di continuità strategica del sistema.Per oltre 40 anni l’ordine tiene: poi la deflagrazione dell’Urss, uno dei pilastri del sistema, lo fa cadere e fino a oggi niente di simile lo sostituisce: gli interessi nazionali degli Stati faticano, senza regole condivise e fori di composizione, a trovare sintesi; criteri di legittimità diversi si contrappongono; le alleanze perdono vincoli e quindi stabilità. Il disordine politico si amplifica con la rivoluzione portata dalla tecnologia digitale che accelera il salto a una dimensione globale dei mercati e potenzia funzioni e performance della finanza: la scala degli effetti e il raggio delle persone coinvolte superano ormai la portata delle precedenti rivoluzioni industriali. L’Europa cambia volto: l’impero sovietico e un paio di Stati artificiali creati a Versailles nel 1919 si frantumano; ricompaiono Stati, come quelli baltici, perduti dal 1939; altri, come quelli nati dalla Yugoslavia dissolta, si formano ex novo; gli Stati dell’Europa centrale, per 40 anni a sovranità limitata, ridiventano soggetti politici; nei Balcani ritorna la guerra. E’ uno sconvolgimento di forza epocale che i leader politici d’Europa non riconoscono, non riescono a misurare nella sua drammatica grandezza. La politica non guida gli eventi, va a rimorchio. Escogita soluzioni sbilenche (l’allargamento dell’Ue in gran fretta) o lascia marcire le cose (Balcani).Kohl è l’unico leader con un grande disegno che proietta l’interesse nazionale su una dimensione generale. Ha come leve la forza del marco, un sistema industriale costruito in 40 anni di intenso sviluppo, l’ideologia mercantilista (esportazioni al primo posto e quindi alta tecnologia e bassi salari) che sostiene entrambi (l’ordoliberismo) e li offre in un pacchetto come modello e come metodo per il tragitto futuro dell’integrazione europea. Considerata fino agli anni ‘80 un complemento idealista, manovrato dal tecnicismo giuridico, della politica nazionale, l’idea dell’integrazione diventa, dopo la fine della Guerra Fredda e con l’attenzione americana ormai rivolta altrove (Clinton punta sull’alleanza politico-finanziaria con la Cina), il quadro inevitabile entro cui tenere insieme le storie multiformi e gli interessi differenziati delle nazioni europee: Kohl fornisce la soluzione pratica che rende realizzabile una teoria fumosa e fa apparire credibile ai riluttanti francesi l’illusione di comandare per via politica un ruolo internazionale che l’economia ormai nega loro.Nel momento in cui l’euro si fa a calco del marco e la visione mercantilista diventa il paradigma dell’Unione, la Germania ottiene uno straordinario vantaggio di posizione: fissa lo standard e il resto d’Europa deve adattarsi alla sua scelta (poiché il gioco dell’export non è illimitato e implica che qualcuno importi, chi muove per primo ha partita più facile). La potenza che la Germania accumula durante gli anni dell’euro rende l’impianto varato da Kohl sempre più difficile da ribaltare: troppi i vantaggi sia politici sia economici. Solo ora, con la recessione che non cessa di allargarsi, segmenti della società tedesca cominciano a contare gli svantaggi. Altri due fattori vanno calcolati. Il più rilevante è la riduzione di ruolo della politica che è congenito nel modello adottato: per tutelare i debitori e incentivare l’export, le strategie di bilancio sono sottratte alla politica vincolata al consenso (e quindi incline, in paesi con tradizioni civili diverse da quella tedesca, a una certa indisciplina fiscale) e consegnate a pacchetti di norme assistiti da sanzioni. La politica amputata offre a parti significative delle classi dirigenti europee nuovi spazi d’azione, nonché vantaggi materiali e ideali. Da un lato la burocrazia comunitaria, quale custode delle norme che spingono avanti l’integrazione, accresce competenze, potere, funzione sociale – a scapito del campo di decisione nazionale che appartiene agli elettori. Dall’altro le élite dell’economia trovano un’ideologia che ne agevola e valorizza l’azione, almeno finché il disegno normativo non diventa troppo invadente: l’abbracciano con fervore e la trasformano in una sorta di pensiero ufficiale che per la politica quotidiana diventa sfondo obbligato e, con ciò, vincolo decisivo.Sommate fra loro, élite e burocrazie formano un blocco di forze poderoso che ha fatto un enorme investimento sull’idea dell’integrazione e ora non riesce a concepire un cambio di rotta. Infine il sistema politico: in alcuni paesi, soprattutto quelli in cui l’economia è più debole, preferisce scaricare responsabilità e, con una sovranità economica circoscritta, trovare altrove campi d’azione più favorevoli (diritti vari da tutelare, ambiente). L’ultimo fattore da considerare riguarda i caratteri genetici del modello che l’intuizione anticipatrice di Kohl, l’incomprensione degli altri leader continentali per gli sconvolgimenti degli anni ‘90, l’appoggio entusiasta delle élite hanno messo al comando della politica economica europea. Riflette un’impostazione mercantilista che, come nota Wolfgang Munchau sul “Financial Times”, è una solitaria eccezione tedesca entro il pensiero economico internazionale, ha seri buchi di funzionamento e una singolare carenza di feedback. Non c’è sforzo di correzione in corso d’opera, adattamento plastico alla