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Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi
Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
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Grossi: reinventare i Bot, e svanirà l’incubo dello spread
Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.Ci hanno messo un cappio al collo, sostiene Grossi, intervistato da Ignazio Dessì su “Tiscali Notizie”. Una trappola: lo spread, il rating, il meccanismo perverso che porta lo Stato a svendere i beni pubblici, fino al caso drammatico della Grecia. La canzone è nota anche in Italia: abbassare il debito pubblico, chiedendo “sacrifici” ai cittadini, pena l’imminente disastro. Diventa un caso persino l’esiguo 2,4% di deficit nel Def gialloverde, per finanziare reddito di cittadinanza, Flat Tax e riforma della legge Fornero. Ma perché rastrellare soldi in prestito sul mercato finanziario estero, quando in Italia c’è una massa enorme di liquidità? Proprio l’internazionalizzazione del debito pubblico ha messo un cappio al collo agli Stati e impedisce loro di impostare liberamente le politiche economiche e sociali. Per questo, quello del debito pubblico è un grande inganno: Usa e Giappone hanno debiti record, eppure scoppiano di salute. Certo, americani e giapponesi sono sovrani: possono fare deficit per aumentare il Pil e non devono far approvare i bilanci a Bruxelles. Ma persino noi, sotto le forche caudine dell’Eurozona, potremmo uscire dal tunnel anche subito.«L’obiettivo finale – sostiene Grossi – è riportare l’emissione monetaria sotto il controllo pubblico, sotto la politica. Ma la cosa da fare subito è smetterla di farci prestare i soldi dagli investitori istituzionali. Non ne abbiamo alcun bisogno». Oggi, un risparmiatore non compra più Bot o Cct. Non conviene. Gli unici che li comprano sono le banche centrali, i fondi di investimento. «Bisogna trasformare le emissioni», dice Grossi. «Negli anni ’70, Bot e Cct erano comprati dal sistema-Italia, dalle famiglie, dalle aziende e dalle banche italiane». Quando si è passati a chiedere i soldi agli “investitori istituzionali”, i titoli sono stati trasformati «sia nel modo in cui vengono offerti sul mercato, sia nella struttura del titolo stesso». Prima, i Btp erano una eccezione. «Erano nati per andare incontro alle esigenze degli speculatori: una durata lunga con un tasso fisso più alto dell’inflazione va bene sia a un “cassettista” (li compro, li tengo da parte, aspetto la scadenza e intanto guadagno più dell’inflazione), sia a uno speculatore o a un trader che continuamente compra e vende». La durata del Btp è lunga, e il prezzo si muove ogni volta che il tasso di mercato cambia. «Gli speculatori ci vanno a nozze». I risparmiatori, invece, chiedono semplicemente sicurezza: quella che avevano, quando lo Stato controllava la moneta e investiva sull’economia, prima che arrivasse l’Ue a impedirglielo, frenando i deficit.Secondo Grossi bisogna tornare ai titoli di Stato di durata breve: al cittadino (che non fa speculazione) i soldi risparmiati possono servire da un momento all’altro. Un tempo c’erano i Bot a 3 mesi, comodissimi e sicuri. «Invece il Btp a 7 anni, che ho pagato 100, se lo rivendo dopo un anno può darsi valga 90. Il rischio in questo caso è molto più consistente. E magari, a me cittadino, correre quel rischio non interessa». Il Btp è solo «uno strumento per speculare sui tassi», adatto quindi alle grandi banche e ai fondi d’investimento. «Serve solo a chi vuol fare soldi con i soldi», e quindi «va gradualmente eliminato». Riassumendo: abbiamo “fabbricato” titoli su misura per gli speculatori, ai quali lasciamo anche il controllo dei meccanismi d’asta. Spiega Grossi: «Se io mi sono messo nella condizione di farmi prestare soldi dai mercati finanziari, è chiaro che quando faccio l’asta sto chiedendo sostanzialmente a loro di decidere le condizioni. E se di quei soldi non posso più farne a meno, è evidente che le condizioni man mano si adatteranno alle loro esigenze: quelle di guadagnare il più possibile».Si può fare il contrario? Certo, basta volerlo. Sapendo che in Italia c’è ancora una massa enorme di liquidità (4.200 miliardi di risparmi) lo Stato può dire: cari cittadini italiani, vi offro l’1 o il 2% per un certo tempo, portate quello che volete. «Con quanto arriva mi ci vado a ricomprare i Btp sul mercato. Faccio crollare lo spread. Basta che arrivino 200 miliardi e noi gli investitori internazionali li salutiamo. Gli restituiamo i loro soldi, ma gli diciamo basta». Siamo in grado di farlo? Guido Grossi ne è certo. In Italia, spiega, si finisce col pagare 4 quello che avremmo potuto pagare 2. Funziona così: se mi scadono 30 miliardi di Btp, li devo andare a rinnovare. In un anno bisogna rinnovare circa 2-300 miliardi di euro (ogni mese, da 20 a 40 miliardi). «Per raccogliere tali cifre, cosa ci vuole a offrire ai cittadini un titolo adatto alle loro esigenze?». I nostri oltre 4.000 miliardi sono costituiti da depositi, fondi, assicurazioni e azioni. Senza contare gli immobili: un patrimonio da 5.000 miliardi. «Per questo siamo un paese ricco, e quei risparmi fanno gola a molti».Oggi, quando i cittadini hanno risparmi vanno in banca o alla posta, dove c’è chi consiglia cosa comprare. Ma scatta un conflitto di interessi: «Chi ci consiglia e ci vende un Bot o un Cct guadagna una piccolissima commissione. Se ci vende invece un prodotto di investimento, più rischioso, guadagna molto di più. Per forza allora ci venderà quel prodotto lì, di cui non abbiamo bisogno. Qualcuno guadagna e magari noi ci rimettiamo, e in più evitiamo di finanziare lo Stato, come potremmo». Siamo arrivati a questo, spiega Grossi, perché il sistema finanziario e bancario è diventato privato. «Io ho lavorato alla Bnl, che era la banca del Tesoro. Quando sono entrato mi pagavano lo stipendio per fare il mio dovere istituzionale, difendere e tutelare il risparmio da una parte, e selezionare gli investimenti dall’altra. Non mi pagavano per guadagnare, per fare un profitto: mi pagavano per svolgere una importantissima funzione di interesse generale. Questa è la mission di un ente pubblico». Poi la banca è diventata una Spa, ed è arrivato il concetto della migliore efficienza. «In realtà ci ha portato a cambiare completamente l’ottica: la mission non è più la qualità del servizio, ma il fare