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Bankitalia può fabbricare miliardi, voi politici non lo sapete?
«Alla fine Salvini, quando parla di economia, passerà il suo tempo a spiegare perché sarebbe per uscire dall’euro anche se non lo mette nel programma e anche se si allea con chi è contrario», afferma Giovanni Zibordi. Berlusconi è inaffidabile, ma qui c’è un problema vero. Scrive il Cavaliere, su Twitter: «Salvini ha da tempo cambiato posizione e non ha più l’idea di uscire dall’euro, sa che è tecnicamente impossibile e comunnque insostenibile per l’economia italiana». E sia Salvini che Berlusconi e Di Maio, aggiunge Zibordi, passeranno il loro tempo a spiegare «come possano trovare circa 100 miliardi per le loro proposte di aumenti di pensioni e sussidi a milioni di persone». La campagna elettorale è partita e chi vuole sostituire Renzi propone: reddito di cittadinanza per 4,5 o 10 milioni di persone, a seconda della versione, oppure reddito “di dignità” (simile, ma non ancora bene specificato) più abolizione della legge Fornero. Le stime per queste due cose vanno dai 50 ai 100 miliardi. Inoltre il centrodestra propone la “flat tax” che è stimata intorno ai 30 miliardi. «Il pubblico italiano è stufo di austerità, ma anche senza aver studiato intuisce che si parla di cifre complessive grosse e non capisce come vengano fuori con i “vincoli di bilancio” dell’Eurozona che i giornali e telegiornali ripetono come i muezzin il Ramadan».Sul cosa fare, scrive Zibordi sul forum “Cobraf” ripreso da “Come Don Chisciotte”, il grillino Di Maio ha dichiarato: «Niente uscita dall’euro». E, nel caso ci fossero dubbi sulla logica, ha detto che il debito pubblico deve scendere di un 40% (rispetto al Pil). I soldi mancanti? Devono venire da 50 miliardi di taglio della spesa pubblica. Berlusconi? Anche lui si dichiara pro-euro, però «non parla di tagli come Di Maio e quindi è più “a sinistra”». Peccato però che, in questo modo, «i 70 o più miliardi per cancellare la Fornero, il “reddito di dignità” e la “flat tax” esistano solo nei suoi discorsi». Quanto a Salvini, «continua a lanciare frecciate contro l’euro, ma finora nelle proposte non parla più di EurExit e si è alleato con chi non ne vuole proprio uscire (e dice che lui, Salvini, ha cambiato idea)». In sostanza: i candidati alle politiche 2018 promettono spese per 100 miliardi, senza però dire come uscire dal sistema degli euro-vincoli. «Dire che li trovate tagliando le spese o reprimendo l’evasione come fa Di Maio – scrive Zibordi – è come dire che quei soldi li porterà la Befana, specie dopo l’esperienza di Monti».Ora che la Bce ha creato 2.400 miliardi dal 2012 e assieme alle altre banche centrali ha creato dal nulla 19.000 miliardi dal 2009, «forse la nozione che si possa creare denaro potrebbe essere spiegata agli elettori italiani». A differenza di altre elezioni, continua Zibordi, stavolte l’italiano medio sta ad ascoltare, se si parla di economia. «All’austerità, l’idea che c’è una quantità fissa di soldi e se ne occorrono da una parte ne devi tagliare dall’altra, sono rimasti a credere solo quelli che sentono Oscar Giannino». I candidati dovrebbero quindi spiegare che, invece, «non ci sono ostacoli pratici a creare 100 miliardi per lo Stato, sia in generale che nello specifico, visto che la Bce e le varie banche centrali nazionali hanno ricomprato 900 miliardi di debito sui mercati mentre i deficit pubblici erano di 200 miliardi». Cioè: negli ultimi anni il debito pubblico sui mercati si riduceva nell’Eurozona di 900 miliardi, e la quota dell’Italia era intorno ai 200 miliardi. Ovunque nel mondo, prosegue Zibordi, «le banche centrali hanno comprato una grossa fetta di debito pubblico facendolo sparire dai mercati». In certi casi anche il 40% del debito è stato ritirato dai mercati, «con il risultato che poi gli interessi non pesano più sullo Stato». Per cui, attenzione: «I miliardi per fare redditi di cittadinanza o pensioni o riduzioni di tasse vengono da qui, da quelli che le banche centrali hanno creato e poi usato per ridurre il debito pubblico». E’ un discorso così difficile da fare, per un politico?«Se prometti 100 miliardi di pensioni, redditi garantiti e tagli di tasse dicendo però che resti dentro i vincoli dell’Eurozona allora sì che vedi facce perplesse e incredule», scrive Zibordi. E perchè il discorso del ritorno alla lira non funziona? «Perchè la gente pensa che i soldi si riducano di valore, che svaluti, e alla fine poi in realtà ci sia meno denaro perchè vale di meno». Non è necessariamente vero: «Bankitalia in questo stesso momento sta stampando euro con cui compra Btp e lo ha fatto ormai per 300 miliardi di Btp senza conseguenze negative. Di questi 300 miliardi ne servono 100 miliardi per ridurre tasse e altre cose. Bankitalia e la Bce “stampano” miliardi e questo va bene, ma li usano solo per togliere il debito dai mercati, renderlo inoffensivo. E’ un ottima cosa, andrebbe fatto sempre nei prossimi anni fino a quando il debito pubblico sparisce quasi tutto dai mercati. Ma una frazione di questi soldi va anche girata alle famiglie e imprese. Nell’insieme, Bce e Bankitalia hanno ora 400 miliardi circa di titoli di Stato italiani, per cui ci si può permettere di darne 100 miliardi indietro al pubblico italiano». Bisogna però che i leader politici lo dichiarino, cioè dicano che la posizione dell’Italia, del prossimo governo italiano, è che il debito pubblico comprato da Bankitalia stampando centinaia di miliardi di euro vada sottratto dal totale.«Dato quindi che si sta già stampando denaro da parte della banca centrale, che opera per conto dello Stato, bisogna riconoscerlo e dire che non possono essere solo investitori e speculatori finanziari a beneficiarne». Il prossimo governo italiano, continua Zibordi, deve dire che ora tocca a lui creare anche solo una frazione di questi miliardi a beneficio di imprese e lavoratori italiani. Come? Ci sono diverse soluzioni: emissione di crediti fiscali, Btp fiscali, criptovalute. «Sono mezzi di pagamento per le tasse, cioè i crediti fiscali o Btp Fiscali o gli ItCoin: lo Stato li accetta per le tasse, ma non li impone per legge come moneta, altrimenti violerebbe i trattati per i quali solo l’euro è moneta legale». Bankitalia non è d’accordo? Ovvio: «E’ costretta dal suo ruolo istituzionale a mentire, o comunque a dire qualcosa di fuorviante, perché deve difendere il suo potere di creare miliardi dal nulla e impedire allo Stato di fare altrettanto». Ma la verità è che proprio la Banca d’Italia «può creare 300 o anche 600 miliardi senza vincoli, e lo Stato deve chiedere il permesso di spenderne 3 per delle emergenze». Tutto merito dell’euro. «Lo Stato italiano deve tornare a fare quello che per 30 anni ha delegato alla banca centrale, con i risultati di depressione economica, crollo demografico e milioni di sottoccupati e disoccupati», conclude Zibordi. Per farlo non c’è bisogno di tornare prima alla lira: basta denunciare «il bluff delle banche centrali, che creano migliaia di miliardi e predicano agli Stati l’austerità perchè “non ci sono i soldi”».