contingenza: la comprensione è totalizzante, l’impianto razionale del modello non è intaccato dalle smentite empiriche, alla fine i conti tornano soprattutto grazie alla potenza politica e culturale.Paul Krugman parla di «potere infinitamente devastante delle cattive idee», e aggiunge: «Non è tutta colpa della Germania (che…) riesce a imporre le sue politiche deflazioniste soltanto perché gran parte dell’élite europea ha abboccato alla stessa falsa storiella». Honecker, l’ultimo segretario della Sed, il Partito comunista della Germania est, riflettendo in carcere sull’unificazione tedesca, connette la forza delle “cattive idee” a un carattere peculiare della ragione tedesca che definisce «propensione alla totalità». Giacché sottoscrive e specifica: «Utilizzo ai limiti del cinismo di rapporti di forza, rifiuto di compromessi accettabili, convinzione integralistica dell’assoluta superiorità del proprio punto di vista, difesa accanita degli interessi» nazionali. Chi vuole potrebbe rintracciare ascendenze storiche: dopo Bismarck la Germania ha spesso concepito assetti europei centrati su di sé e, come ovvio, sbilanciati nella distribuzione della potenza continentale. La formulazione più articolata si trova nel “Septemberprogramm” del cancelliere Bethmann-Hollweg, che è redatto nel 1914 in piena offensiva della Marna e pone come obiettivo nazionale «la fondazione di una associazione economica mitteleuropea mediante comuni convenzioni doganali con l’inclusione di Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Austria-Ungheria, Polonia, Italia, Svezia e Norvegia».L’associazione, «caratterizzata esternamente da parità di diritti tra i suoi membri ma in effetti sotto direzione tedesca» costituisce, nella visione del suo ispiratore Walther Rathenau, nel 1922 ministro degli esteri a Weimar poi assassinato da estremisti di destra, uno strumento essenziale per consentire alla Germania così rafforzata di mantenere una posizione di potenza mondiale come Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia. Finché la scala delle operazioni è limitata al rango nazionale, come nel caso della Germania Est, il modello totalizzante, che implica asimmetria di comando fra chi propone l’impianto mercantilista e chi l’adotta, funziona, anche se con costi alti; quando invece con un salto di dimensione si passa alla scala continentale e il rapporto tra la potenza egemone e le altre non è più una soggezione storicamente confermata ma sfuma in una meno cogente subordinazione politica, come nell’area euro, allora le disfunzioni del modello diventano insuperabili: le divaricazioni fra gli Stati si allargano, la politica riprende spazio e contesta gli algoritmi, lo stallo prevale – in mancanza di strumenti autocorrettivi.Un modello ideale che promette, attraverso successive cessioni di sovranità, l’evaporazione degli Stati nazionali in una prospettiva confederale contrasta con gli interessi vitali che tuttora formano la trama di fondo della politica europea e soprattutto con il sentimento delle popolazioni che oggi collocano la propria sfera di esperienza solo entro la dimensione nazionale. Ma non è solo immobilismo, palude dei comitati e dei vertici: crescono le divisioni dentro la società europea, si estendono crepe e fratture: ideologia ufficiale contro esperienza vissuta, classi dirigenti contro popoli, nord contro sud, algoritmi da applicare rigidamente contro sentimento della contingenza politica. La frantumazione a sua volta rafforza l’inerzia: passi avanti sulla via dell’integrazione sovranazionale, come vorrebbero le élite che sperano di risolvere con l’azzardo della visione ideale i fallimenti operativi, sono rigettati dagli elettori; passi indietro verso una revisione del modello che attenui vincoli troppo stretti, sono avversati dalla potenza egemone e sconsigliati dalle inevitabili difficoltà pratiche. Lo stallo, in quanto esito più facile, alla fine domina e drammatizza lo stato delle cose.(Antonio Pilati, “L’Anschluss secondo Angela”, da “Il Foglio” del 9 dicembre 2014. Il libro: Vladimiro Giacché, “Anschluss – L’Annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, Imprimatur editore, 304 pagine, 18 euro).La riunificazione tedesca è, fra l’altro, un grande esperimento di ingegneria sociale: scompare mezzo secolo di economia totalitaria, prima nazista poi comunista, che è riorganizzata dalle fondamenta e nello stesso tempo adattata in tempi brevissimi a un sistema industriale e finanziario, fortemente strutturato, che preesiste. Un esperimento forse senza precedenti nella storia: rivoluzioni come quella sovietica hanno distrutto l’economia esistente per rifarla ex novo e non per incollarla come appendice a un’altra già funzionante; transizioni complesse come quella cinese hanno introdotto nell’economia novità dirompenti, ma con tempi lunghi e mediazioni sottili quanto estese. Lo smontaggio dell’economia tedesco-orientale non è l’unico esperimento di ingegneria sociale che si svolge in Europa negli anni ‘90: anche se procede con mezzi meno cogenti, la costruzione – a partire dall’adozione della stessa moneta – di un’area economica integrata ha un tratto consimile che consiste nell’idea di riorganizzare una vasta serie di attività industriali e finanziarie secondo un disegno preordinato ad alta intensità ideologica.