soldi. Le banche sono diventate sempre più private, sempre più straniere, e amen».Cosa si può fare? L’obiettivo fondamentale, per Grossi, è uno solo: «Recuperare tutto il controllo del sistema finanziario: è il nostro sistema vitale». Insiste: «Per una economia, per una sana società, è fondamentale. Può esserci sempre chi cerca di farci dei soldi, perché qualcuno ci toglierà sempre del sangue, ma bisogna che quel sistema sia messo sotto controllo in modo democratico e trasparente». Possiamo sempre imparare ad essere più efficienti? «Verissimo, ma comunque quel sistema era meglio di questo. Bisogna recuperare la distinzione tra prodotti di risparmio e di investimento». Negli anni Trenta, gli Stati Uniti guidati da Roosevelt uscirono dalla Grande Depressione – innescata dalla speculazione di Wall Street – proprio in quel modo: separando le banche d’affari dagli istituti di credito ordinario, non autorizzati a giocare in Borsa il risparmio di famiglie e aziende. A fare argine c’era una legge, il Glass-Steagall Act. La rimosse dopo mezzo secolo Bill Clinton, messo alle strette dallo scandalo Lewinsky. Proprio Clinton fece volare, di colpo, l’economia neoliberista basata sulla speculazione finanziaria senza più freni: quella che oggi sta strangolando l’economia reale, ulteriormente rallentata – in Europa – dagli assurdi limiti di spesa imposti dai trattati-capestro dell’Ue, che disabilitano la spesa pubblica lasciando campo libero alle privatizzioni selvagge.Ai cittadini, sostiene Guido Grossi, bisogna tornare innanzitutto a offrire prodotti di risparmio, anche attraverso aste differenziate. Il player giusto, in Italia? La Cassa Depositi e Prestiti, che all’80% è ancora posseduta dallo Stato. «Oggi viene utilizzata per finanziare grandi interventi. Viaggia con Bancoposta. Nessuna delle due è però una banca. Messe insieme, fanno la funzione della banca: perché Bancoposta raccoglie i risparmi e Cassa Depositi e Prestiti li investe. Entrambe però risentono dell’ottica privatistica». Bisognerebbe invece reindirizzarne il management e la “mission”, sostiene Grossi: «Se io oggi vado a Bancoposta, mi propongono né più né meno prodotti di investimento, come qualunque banca o assicurazione. In una banca pubblica mi devono invece proporre qualcosa di diverso: un deposito semplice, un titolo di Stato. Cassa Depositi e Prestiti invece può fare quegli investimenti pubblici di cui c’è enorme bisogno». Attenzione: la Germania sta già facendo, con la Bundesbank, quello che noi continuiamo a non fare con Bankitalia.«Quando ci sono le aste dei titoli (bund), il Tesoro tedesco cerca di orientare il prezzo: non lascia cioè i mercati liberi di fare ciò che vogliono». Berlino usa due strumenti: se non c’è domanda sufficiente per assorbire la quantità di titoli proposta, la parte invenduta viene parcheggiata presso la Bundesbank. Non che la banca centrale li compri, perché l’Ue glielo vieta. Quei titoli vengono “parcheggiati”, e al momento opportuno saranno collocati. «E’ come se si allungassero i tempi dell’asta: questa dura fino a quando il mercato capisce che non può avere più di quello che il Tesoro tedesco è disposto a pagare». In definitiva, in questo modo, «si aggira in definitiva l’articolo 123 del Trattato di Maastricht», che è palesemente iniquo. Poi c’è il secondo strumento, cioè l’utilizzo dell Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau). E’ una grande banca pubblica, «non dissimile dalla nostra Cassa Depositi e Prestiti, perché utilizzata per i grandi investimenti».La Kfw, ricordava tempo fa Paolo Barnard, può intervenire nelle aste a comprare direttamente i titoli, grazie a un cavillo: è una banca ad azionariato pubblico, controllata dal governo, ma fornalmente resta un ente “di diritto privato”. Lo erano anche Bnl, Unicredit, Banca di Roma, Comit, San Paolo, Banco di Napoli e Banco di Sicilia. «Dopo, però, sono diventate tutte private, e la maggior parte straniere», ricorda Grossi. In ogni caso, adottando il sistema tedesco, ci basterebbe la Cassa Depositi e Prestiti: «Potrebbe comprare in Italia l’invenduto». Tradotto: «Se sto facendo un’asta marginale e vedo che il prezzo sale troppo, può interviene la Cassa e comprarne una parte, poi rivenderla nei giorni successivi sul mercato, come fa la Kfw. E come fanno anche in Francia con la Bpi, la banca pubblica per gli investimenti. Ed è giusto». Sottolinea Grossi: «Non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno, per questi interventi: nessuna norma nazionale o internazionale li vieta. Non è che sbagliano loro a farlo, sbagliamo noi a non farlo». Che cosa stiamo aspettando?Come “smontare” il grande inganno e liberarsi del capestro del debito pubblico? Bastano 200 miliardi, “pescati” dall’enorme risparmio italiano, pari a 4.200 miliardi di euro (senza contare i 5.000 miliardi di patrimonio edilizio). Siamo un paese ancora ricchissimo: per questo ci stanno “rapinando”. Come uscirne? Recuperando il controllo della moneta. Ma la stretta del debito è risolvibile da subito: basta abilitare la Cassa Depositi e Prestiti. Obiettivo: offrire ai risparmiatori titoli-sicurezza, non speculativi, come ai tempi dei Bot. In pochi mesi, l’incubo dello spread sarebbe un ricordo. Lo Stato tornerebbe a finanziarsi con denaro italiano. Tutto ciò non accade per un solo motivo: manca la volontà politica. Se non potesse più “ricattare” lo Stato, un enorme sistema di potere finirebbe a gambe all’aria. Per questo non mollano, i boss della finanza che hanno “sequestrato” le nostre vite. Secondo Guido Grossi, ex manager Bnl, la politica ha rinunciato in modo folle al controllo della moneta. Prima, il cittadino portava i risparmi in una banca pubblica e quei soldi venivano investiti nell’economia reale, creando lavoro: lo Stato li usava per fare spesa pubblica. Oggi invece le banche private fanno solo speculazione, e i cittadini non possono più finanziare lo Stato, mentre gli interessi sempre più alti fanno salire l’indebitamento.
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Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati
L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.(Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
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Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo
Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.