«Alla fine Salvini, quando parla di economia, passerà il suo tempo a spiegare perché sarebbe per uscire dall’euro anche se non lo mette nel programma e anche se si allea con chi è contrario», afferma Giovanni Zibordi. Berlusconi è inaffidabile, ma qui c’è un problema vero. Scrive il Cavaliere, su Twitter: «Salvini ha da tempo cambiato posizione e non ha più l’idea di uscire dall’euro, sa che è tecnicamente impossibile e comunnque insostenibile per l’economia italiana». E sia Salvini che Berlusconi e Di Maio, aggiunge Zibordi, passeranno il loro tempo a spiegare «come possano trovare circa 100 miliardi per le loro proposte di aumenti di pensioni e sussidi a milioni di persone». La campagna elettorale è partita e chi vuole sostituire Renzi propone: reddito di cittadinanza per 4,5 o 10 milioni di persone, a seconda della versione, oppure reddito “di dignità” (simile, ma non ancora bene specificato) più abolizione della legge Fornero. Le stime per queste due cose vanno dai 50 ai 100 miliardi. Inoltre il centrodestra propone la “flat tax” che è stimata intorno ai 30 miliardi. «Il pubblico italiano è stufo di austerità, ma anche senza aver studiato intuisce che si parla di cifre complessive grosse e non capisce come vengano fuori con i “vincoli di bilancio” dell’Eurozona che i giornali e telegiornali ripetono come i muezzin il Ramadan».
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Così parlò Mattarella: anche lo Stato adesso ha paura
Cosa abbiamo scorto di nuovo nel discorso di fine anno, ed in questo caso anche di fine legislatura, fatto dal presidente della Repubblica a reti unificate? La paura. La paura del futuro che si fa largo anche tra coloro che per un lungo periodo si sentivano al caldo sicuri della propria forza di controllo mediatico e finanziario della massa della popolazione. La gestione del controllo proveniva anche da un ruolo che lo Stato attraverso i propri governi e le dirigenze ministeriali esprimevano e portavano avanti nel rapporto capitale-lavoro. La globalizzazione ha creato delle circostanze differenti in cui i media sono sempre più difficili da gestire e la finanza con tutta la sua forza economica si è liberata di certi vincoli che la costringevano ad osservare i dettami di banche centrali e governi in carica. Il capitale si è liberato dalla politica fino addirittura a sublimarsi dalla realtà verso i mercati finanziari lasciando gli Stati in circostanze complicate con aumenti della disoccupazione, afflussi di migranti, caduta di investimenti pubblici e privati e la riduzione delle entrate fiscali rispetto alle previsioni che comportano poi incrementi dell’aliquota Iva. Inoltre le riforme strutturali che l’Fmi ha imposto agli Stati aderenti al trattato hanno contribuito al processo di sublimazione del capitale rispetto alla realtà, di conseguenza anche dalla politica, comparto da sempre odiatissimo a cui ha dovuto elargire somme non meritate.Non a caso Mattarella lancia un monito preciso contro il “risentimento”, perché sa benissimo che un ritorno della psicologia di massa verso l’istinto tribale della chiusura verso lo straniero è già nei pensieri di troppa gente che si è vista spogliare progressivamente del proprio benessere. Il nazionalismo infatti purtroppo ritorna ad essere argomento di discussione animata, più o meno consapevole, sul web con una dirompenza ed una accelerazione molto più marcata rispetto a ciò che accadeva nei bar e nei circoli prima del Ventennio. Lo Stato ha paura perché ha la consapevolezza della propria esclusione dalla regolazione del rapporto capitale-lavoro. Appena tenta di metterci le mani è inevitabile la creazione di vincoli che il capitale non accetta e vola via, altrove. Si guardi al modo con cui i fondi d’investimento intervengono nell’economia reale e come i governi e lo Stato si rapportino con essi. Ma lo Stato non è pronto neanche ad affrontare una eventuale conduzione autarchica come le forze di destra o comunque nazionaliste vorrebbero. Questa forma di Stato è attualmente immobilizzata.Le persone avvertono il disagio, pensano nella forma nuova ossia puramente individuale che ormai ha assunto un valore normativo legittimato in tutto il mondo, ma non sanno bene a chi dare la colpa se non istintivamente al “non-io” e al “non-noi”, vale a dire “l’altro”, soprattutto “il migrante economico”. Negli occhi di Mattarella sembra proprio trasparire questa paura, avverte il risentimento della psicologia di massa e sa bene che è molto peggio di ogni altro fenomeno che ha contrastato la Repubblica nei suoi 70 anni di pace. Il richiamo ai millennials (i nati dal 1999) alla loro responsabilità di giovanissimi uomini che devono necessariamente attivarsi per il loro futuro è un altro elemento su cui Mattarella cerca di far leva per condividere con qualcuno le proprie paure senza però dare niente di tangibile in cambio. I partiti hanno la stessa paura di Mattarella poiché il loro destino è legato alle evoluzioni istituzionali della Costituzione che oggi è completamente spiazzata dalle circostanze in cui verte proprio il rapporto capitale-lavoro. Non a caso la Costituzione lo aveva messo nel suo primo articolo. Il fatto che il lavoro sia menzionato nell’articolo 1 non significa che sia un diritto universale.Se lo Stato che ha questa Costituzione non se ne riappropria, dimostrandone una capacità di gestione effettiva ed efficace, pone fine a quel patto sociale tra massa e Stato che si era consolidato progressivamente nella storia recente, soprattutto dopo la distruzione e la perdita di una guerra mondiale. La gestione di questa paura, che Mattarella ha chiamato risentimento presso la massa nascondendo la propria, sarà il principale nodo rispetto al quale le varie forze politiche che agiscono sul territorio italiano dovranno confrontarsi. La destra nazionalista, di fatto avvantaggiata poiché è proprio grazie alla paura nella massa che ha trovato la sua linfa per risorgere, dovrebbe dimostrare che può riappropriarsi del potere a tal punto da poter gestire il rapporto capitale-lavoro. Cosa che non ha assolutamente in dote come ogni altro partito attuale. La parte amministrativa dello Stato è completamente bloccata nel proprio ruolo e affogata in concezioni politiche dello sviluppo obsolete, per cui lo Stato è immobilizzato davvero.(“Il discorso di Mattarella ovvero lo Stato ha paura”, dal newsmagazine “Senza Soste” del 2 gennaio 2018).Cosa abbiamo scorto di nuovo nel discorso di fine anno, ed in questo caso anche di fine legislatura, fatto dal presidente della Repubblica a reti unificate? La paura. La paura del futuro che si fa largo anche tra coloro che per un lungo periodo si sentivano al caldo sicuri della propria forza di controllo mediatico e finanziario della massa della popolazione. La gestione del controllo proveniva anche da un ruolo che lo Stato attraverso i propri governi e le dirigenze ministeriali esprimevano e portavano avanti nel rapporto capitale-lavoro. La globalizzazione ha creato delle circostanze differenti in cui i media sono sempre più difficili da gestire e la finanza con tutta la sua forza economica si è liberata di certi vincoli che la costringevano ad osservare i dettami di banche centrali e governi in carica. Il capitale si è liberato dalla politica fino addirittura a sublimarsi dalla realtà verso i mercati finanziari lasciando gli Stati in circostanze complicate con aumenti della disoccupazione, afflussi di migranti, caduta di investimenti pubblici e privati e la riduzione delle entrate fiscali rispetto alle previsioni che comportano poi incrementi dell’aliquota Iva. Inoltre le riforme strutturali che l’Fmi ha imposto agli Stati aderenti al trattato hanno contribuito al processo di sublimazione del capitale rispetto alla realtà, di conseguenza anche dalla politica, comparto da sempre odiatissimo a cui ha dovuto elargire somme non meritate.