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DeLong: l’euro è un disastro, l’Ue non impara dalla storia
Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.«Nel mio piccolo – scrive DeLong in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – pensavo che tutti (o quanto meno tutti quelli che contavano qualcosa nel governo dell’economia mondiale) avessero imparato queste quattro lezioni che la storia (1919-1939) ci aveva così crudelmente impartito». E invece, i boss dell’Eurozona e i loro consulenti «guardavano fuori dalla finestra e spettegolavano su Facebook», scrive DeLong, evidentemente convinto che la causa della catastrofe europea sia imputabile a semplici, madornali errori, anziché a un calcolo cinico e lucido: costruire la crisi per contrarre lavoro e diritti, far esplodere i profitti dell’élite a spese del 99% della popolazione, far sparire lo Stato per privatizzare tutto, a cominciare dai servizi vitali. DeLong si limita a domande tecniche, chiedendosi «come si è arrivati a tanto». Ovvero: «Perché Maastricht non ha istituito un unico regolatore/supervisore bancario», per poter «allineare la politica finanziaria con quella monetaria?». Maastricht, inoltre, non ha previsto un sistema per trasferire i fondi necessari a quei paesi «che avrebbero potuto entrare in recessione (come inevitabilmente accade), quando gli altri paesi sono in grande espansione».Maastricht, poi, «ha lasciato un bel pezzo delle sue prerogative di “prestatore di ultima istanza” nelle mani dei governi nazionali, che non possono stampare denaro (e quindi ottemperare al ruolo), invece di mettere il tutto nelle mani della Banca Centrale Europea, che invece potrebbe». Inoltre, «visto che le esportazioni di un paese sono nient’altro che le importazioni di un altro», come mai «non scattano automaticamente quelle politiche idonee a che i paesi in deficit possano ridurre le loro importazioni ed aumentare le loro esportazioni?». Già, perché? «E perché, viceversa, non si adottano automaticamente le politiche idonee a che i paesi in surplus aumentino le loro importazioni e riducano le loro esportazioni?». DeLong sembra non “vedere” il disegno criminale, l’organizzazione del disastro: preferisce pensare a eurocrati imbranati, banchieri sprovveduti, tecnocrati dilettanti? L’economista francese Alain Parguez, già consulente dell’Eliseo ai tempi di Mitterrand, riferisce che Jacques Attali, uno dei massimi padri dell’euro, avrebbe pronunciato testualmente le seguenti parole: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che la moneta unica l’abbiamo creata per la loro felicità?».DeLong, invece, propende per l’ipotesi dell’ingenuità che avrebbe pesato sulle decisioni dei fondatori dell’Ue, certi che il tempo avrebbe corretto le imperfezioni iniziali. «In alcuni – scrive – c’era la convinzione che alcuni specifici dettagli, se posti nel Trattato Maastricht, avrebbero rimandato questo progetto per anni, o addirittura per decenni, mentre la logica degli eventi avrebbe inevitabilmente portato sia ad una crescita organica che allo sviluppo dei pezzi mancanti del Trattato». Secondo questa logica, continua DeLong, alla prima grande recessione l’unione monetaria avrebbe senz’altro istituito un sistema per i trasferimenti fiscali. E ancora, alla prima importante crisi bancaria, la Bce avrebbe senz’altro adottato le funzioni di “prestatore di ultima istanza” (e a seguire, si sarebbe velocemente realizzata l’Unione Bancaria). Gli altri paesi europei, continua l’economista, «avevano considerato il Trattato di Maastricht come un rinnovo dell’impegno politico tedesco in favore di una più stretta integrazione europea». Per questo l’Europa si è fidata, incautamente, della riunificazione tedesca? Sì, risponde DeLong: gli europei non-tedeschi erano convinti che «se si fosse scoperto che c’era qualcosa da pagare per le conseguenze non palesemente previste del Trattato di Maastricht, la Germania lo avrebbe fatto».Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.