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Il super-ricco Cuban: studiate filosofia, domani varrà oro
Nonostante l’evocativo cognome, Mark Cuban è un miliardario americano da tempo segnalato su “Forbes” come uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Agli sportivi è più noto per essere il presidente dei Dallas Mavericks, la squadra texana di basket. Di economia ne capisce parecchio, visto che vanta quasi 4 miliardi di dollari di patrimonio nonostante l’umile famiglia (padre tappezziere) e un cognome originario, Chabenisky, che tradisce l’origine russa, mentre la madre era una casalinga rumena. E’ stato il tipico ragazzo americano povero che si arrangiava con i lavoretti, ma con notevole fiuto per gli affari, se è vero che da studente universitario si è aperto un bar, subito divenuto famoso e frequentatissimo, poi una microsocietà di produzione di software, rivenduta a breve per 6 milioni di dollari. E’ proprietario di una televisione, e si è saputo gestire anche come investitore in campo finanziario. Da uno così non ti aspetteresti il consiglio di studiare filosofia, eppure lo ha fatto in una recente intervista, pure sbilanciandosi in una previsione per certi punti di vista facile, che non posso fare mia solo perché sostengo la medesima cosa già da anni.Il portale “Glassdoor” che si occupa di dare informazioni in ambito di lavoro afferma che i laureati in informatica o ingegneria saranno i più pagati, in futuro, cioè con uno stipendio migliore degli altri rispetto ai laureati in discipline umanistiche. A parte che chi sostiene che la filosofia sia “solo” umanistica non sa di cosa sta parlando, non ci pare che il celebre portale dica una cosa sconosciuta sulle differenze stipendiali tra laureati in storia dell’arte o lettere e quelli in ingegneria meccanica. Nel prendere atto del segreto di Pulcinella svelato da “Glassdoor”, Mark Cuban prevede che le cose cambino. In una intervista rilasciata alla “Abc”, ha sostenuto che tra dieci anni una laurea in filosofia varrà molto di più di una laurea in informatica. Perché? La spiegazione è tecnica ed economica, niente affatto romantica o legata alle preferenze personali di Cuban. Secondo il miliardario americano la tecnologia relativa all’Intelligenza Artificiale (Ai) cambierà completamente il mercato del lavoro, ma non nel senso che ci saranno lavori per i tecnici, bensì nel senso che arriverà ad auto-programmarsi.«Con l’intelligenza artificiale automatizzeremo l’automazione – dice Cuban – e l’Ai non avrà bisogno di me o di voi per farlo, nei prossimi dieci o quindici anni sarà capace di capire da sola come rendere automatici questi processi». Secondo Cuban, paradossalmente, saranno proprio i programmatori a farne le spese, ed è per questo che spinge a studiare discipline che forniscono elasticità e a pensare in grande, come la filosofia. «Saper pensare in modo critico, avere la capacità di valutare in una prospettiva globale – afferma Cuban – per me ha già valore oggi, ma ne avrà molto di più tra dieci anni». Inoltre, aggiungo io, sono molti gli studiosi di filosofia che si sono affermati nel mondo dell’imprenditoria, del management e della finanza, da Marchionne a Turner, fondatore della “Cnn”, ma non mancano severe eccezioni a questa regola, come il nostrano Chicco Testa (o testa di Chicco?) per nostra disgrazia già presidente dell’Enel.(Massimo Bordin, “Il miliardario americano Mark Cuban non ha dubbi: studiate filosofia!”, dal blog “Micidial” del 15 settembre 2018).Nonostante l’evocativo cognome, Mark Cuban è un miliardario americano da tempo segnalato su “Forbes” come uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Agli sportivi è più noto per essere il presidente dei Dallas Mavericks, la squadra texana di basket. Di economia ne capisce parecchio, visto che vanta quasi 4 miliardi di dollari di patrimonio nonostante l’umile famiglia (padre tappezziere) e un cognome originario, Chabenisky, che tradisce l’origine russa, mentre la madre era una casalinga rumena. E’ stato il tipico ragazzo americano povero che si arrangiava con i lavoretti, ma con notevole fiuto per gli affari, se è vero che da studente universitario si è aperto un bar, subito divenuto famoso e frequentatissimo, poi una microsocietà di produzione di software, rivenduta a breve per 6 milioni di dollari. E’ proprietario di una televisione, e si è saputo gestire anche come investitore in campo finanziario. Da uno così non ti aspetteresti il consiglio di studiare filosofia, eppure lo ha fatto in una recente intervista, pure sbilanciandosi in una previsione per certi punti di vista facile, che non posso fare mia solo perché sostengo la medesima cosa già da anni.
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Feltri l’antiromano, delizioso antropofago proto-gialloverde
Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.A proposito di “Borghese”, è uscito un suo bel libro, autobiografico, nell’inconfondibile stile feltriano, intitolato “Il Borghese” (ed. Mondadori), ma non allude al settimanale di Longanesi e dei Tedeschi (pater et filius), ma a se stesso. E Feltri in effetti può dirsi almeno per metà borghese. Ma a differenza dei borghesi italioti, Feltri ama sì, i costumi borghesi, i perfetti abiti borghesi, lo stile gentleman e alcuni modi di vivere straborghesi, ma è ispido, un po’ selvatico, paleoleghista, capace di fregarsene dei bei modi borghesi. Ama la borghesia del nord, non quella romana, il generone parastatale, vaticanesco e alla vaccinara. Ma quel suo modo di essere, quel suo modo di preferire cavalli e gatti a romani e migranti, lo ha reso quel che è. È forse l’unico personaggio di cui Crozza fa una caricatura perfino più moderata rispetto all’originale. Ma quell’indole, quel bossismo interiore ma con giacche firmate e non in canottiera, lo ha vaccinato dai compromessi col potere romano, col sottobosco della capitale e gli ossequi alla curia. Insomma il contrario di Gianni Letta, che è stato il miglior cerimoniere, il miglior diplomatico, l’unico cardinale prestato dalla curia al giornalismo e alla politica.Nelle sue pagine, Feltri parla dei suoi incontri con alcuni potenti, Fanfani, Andreotti, che collaborò col suo Europeo, Craxi, che egli attaccò come Cinghialone ma poi difese quando finì in esilio e rivalutò da morto. Si capisce che non ha mai trescato con loro. Non è mai sceso a patti col potere, ma non per chissà quale Visione etica e trascendentale, ma per una ragione più semplice e più schietta: il carattere. Allergico ai salamelecchi, ai minuetti, ai cedimenti, pratico, mai contorto. Fu burbero e scontroso anche coi suoi editori, incluso Berlusconi. Non a caso si diceva “Il Giornale di Feltri” e non, come poi si