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Ha inghiottito il mondo, è il mostro chiamato neoliberismo
Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica, «un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo, osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto «un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze», come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana».Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa, Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf, si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe “l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né una polemica reazionaria contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo», sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente».La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale».Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf, «anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek».L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse». Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa».In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato. Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico, infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente».La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da «stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare».Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare», scrive Metcalf. «L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi».Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972, quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia.L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci. Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?».Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per 200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo». Non che fossero meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore».Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia. «È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore».Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale” significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”». Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno spazio pseudo-pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore. Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione».Ragiona Metcalf: «L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse», rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere».Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso” costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato «in una politica ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del neoliberismo.Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
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Impiccati a Maastricht, grazie al 3% inventato da Mitterrand
Fin dai tempi di Maastricht (7.2.1992), le classi politiche che si sono alternate alla guida dell’Italia (si fa per dire), hanno sempre supinamente e ciecamente perseguito il rispetto dei parametri di convergenza, mentre avrebbero dovuto verificare preventivamente se i vincoli esterni richiesti dai Trattati fossero idonei e proficui per il nostro sistema economico. Insomma dovevano capire (cioè l’avrebbero dovuto capire i politici) se cambiando radicalmente il nostro modello economico con quello posto a supporto della costruzione monetaria previsto da Maastricht, cosa sarebbe realmente successo nella nostra economia tenendo conto della nostra peculiare struttura e se non sarebbe stato il caso pertanto di obbedire solamente ad ogni richiesta senza fiatare, accontentandoci nell’essere bravi nel proclamare a parole di saperli rispettare! Sta di fatto che firmammo un trattato senza la piena coscienza che non saremmo mai stati capaci a rispettarlo legando mani e piedi alla nostra economia senza possibilità di scampo, consegnandoci a una resa certa senza condizioni nell’impossibilità di evitare che il cappio messoci al collo si stringesse sempre di più facendoci diventare in breve una Colonia del Nord Europa ovvero il 17° Land tedesco.Tutta, ma proprio tutta, l’architettura era concepita tenendo conto di parametri macroeconomici distanti anni luce da quelli propri della nostra economia e ad immagine e somiglianza di quella tedesca e un pochino (sempre meno!) di quella francese. Come potevamo ragionevolmente sperare di riuscire a rispettarli o addirittura a migliorare le nostre condizioni, visto che quello in precedenza adottato da noi era su fondamenti diametralmente opposti, ma che comunque era riuscito, nel bene e nel male, a far raggiungere al nostro paese l’invidiabile posto fra la quarta e quinta potenza industriale e saldamente quella di seconda economia manifatturiera d’Europa? Bastava leggere la Costituzione per capire facilmente che il modello economico preso a riferimento si fondava sulla piena occupazione e non sulla stabilità dei prezzi e il pareggio di bilancio! Tutti i criteri posti a base dell’aggregazione monetaria prevista dal Trattato di Maastricht, ulteriormente irrigiditi dal Patto di Stabilità, facevano riferimento sui valori espressi esclusivamente dal deficit, debito pubblico e Pil, storicamente dati a noi non favorevoli e “calcolati” con criteri non del tutto scientifici.Nel mio “Europa Kaputt, (s)venduti all’euro” del luglio del 2013 già evidenziavo le “bizzarrie” nelle scelte di alcuni parametri posti invece come sacri dogmi dall’Europa. A riguardo non possiamo che non citare a supporto l’articolo apparso sul noto giornale “Le Parisien” del 28 settembre del 2012, dove l’ex funzionario della direzione del bilancio francese Guy Abeille, rivelava in una sconcertante intervista come si era giunti alla determinazione di alcuni determinanti parametri di riferimento, come a esempio il famoso rapporto del 3% fra il deficit e il Pil, che avrebbero poi condizionato così forte la vita e la sopravvivenza economica dell’intera area valutaria euro: «Mitterrand ha inventato in fretta e furia questa cifra emblematica e abbiamo stabilito la cifra del 3 per cento in meno di un’ora. E’ nata su un tavolo, senza nessuna riflessione teorica. Il presidente aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? E’ un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità».L’incredibile, prosegue il giornale francese, che gli eurocrati di Bruxelles si siano ispirati a questo famoso tre per cento di Mitterrand per creare poi un parametro così fondamentale nel trattato di Maastricht! E noi aggiungiamo che ancora oggi il fior fiore degli economisti nostrani e internazionali fanno a gara per giustificare la validità scientifica di questo bizzarro parametro che nella pratica è stato utilizzato esclusivamente per indurre molti paesi eurodotati ad adottare politiche economiche decise fra Bruxelles, Francoforte e Berlino nell’esclusivo interesse di parte, essendo diventato uno strumento tecnico coercitivo di ricatto. Ma l’errore più penalizzante per noi è stato nel non essere riusciti a far contemplare altri parametri