Archivio del Tag ‘mercati’
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Isis: demolire la Siria e poi far esplodere il Caucaso russo
Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».Erdogan, scrive Chiesa su “Facebook”, continua nella sua linea “ottomana”, «puntando a far fuori i curdi in primo luogo, ma sapendo benissimo che aiuta Israele e l’Arabia Saudita, entrambi con l’obiettivo di riprendere l’offensiva contro l’Iran». Attenzione: «La Cina si muove per ora lentamente, ma si muove». Esempio clamoroso, «le recenti esercitazioni congiunte nel Golfo Persico, tra Cina e Iran». Intanto, «la crisi ucraina è completamente aperta e il peggio deve ancora venire». Dettaglio: «Quasi nessuno connette tutti questi fili. Hong Kong è l’inizio dell’offensiva americana contro Pechino. Siamo già su un piano inclinato che va verso un conflitto di enormi dimensioni». Il termine “guerra mondiale” è impressionante, ammette Arkady Dziuba in un post su “Strategic Culture”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, «ma non c’è niente di veramente nuovo nel pensare in questi termini: la precedente crisi economica mondiale, paragonabile per dimensioni a quella presente, è stata superata grazie ad una “guerra mondiale”».A ben vedere, «una “guerra mondiale” permette di ridisegnare la mappa del mondo, di accedere a nuovi mercati, di cancellare i vecchi debiti e di stabilire, infine, nuove regole del gioco negli affari internazionali. Ed è questo il fattore più importante per gli Stati Uniti». Aggiunge Dziuba: «Giocare secondo quelle regole che la stessa America aveva stabilito in passato non serve a mantenere la leadership mondiale, ma soltanto a cederla ad una Cina arrembante». Secondo George Friedman, il problema più critico per gli Usa è quello di creare un unico piano integrato, che tenga conto delle sfide più urgenti. «Potrebbe non essere possibile, operativamente, coinvolgere in contemporanea tutti gli avversari ma, concettualmente, è essenziale pensare nei termini di un coerente centro di gravità per tutte le operazioni». Per Friedman, è sempre più chiaro che questo centro di gravità è costituito dal Mar Nero. In senso militare sono attualmente attivi due teatri, entrambi dotati di un’ampia importanza potenziale. Uno è costituito dall’Ucraina, l’altro dalla regione posta fra Siria e Iraq, dove le forze dell’Isis hanno lanciato un’offensiva, progettata come minimo per controllare quei due paesi, e come massimo per dominare tutta l’area mediorientale, fino all’Iran. Due teatri connessi fra loro, attraverso il Caucaso russo.Mentre la Russia ha continui problemi nell’Alto Caucaso, allo stesso tempo alcuni report parlano di «consulenti ceceni che lavorano con lo “Stato Islamico”». Secondo Friedman, gli gli americani non useranno il loro potere militare su vasta scala: prevedono di raggiungere gli obiettivi a spese degli alleati regionali (Turchia e Romania costituiscono, in questo senso, due paesi-chiave). Per Thomas Donnelly, analista militare, la fase aerea non è assolutamente sufficiente e gli Stati Uniti saranno coinvolti in Iraq per più di dieci anni. Secondo Friedman, tuttavia, la combinazione di aviazione e forze speciali non comporterà l’eliminazione dello “Stato Islamico”. «Considerando che gli Stati Uniti non metteranno “gli stivali sul terreno” (dichiarazioni del presidente Obama), questo significa che qualcun altro dovrà inviare delle forze di terra al posto loro». L’alleato naturale sarebbe l’Iran, ma il fatto sarebbe inaccettabile per Washington. Così, se l’America resterà a guardare – limitandosi a bombardamenti isolati – l’Isis potrà «passare gradualmente nel Caucaso Settentrionale, facendo emergere le forze sotterranee presenti in quell’area e aprendo un nuovo fronte», ovviamente contro Mosca. Lo “Stato Islamico”, conclude Dziuba, ha già dichiarato che la Russia è il suo principale nemico. Uno dei leader dell’Isis, Omar al Shishani, è in effetti di etnia cecena. E Dmitry Yarosh, leader del partito neonazista ucraino “Pravy Sektor” (settore destro), tempo fa aveva invitato Doku Umarov, leader di “Imarat Kavkaz” (Emirato del Caucaso) a unirsi nella lotta contro la Russia, benché Umarov fosse morto due mesi prima. E’ la “Strategia del Mar Nero”: l’Iraq non è mai stato tanto vicino a Mosca, e per combattere contro la Russia a quanto pare c’è chi recluta anche i fantasmi.Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».
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Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip
Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
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Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito
«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
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Ttip: nel regno di Cosmopolis, lo Stato sarà fuorilegge
«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.L’accordo di Marrakech del 1994 segnò l’inizio di un nuovo viaggio per l’umanità, scrive Fabiano nel blog “L’Intellettuale Dissidente”, ricordando la nascita del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Fine della guerra fredda e inizio del mondialismo. Dettaglio fondamentale: «Con il Wto in pratica si stabilivano regole “superiorem non recognoscens” rispetto a quelle degli Stati, l’inizio di una fase economica della politica: se una multinazionale americana riteneva la norma di un altro paese ostacolo per i propri prodotti, chiedeva al suo governo di porre la questione al tribunale del Wto». Una possibilità di pressione senza precedenti nella storia. Ma «c’era ancora una presenza, un vaglio dello Stato in questione, seppur assoggettato a un interesse privato qual è quello della multinazionale». Ora, vent’anni dopo, le norme “sfavorevoli al mercato” sono state per buona parte rimosse. «L’Occidente, piegato alla volontà del mercato, aveva fretta di coinvolgere nel Wto anche la Cina: e così, a partire dal 2001, abbiamo aperto la porta a più di un miliardo di persone. Ora ci stiamo accorgendo dei mali di quel vaso di Pandora che vorremmo tanto richiudere».La globalizzazione selvaggia, continua Fabiano, non ha solo provocato danni irreversibili alle politiche economiche degli Stati. Non sta soltanto erodendo il potere politico esercitato negli ultimi secoli dallo Stato nazionale. Proprio «per la sua vocazione internazionale ed esportatrice», la globalizzazione «sta formando dei vuoti di potere proprio nelle zone del mondo che non si vogliono assoggettare ad essa», come il Medio Oriente. E l’Europa, anziché fare retromarcia, «sta accelerando il mercatismo grazie alla “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, il famigerato Ttip o Trattato Transatlantico per il commercio. Lo sta negoziando a porte chiuse «l’organo più elitario dell’Unione Europea, la Commissione», insieme alle maggiori lobby occidentali, al vertice della finanza (Jp Morgan, Goldman Sachs) e alle grandi corporations, come la Microsoft. E in arrivo il capitalismo terminale: le multinazionali potranno farsi giustizia da sole, piegando gli Stati al loro volere.Il Ttip infatti decreterà «la scomparsa del vaglio dello Stato su richiesta della multinazionale di turno». Con questo trattato, infatti, «le multinazionali potranno fare da sé, aggredendo con cause costosissime i paesi che cercano, o meglio cercavano, di fare protezionismo». Tutto questo ovviamente «avvantaggerà i colossi economici, a discapito dei territori dove sono vissute le piccole medie imprese, le stesse che nel secondo dopoguerra hanno generato benessere in un paese come per esempio il nostro, l’Italia». Ciò che più rammarica, aggiunge Fabiano, «è la totale sconfitta della politica, la quale non conterà più niente: infatti, con la nascita del Ttip vengono messe a repentaglio non solo famiglie e imprese, ma l’idea stessa di Stato. E questa volta in modo definitivo». Il passo successivo non lo conosce ancora nessuno. «Ma il neoliberismo, la recessione degli ultimi anni, l’ossessione politico-economica di mantenere a bada i prezzi fino alla deflazione a discapito dell’occupazione, i pronostici di quest’ultimo trattato tra Europa e America che ci dicono come il Pil avrà una crescita dello 0,01%, fanno presagire il peggio». Giorno per giorno, “Cosmopolis” si avvicina.«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.