è detto, “il Giornale di Berlusconi”. Posso testimoniare che con lui ho avuto il massimo di libertà di scrivere e pure di criticare il berlusconismo, il centro-destra e paraggi. Se un’opinione non gli piaceva, pensava ai lettori che l’avrebbero condivisa e magari vi opponeva un’opinione in senso contrario. Ma la sua forza è sempre stata il mercato, aveva i numeri dalla parte sua, aveva le copie, e se all’editore non andava giù qualcosa, lui poteva andarsene a fondare un altro giornale.Epica fu la stagione de “L’Indipendente”, gloriosa quella del “Giornale”, nientemeno dopo Montanelli, il suo dio fondatore, che lui raddoppiò nelle vendite. E poi “Libero”. Andò di successo in successo, dando voce a quella metà d’Italia che i potentati giornalistici ignoravano. Posso dire d’aver partecipato a tutte le sue imprese di successo, meno a un paio che successo ne ebbero un po’ meno. Feltri è stato il precursore del berlusconismo in politica, del bossismo, del centro-destra e un po’ anche del Vaffa grillino; ha rappresentato l’altra metà del mondo, ora in maggioranza, i cani sciolti e gli arrabbiati, la borghesia delusa e spaventata. E dev’essere un gran cruccio ora vedere che più di mezza Italia la pensa come lui in molte cose ma i giornali più vicini a quell’area di umori e malumori non sfondano, perché la gente non legge più. Esprime umori, non cerca opinioni. Con Feltri c’incontrammo perché lo invitai a scrivere per “L’Italia Settimanale” nel ’92 e insieme sostenemmo l’alleanza ibrida che poi prese corpo. Ricordo che gli chiesi un commento sul tema “Se cani e gatti si alleassero”, che precorse il Polo delle Libertà. Poi lasciai il “Giornale” di Montanelli per seguirlo all’“Indipendente”, tornai con lui al “Giornale” lasciando la redazione Rai; poi a “Libero”, e ancora al “Giornale”.L’unica parentesi critica fu col “Borghese” – lui direttore e io direttore editoriale – accorpato con un settimanale che dirigevo io, “Lo Stato”. Lui chiuse l’inserto culturale, lo “Stato delle Idee”, gli editori infilarono cassette semi-porno nella rivista, e io nel nome di Longanesi e della dignità me ne andai. Lo reincontrai una volta a Roma al Matriciano ma fingemmo di non vederci. L’incontro fatale fu su un treno Roma-Milano. Stavo andando in bagno, era occupato, si liberò in quel momento e uscì Feltri. Eravamo faccia a faccia. Avevo tutto da perdere nello stringergli la mano perché il 50% degli italiani, bergamaschi inclusi, non si lava le mani dopo la pipì. Ma fu giocoforza. Riuniti per la prostata. Poi riprendemmo il nostro strano sodalizio senza frequentazione, adozione a distanza, ammirazione e forse affetto, ma senza darlo a vedere. Lui nordista io sudista, lui lombardocentrico io romanocentrico, io nazionalista lui padano-individualista, lui liberista io destra-sociale, io per la cultura lui per il giornalismo duro e puro. Ma la divergenza fu il sale della nostra unione, non dirò che fummo precursori della coppia Di Maio-Salvini, ma ci siamo capiti…Feltri ha dato sapore e brio al giornalismo nostrano, ha dato carattere, anche brutto, ha dato inventiva e titoli esagerati ma efficaci. Nel momento in cui cadevano gli dei del giornalismo, Bocca, Biagi, Montanelli, Fallaci – a cui Feltri dedica in queste pagine succosi ritratti- lui è rimasto solo. El Diretur. Se Vittorino da Feltre fu un grande umanista, Vittorione Feltri è un delizioso antropofago che se ne impipa dell’umanità. Il peggior affronto che gli feci, lo riconosco, fu quella volta, vent’anni fa, che lo portai a pranzo dopo una riunione a Roma del “Borghese”. Lo portai ar Pallaro, romanesco che più romano non si può, e lui guardava inorridito il luogo e gli indigeni, come se l’avessi portato in un campo rom o in una baraccopoli africana. Se famo du spaghi dottò? So di avergli fatto passare una brutta ora. Ma non volevo fargli un torto, e neanche la mitica sora Paola der Pallaro lo voleva. È lo spirito sornione della Vecchia Roma che appena sente odore di antiromani li prende in ostaggio, dà il peggio di sé, e se mette a‘ cojonà il suo nemico. Che spettacolo indimenticabile fu Feltri cacio e pepe.(Marcello Veneziani, “Feltri l’antiromano”, da “Il Tempo” del 21 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani. Il libro: Vittorio Feltri, “Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato”, Mondadori, 108 pagine, 17 euro).Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.
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Savona all’Ue: più deficit salva-Stati e una Bce anti-spread
O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?Savona, spiega “Milano Finanza”, chiede di «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei trattati», con lo scopo di «sottoporre al Consiglio Europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune». Savona ha già le idee chiare sui mutamenti necessari. Bce prestatore di ultima istanza: «I divieti posti alla Bce di muoversi in aiuto degli Stati hanno creato condizioni favorevoli alla speculazione, che ha imperversato anche quando questi Stati si comportavano secondo gli impegni. Hanno fatto gravare sulle loro economie costi aggiuntivi in termini di interessi sul debito pubblico e sul credito. Se i poteri di intervento della Bce contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare». Savona vuole in sostanza una banca centrale che, come ogni altra omologa a partire dalla Fed americana, abbia il potere illimitato di garantire il debito delle nazioni, evitando differenziali del costo del debito tra paesi che condividono la stessa valuta.Tetto del deficit non più fisso: «Le regole dei disavanzi pubblici non hanno previsto alcuna correzione strutturale delle bilance dei pagamenti correnti, privando il sistema europeo di una rilevante componente di domanda e aggravando la tendenza alla deflazione. Servono investimenti pubblici consistenti, a livello di Unione e di singoli Stati, rispettando una sola regola aurea: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta». In sostanza, il tetto del massimo rapporto stabilito tra deficit e Pil non dovrà essere fissato al 3% ma oscillerà a seconda della crescita dell’economia. Ma se i paesi più virtuosi temessero così di dover pagare per chi sfora? «Esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quella di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia alla Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Ovviamente tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del Pil e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil».(“Savona ha presentato all’Europa il suo Piano-A”, dal sito dell’agenzia di stampa Agi; post editato il 13 settembre 2018).O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?