macroeconomici che invece ci avrebbero posto su livelli più paritetici nei confronti degli altri partners e che avrebbero senza ombra di dubbio evidenziato la nostra effettiva “forza” e soprattutto non ci avrebbero esposto al perenne ruolo di “ultimi della classe”. Altro caposaldo di Maastricht, ribadito anche da Lisbona e “irrigidito”, almeno nel rispetto, dal Fiscal Compact, è l’altro famoso parametro del 60% fra debito pubblico e Pil.Ebbene, per quanto moltissimi studi scientifici accreditati si siano sbizzarriti nel determinarlo, nessuno è mai riuscito a dimostrare effettivamente il reale livello di “sostenibilità” di un debito pubblico. Infatti quale può essere considerata la soglia fra “sostenibilità” e “insostenibilità” di un debito pubblico? Questo tema, molto dibattuto nella letteratura economica classica, è stato riproposto all’attenzione dei policy maker da Reinhart e Rogoff (2010): utilizzando un campione di 20 paesi industrializzati, per un periodo che va dal 1946 al 2009, giungono alla conclusione che la soglia aldilà della quale il debito ha un effetto boomerang sulla crescita economica è nel rapporto del 90 per cento sul Pil. L’esistenza di una soglia precisa fra “normalità” e “abnormalità” del rapporto debito-Pil è comunque un tema che rimane anche oggi molto controverso. Ad esempio, Panizza e Presbitero (2013) trovano che tale soglia risulta sensibile al campione statistico e alla metodologia seguita.In aggiunta, il risultato stesso dello studio (“Growth in a Time of debt”) a cui giunsero Reinhart e Rogoff è stato notevolmente inficiato dall’omissione di importanti osservazioni presenti nel loro campione, da procedure statistiche dubbie e da errori di calcolo nel foglio Excel utilizzato, così come poi scoperto incredibilmente dallo studente americano ventenne in economia Herndon nel 2013. In sintesi, non esiste una regola meccanica che divida la serie temporale del rapporto fra debito pubblico e Pil fra zone “sostenibili” e zone “insostenibili”. Ne consegue come non sia possibile determinare a priori teoricamente un parametro omnibus così importante da dover rispettare. Eventualmente sono i mercati finanziari che attribuiscono livelli di sostenibilità o meno ai debiti pubblici in funzione del grado di fiducia verso le capacità dei governi di intraprendere politiche economiche idonee. Ciò nonostante a Maastricht fu deciso il parametro del 60%, che insieme all’altro “3% di Mitterrand”, hanno imposto le assurde e anacronistiche regole su cui si fonda l’euro! Forse proprio per questo ci ritroviamo in queste condizioni!(Antonio Maria Rinaldi, “Le supercazzole di Maastricht”, da “Scenari Economici” del 4 novembre 2017).Fin dai tempi di Maastricht (7.2.1992), le classi politiche che si sono alternate alla guida dell’Italia (si fa per dire), hanno sempre supinamente e ciecamente perseguito il rispetto dei parametri di convergenza, mentre avrebbero dovuto verificare preventivamente se i vincoli esterni richiesti dai Trattati fossero idonei e proficui per il nostro sistema economico. Insomma dovevano capire (cioè l’avrebbero dovuto capire i politici) se cambiando radicalmente il nostro modello economico con quello posto a supporto della costruzione monetaria previsto da Maastricht, cosa sarebbe realmente successo nella nostra economia tenendo conto della nostra peculiare struttura e se non sarebbe stato il caso pertanto di obbedire solamente ad ogni richiesta senza fiatare, accontentandoci nell’essere bravi nel proclamare a parole di saperli rispettare! Sta di fatto che firmammo un trattato senza la piena coscienza che non saremmo mai stati capaci a rispettarlo legando mani e piedi alla nostra economia senza possibilità di scampo, consegnandoci a una resa certa senza condizioni nell’impossibilità di evitare che il cappio messoci al collo si stringesse sempre di più facendoci diventare in breve una Colonia del Nord Europa ovvero il 17° Land tedesco.
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Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
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Fame, paura e morte: dove è nato l’uomo d’acciaio Putin
Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.A 12 anni lesse “Lo scudo e la spada”, bestseller ove si narrano le gesta di una spia sovietica. Suggestioni che lo porteranno da adulto ad intraprendere una carriera nel servizio segreto dell’Urss, il famigerato Kgb. Il primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione viene da queste esperienze, perchè la scuola del Kgb non era una scuola come le altre. Ma se il Kgb ha forgiato Volodja, anche la Kommunalka lo ha forgiato. Eccome. Di cosa si tratta? La kommunalka è una sorta di condominio, ma gestito in modo comunitario tra diverse famiglie: stanze scarsamente illumintate, androni desolati, rampe di scale fatiscenti, pavimenti bucati, immondizia abbondante dentro i palazzi. In quei cortili, tra risse con i coetanei e vendette, Volodja ha passato la sua giovinezza. Il padre si era arruolato come fuciliere dell’85esimo battaglione d’assalto dell’Armata Rossa e fu costretto a combattere casa per casa nella celeberrima “sacca della Neva”. Come in un film, Spiridonovic Putin fu un vero sabotatore, per miracolo sopravvissuto ad una missione suicida con un manipolo di coetanei.Ferito nella periferia della città qualche mese dopo l’impresa, il papà di Putin rischiò seriamente la morte. La mamma Maria per molto tempo non seppe che fine avesse fatto il marito. Quando, per puro caso, lo ritrovò la loro vita era in gran parte segnata perché entrambi deformati da denutrizione e ferite. Grazie a vecchie competenze acquisite sul campo, il padre di Putin troverà lavoro come operaio specilizzato nelle officine Yegorov, che trattavano materiale ferroviario, la madre Maria farà la facchina ai mercati e poi verrà impiegata in una sorta di ospizio. La maggior parte del tempo, comunque, la donna lo passava a cercare cibo da mettere in tavola. E la Kommunalka? Più famiglie in coabitazione, ove ogni nucleo disponeva di una sola stanza con bagno in comune e cucina in comune. Dunque, per mangiare a pranzo e a cena, occorreva fare i turni e le fila, con tutte le litigate, a volte anche furibonde, che possiamo immaginarci. Inutile dire che una vita come questa fu caratterizzata da degrado e amici teppisti di strada, tra scazzottate e bevute.I topi erano onnipresenti nella Leningrado anni Cinquanta e Sessanta, e non era affatto raro, per Putin, affrontarli nelle staze del palazzo in cui viveva per ucciderli con mezzi di fortuna. Anche la vita scolastica non fu delle più facili e Putin tra i banchi si dimostrò intelligente, ma sovente ribelle, spesso punito ed escluso dai circoli studenteschi che contavano. Senza pena di smentita posso affermare che una vita come questa, segnata dalla povertà e dalle ristrettezze, ha forgiato il carattere dell’uomo più degli studi di giurisprudenza e dei corsi specializzati del Kgb. Certamente, ha reso il presidente russo maggiormente temprato alle difficoltà, alla strategia e alla freddezza decisionale dei numerosi figli di papà che caratterizzano la nostra classe dirigente, pubblica o privata che sia.(Massimo Bordin, “L’infanzia di Volodja, alias Vladimir Putin”, dal blog “Micidial” del 7 ottobre 2017).Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.