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Contro il gas russo, l’Europa dei cretini autolesionisti
Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.Gli inglesi, i quali hanno difficoltà a badare a se stessi, per quanto la crisi li abbia colpiti meno di altre potenze europee, grazie al controllo esercitato dallo Stato sulla sterlina e sui capisaldi economici del sistema che sono stati contaminati meno dalle stupide imposizioni di Bruxelles, temono che Kiev possa restare all’addiaccio e si prodigano affinché ciò non avvenga. In realtà, si preoccupano per il saccheggio del gas da parte degli ucraini che sono stati convinti ad abbracciare l’“acquis communautaire” nonostante le uniche leggi riconosciute da quelle parti siano quelle del taglione e del taglieggiamento. Convincere questi gangster dell’est a comportarsi civilmente non sarà una cosa facile, ma averli allontanati dalla presa del potente vicino, per gli inglesi, evidentemente, vale il rischio che si sta correndo. Ora però bisogna ostacolare Mosca in tutti i modi possibili, impedendo che questa si rafforzi ancora sui mercati energetici e che eserciti ulteriormente la sua pressione sulle capitali europee dipendenti dalle sue forniture.La corsa ai giacimenti artici, dove i russi si sono lanciati con grande impeto, potrebbe essere il prossimo terreno di scontro. Il circolo polare artico pare custodisca il 22% delle risorse energetiche mondiali recuperabili. Mosca non nasconde le sue rivendicazioni sulla zona e reclama i suoi diritti di ricerca e di sfruttamento, che però vengono contestati strumentalmente da alcuni Stati nordici. Il recente embargo di tecnologia occidentale imposto da Washington al Cremlino, al quale l’Ue si è passivamente accodata, serve proprio ad evitare che Putin & co. proseguano spediti su questa rotta. Nessuno dei paesi dell’alleanza atlantica dovrà agevolare i russi nello sfruttamento di tale settore, per rallentare la loro corsa esplorativa nell’area. In secondo luogo, europei e americani puntano a indebolire Gazprom sabotando i suoi progetti in Europa come il gasdotto South Stream, che aggirando l’Ucraina favorisce percorsi più stabili di pompaggio dell’oro blu verso i clienti europei.In ossequio a questi pregiudizi autolesionistici, qualche giorno fa l’Europarlamento ha approvato una risoluzione non legislativa (che non sarà vincolante ma è di certo molto ipocrita) per sollecitare i paesi dell’Ue ad annullare gli accordi nel settore energetico previsti con la Russia, tra cui quelli per il gasdotto in questione. Nello stesso documento, gli eurodeputati hanno definito le sanzioni russe all’Ue ingiustificate. Questa manica d’idioti pretenderebbe che Mosca se ne restasse ferma mentre si cerca di isolare la sua economia. I sudditi d’Inghilterra sono quelli più accaniti contro il Cremlino e stanno pure spingendo affinché il monopolio della controllata di Stato russa venga contrastato attraverso le azioni dell’autorità antitrust europea, la quale dovrebbe multare per molti miliardi di euro la Gazprom per il suo modus operandi anticoncorrenziale. Si tratta unicamente di scuse per non rispettare i contratti ed indebolire l’influenza dell’azienda sul nostro mercato.Londra però non specifica con cosa e con chi sostituire i rifornimenti di Mosca, e i suoi scarni riferimenti al gas di scisto (da importare dagli Usa? Da trovare in casa? In quanto tempo e in che quantità?) non rassicurano affatto sul futuro energetico di un’Europa messa alle strette dalla crisi economica e dall’imbecillità dei suoi leader che parlano a vanvera ed agiscono a capocchia. E mentre loro studiano la via più breve per tagliarsi le palle da soli pensando di fare un dispetto a Putin, quest’ultimo si è trovato “un’amante cinese”. Fino a quando costoro seduti a fare danni a Bruxelles abuseranno della nostra pazienza e disporranno del nostro avvenire con inesistente senso di responsabilità?(Gianni Petrosillo, “L’Europa antirussa si fa male da sola”, da “Conflitti e Strategie” del 21 settembre 2014).Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.