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Avviso a Di Maio: entriamo nel futuro insieme alla Cina
Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.Chengdu sarà lo snodo centrale della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta che integrerà lo spazio eurasiatico e coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale. Su invito delle autorità cinesi ho partecipato con una delegazione di politici, imprenditori, diplomatici e ricercatori di tutta Europa a un intensissimo programma di dieci giorni tra Pechino e Chengdu. Un vortice di incontri e visite presso istituzioni, imprese innovative, scuole di partito, agenzie internazionali, mirante a stabilire relazioni solide fra la Cina e le personalità che in Europa vogliono comprendere e partecipare al grande impulso della Bri. Gli interlocutori che ho trovato in Cina stanno passando al setaccio ogni novità di ciascun paese europeo e perciò manifestano molta attenzione nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del governo da esso guidato. Questo interesse mi ha aperto molte porte presso gente concreta e desiderosa di capire. A Pechino ho visitato la fabbrica della Beijing Electric Vehicle (Bjev), i concorrenti della più famosa e americana Tesla nella produzione di veicoli elettrici. Ne hanno già prodotto 250mila e puntano a essere leader mondiali del nuovo mercato. Un dirigente Bjev si lascia scappare una battuta: «La Tesla è un costoso giocattolino per ricchi, noi siamo i fornitori di auto elettriche per le masse a prezzi popolari».Con il corrispettivo di 16mila euro, un cittadino della classe media cinese può portarsi a casa una berlina con un’autonomia di quasi 500 km a ogni carica, mentre crescono le infrastrutture che diffondono in mezza Cina i punti di rifornimento dedicati ai veicoli elettrici. Ed è ormai pronto a entrare in produzione un nuovo sistema che è l’uovo di Colombo rispetto ai tempi lunghi delle ricariche, ossia il cambio di batteria presso i punti di rifornimento: anziché aspettare ore per ricaricare, togli la batteria (ormai più piccola, compatta ed estraibile) quando è scarica e la sostituisci ogni volta con una già ricaricata. Solo il tempo ci dirà se davvero milioni di persone passeranno all’auto elettrica, e se questo sia il modello giusto di mobilità. Intanto gli investimenti accelerano e il settore automobilistico cinese nel suo insieme è trainante. In Italia in molti santificano i dirigenti Fiat, ma la storia ci ha già detto che non si sono mai accorti del risveglio dello sterminato mercato cinese. Dovremo tutti essere migliori dei dirigenti Fiat, per i tanti campi dell’economia che non sono irrimediabilmente perduti. L’attimo è ora.Racconterò a parte delle altre imprese ad alta tecnologia che ho visitato a Pechino e nel Sichuan, dei parchi scientifici, delle migliaia di ingegneri che hanno regalato alla optoelettronica cinese la leadership per gli schermi ad altissima definizione, e così via. Mi concentro ora su un dato più politico di questa missione. Ho fatto da portavoce dell’intera delegazione nella serata finale del programma, dove ho pronunciato un discorso durante l’incontro ufficiale con il vicepresidente e responsabile delle Finanze del Sichuan, Ouyang Zehua, e altri dirigenti di questa regione di 91 milioni di abitanti, vasta quanto la Francia. Ouyang è un signore molto dinamico dallo sguardo ironico e curioso che sprizza ottimismo e pragmatismo da tutti i pori, mentre snocciola i risultati economici, e ne ha ben donde: il tasso di crescita del Pil del Sichuan nel 2018 è dell’8,2% in un anno, in aggiunta a una lunga serie storica di dati formidabili. L’orgoglio del dirigente cinese si combina con una cosa molto italiana: la passione per il cibo, la sua varietà, il suo legame con la cultura e il territorio. Il Sichuan è probabilmente l’area del pianeta che condivide di più con l’Italia una precisa caratteristica, ossia la ricchezza dell’assortimento di tradizioni culinarie, con infinite varianti subregionali spesso raffinatissime. Ora che il Sichuan ha ben motivate ambizioni da “ombelico del mondo”, combina questa sua millenaria tradizione gastronomica con un’apertura schietta e curiosa verso altre tradizioni.Il vino è ormai sempre più presente a tavola, e anche i formaggi e altri prodotti agroalimentari europei. Perciò prendete nota e siateci! Non siate come gli Agnelli e i loro manager sempre sopravvalutati! Un ottimo punto di partenza è la Western China International Fair di Chengdu che apre il 20 settembre 2018. Di Maio rappresenterà un’Italia in veste di paese ospite d’onore. I pianificatori della nuova megalopoli, che abbiamo incontrato presso un parco scientifico dove tutto viene programmato come se il videogame Simcity prendesse davvero corpo, ci mostrano con grande orgoglio il gigantesco plastico della Chengdu del 2034. Non ragionano come i palazzinari a corto raggio nostrani, anche se non credo siano meno spregiudicati. Mentre oggi lo sviluppo asimmetrico di Chengdu sembra concentrarsi in mille mostruose lingue di cemento che turbano minacciosamente qualsiasi senso della misura urbanistica da noi conosciuta, per il futuro – un futuro immediato – la cura per la dismisura è un’ulteriore dismisura. Cioè un colossale rimodellamento e ri-bilanciamento dei poli di sviluppo, un investimento-monstre su “scala cinese” in tecnologie verdi, energie rinnovabili, opere idrauliche di rinaturalizzazione del paesaggio.Nel gioco Simcity puoi cambiare il paesaggio con la tempistica degli umani, ma puoi divertirti a usare il “God Mode”, la “modalità di Dio”, e mettere fiumi e laghi dove non c’erano e farlo in tempi rapidissimi. Ed ecco che nella Chengdu reale le aree dedicate a parchi avranno ciascuna dimensioni paragonabili a una grande città italiana, con specchi d’acqua estesi e insenature suggestive. Il nuovo cuore di Chengdu sarà una città nella città, tutta da sviluppare, il nuovo distretto di Tianfu. Si tratta di una città-parco dove si concentreranno le attività commerciali e scientifiche legate alle nuove rotte eurasiatiche. Sarà tutto costruito entro sette anni, avrà una superficie di circa 600 kmq (superiore a quella di Roma entro il Grande Raccordo Anulare), i grattacieli più alti della Cina occidentale e dieci linee di metropolitana distinte dalle altre decine di linee del resto della città di Chengdu, un’enorme stazione ferroviaria che collegherà Chengdu a mezzo mondo, incluse le nuove linee superveloci. Ricordiamo che molte città cinesi si collegheranno entro pochi anni con treni a levitazione che viaggeranno a velocità vicine ai mille km/h.Chengdu ha già un aeroporto da 45 milioni di passeggeri l’anno. Nel 2020 inaugureranno un secondo aeroporto internazionale da sei piste con altri 90 milioni di passeggeri l’anno. Il Sichuan diventerà la meta di un turismo d’affari che non si limiterà a vedere il parco dei panda (a proposito, sono bellissimi!). Sarà anche la base di partenza di una ormai vasta classe media pronta a girare quell’Europa che saprà accoglierla. Non dimentichiamo che a un’ora e mezzo da Chengdu c’è un’altra megalopoli ultramoderna, Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, anche loro parte di una “affluent society” pronta a viaggiare e già in pieno respiro internazionale. Quanti giornalisti e politici italiani si curano di raccontare queste città, dal peso demografico e industriale così cospicuo? Davvero pochi. È davvero così difficile raccontare un mondo così importante per il futuro nostro e dei nostri figli e smarrirlo invece come una traccia muta e indecifrabile? Non è un tantino squilibrata un’informazione che della Cina sa restituire ai cittadini solo il luogo comune dell’involtino primavera (mai visto in tutto il viaggio) o dei negozi di chincaglierie a poco prezzo?