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Elezioni irrilevanti: dopo, avremo il solito Governo dei Proci
Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.«Un governo dovrà però esser formato in ogni caso, perché lo esigono i “mercati”(=lobby bancaria) come condizione per continuare a comperare i buoni del Tesoro», scrive Della Luna sul suo blog. Quindi, aggiunge, questo nuovo governo post-elettorale «lo si formerà grazie all’intervento dei soliti “responsabili” – forse mediante un’alleanza tra Berlusconi e Pd (=lobby bancaria), col sostegno di Mattarella, dell’“Europa” (=lobby bancaria), dell’Eurogruppo (=lobby bancaria), del Fmi (=lobby bancaria)». Morale: «E’ il trionfo dei Proci, che saccheggiano Itaca e il palazzo di Odisseo approfittando della sua assenza e tramando affinché non tornasse più sul trono». Tradotto: sarebbe «la cuccagna della partitocrazia italiana, di questi partiti consistenti in coalizioni di comitati di affari per il saccheggio delle risorse pubbliche». Mano libera, ai “Proci”, grazie a «due leggi elettorali incostituzionali di fila», nonché «un Parlamento eletto incostituzionalmente». Fattori che «garantiscono che il popolo non possa scegliere chi governa». E così, «la partitocrazia si ritrova in una situazione che neutralizza gli elettori e lascia pertanto le segreterie partitocratiche (=coordinamenti dei comitati di affari) padrone di negoziare tra loro stesse le più opportune e redditizie lottizzazioni».Tutto questo, aggiunge Della Luna, avverrà «sopra la testa della gente, creando governi servili agli interessi non-italiani dominanti in Europa e in generale in Occidente». Interessi, dice, a cui la palude italiana «continuerà ad appoggiarsi», per ottenere «sostegno e legittimazione», aspetti necessari a «portare avanti le sue pratiche ladresche e di svendita degli interessi nazionali». Se Della Luna non usa toni diplomatici, è difficile non convenire sulla serietà dei rischi che paventa: la Germania è alle prese con i primi incubi (il malessere incarnato da Afd per un’economia asimmetrica, votata all’export e basata sulla compressione di salari e consumi) ma per ora continua a dormire tra due guanciali, la Cdu e l’Spd, così come la Francia che – dopo il sedativo Hollande, strattonato dal super-potere oligarchico – ha scelto direttamente l’originale: Macron è un prodotto fabbricato in vitro e orgogliosamente rivendicato come tale dal suo padrino Jacques Attali, eminente supermassone reazionario, tra i massimi guru ispiratori dell’architettura neo-artistocratica, antipopolare e antidemocratica chiamata Unione Europea. E in questa situazione, con l’economia appesa ai diktat della Bce e della Bundesbank, l’Italia schiera Di Maio e Berlusconi, Salvini e Renzi, Bersani e D’Alema. Chi di loro arriverà a Palazzo Chigi? Non importa, è del tutto indifferente, sostiene Della Luna: per l’Italia non cambierà niente.Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.