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De Bortoli l’anti-Renzi, un suicidio le sanzioni alla Russia
«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.«Renzi non mi convince», scrive De Bortoli sul “Corriere” il 24 settembre. «Se vorrà veramente “cambiare verso” a questo paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso». Ha «una personalità egocentrica», che è «irrinunciabile per un leader» ma nel suo caso è «ipertrofica». Fatto «non irrilevante», visto che Renzi è «un uomo solo al comando del paese (e del principale partito), senza veri rivali». Vuol fare tutto da solo, e la sua squadra di governo «è in qualche caso di una debolezza disarmante»: il sospetto è che alcuni ministri «siano stati scelti per non far ombra al premier». In troppi casi «la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier», e additrittura «a prevalere è la toscanità», non il valore. La competenza? «Un criterio secondario». L’esperienza? «Un intralcio, non una necessità». L’irruenza può scuotere la “palude”, ma «non sempre è preferibile alla saggezza negoziale». Inoltre, «la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan». Ovvero: «Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto».Se Renzi è un oratore travolgente, «il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa». Il marketing della politica? «Se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso». E in Europa, «meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Attenzione: «Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere». E qui sorge quello che De Bortoli definisce l’interrogativo più spinoso: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015». Quindi «sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti, liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Ultimo consiglio al premier: «Quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi Troika), e tantomeno quella bianca».Il durissimo attacco di De Bortoli costituisce il punto culminante di un crescendo di critiche taglienti portate avanti dalle firme di punta di Via Solferino, scrive Edoardo Petti su “Formiche.net”. Prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulla strategia economica del premier, poi i corsivi di Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia e Pierluigi Battista. Ora, l’intervento a gamba tesa del direttore. Per Giancarlo Galli, l’asprezza di De Bortoli riflette «lo stato d’animo di un mondo imprenditoriale lombardo e italiano che, tranne l’eccezione della Fiat ormai pienamente americana, è preoccupato per l’eccessivo filo-americanismo del premier». Le sanzioni contro la Russia? «Quella è la punta dell’iceberg», sostiene Galli. «La classe economica del nostro paese ritiene che gli sbocchi privilegiati delle attività commerciali italiane siano i mercati orientali, Russi e asiatici in primo luogo. E per questo motivo ha giudicato malissimo la politica muscolare perseguita dal presidente del Consiglio verso Mosca, da cui importiamo energia e soprattutto gas metano. Comparto fondamentale, in cui gli Usa si apprestano a far concorrenza alla Russia attraverso la ricerca e raffinazione dello “shale gas”». In più, aggiunge Galli, gli industriali italiani guardano con timore all’offensiva del premier contro l’articolo 18 e i sindacati: «Potrebbe creare una fase di turbolenza negli ambienti di lavoro, ed è l’ultima cosa di cui gli imprenditori hanno bisogno».Di fatto, scrive Gianni Gambarotta, Renzi e il suo modo di far politica sono stati demoliti: col suo editoriale, De Bortoli ha tagliato i ponti col palazzo che oggi conta. Dunque si dimostrano infondate «le voci che puntasse, dopo l’uscita da via Solferino nell’aprile prossimo, a una presidenza Rai». De Bortoli «non si prende nemmeno il disturbo di accennare, nel suo tacitiano articolo, al centro di potere che ruota attorno ai suoi editori». Ormai «gioca una sua partita di direttore di quotidiano libero da ogni vincolo». Ma che cosa ha in mente per il futuro? «Un futuro che si immagina ancora lungo e intenso, dato che Fdb ha solo 60 anni, e in 40 di brillante carriera ha dimostrato di essere un eccellente professionista e di amare molto il lavoro». Gambarotta ricorda che di De Bortoli si parlò come possibile sindaco di Milano dopo Gabriele Albertini. Non se ne fece nulla, «però quella mezza idea di tanti anni fa potrebbe essere ripescata dal cassetto, e magari non solo a livello locale», conclude Gambarotta. «La politica italiana di oggi è un immenso nulla nel quale rimbombano i bla-bla-bla di Renzi. In questo vuoto una personalità come de Bortoli sarebbe un gigante».«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.
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Attac: una rivolta dei sindaci contro l’esproprio dei servizi
Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.Come già Berlusconi, continua il portavoce di “Attac Italia”, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari. Ma a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multi-utility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del Patto di Stabilità. In fondo, è la direzione nella quale procedono il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio Usa-Ue, e l’analogo Tisa, trattato sui servizi pubblici, al quale spalancherebbe una breccia definitiva la manomissione del Titolo V della Costituzione, spacciata come “riforma”, per impedire a Comuni e Regioni di continuare a gestire i servizi nell’interesse pubblico.«Nel pieno della crisi sistemica – scrive Bersani – ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti)». Da queste norme, «traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” – quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità? – bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società».Ancora una volta, aggiunge Bersani, sarà la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme «disegno di espropriazione dei beni comuni». Infatti, «come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali». Secondo l’esponente di “Attac”, emerge – oggi più che mai – la necessità di una «nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale», che deve «assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni». Serve «una nuova finanza pubblica e sociale», ovviamente impensabile sotto il regime dell’euro, «a partire dalla socializzazione della Cassa Depositi e Prestiti». E se il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali «viene portato avanti con il pieno consenso dell’Anci, espresso a più riprese dal suo presidente Fassino», una domanda sorge spontanea: «Non è il momento per i molti sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un’aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un’Anci al servizio dei poteri forti?».Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.
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Rubarci acqua, luce e gas: ecco la riforma del Titolo V
Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.Tutto già denunciato, a suo tempo, dalla trasmissione “La Gabbia” condotta su “La7” da Gianluigi Paragone, molto prima del “Patto del Nazareno” che ha reso evidente il piano oligarchico Renzi-Berlusconi per archiaviare il “rischio” della democrazia, amputando il Senato e soprattutto varando una legge elettorale “ad personam”. Il blog “Senza Soste” segnala l’ottimo servizio realizzato a settembre 2013 da Filippo Barone: “Italia, un paese in svendita”. In tre minuti, il trucco delle “riforme” è svelato: «Siccome la svendita delle quote statali di Eni, Enel e Finmeccanica farebbe racimolare solo 12 miliardi di euro, il governo e i tecnici dei ministeri hanno individuato nelle “utilities”, cioè le società di proprietà di Comuni e Regioni che gestiscono beni comuni e vitali – acqua, luce e gas – come la vera miniera d’oro da vendere ai privati per fare cassa». Con la “riforma del Titolo V” della Costituzione, in poche parole, «lo Stato scipperebbe i territori della gestione di questi beni, da poter poi vendere: tutto questo sarà fatto da un governo illegittimo formato da persone non elette, grazie a Napolitano».Il video è fulminante. Parla l’economista ed ex banchiere centrale Fabrizio Saccomanni, allora ministro dell’economia del governo Letta. Saccomani, al G-20 del luglio 2013 a Mosca, è «impegnato a spiegare agli italiani che ci servono altri soldi, altri sacrifici, perché non sappiamo come reggere il debito». Lo intervista un giornalista dell’emittente finanziaria americana “Bloomberg”. Domanda al ministro: come pensate di ridurre il debito? «Stiamo anche considerando la possibilità di vendere le nostre partecipazioni in aziende controllate dallo Stato». Dunque Eni, Enel, Finmeccanica? «Sì, stiamo considerando questo». Quando, dopo alcuni minuti, la notizia arriva in Italia, il ministero si affretta a smentire. «Peccato che il video sia finito su Internet». Un paese in vendita ha bisogno di una vetrina dove esporre la mercanzia, riassume il reporter de “La Gabbia”. E allora, quale migliore occasione di una fiera? Bari, 14 settembre. Ci sono «rappresentanti del ministero dell’economia, il capo della Cassa Depositi e Prestiti (cassaforte del patrimonio italiano), esperti di fondi sovrani e rappresentanti di governi stranieri». Tutti d’accordo: svendere l’Italia è essenziale, urgente.«L’Italia è stata colpita dalla crisi più di altri paesi», dice Franco Bassanini, presidente della Cdp. «Quindi, in Italia, oggi si possono fare investimenti e finanziamenti a condizioni molto favorevoli: ci sono ottime opportunità di investimento, in Italia». Bassanini, un tempo esponente della sinistra “riformista” italiana, è oggi un super-tecnocrate passato armi e bagagli ai “signori del mercato”, ai quali propone «ottime opportunità di investimento». Dall’ufficialità del forum di Bari, il servizio de “La Gabbia” si trasferisce nel party organizzato in un circolo privato, «al riparo da occhi e orecchie indiscrete». Mentre l’Italia precipita, «si organizzano incontri con uomini d’affari e fondi sovrani per vendere il vendibile». E dato che l’appetito vien mangiando, dice il reporter Filippo Barone, ecco il gran galà ben nascosto nel cuore del porto pugliese. Ricompare Bassanini, impegnato a spolverare un piatto del buffet: «Io non mi appassiono alle privatizzazioni», confida il capo della Cassa Depositi e Prestiti. E ammette: «Le privatizzazioni vanno fatte con molta cautela, perché il rischio della svendita è altissimo». Domanda: la cessione di Finmeccanica, Eni ed Enel era solo una boutade di Saccomani oppure corrisponde ai piani del governo? E qui arriva il colpo del ko: la svendita delle migliori aziende di Stato non basta, bisognerà strappare acqua, luce e gas alla gestione pubblica, regionale e comunale, e poter vendere i servizi vitali, la vera preda a cui ambiscono i “mercati”.Nel chiaroscuro felpato del party, la risposta – chiarissima – arriva dal “numero uno” dei tecnici del ministero del Tesoro, Lorenzo Codogno. Le cessioni di Eni, Enel e Finmeccanica «hanno un senso», certamente, «ma il problema è che non prendi tantissimo, perché – ho fatto un calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, meno di 1 punto di Pil». Parola del responsabile della direzione analisi economico-finanziaria del dipartimento, ieri retto da Saccomanni e oggi da Padoan. Secondo Codogno, per abbattere il debito non bastano Finmeccanica, le altre maxi-imprese dello Stato, gli immobili pubblici. Serve, soprattutto, «il resto». E cioè «acqua, luce e gas», o meglio, le “utilities” che ogni Comune gestisce per i propri cittadini. «La vera risorsa – dice Codogno all’inviato de “La Gabbia” – sono le “utilities” a livello locale: lì sono veramente tanti, tanti miliardi».Il problema – aggiunge il tecnocrate – è che quei servizi «non sono nostri, dello Stato: sono dei Comuni, delle Regioni. E quindi bisogna cambiare il Titolo V della Costituzione, ed espropriare i Comuni e le Regioni». Letteralmente: “espropriare”. Conclude l’inviato di Paragone: «Sindaci, preparatevi. Le aziende di servizio devono finire in mano araba o cinese, poche storie». Gli italiani? Non protesteranno, non se ne accorgeranno nemmeno. A loro provvederà l’ottimismo di Matteo Renzi: servirà a presentare come “vecchiume da rottamare” anche il Titolo V della Costituzione, cioè il dispositivo legale che assegna agli enti locali l’autonomia finanziaria per creare e gestire le reti di distribuzione dei servizi pubblici vitali. Quelle che fanno così gola agli “investitori” esteri. Perché, come dice il dottor Codogno, valgono «tanti, tanti miliardi». Basterà gonfiare le tariffe, per incamerare utili stratosferici. E a quel punto, l’Italia – come Stato – sarà tecnicamente estinta. E i cittadini, in balia degli “usurai” di mezzo mondo, futuri padroni del paese.Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.
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Guerra: ma Pechino sarà pronta a morire per Mosca?
Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».Secondo l’analisi di Santini, pubblicata da “Megachip”, si è ormai diffusa la percezione (fuorviante, erronea) che l’ordine “imperiale” costituito dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss sia giunto sul viale del tramonto. Si esalta l’ascesa economica dei Brics, si cita la grande crisi finanziaria di Wall Street del 2007, si ricordano le defaillance militari americane in Afghanistan e in Iraq, seguite all’11 Settembre. «A questi fattori va aggiunto un panorama mondiale, specialmente negli ultimi anni, che sembra farsi sempre più caotico e privo di guida, con tensioni o addirittura guerre che si susseguono nelle cerniere fondamentali del pianeta». La rapidità dell’evoluzione in effetti «suggerisce la possibilità di un Impero allo sbando, in preda a una crisi sistemica senza uscita», ma non è detto che tutte le criticità possano determinare un esito univoco, avverte Santini. L’alternativa dei Brics è ancora «in fieri», la loro super-banca – alternativa a Fmi e Banca Mondiale – è una creatura neonata, ed non è scontato che nell’alleanza pesino ancora rivalità storiche, come quelle tra Cina e India, «su cui gli Usa potrebbero intervenire per determinarne la disgregazione».La crisi finanziaria, «originata dai limiti dello sviluppo del sistema capitalistico», con «mercati ormai saturi» e incapaci di garantire i maxi-profitti del passato, ha fatto volare la speculazione pura, la «finanza creativa» che genera denaro direttamente dal denaro, saltando l’economia reale: «Una enorme bolla di soldi virtuali che vale, a seconda delle stime, decine di volte il Pil mondiale», e che prima poi «scoppierà o verrà sgonfiata in qualche modo: vedremo chi ne pagherà il prezzo». Nel frattempo, però, questa immensa massa di denaro «può essere impiegata dai “Masters of Universe” per fare shopping tra i pezzi industriali pregiati dei sistemi economici in crisi (vedasi in Italia) o fare letteralmente incetta di terra coltivabile in Africa o America Latina». Di riflesso, la crisi è diventata «crisi dei debiti sovrani» nell’Europa che non è più “sovrana” della propria moneta. Se a soffrire sono innanzitutto i cosiddetti Piigs, lo scenario non è affatto sfavorevole agli Usa, perché – proprio grazie alla recessione dell’Eurozona – si sta staccando l’Europa dalla Russia.Il più grande successo di questa fase per l’Impero? «Scongiurare ogni tentazione di costituire un blocco europeo continentale, da Lisbona a Mosca, indipendente politicamente, autosufficiente dal punto di vista economico», scrive Santini. Un blocco «culturalmente e territorialmente coeso, avanzato tecnologicamente, armato nuclearmente, complessivamente il più ricco e dinamico del pianeta, più degli stessi Stati Uniti. Altro che Brics». Quanto alle non-vittorie militari americane in Iraq e Afghanistan, «sono tali solo se viste nell’ottica della classica conquista coloniale». Al contrario, diventano tappe-chiave della “geopolitica del caos”, «una metodologia imperiale più oscura e complessa», ma molto efficace, «propugnata da alcuni settori dell’establishment americano che hanno il loro pubblico rappresentante più noto in Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato durante la presidenza di Jimmy Carter e allora ideatore della “trappola afghana”». Una tecnica, che se ben condotta, è utile per «tenere divisi i popoli “barbari”» e «impedire la nascita di potenze regionali» che possano disturbare gli Usa.I focolai di crisi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Palestina potrebbero sembrare il sintomo di «un mondo in preda alla pazzia, senza più gendarmi in grado di imporre l’ordine», ma se invece «si ammette la possibilità, terribile e dunque da sottacere, di una regia di fondo», allora diventa lampante «un quadro complessivo lucido e atroce, in cui il destino dei popoli è giocato come su una “grande scacchiera”». Emblematico il caso ucraino, «attraverso cui gli Usa – continua Santini – stanno ottenendo il risultato storico di dividere in uno spazio temporale decisivo la Russia dal resto d’Europa, colpendo al contempo Mosca e Berlino, costringendo la Ue a votare sanzioni contro un possibile alleato strategico e contro i propri stessi interessi, contorcendosi e ripiegandosi su se stessa». Dove siamo diretti? Secondo Aldo Giannuli, gli Usa potrebbero arroccarsi sulla difensiva, sfruttando i vantaggi strategici che ancora detengono, oppure potrebbero “assorbire” l’Europa nel blocco commerciale euroatlantico protetto dalla Nato. O magari accettare un “nuovo ordine bipolare” con la Cina, persino aprendo a nuove potenze emergenti, in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato in base a un nuovo “ordine multipolare”. Davvero gli Usa lo accetterebbero?«È sorprendente – replica Santini – che il professor Giannuli non preveda, al di fuori di questi schemi, altri sbocchi che non siano “il progressivo degenerare verso un disordine mondiale sempre più caotico”. Ovvero, nemmeno prenda in considerazione la possibilità che l’attuale situazione si consolidi, mutatis mutandis, con gli Stati Uniti che rimangono l’unica superpotenza imperiale», ipotesi tutt’altro che da scartare. Al contrario, è la condizione «che ha maggiori probabilità di prosecuzione, almeno nel medio termine», perché «nessuna nazione appare in grado non solo di soppiantare, ma nemmeno di sfidare gli Stati Uniti con la forza». Per Santini, quella degli Usa non è affatto una “ritirata”, ma un’offensiva. In Medio Oriente, con possibilità di proiezione anche in Africa, Israele rimane l’unica vera potenza regionale, insieme all’Iran, mentre ad Est gli accadimenti ucraini accelerano «l’accerchiamento della Russia e il controllo sempre più stretto sull’Europa da parte americana». Cina e Russia «vedono sempre più comprimersi i rispettivi spazi di manovra». Per resistere, dovranno “compenetrarsi”: «Ma, davanti alle sfide che lancerà l’Impero, Mosca sarà pronta a morire per Pechino e Pechino sarà pronta a morire per Mosca?».Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».
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Mujica, presidente impossibile: possiamo solo sognarcelo
Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.«A noi arrivano i successi ottenuti dai governi nati dall’ondata di cambiamento, ma bisogna ricordare che il loro emergere è stato favorito dal lavoro dei movimenti sociali latinoamericani, dei movimenti indigeni e sindacali», affermano i due autori del libro. «I governi progressisti e integrazionisti sono per lo più frutto di questo costante lavoro di riflessione, analisi e azione. Dall’altra le organizzazioni partitiche, nel caso dell’Uruguay, hanno saputo cogliere queste istanze e considerano i movimenti interlocutori alla pari». Appunto l’Uruguay, governato ora da un ex guerrigliero tupamaros. Il testo ci porta in questo Stato di soli 3 milioni di abitanti, principalmente agricolo dove «la terra ha un potere quasi religioso». Si ripercorre la biografia di Pepe Mujica – classe 1935 – il quale fin da giovane dimostra l’attaccamento alla vita rurale diventando un esperto di fiori (soprattutto giapponesi) da vendere in fiere e mercati. Ma la politica entra presto nella sua vita. Si forma ispirandosi al pensiero anarchico, successivamente sposa un marxismo eterodosso.Negli anni ’60 visita la Cina di Mao Zedong e la Cuba di Che Guevara rimanendo positivamente colpito dall’esperienza cubana, mentre dell’Unione Sovietica riporta il rifiuto verso un modello anchilosato a causa dell’enorme peso della burocrazia. Aderisce al Movimento di Liberazione Nazionale “Tupamaros” nel 1966, in un Uruguay in grande fermento politico: sono gli anni di una destra golpista che getterà le basi per il futuro regime. Mujica sceglie l’opzione militare. Il Mln, un gruppo armato di sinistra ispirato dalla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero (cañeros) del nord del paese, sindacalizzati da Raúl Sendic, è inclusivo e attira militanti politici e sindacali di diversa provenienza. «Fummo molto attenti – le parole di Mujica riportate nel libro – cercammo di evitare il più possibile lo spargimento di sangue. Perché eravamo imbottiti di questa percezione anche in quanto figli dell’Uruguay, un paese che ha determinate caratteristiche tra le quali quella della vita umana come un valore portante».Una guerriglia di liberazione principalmente urbana, che nel tempo è duramente piegata dalla repressione del governo: molti attivisti sono uccisi, la polizia scheda e sorveglia 300 mila persone. Lo stesso Mujica è arrestato e torturato nel 1971. Proprio l’esperienza di prigionia, di cui ben 12 anni in isolamento, è fondamentale per capire il suo attuale pensiero: «In quella cella, realtà e immaginazione erano tutt’uno». Uscito dal carcere, l’Uruguay è in via di cambiamento. Lui, animale politico, passa dalla lotta armata alle vie parlamentari. Viene eletto per la prima volta deputato il 15 febbraio 1995. Nel libro viene ricordato uno dei suoi interventi maggiormente esplicativi del suo pensiero: «La democrazia vera non esiste, è una meta da raggiungere, non so quando né so bene come. La democrazia è un insieme di compromesso, lavoro, partecipazione, gestione dell’economia e tutto il resto. Noi siamo lontani da tutto questo e mi sembra che ci si avvicinino di più i popoli indigeni».