È come se di un grande palazzo sontuoso, fresco di lavori e ricco di tesori, si volesse vedere solo lo sgabuzzino delle scope. Troppi giornali italiani sanno vedere solo i bugigattoli della storia, e infatti puzzano di muffa. Sino a poco tempo fa, persino agli occhi di chi in Europa prendeva le decisioni che contano, Chengdu e altre grandi realtà cinesi erano solo dei luoghi remoti, un puntino ignoto sulla cartina dell’Asia. Ma oggi Chengdu e il Sichuan influenzeranno in modo diretto il lavoro di chi in Europa fa le leggi, programma le decisioni economiche e fa impresa, qualsiasi settore voglia considerare. Solo una parte è pronta a questa nuova realtà, mentre dobbiamo esserlo tutti. Ad esempio, vogliamo regalare alla Polonia il ruolo di principale terminale europeo della Bri, accontentandoci delle diramazioni secondarie? Oppure dobbiamo guardare all’Africa, dove la Cina ha innescato un altro gigantesco processo economico? Cioè guardare alla nostra geografia, alla nostra profondità strategica, a dove si collocano la penisola iberica, la Sardegna, la penisola italiana, la Sicilia.Ho chiesto dunque ai dirigenti cinesi se i terminali delle Vie della Seta fossero una pianificazione ormai conclusa, o se fossero aperti ad altre iniziative. «Naturalmente siamo aperti – mi risponde Ouyang – e penso anche che tra gli investimenti in Africa e quelli in Europa ci debba essere una cerniera». Il che corrisponderebbe a chiudere il cerchio. Colgo l’occasione per parlargli – come avevo già fatto con altri dirigenti cinesi – del grande valore pratico e simbolico che avrebbe una rapida ricostruzione congiunta del ponte di Genova con i campioni cinesi delle infrastrutture, una goccia rispetto al mare di cose che si possono fare, ma una goccia importante. Ouyang coglie la portata della proposta, e mi rivela che la prossima settimana ci sarà proprio a Chengdu un concerto dell’orchestra di Genova in memoria delle vittime, nel bellissimo auditorium da poco inaugurato. La cosa mi sorprende e mi fa piacere, forse avevo visto giusto. Facciamo in modo che le buone idee si diffondano, come le emozioni della musica.(Pino Cabras, “Spoiler cinese per Di Maio”, da “Megachip” del 19 settembre 2018. Condirettore di “Megachip”, alle ultime elezioni politiche Cabras è stato eletto deputato 5 Stelle al collegio uninominale Sardegna 3 – Carbonia).Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.
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Cremaschi: ma che ci fa Salvini con quel criminale di Blair?
Che ci fa Matteo Salvini a braccetto con Tony Blair, tristissimo esponente della post-sinistra di regime che ha terremotato il pianeta a colpi di privatizzazioni selvagge e guerre devastanti, innescate da “fake news” come le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader sindacale nella Fiom e ora esponente di “Potere al Popolo”. «Se il sistema mediatico non fosse quello che è – scrive Cremaschi su “Contropiano” – l’incontro tra Tony Blair e Matteo Salvini sarebbe stato la notizia di apertura su cui discutere e far discutere per giorni. Siccome invece il sistema mediatico deve rispondere agli interessi dei suoi padroni, allora la notizia è stata quasi censurata». Ma come, scrive Cremaschi: il leader della “destra populista”, che ha fatto le sue fortune urlando che la sinistra è contro il popolo e sta coi ricchi, incontra il più importante esponente della sinistra dei ricchi? Non solo: si fa la foto sorridente con lui e, in un post, esprime compiacimento e riconoscimento del comune pragmatismo? Tutto questo non meriterebbe titoli da prima pagina ben più che gli scontati incontri con Orban? «No, se chi guida i mass media ha da un lato interesse a che l’incontro si sia svolto, ma dall’altro che esso non offuschi l’immagine con la quale Salvini ha scalato il potere».L’ex premier britannico Tony Blair non è solo il principale esponente di quella “terza via”, seguendo la quale la sinistra occidentale e italiana «si è suicidata, sull’altare della sudditanza al mercato e al profitto». Oggi l’ex finto-laburista Blair «è un agente, “molto concreto” come ha scritto Salvini, lautamente retribuito da quel sistema finanziario multinazionale che si ostina a voler comandare il mondo, anche se per fortuna con crescenti difficoltà». Peggio ancora: nel saggio “Massoni”, uscito nel 2014, Gioele Magaldi scrive che Blair non è soltanto una pedina dell’élite neoliberale globalista, è anche un supermassone affiliato alla temibile “Hathor Pentalpha”, superloggia creata dai Bush per accelerare in modo violento la globalizzazione del pianeta, ricorrendo anche al terrorismo “false flag” come quello all’origine dell’11 Settembre, basato su manovalanza “islamista” (Al-Qaeda) ma direttamente controllato dal “fratello” Osama Bin Laden, affiliato alla “Hathor” come poi lo stesso Abu Bakr Al-Baghdadi, il brutale leader del sedicente Isis. Sono potentissimi, gli “amici” di Blair, che – proprio per questo – continua indisturbato ad aggirarsi, da padrone, nel mondo che ha contribuito a distruggere.Strano, che lo stesso Blair ora incontri quel “governo gialloverde” di cui i poteri forti europei sembrano avere così paura? Il potere pensa ancora che questo governo durerà poco, diceva qualche settimana fa Gianfranco Carpeoro, saggista ed esponente del Movimento Roosevelt: l’élite non ha ancora fatto nessun serio tentativo per “incorporarlo” nei suoi piani. In compenso, sono arrivate grandi bordate essenzialmente contro Salvini: la superloggia “Three Eyes” si è mossa con successo, sempre secondo Carpeoro, per bloccare la nomina di Marcello Foa a presidente della Rai: il candidato salviniano è stato bocciato da Berlusconi, costretto a rimangiarsi la parola data a Salvini, dopo le sollecitazioni di Antonio Tajani, a sua volta contattato – su consiglio di Giorgio Napolitano – da Jacques Attali, supermassone oligarchico che si considera il “padrino” di Macron, il presidente francese giunto a far definire “vomitevole” la politica di Salvini sui migranti. Come se non bastasse, ad appesantire la situazione