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Messora: bei tempi, quando esisteva il Movimento 5 Stelle
«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».Le riunioni a porte chiuse? Atra «eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza»: per definizione «ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste». Democrazia diretta e strategie di palazzo? «Incompatibili a priori». Il titolo di “onorevole”, poi, «era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine». All’epoca, il capo politico non esisteva ancora: non lo era neppure Beppe Grillo. C’erano solo due garanti, Grillo e Casaleggio, «lungimiranti fondatori, che tenevano a freno le derive individualistiche di ragazzi catapultati all’improvviso nelle stanze del potere senza i necessari anticorpi, omaggiati e riveriti dai media e dalle associazioni di interessi». Erano i tempi in cui Casaleggio rimetteva alla rete ogni decisione, e la rete talvolta votava perfino contro a quello che avrebbe voluto lui, come nel caso della depenalizzazione del reato di clandestinità, continua Messora. «Il rispetto degli attivisti era non solo formale, ma sostanziale, e questo si traduceva in referendum online dagli esiti mai scontati e presentati con completezza di informazione. Anche perché gli attivisti di una volta, quelli che si erano scorticati la pelle delle mani nel corso di interminabili banchetti al freddo e al gelo, non avrebbero mai e poi mai accettato niente di meno».Erano i tempi in cui Grillo girava senza scorta per le strade di Roma, perché lui poteva permetterselo e se ne vantava. Oggi invece Di Maio «ha bisogno di girare circondato dalla security». Bei tempi, appunto, quando il Movimento 5 Stelle «provava a declinare in politica il suo retroterra antieuropeista e sovranista, antielitario e fieramente populista», come rivendicato dallo stesso Casaleggio, «il genio comunicativo» che spesso «stravolgeva ogni aspettativa e ribaltava la prospettiva». E lo stesso Grillo «scendeva a Roma chiamando il popolo in piazza Montecitorio, e i politici scappavano dal palazzo come topi in fuga, mentre le acque si facevano agitate e rombavano minacciose, facendo tremare i muri delle aule». Quelli, continua Messora, erano i tempi in cui il Movimento 5 Stelle era diverso da tutte le altre forze del sistema, da Bersani ai mostri di Bruxelles, «il peggio degli europeisti banchieri, artefici dell’austerity come l’Alde, in cui i 5 Stelle Europa volevano confluire sotto la sapiente guida di europarlamentari stimati da Mario Monti e ormai dimentichi della logica dei portavoce, ma sempre più calati nei panni del perfetto manovratore di palazzo».Quei tempi sono finiti, scrive Messora. «Oggi il Movimento 5 Stelle è un partito. Si comporta da partito. Ha i riti di un partito. Accentra il potere, come un partito. Ha i suoi servi, i suoi yes-men, i suoi adoratori, i suoi fan, la sua terminologia, i suoi giornalisti, come un partito. Ha perfino il culto della personalità del capo». E’ finita la spinta propulsiva, la voglia di rottura, «la narrazione dirompente, la creazione di un linguaggio differente, motivante, sferzante, con i suoi neologismi dissacranti». Si è esaurita «la componente di attivismo disinteressato e un po’ ingenuo, l’esaltazione dell’uguaglianza», che aveva attratto «intellettuali anticonvenzionali che rappresentavano visioni diverse e inascoltate sulla società, sulle tematiche ambientali, sul futuro». Tutto questo non esiste più, dice Messora: il Movimento 5 Stelle ha compiuto la sua metamorfosi. «Dal bozzolo è uscito un leader (termine che un tempo avrebbe procurato inguaribili allergie e insopportabili pruriti)», il quale «ha vinto primarie senza rivali, con risultati bulgari, che in ossequio all’era dei reality show hanno tuttavia beneficiato di una suspence artificiale, con tanto di musica da nomination del Grande Fratello». Poco seria, la faccenda: i vertici avevano già scelto Di Maio da tempo, «quindi la cosa più ragionevole da fare (e più onesta) sarebbe stata per il garante prendersi la responsabilità di proporre Di Maio e sottoporre il suo nome a una ratifica referendaria sul blog, da parte degli attivisti». Sempre meglio che una (finta) vittoria, senza concorrenti.Nel sogno della diversità, i primi “grillini” ci avevano creduto «quando tutti gli altri li prendevano in giro». E avevano combattuto contro qualunque pregiudizio perché erano davvero affascinati «dalla purezza cristallina di un’idea coraggiosa e sfrontata», ed erano riusciti a coinvolgere con il loro disinteressato entusiasmo ben 9 milioni di elettori «che nulla sapevano dei Cinque Stelle», ma avevano «interiorizzato solo un grande, immenso vaffanculo». Alla fine di questa metamorfosi, ecco dunque un partito in pole position nei sondaggi: un partito leaderistico, «nato pescando nelle ideologie di sinistra, così come nel serbatoio di elettori delusi a destra», ma che ora – rinnegato Farage con la sua Brexit e sfatato il mito dell’accoglienza tout court dei rifugiati – si è «riposizionato con nonchalance al centro, lontano dagli estremi e in corsa per Palazzo Chigi con il beneplacito della Chiesa, del potere transazionale della Trilaterale (Monti, Napolitano & Co), delle lobby, dell’establishment americano in cui il Cinque Stelle è di casa, dei circoli europeisti di Bruxelles, della finanza internazionale e dei mercati, cui Di Maio si è appellato personalmente».Ma attenzione, continua Messora: è un partito che non ha segreterie né strutture dirigenziali, non ha correnti ma neppure regole, non ha tempi certi per sostituire il capo politico, che può decidere candidature ed espulsioni. Un partito ibrido, «dove tutti sono d’accordo perché gli altri per definizione sono già stati espulsi», e molti di quelli che avevano remore e hanno pensato per lungo tempo di esternarle «ora sorridono sul palco dietro a Luigi che abbraccia Beppe, come se fossero tutti una grande famiglia da Mulino Bianco». Ma dov’è la democrazia, cioè la facoltà di dissentire? «Poi il risultato sono primarie che assomigliano più a un sorteggio di Champions, dove in un girone da una parte c’è la Juventus e dall’altra tre squadrette dell’oratorio». Di certo, concede Messora, «non ci troviamo di fronte a una forza politica peggiore del Pd, di Forza Italia, della Lega e di tanti altri soggetti che da lungo tempo calcano il palcoscenico istituzionale».Magra consolazione: questo nuovo partito «non ha ancora avuto modo di fare i danni che i vecchi partiti hanno certamente e incontestabilmente apportato al tessuto sociale, produttivo ed economico del paese». E’ vero, il nuovo “partito” 5 Stelle non ha un solido programma alternativo. Però «non lo si può accusare di essere responsabile delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, delle cessioni di sovranità, della sottomissione ai mercati, della distruzione del tessuto produttivo e della domanda interna, della ratifica del pareggio di bilancio, del Fiscal Compact, del Mes». Tutte «disgrazie», aggiunge Messora, che il partito ora capeggiato da Di Maio «ha finora dimostrato di non avere compreso e alle quali non sembra intenzionato a porre rimedio». E questo è l’aspetto di gran lunga più preoccupante: gli ex “ribelli” pentastellati non si impegnano contro il vero nemico, nemmeno lo vedono. O fingono di non vederlo, che è ancora peggio.«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».