«La democrazia liberale massifica, non promuove lo sviluppo delle enormi potenzialità della società, non dà opportunità, è rigida. Il fatto che io accetti di navigare con questo sistema non significa che mi illuda che sia il sistema ideale. No! Da questo punto di vista sono socialista come esattamente trent’anni fa». Nella sua attività parlamentare, da subito si evince la necessità di restituire il Parlamento ai cittadini come luogo di discussione ed elaborazione: «Compagni, il mondo è sottosopra. Nel palco dovreste esserci voi e noi in basso ad applaudirvi». I giornali raccontano come si sia presentato il giorno dell’insediamento con jeans e maglietta, spettinato e con una vecchia motocicletta. Questo il suo stile di vita, estremamente umile, sobrio e quasi – lo definirei – francescano, che ad oggi ancora lo caratterizza. Nel 2010 l’elezione a presidente dell’Uruguay col “Frente Amplio”, dopo un’esperienza da ministro nel primo governo di centrosinistra nel paese.Da premier rinuncia a tutti i privilegi della cosiddetta casta. Rimane a vivere nella sua umile “chacra”, con la sua compagna (anch’essa militante storica del Mln, intervistata nel libro) e i suoi tre amatissimi cani. Nel poco tempo libero si dedica alla terra, al trattore, alla coltivazione. Come scrivono Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, «l’unicità di Mujica è data proprio dalla sua resistenza ad un certo tipo di ‘civilizzazione’». E poi l’innovazione nel paese. Soprattutto sui temi dei diritti civili: l’istituzione del matrimonio omosessuale (una rivoluzione per uno Stato latinoamericano) e la legalizzazione dell’uso della cannabis. Non solo. La decisione di lottare contro gli sprechi e di donare gran parte del suo stipendio ai poveri. Per ultimo, la campagna contro l’eccessivo uso delle armi: a chi dà indietro un fucile, lo Stato garantisce una bicicletta e un computer. Strumento sempre più utilizzato e diffuso nelle scuole dell’Uruguay.Un consenso nei suoi confronti in grande ascesa, anche se non mancano critiche. Qualcuno lo accusa di aver fatto poco a livello socio-economico, di non aver contrastato fino in fondo le politiche liberiste e di non aver ancora attuato riforme strutturali (come la riforma agraria). Mujica ne è consapevole. Parla di “umanizzazione del capitalismo” e, nel suo definirsi ancora socialista e libertario, chiede tempo per attuare completamente quel cambiamento promesso e annunciato. Pragmatico, rappresenta nel governo un uomo di grande mediazione che però ha avuto il coraggio di non abbandonare mai l’utopia: «Chi non coltiva la memoria, non sfida il potere», le sue parole. «E’ questo lo strumento per costruire il futuro che, in ogni caso, è nostro perché non hanno potuto sconfiggerci». Non un modello esportabile. Né un esempio da seguire in maniera pedissequa. Ma dall’Uruguay ci giunge un laboratorio politico-sociale che dovremmo analizzare e studiare per riscoprire da noi le ragioni della sinistra e riaffilare gli strumenti per la lotta dal basso. Il libro di Angelucci e Tarquini è prezioso per tali motivi.(Giacomo Russo Spena, “Il coraggio di cambiare, il nuovo Uruguay di Pepe Mujica”, da “Micromega” del 1° agosto 2014. Il libro: Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, “Il presidente impossibile”, Nova Delphi, 199 pagine, euro 12,50).Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.
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Pritchard: via dall’euro, Italia salva. Renzi, che aspetti?
Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Renzi non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: in campagna elettorale ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, il commissariamento della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.«E’ un fatto incontrovertibile – scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – che il disastro che dura da 14 anni in Italia coincide con l’adesione all’Uem», l’unione monetaria europea. «L’Italia è in depressione da quasi sei anni». Un crollo «costellato da false riprese, sopraffatte ogni volta dai dilettanti monetari responsabili della politica Uem». L’ultima “ripresa” è svanita dopo un solo trimestre, e l’economia è di nuovo in recessione tecnica: la produzione crollata del 9,1% dal suo picco, «indietro a livelli di 14 anni fa», l’industria italiana «scesa a livelli del 1980». Incredibile: «Ci vogliono errori di politica economica madornali per realizzare un tale risultato, in una economia moderna». Basti pensare che l’Italia non aveva subito niente di simile neppure durante la Grande Depressione, «facendo segnare una crescita del 16% tra il 1929 e il 1939». Nemmeno Mussolini, aggiunge Pritchard, era così maniacale da perseguire i suoi deliri sul “gold standard”. Le autorità italiane che oggi intravvedono segnali di ripresa? Sono «come le guardie della fortezza nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati», ingannate «dalle illusioni ottiche dell’orizzonte senza vita».Bollettino della catastrofe: i prestiti bancari alle imprese sono ancora in calo, “Moody’s” dice che quest’anno l’economia si contrarrà dello 0,1%, “Société Génerale” dello 0,2 Il crollo del settore immobiliare non ha ancora toccato il fondo: se l’anno scorso per vendere una casa occorreva attendere in media 8,8 mesi, ora l’attesa è salita a 9,4 mesi. Precipita l’indice del peggioramento delle condizioni di mercato: in soli tre mesi è passato da 19,6 a 34,7%. «Non possiamo andare avanti più a lungo», protesta la filiale di Taranto di Confindustria, in una lettera aperta al presidente della Repubblica in cui segnala che la Puglia sta diventando un «deserto industriale», con le piccole imprese sull’orlo della chiusura e dei licenziamenti di massa. «Il mix letale di contrazione economica e inflazione zero sta portando la traiettoria del debito in Italia a crescere in maniera esponenziale, nonostante l’austerità e un avanzo primario del 2% del Pil», aggiunge Pritchard. Nel primo trimestre 2014 il debito è salito al 135,6%, dal 130,2% dell’anno prima. E si può arrivare al 140% entro fine anno, «in acque inesplorate per un paese che in realtà si indebita in D-Marks».