ha provveduto la magistratura italiana: Salvini è indagato per sequestro di persona (30 anni di carcere) dopo la vicenda della nave Diciotti. E soprattutto: la Lega è stata condannata, anche senza una sentenza definitiva, a rifondere lo Stato di qualcosa come 49 milioni di euro, che i magistrati ritengono esser stati indebitamente sottratti durante la gestione Bossi.Nonostante ciò, Cremaschi diffida di Salvini: Blair, scrive, lo ha incontrato «prima di tutto in quanto lobbista delle multinazionali che sostengono il Tap, il gasdotto che devasterebbe la Puglia e altre parti del nostro paese». Quella grande opera, aggiunge Cremaschi su “Contropiano”, è stata voluta dal Pd è vero, però «ha il totale consenso della Lega». E i due partiti, Pd e Lega, «sulle questioni economico-sociali sono molto più vicini di quanto facciano credere», sostiene sempre Cremaschi, secondo cui Salvini non avrà avuto difficoltà a ribadire «nell’incontro con il suo nuovo amico britannico» che il famigerato Tap si farà, «alla faccia dei poveri Cinquestelle che in campagna elettorale si erano impegnati contro di esso». E naturalmente, secondo Cremaschi, «da quel consenso sugli affari ne saranno seguiti altri sulla politica e su tutto il resto», visto che «quel mondo funziona così», come dimostra la storia dello stesso Blair. Anni fa, l’ex premier inglese aveva incontrato e “benedetto” Matteo Renzi, ancor prima che arrivasse a Palazzo Chigi. All’epoca, continua Cremaschi, Blair operava soprattutto come consigliere politico della Jp Morgan, cioè «proprio quella banca che nel 2013 produsse quel documento contro le Costituzioni antifasciste europee, che i malevoli dicono abbia ispirato la controriforma costituzionale di Renzi».Da tempo, aggiunge Cremaschi, Tony Blair «lavora come cacciatore di teste politiche per conto dei poteri forti: e questo ruolo non solo gli dà potere e ricchezza, ma lo protegge anche dalla responsabilità di esser stato un criminale di guerra». Come capo del governo britannico, infatti, è stato complice di tutte le più sporche guerre che Usa e Nato hanno scatenato, all’alba del nuovo millennio, dopo il fatale 11 Settembre e la redazione del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano disegnato dai bellicosi “neocon”. «I milioni di profughi e disperati che soffrono e muoiono sulle coste del Mediterraneo – scrive Cremaschi – devono la loro sciagura anche a Tony Blair». Per le sue guerre e per le menzogne con cui le ha giustificate, l’ex premier britannico «oggi rischia di essere processato in patria e all’estero». Ragiona Cremaschi: «Un incontro tra un criminale lobbista delle multinazionali e un ministro non avviene mai per caso». Viene prima preparato con cura dai rispettivi “sherpa”, e viene realizzato «solo quando entrambi gli interlocutori sono sicuri che l’incontro possa servire a entrambi». E dunque: «Quali sono allora gli interessi comuni di Blair e Salvini?». Per capirlo, sostiene Cremaschi, basta dare uno sguardo alla grande stampa italiana.Da diverse settimane, sul “Corriere della Sera”, gli editoriali si rivolgono direttamente al ministro degli interni: «Nella sostanza, gli chiedono di mettere fine alle doppiezze del governo, in particolare su vincoli europei, grandi opere e privatizzazioni». L’incontro con Blair, conclude Cremaschi, può essere una risposta: «Quale migliore garanzia di continuare con grandi opere e privatizzazioni, che un incontro con il più importante rappresentante politico di esse in Europa? E sui vincoli dell’austerità Ue il leader della Lega, ex “no euro”, è stato diretto ed esplicito: li rispetteremo, ha detto, e lo spread ha subito applaudito». D’altra parte, aggiunge l’esponente di “Potere al Popolo”, in questi mesi il consenso del ministro degli interni non è cresciuto «per pronunciamenti contro banche, finanza, multinazionali», che semmai – con la Flat Tax – vederebbero incrementare il loro vantaggio fiscale. «Il consenso a Salvini è cresciuto non perché abbia aggredito i poteri forti dei ricchi – scrive Cremaschi – ma perché si è mostrato spietato con i più deboli dei poveri senza potere».Come nel passato, osserva il marxista Cremaschi, la grande borghesia liberale «prima disprezza la barbarie dei movimenti di estrema destra, ma poi si accorda con essi quando scopre che tutti i suoi interessi ne verranno garantiti». I conservatori, che insieme ai socialdemocratici hanno sinora guidato l’Ue, secondo Cremaschi «si stanno accordando con le destre xenofobe per conservare il potere». Salvini? «Non é più contro la Ue, perché la Ue non è più contro di lui». Per Cremaschi, «la conservazione delle politiche economiche liberiste può ben accordarsi con politiche autoritarie e violente contro i migranti e contro ogni dissenso sociale». Mai stato indulgente, Cremaschi, con la Lega: «Chi oggi pensa di contrapporre la Ue a Salvini è un illuso o un imbecille – scrive – e dovrebbe passare delle giornate a guardare la foto del leader leghista e di Blair sorridenti e soddisfatti». Conclusione: «Mentre la magistratura sequestra i fondi della vecchia Lega di Bossi, i poteri forti hanno scelto quella nuova di Salvini, che ha promesso loro che continuerà a fare ciò che ha sempre fatto: essere forte coi deboli e debole coi forti». Secondo Cremaschi «c’è solo da sperare che la benedizione di Blair, che poi ha portato Renzi alla rovina, alla fine abbia gli stessi effetti sul ministro degli interni». Nel frattempo, il Pd renziano si gode lo spettacolo dalla finestra: è stato infatti il centrosinistra (non Salvini) a terremotare il paese, al punto da spingerlo a votare in massa per la Lega e i 5 Stelle.Che ci fa Matteo Salvini a braccetto con Tony Blair, tristissimo esponente della post-sinistra di regime che ha terremotato il pianeta a colpi di privatizzazioni selvagge e guerre devastanti, innescate da “fake news” come le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader sindacale nella Fiom e ora esponente di “Potere al Popolo”. «Se il sistema mediatico non fosse quello che è – scrive Cremaschi su “Contropiano” – l’incontro tra Tony Blair e Matteo Salvini sarebbe stato la notizia di apertura su cui discutere e far discutere per giorni. Siccome invece il sistema mediatico deve rispondere agli interessi dei suoi padroni, allora la notizia è stata quasi censurata». Ma come, scrive Cremaschi: il leader della “destra populista”, che ha fatto le sue fortune urlando che la sinistra è contro il popolo e sta coi ricchi, incontra il più importante esponente della sinistra dei ricchi? Non solo: si fa la foto sorridente con lui e, in un post, esprime compiacimento e riconoscimento del comune pragmatismo? Tutto questo non meriterebbe titoli da prima pagina ben più che gli scontati incontri con Orban? «No, se chi guida i mass media ha da un lato interesse a che l’incontro si sia svolto, ma dall’altro che esso non offuschi l’immagine con la quale Salvini ha scalato il potere».