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Conditi: moneta fiscale, e usciamo dalla crisi in 100 giorni
Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.Siamo una delle nazioni al mondo più ricche di risorse materiali, con un patrimonio artistico, culturale ed ambientale che tutti ci invidiano, ma soprattutto abbiamo risorse umane di qualità, perché abbiamo cultura, capacità, genio ed inventiva come nessun’altra popolazione al mondo. Tuttavia, siamo incapaci di trovare l’unica risorsa che può essere creata dal nulla senza alcun problema: i soldi. Supponiamo che ci sia un governo illuminato che voglia seguire la nostra strada, questi dovrebbero essere gli interventi legislativi nei primi cento giorni: 1) Istituire una moneta fiscale elettronica chiamata Sire, che gira su un circuito fiscale indipendente dalle banche, che fa capo al ministero dell’economia e delle finanze. Stampa anche biglietti di Stato in Sire e monete metalliche da 5 e 10 euro in Sire. Essendo materia fiscale, né la Bce né l’Ue possono dire niente; l’importante è che siano ad accettazione volontaria e utilizzabili per pagare le tasse.2) Lo Stato diventa istituto di moneta elettronica come prevede l’articolo 114/bis del Tub (Testo unico bancario), per cui con la stessa carta di credito fiscale posso anche effettuare pagamenti in euro, magari con tecnologia blockchain. 3) Riprendere il pieno controllo della Banca d’Italia da parte dello Stato, procedendo al rinnovo delle cariche direttive e riacquistando le quote di partecipazione attualmente detenute da privati, per rispettare quanto previsto dall’articolo 47 della nostra Costituzione. 4) Procedere al consolidamento dei titoli di debito pubblico dello Stato attualmente detenuto da Banca d’Italia, circa per 400 miliardi di euro, in modo che il famigerato rapporto debito/Pil possa scendere vicino al 100%. 5) Creare un sistema di banche pubbliche sul modello tedesco, nazionalizzando ed acquisendo il controllo di quelle in difficoltà, trasferendo tutte le sofferenze che gravano sul settore bancario presso la Banca d’Italia.6) Disporre il pagamento immediato di tutti i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle aziende private e finanziare, con denaro creato direttamente dallo Stato, il sostegno ai cittadini in difficoltà, la ricostruzione del terremoto, gli investimenti produttivi ed innescare lo sviluppo economico in tutti i settori strategici dell’economia reale. Mentre diventano operativi questi 6 punti, viene contemporaneamente inoltrata, al Parlamento Europeo e alla Corte di Giustizia Europea, una denuncia per il mancato rispetto dei Trattati da parte della Bce e della Commissione Europea, citando nello specifico gli obiettivi dell’articolo 3 del Tue (Trattato sull’Unione Europea) e dell’articolo 127 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), oltre a tutte le altre norme a favore degli Stati che non sono state rispettate: l’accusa è di aver adottato politiche monetarie solo a favore di banche e mercati finanziari, mentre i Trattati hanno ben altri obiettivi.Nell’eventualità la Bce adottasse provvedimenti di blocco del sistema bancario, tenere pronto un decreto legge con il quale trasformare il sistema “fiscale” Sire, già utilizzato negli scambi, in un sistema monetario vero e proprio, dichiarandone la validità a corso legale e l’accettazione obbligatoria. In questo caso si usce dall’euro, ma senza traumi e con un sistema monetario pronto e già funzionante. Parleremo di questo e di molto altro a Roma il 9 ottobre 2017, presso il VII Municipio in un incontro pubblico con Nino Galloni e Paolo Tintori. Siete tutti invitati. Perchè se vogliamo davvero un cambiamento radicale e profondo delle politiche economiche e monetarie, dobbiamo aumentare la consapevolezza di tutti su questi temi fondamentali ed essere capaci di immaginare un sistema diverso, altrimenti saremo noi stessi un freno al cambiamento. Ho anche realizzato 6 video brevissimi e chiari, che potete trovare sul mio profilo pubblico su Facebook da condividere con i vostri amici.(Fabio Conditi, “Come risolvere la crisi in soli 100 giorni”, da “Come Don Chisciotte” del 17 settembre 2017. Conditi è presidente dell’associazione “Moneta Positiva”).Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.
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Oltre l’agonia: potere totalitario, ma non vincerà per sempre
«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».Prima di spingere lo sguardo “oltre l’agonia”, Della Luna punta al cuore di tenebra del mostro che sta sfigurando l’Italia, mezza Europa e il resto del mondo: «Con il pretesto di dover assicurare a tutti i costi la governance richiesta dagli stessi mercati che hanno destabilizzato la società», il neo-totalitarismo finanziario «crea la giustificazione per controllare la vita sociale attraverso nuovi strumenti elettronici e biologici, che tracciano, violano e manipolano l’uomo fin nella sua integrità neurofisiologica». Socché, questa “società gestita”, pilotata dall’alto, «è il risultato dell’applicazione degli strumenti della psicologia aziendale», potenziati con tecniche di manipolazione derivati dalle neuroscienze. Questa raffinata tecnologia «ha dato ai governanti non solo un potere di controllo e intervento su tutti noi prima impensabile, ma anche una nuova struttura del potere stesso». Una struttura «delocalizzata e politicamente irresponsabile, in cui l’automazione e la smaterializzazione degli strumenti di governo e di arricchimento hanno privato le persone del potere di contrattazione e della partecipazione ai processi decisionali, relegandole al margine dei circuiti produttivi e decisionali».Questo processo ha generato «un ordine contrario ai bisogni dell’uomo e della biosfera, cementato da un catechismo ideologico “politicamente corretto” che criminalizza, censura e inibisce chi ne critica i fondamenti». Di fatto, «siamo piegati dalle crisi incalzanti e dalle loro imposizioni, e così accettiamo che la sopravvivenza del sistema produttivo da cui dipendiamo necessiti di un maggior controllo sociale, di una crescente riduzione delle sicurezze personali, delle relazioni comunitarie e delle libertà». Il capitalismo finanziario, poi, «alimenta il falso dogma della scarsità della moneta e sta diventando sempre più una guida politica assoluta». Oltre a mercificare l’uomo, questo super-potere apolide «disgrega e degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e dissolve le sue basi morali in una logica di competizione individualistica». Nel libro, Della Luna descrive questo minaccioso passaggio epocale, in cui l’umanità sta rischiando tutto. Per contro, l’autore indica una possibile via di uscita dall’incombente dominio tecnocratico: risiede, per forza di cose, «nella stessa insondabile e incoercibile complessità del mondo, della psiche, dell’Essere».(Il libro: Marco Della Luna, “Oltre l’agonia. Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari”, Arianna Editrice, 160 pagine, euro 9,80).«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».
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Morte lenta, fine dell’Italia. Dopo i partiti arriverà Draghi?
Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.Eppure, il nostro paese sta attraversando la peggiore crisi dall’Unità: la vituperata epoca giolittiana fu un periodo roseo a confronto, la Grande Depressione inflisse meno danni al tessuto produttivo, il secondo dopoguerra fu meno traumatico grazie alla conservazione dell’apparato industriale pubblico e dei quadri dirigenziali formati durante il Ventennio fascista. Mai capitò che il nostro paese perdesse in tempo di pace il 10% del Pil, il 25% della base industriale e subisse il crollo demografico che stiamo sperimentando oggi. Per non parlare della crisi bancaria che sta corrodendo il nostro sistema finanziario (circa 200 miliardi di euro), della perdita delle poche grandi imprese operanti nei settori strategici (dalle auto alle telecomunicazioni, dal cemento all’alimentare, dal lusso alla banche) e della crisi migratoria che riversa su un paese già esausto ondate di 150.000-200.000 diseredati all’anno. L’Italia sta pagando a carissimo prezzo la sua “doppia perifericità” geopolitica: periferica rispetto al nocciolo dell’Unione Europea e collocata ai limiti meridionali della Nato, il nostro paese incassa i pesantissimi costi della prima e della seconda.Di fronte a questo foschissimo scenario, la politica ha perso ormai da anni qualsiasi iniziativa. Artefice e complice delle scelte che hanno portato l’Italia verso il baratro, la nostra classe dirigente si adopera da anni per allungare il più possibile lo status quo, conscia che uno stravolgimento degli assetti attuali comporterebbe anche la sua scomparsa. Nell’ordine abbiamo prima assistito alla meteora del “tecnico” Mario Monti (2011-2013), che ha somministrato all’Italia massicce (e letali) dosi di austerità e svalutazione interna; poi alla meteora di Matteo Renzi (2014-2016), “l’ultima speranza dell’élite italiana”, che avrebbe dovuto proseguire le “riforme strutturali” con un piglio dinamico e giovanile; nel frattempo si è consumato il boom ed il successivo sgonfiamento (2013-2017) del Movimento 5 Stelle, studiato per catalizzare e neutralizzare la montante protesta sociale, assolvendo così la funzione di “stampella del potere” dell’establishment.L’impotenza della nostra politica è perfettamente fotografata dal sistema elettorale. La Seconda Repubblica, sinonimo di moneta unica ed Unione Europea, nasce col maggioritario, il cui scopo è quello di garantire a formazioni politiche minoritarie nel paese (che siano di sinistra o di destra) di attuare quelle riforme utili ad “agganciarci” all’Europa ed a farci “restare” in Europa. Il culmine di questo processo si ha, non a caso, nella fase terminale dell’eurocrisi: è la riforma costituzionale di Matteo Renzi, riforma con cui un partito che riscuotesse il 25% dei consensi avrebbe ottenuto la maggioranza della Camera. Fallito il tentativo, stiamo assistendo ad un impetuoso reflusso in senso opposto: abbandonati i sistemi iper-maggioritari, si lavora per reintrodurre il vecchio proporzionale della Prima Repubblica. Per la politica italiana è l’implicita ammissione della sconfitta, quasi una resa incondizionata: i partiti neanche più pensano ad un’alternanza studiano soltanto come sopravvivere, compattandosi in Parlamento come i superstiti di una battaglia persa.Di fronte a questo osceno spettacolo offerto dalla politica, la reazione degli italiani, piegati da disoccupazione e povertà record (7 milioni di disoccupati ed inattivi1 e 4,5 milioni in povertà assoluta2) è essenzialmente una: repulsione. In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è storicamente alta, l’astensione dilaga a ritmi sostenuti: 42% di astenuti alle europee del 2014, 48% alle regionali del 2015, 50% al secondo turno delle comunali del 2016, 54% al secondo turno delle recenti comunali. Constato l’immobilismo o la complicità della politica rispetto alle molteplici crisi che affliggono il paese, preso atto del bluff del Movimento 5 Stelle (si vedano le disastrose amministrazioni Raggi ed Appendino, ma soprattutto i voltafaccia sul tema Unione Europea), non rimane altro che rifugiarsi nel non voto. Tra i cittadini e gli organi rappresentativi si scava, anno dopo anno, un fossato profondo quanto l’astensionismo. Se la maggioranza degli elettori disertano le elezioni, significa che il 50% più uno ha espresso la propria fiducia verso le istituzioni “democratiche”.I media, in occasione delle ultime amministrative, hanno parlato di ritorno “alle vecchie coalizioni” ed hanno letto nell’affermazione del centrodestra il segnale di un imminente svolta a livello nazionale: il pendolo dell’alternanza, dopo cinque anni a sinistra, starebbe spostandosi a destra. In realtà l’unico dato utile è quello relativo all’affluenza, sintomo che l’interno meccanismo “democratico” è guasto. Proiettando i dati delle ultime comunali sulle prossime politiche e togliendo il “filtro” del doppio turno, si ottiene una buona rappresentazione del futuro Parlamento: un’istituzione delegittimata dall’astensionismo record, spappolata in un inconcludente tripartitismo, costretta, come nella Spagna di Rajoy, ad instabili governi di minoranza. Né il duo Renzi-Berlusconi avrebbe infatti i numeri per governare, né il M5S accetterebbe ormai di sorreggere una coalizioni di sinistra. L’unico obiettivo della prossima legislatura sarà, quasi certamente, il varo di una qualche legge elettorale che consenta a Mario Draghi di assumere la Presidenza del Consiglio allo scadere del mandato di governatore della Bce, nell’ottobre 2019.Nel frattempo, però, il quadro macroeconomico si sarà deteriorato col rialzo generalizzato dei tassi delle banche centrali mondiali: l’apparente quiete che regna oggi sui mercati finanziari sarà sostituita da uno tsunami che coglierà la nave-Italia senza timoniere, già provata da un decennio di crisi sociale ed economica, portando ai limiti la capacità di tenuta del nostro paese. In questo scenario, la democrazia parlamentare italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivere: come nella Francia di De Gaulle o nella Russia di Putin, sarà inevitabile una concentrazione verticale del potere, per impedire che le forze centrifughe prendano il sopravvento e gettino il paese nel caos. Il parlamentarismo italiano, già agonizzante oggi, è destinato ad essere spazzato via dalla tempesta che si profila all’orizzonte. Un dibattito costruttivo non dovrebbe quindi focalizzarsi sulla tenuta o meno delle nostre istituzioni parlamentari, perché il loro tramonto è pressoché inevitabile, ma sulle forme con cui rimpiazzarle e sulle forze politiche che colmeranno il vuoto lasciato dagli attuali partiti prossimi alla scomparsa. L’anno zero per l’Italia (e l’intero Occidente) si avvicina rapidamente: l’incertezza sarà altissima ed i pericoli altrettanto grandi, ma le forze vive del paese avranno almeno l’occasione di riplasmare lo Stato a loro immagine e somiglianza.(Federico Dezzani, “L’Italia e l’irreversibile crisi del parlamentarismo”, dal blog di Dezzani del 29 giugno 2017).Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.