«Nessuno sa quando i mercati reagiranno», dicono i banchieri italiani. La recessione, intanto, sta erodendo le entrate fiscali così gravemente che Renzi «dovrà venirsene fuori con nuovi tagli, dai 20 ai 25 miliardi di euro, per soddisfare gli obiettivi di disavanzo dell’Ue, perpetuando il circolo vizioso». Il compito, dice Pritchard, è senza speranza, come confermano tutti gli studi. Secondo il think-tank “Bruegel”, l’Italia dovrebbe realizzare un avanzo primario del 5% del Pil per stabilizzare il debito con un’inflazione al 2%. Avanzo che salirebbe al 7,8% a inflazione zero. «Qualsiasi tentativo di raggiungere questo obiettivo porterebbe ad una implosione autodistruttiva dell’economia italiana», avverte Pritchard. Ashoka Mody, già alto funzionario del Fmi in Europa, dice che è impossibile realizzare avanzi primari così abnormi, cioè tagli spaventosi alla spesa pubblica. E consiglia alle autorità italiane di «cominciare a consultare dei bravi avvocati, per garantire una ristrutturazione ordinata del debito sovrano». Avverte: «Non deve essere un cataclisma, ci sono modi di dilazionare gli obblighi di pagamento nel corso del tempo. Ma non c’è nessuna ragione di attendere fino a che il rapporto giunga al 150% del Pil. Dovrebbero andare avanti in questo senso da subito».Tutt’altra musica quella che suona Eugenio Scalfari, secondo cui l’Italia dovrebbe «mettersi sotto il controllo della Troika», cioè del boia. «Scalfari sembra pensare che la democrazia in Italia dovrebbe essere sospesa per salvare l’euro – replica Pritchard – e che il paese dovrebbe raddoppiare le politiche di terra bruciata, imbarcandosi in uno sforzo ancora più draconiano per recuperare competitività attraverso un svalutazione interna», cioè tagliando i salari e il welfare. Renzi di rifletta, insiste Pritchard: pensi a salvare gli italiani, non l’euro. Sono 14 anni che il paese è in sofferenza, ovvero da quando è nell’Eurozona, che «ha messo in moto una dinamica molto distruttiva per le particolari condizioni dell’Italia». Ed è altrettanto chiaro che ora l’Uem «impedisce al paese di uscire dalla trappola». Ci dimentichiamo, aggiunge Pritchard, che l’Italia registrava abitualmente un surplus commerciale nei confronti della Germania, prima dell’euro: «Le industrie italiane del nord erano viste come concorrenti formidabili, quando la lira era debole». Antonio Guglielmi, di Mediobanca, dice che l’Italia “teneva” benissimo, prima di agganciare la lira al marco nel 1996. Solo allora è entrata in una «spirale negativa della produttività».In un rapporto che è una condanna, Guglielmi mostra come negli ultimi 40 anni la crescita della produttività e della competitività in Italia abbia vacillato ogni volta che la valuta nazionale è stata agganciata a quella tedesca, mentre si è ripresa dopo ogni svalutazione. Ennesima conferma dell’avvertimento lanciato da storici e antropologi: economie profondamente differenti non avrebbero mai potuto convergere felicemente nell’Eurozona. E ora siamo arrivati al capolinea: «L’Italia è sopravvalutata del 30% rispetto alla Germania e non può recuperare attraverso la deflazione, in quanto la stessa Germania è vicina alla deflazione». Le élite dellìunità monetaria, aggiunge Pritchard, esortano l’Italia a “fare le riforme”, «un termine che viene buttato là liberamente». Tutte storie: «Le metriche del mercato del lavoro per la Germania e l’Italia non sembrano così diverse», precisa Modi, già direttore del Fmi a Berlino. «Non è più facile assumere e licenziare in Germania». Il problema, semmai, è la mancanza in investimento in capitale umano, denuncia il professor Giuseppe Ragusa, della Luiss “Guido Carli” di Roma: «Ciò che veramente colpisce è quanto siamo indietro nell’istruzione».I dati dell’Ocse mostrano che l’Italia spende solo il 4,7% del Pil per l’istruzione, rispetto al 6.3% di tutta l’Ocse. La quota di giovani che hanno completato gli studi superiori è del 21%, rispetto ad una media del 39%. Gli insegnanti sono pagati una miseria. «Questo è davvero un grosso problema strutturale, ma non può essere risolto dalle “riforme”, figuriamoci dall’austerità». Ciò di cui l’Italia ha davvero bisogno, dice Pritchard, è di «un New Deal, un massiccio investimento in infrastrutture e competenze, sostenuto da uno stimolo monetario per sollevare il paese dalla sua soffocante tristezza cosmica». Renzi? «Deve ormai aver capito che questo non può essere fatto sotto l’attuale regime dell’Uem». Improvvisamente, il premier italiano «si ritrova nella stessa situazione terribile di François Hollande in Francia: etrambi si ritrovano con il cappio al collo». La differenza «è che Hollande è oltre ogni possibilità di salvarsi», perché «il regime depressivo dell’Uem ha distrutto la sua presidenza». “Le Figaro” sta pubblicando una fiction estiva in cui si esplora la possibilità di dimissioni anticipate. Renzi invece «non ha ancora bruciato il suo capitale politico, ed è un giocatore d’azzardo per natura», scrive Pritchard.Attenzione: «Non c’è più alcuna possibilità che Italia e Francia conducano una rivolta dei paesi latini, mettendo insieme una maggioranza in seno al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale per imporre una strategia di rilancio a livello dell’Uem che cambi completamente il panorama economico». Con l’adesione alla Germania a tutti i costi, «la forza politica di Hollande è bruciata». E gli spagnoli pensano – sbagliando – di essere fuori dal guado, e di non avere bisogno di un “patto del Sud” con Italia e Francia. Così, «Renzi è solo». E si trova davanti una Bce «che ha sostanzialmente violato il suo contratto con l’Italia, lasciando cadere l’inflazione a 0,4% sapendo che questo avrebbe fatto andare in metastasi la crisi italiana». Poi c’è Juncker, a capo di una Commissione «che promette di attuare le stesse disastrose politiche economiche che si sono già dimostrate rovinose». In altre parole, «non vi è alcuno spazio di negoziazione», perché le istituzioni di Bruxelles non ammettono le loro responsabili nella catastrofe: «Sostenendo solo la volontà dei creditori, hanno messo a terra l’unione monetaria: non hanno più alcuna legittimità».«L’Italia deve badare a se stessa», conclude Pritchard. «Si può riprendere solo se si libera dalla trappola Uem, riprende il controllo dei suoi strumenti di politica economica e ridenomina i suoi debiti in lire, con controlli dei capitali fino a quando le acque si calmano». Missione tutt’altro che impossibile, precisa l’economista inglese: «L’Italia non si troverebbe ad affrontare una crisi immediata di finanziamento, dal momento che ha un avanzo primario di bilancio». La sua posizione patrimoniale netta sull’estero, inoltre, è al -32% del Pil, a fronte di un -92% della Spagna e -100% del Portogallo. «Il paese non soffre di eccesso di debito da un punto di vista fondamentale», dal momento che il debito ipotecario è molto basso, e che il debito aggregato (pubblico e privato) è circa il 270% del Pil, cioè «molto inferiore a quello di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Svezia e Paesi Bassi».Non c’è un modo “facile” di uscire dall’euro, perché «le strutture a incastro dell’unione monetaria sono andate ben oltre un aggancio di cambio fisso», e inoltre «gli interessi costituiti», quelli che hanno trasformato l’Eurozona in una sorta di lager economico cronicamente depresso, «sono potenti e spietati». Eppure non è impossibile, insiste Pritchard, secondo cui «la faccenda sicuramente precipiterà quando la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo». A quel punto, tutto sarà chiaro: restare nell’euro sarà il suicidio, uscirne sarà obbligatorio. Di fronte a una crisi molto forte, in autunno, «potrebbe non essere così evidente che il paese vuole essere salvato alle condizioni europee». Quindi, «Renzi può giustamente concludere che l’unico modo possibile per adempiere al suo compito», il famoso “Rinascimento” per l’Italia, «è quello di scommettere tutto sulla lira».Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Il premier non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: prima ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, l’arrivo della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.