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Occhio ai “custodi” della democrazia non eletti da nessuno
Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: si tratta del supermassone neo-aristocratico George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui, scrive Berti, ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare dalla trincea americana la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria, «quella che avrebbe brutalmente sostituito – principalmente in Europa – la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali». Gestore di mega-hedge fund, nonché filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali mondialuste, rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: il Grande Fratello di un capitalismo finanziario globalizzato «che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini», dal momento che gli bastano un Obama truccato da progressista e l’ideologia politically correct «per preservare la propria egemonia dopo “l’incidente” del 2008 sui mercati finanziari».Chi è il vero barbaro? E chi può dare veramente del “barbaro” a chi? «Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 – scrive Berti – il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”». Ma la questione sostanziale, aggiunge l’analista, è questa: se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia. «Esattamente cent’anni fa l’Europa – dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra – perse anche la pace, e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo – aggiunge Berti – avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra, che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-paese che nelle relazioni internazionali». Solo gli Stati Uniti, rileva l’analista, riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio, cioè la Grande Depressione del 1929, «senza stravolgere il loro sistema, e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato».Il cambio di paradigma politico-economico del New Deal, sottolinea sempre Berti nella sua analisi, fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del “barbaro” a chi, in America (al Congresso, sui media e nelle università). «Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica “barbarian at the gates” fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta)». E’ in quella transizione “magnifica e progressiva”, continua Berti, che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. «Dieci anni dopo il crack Lehman – il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico – il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora, rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona». Ma sono sempre più numerosi coloro che, per usare la terminologia di Cassese, denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie “too big” per essere controllabili dalle democrazie.«Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica – ricorda Berti – è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge». Gli succedette Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, e da presidente «governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna». Kennedy? «Fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam». La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria, dice Berti. «E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico». Ineccepibile, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, nel ricordare – al meeting di Rimini – che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo”, partecipando al bilancio Ue. Gli fa eco il ministro dell’economia Giovanni Tria, sul rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’Eurozona. Ma, aggiunge Berti, «non ha torto neppure chi sostiene che – proprio in democrazia – ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima». Il rapporto al 3% fra deficit e Pil? «Non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa». Conmclude Berti: «La democrazia, fortunatamente, è antichissima. E, come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill, resta “il peggiore sistema politico, salvo tutti gli altri”».Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».
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Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
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Privatizzare acqua, luce, gas, treni: inglesi rapinati e beffati
La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell’energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento. Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thatcher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni. A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.I nuovi investimenti sono stati finanziati con nuovo debito anziché coi soldi degli azionisti. Quando l’acqua è stata privatizzata, il governo si è generosamente fatto carico di tutto il debito del settore – 4,9 miliardi di sterline – in modo da lasciare i nuovi proprietari senza debiti. I nuovi proprietari ne hanno approfittato, accumulando sino al 2016 l’incredibile ammontare di 46 miliardi di sterline di debiti. Mentre accumulavano debiti a discapito dei contribuenti, le compagnie private dell’acqua pagavano miliardi agli azionisti in dividendi. Il totale di 18,8 miliardi di profitti al netto delle tasse degli ultimi 10 anni è stato tutto distribuito agli azionisti, salvo 700 milioni di sterline. Ciò significa che più di 18 miliardi di sterline sono entrati nelle tasche degli azionisti anziché essere utilizzati per diminuire le bollette e migliorare i servizi. Tre società hanno addirittura pagato più dividendi di quanto siano stati i loro profitti al lordo delle tasse. Si tratta di una situazione semplicemente insostenibile.Questa rapina alla luce del sole sta avvenendo anche nel settore energetico. Nel 2016-17, la Rete Nazionale ha ottenuto un profitto di 1,9 miliardi di sterline sulla distribuzione dell’elettricità e del gas. Circa 660 milioni sono stati usati per pagare dividendi, cosa che rappresenta un costo nascosto per i consumatori del 12%. I benefici promessi grazie alla concorrenza del mercato non si sono mai visti: le grandi “sei sorelle” dell’energia hanno sfruttato i consumatori, addebitando agli utenti nel 2015 ben 2 miliardi di sterline. Le persone non vogliono essere costrette a vagliare le diverse opzioni per trovare un contratto decente; vogliono soltanto energia sicura e a un prezzo accessibile. Dobbiamo fare cambiamenti drastici nel nostro sistema energetico entro pochi anni se vogliamo avere la possibilità di affrontare i cambiamenti climatici. Trasferendo la proprietà e la responsabilità delle nostre utilities a organismi di proprietà pubblica e alle comunità locali che devono rispondere ai cittadini, saremo in grado di creare un sistema energetico sostenibile e a basso utilizzo di carbone, adatto al ventunesimo secolo.Più importante ancora, la proprietà pubblica metterebbe fine al flusso di denaro dei contribuenti che va a sostenere i profitti privati delle società e dei loro azionisti, mentre i prezzi aumentano, i servizi peggiorano, e i debiti si accumulano. Riportare le utilities sotto controllo pubblico rimetterebbe i profitti nelle tasche dei cittadini e nei servizi stessi, abbassando la bolletta media di 220 sterline all’anno per famiglia e consentendo di investire altri risparmi nelle infrastrutture e per migliorare i servizi. Inoltre, ponendo un freno agli aumenti dei biglietti dei treni – che sono aumentati del 27% a partire dal 2010 – i laburisti farebbero risparmiare ai passeggeri una media di 1.014 sterline all’anno sui biglietti. Si è molto parlato di quanto costerebbe tutto questo, ma i commentatori, pronti a sparare grandi cifre, mostrano tutta la loro ignoranza in economia, e anche in storia. Quando nel 1977 l’industria della costruzione navale venne nazionalizzata, questo fu fatto scambiando le azioni con titoli di Stato – una mossa che non ebbe alcun effetto sull’erario.Nel mondo negli ultimi anni c’è stata un’inversione del processo delle privatizzazioni. Negli Stati Uniti, l’85% delle forniture di acqua proviene dal settore pubblico, e l’80% della rete di distribuzione elettrica tedesca è ora posseduta e gestita dalle autorità regionali e locali.Una delle più grandi beffe della privatizzazione britannica – che fu dettata da una profonda perdita di fiducia nella capacità dello Stato di gestire queste cose – è che molti dei nostri tesori nazionali sono finiti nelle mani di società pubbliche straniere. I piani di rinazionalizzazione dei laburisti assicureranno la supervisione democratica locale sui servizi, mettendo il potere nelle mani delle comunità. Al di là delle chiacchiere sul rigore dei conti, i conservatori sono più interessati ad aiutare i ricchi evasori a fare soldi facili di quanto non lo siano a fermare l’emorragia di soldi del popolo britannico. Come ho recentemente sottolineato durante un dibattito con Damian Green all’Andrew Marr show, questa posizione ha qualcosa a che fare con il fatto che molti finanziatori dei conservatori, ed effettivamente anche alcuni parlamentari e ministri conservatori, hanno ottenuto profitti dalle privatizzazioni. E’ tempo di mettere fine a questa truffa dei conservatori. I laburisti chiuderanno il rubinetto che versa miliardi di sterline nelle tasche degli azionisti e si assicureranno che questi servizi vitali siano gestiti nell’interesse della maggioranza, non di pochi.(John McDonnell, “La privatizzazione dei servizi pubblici nel Regno Unito: storia di un fallimento”, dall’“Independent” del 6 giugno 2017; articolo tradotto e riproposto da “Voci dall’Estero”).La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell’energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento. Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thatcher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni. A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.