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Troika, rottamare l’Italia: a Renzi restano solo 100 giorni
Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».Secondo il blog, che per Maria Grazia Bruzzone della “Stampa” ha «occhi sempre aperti sull’Europa», il primo ministro italiano «ha lanciato un messaggio pericoloso: ha rotto la regola numero 3». Non è stato il primo leader nazionale a farlo, e sappiamo quanto salato sia «il prezzo della trasgressione». Il primo fu il premier greco Andreas Papandreou, che ruppe la “regola numero 2” annunciando nell’ottobre 2011 l’intenzione del suo governo di tenere un referendum sul nuovo accordo di salvataggio dell’Eurozona. «In due settimane venne rimpiazzato dall’ex banchiere centrale ed ex “goldmaniano” Lucas Papademos. Come se non bastasse, uscirono indiscrezioni sul fatto che sua madre avrebbe avuto su un conto svizzero 500 milioni di euro non dichiarati. Un prezzo pesante per un momento di coraggio». Il secondo fu l’allora primo ministro Silvio Berlusconi: nel settembre 2011 «osò discutere in incontri privati con leader dell’Eurozona, presumibilmente Merkel e Sarkozy, l’uscita dell’Italia dall’Eurozona». Risultato: «Prima di dicembre Berlusconi era fuori, rimpiazzato dal tecnocrate Mario Monti, già commissario europeo e “goldmaniano” pure lui».Il messaggio agli altri leader era chiaro: non pensate di mettere a repentaglio il Progetto. Da allora, scrive la Bruzzone citando il blog, la disciplina è stata ripristinata e nessun leader ha più osato infrangere le regole. Fino a Renzi. Che nell’intervista al “Financial Times” «ha pericolosamente rotto» la disposizione numero 3, «che impone di non criticare mai le azioni della Troika o dei suoi componenti». Nemici pericolosi: il bersaglio di Renzi, scrive “La Stampa”, era il presidente della Bce Mario Draghi, «il più intoccabile dei membri della Troika (e rappresentante senior di Goldman Sachs in Europa)». La sua chiacchierata fuori dalle righe – continua il post – era l’ultima escalation in una “guerra verbale” scoppiata dopo l’insinuazione (leggi: minaccia) di Draghi verso l’Italia, da commissariare perché caduta in recessione, visto che non ha fatto abbastanza per “riformare” mercato del lavoro, burocrazie e sistema giudiziario. Il risultato è «un clima sfavorevole per gli investimenti».In altre parole, quello di cui l’Italia avrebbe bisogno, per Draghi, è «una bella dose di intervento amministrato dalla Troika, che magari finisca per accelerare la spirale del debito arricchendo gli investitori internazionali». Renzi è sembrato avere altre idee: «Il nostro modello non è la Spagna ma la Germania», ha detto al “Financial Times”. Il blog di Richter ricorda che il premier è arrivato in febbraio promettendo di far uscire l’Italia dalla stagnazione che dura da un decennio. Ma i progressi sono stati lenti: finora si è limitato a togliere 80 euro di tasse ai salari più bassi. Dovrebbe arrivare una riforma della giustizia, ma non ci sono garanzie. E col poco da rivendicare su riforma fiscale e del lavoro, la comunità imprenditoriale si sta innervosendo: temono che Renzi sia solo «un piccolo manager, che punta troppo su un gruppo di amici fidati mentre avrebbe bisogno di consiglieri con esperienza», ha osservato il giornale. Magari alludendo a consiglieri come Carlo Cottarelli, «lo zar della “spending revew”». Un tipo «perfetto, in quel ruolo, dopo una vita al Fmi», dove ha diretto il Dipartimento Affari Fiscali. Ma Cottarelli incontra resistenze: «Spetta a Renzi decidere dove fare i tagli, non a un tecnocrate», ha detto il primo ministro italiano al “Ft” parlando in terza persona.Renzi se l’è presa con le lobby degli affari: «Roma è una città piena di lobbisti. In Italia vige un capitalismo di relazioni. Io non sono parte di quel sistema che ha distrutto il paese. Sono solo col 20% degli italiani che mi hanno votato, con gli 11 milioni che hanno votato il mio partito, e soltanto con loro e con la mia squadra il paese cambierà». Questione di principio, arroganza, ingenuità o un mix di tutto questo? Se lo chiede il blogger arrivando alle conclusioni: «Può essere una frase a effetto da dare in pasto al pubblico, o il prodotto di un calcolo molto astuto: vale a dire che attualmente lui – Renzi – riveste in Europa una posizione molto più forte di quanto molti credano». Motivo: «Come terza economia dell’Ue, la debole performance dell’Italia è un grattacapo per Bruxelles tanto quanto, o anche di più, di quanto lo è per Roma. Con 2 trilioni di debito pubblico – il 133% del Pil – l’Italia non è solo troppo grande per fallire, è troppo grande per essere salvata».«Deporre Renzi – scrive il blog – si rivelerebbe ben più difficile che togliere di mezzo Berlusconi. Dopotutto, anche in un paese che vanta una storia politica moderna come l’Italia quattro leader non eletti in tre anni sarebbero probabilmente un po’ eccessivi: la gente comincerebbe a chiedersi che fine ha fatto la democrazia». Per cui, «se la Troika mirasse a sferrare un altro colpo senza spargimento di sangue, dovrebbe quasi certamente farlo seguire a nuove elezioni». E i maggiori beneficiari della tornata elettorale «potrebbero essere il Pdl di Berlusconi e il M5S di Grillo», cioè «due partiti che non vorrebbero nient’altro che scrivere l’epilogo della breve storia dell’euro». Dunque la Troika «deve per forza riporre eventuali piani nel freezer, almeno per ora». Nel frattempo, «il suo coraggioso (o forse solo pazzo) giovane leader pretende mille giorni per fare i cambiamenti economici e politici che ritiene necessari per il suo paese. Sarà fortunato se ne ottiene cento». Come che sia, conclude “La Stampa”, dopo aver «fatto lo spavaldo» col “Financial Times”, Renzi ha voluto fugare l’impressione di dissapori con la Troika volando subito in elicottero da Draghi e poi incontrando Napolitano. «Sarà anche più forte in Europa di quel che si crede – per mancanza di alternative. Ma è meglio non esagerare».Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».