Archivio del Tag ‘media’
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Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati
L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.(Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
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Tumori: le città Usa contro il wireless 5G, in arrivo in Italia
America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.Tradotto: irradiazioni di microonde millimetriche ovunque, non più solo dalle stazioni radio sui tetti dei palazzi (in Italia già 60.000) ma anche dai vecchi pali della luce «riconvertiti in ubiquitari Wi-Fi, uno ogni poche decine di metri, ovunque». Enel X, aggiunge “Terra Nuova”, ne ha annunciati poco meno di 2 milioni, distribuiti nei su 3.300 Comuni italiani. Con quali effetti per la salute? «Le prime evidenze che stanno venendo fuori dalla sperimentazione del 5G sono abbastanza preoccupanti», sostiene Agostino Di Ciaula, presidente di Isde-Italia (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, che ha già chiesto al governo Conte – inutilmente – una moratoria, per il nostro paese». Secondo Di Ciaula, «sono state segnalate alterazione dell’espressione genica, effetti sulla cute, effetti sulla proliferazione cellulare, sulla sintesi di proteine, sui processi infiammatori». Dati di fatto «ormai consolidati», secondo Di Ciaula: «Le onde elettromagnetiche ad alta frequenza causano effetti biologici soprattutto in termini di plesso ossidativo, che è alla base di numerose patologie croniche e dello stesso cancro». L’esposizione a onde come quelle fel 5G può danneggiare l’estensione del genoma e causare rischi in termini di fertilità, oltre che conseguenze neurologiche.«Ci sono numerosissime evidenze che documentano danni nello sviluppo, comportamentali, persino danni metabolici», aggiunge Di Ciaula. Sull’ipotesi di revisione da parte dell’Oms sulla “cancerogenesi da elettrosmog”, lo stesso Isde puntializza: «Il cancro è una evenienza che sembra molto probabile, ma è soltanto la vetta dell’iceberg». Secondo “Terra Nuova”, sono troppe le cose non dette, in materia: «Tra l’imbarazzante silenzio di amministratori locali, istituzioni regionali, politica e governo nazionale – non a caso anche mainstream e stampa faticano a informare l’opinione pubblica sullo scontro (titanico) in atto tra i massimi organismi di controllo sanitari del mondo – l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dovrà esprimersi sulla richiesta di revisione nella classificazione della radiofrequenze tra gli agenti cancerogeni». Secondo il newsmagazine ecologista, sarà un “terremoto” per il business 5G se la connessione elettrosmog-salute passerà dall’attuale livello (Classe 2B) alla Classe 2A o addirittura alla Classe 1, venendo cioè elevata da “possibile” a “probabile”, se non addirittura “certo” agente cancerogeno.La partita, aggiunge “Terra Nuova”, s’è riaperta proprio in questi giorni, con i risultati degli studi americani del National Toxicology Program e dell’Istituto Ramazzini di Bologna, bollati però come «non convincenti» dalla Commissione Internazionale per la Tutela dalle Radiazioni non Ionizzanti (Icnirp), che li ha definiti «studi che non forniscono un corpus di prove coerenti, attendibili e generalizzabili che possano essere utilizzate come base per la revisione delle attuali linee guida sull’esposizione umana». Sono davvero necessarie ulteriori ricerche? Non s’è fatta attendere la risposta degli scienziati chiamati in causa, «spartiacque in un’invisibile lotta tra negazionisti e precauzionisti che già in passato s’è macchiata di anomalie, scandali e conflitti d’interesse». Un’ombra che, secondo “Terra Nuova”, ancora oggi grava sulla tesi di quanti – anche davanti l’evidenza negli aggiornamenti e del numero degli “elettrosensibili” in crescita – si ostinano a considerare solo gli effetti termici (escludendo danni biologici da elettrosmog).«I nostri studi sono stati ben eseguiti e senza pregiudizi sui risultati», assicura Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca condotta per il Ramazzini: si tratta dell’indagine attualmente più importante al mondo, non finanziata dalle lobby del wireless né da privati, ma da enti pubblici. Dieci lunghi anni di studi e test, condotti su cavie “uomo-equivalenti”, che hanno permesso di riscontrare «gravi tumori maligni al cervello», oltre che l’insorgenza di infarti cardiaci. Ora, certo, la sanità pubblica dovrà valutare lo studio e trarne le conclusioni: il ruolo degli scienziati “finisce” nel momento in cui alle autorità si forniscono i dati accertati, che in questo caso rivelano la presenza di un rischio concreto e allarmante. «La sottostima delle prove dei biotest sui cancerogeni e i ritardi nella regolamentazione – osserva la dottoressa Belpoggi – hanno già dimostrato molte volte di avere gravi conseguenze, come nel caso dell’amianto, del fumo e del cloruro di vinile». La posizione ultra-prudente dell’Icnirp? Per Fiorella Belpoggi si commenta da sé, visto che sottovaluta gli evidentissimi rischi per la salute dei cittadini.America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.
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Giulietto Chiesa: m’ero sbagliato, in Russia la gente soffre
Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.Beninteso: non è mai stato facilissimo il rapporto tra Giulietto Chiesa e la Russia, neppure ai tempi dell’Unione Sovietica. «Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia del Cremlino, la “Tass”, per ottenere la rimozione del corrispondente italiano, ritenuto scomodo (e difeso invece con ostinazione da Berlinguer, il segretario del Pci che l’aveva scelto come giornalista da inviare a Mosca). Caduta l’Urss, dopo tanti saggi sull’ex impero sovietico, oggi Giulietto Chiesa ammette: purtroppo ho visto in ritardo i problemi che affliggono i russi, alle prese con una politica interna non all’altezza della politica estera brillantemente svolta da Putin. A richiamarlo sul tema, scrive lo stesso Chiesa su “Megachip”, è un’affezionata lettrice, russa, che gli scrive dalla Russia “profonda”, dove non è mai arrivato il recente benessere di Mosca e San Pietroburgo. «Non metto la sua firma, per la sua sicurezza, né il luogo dove abita». Una premessa poco rassicurante: dimostra che il dissenso politico, in Russia, è tuttora pericoloso. «Credo che le cose che lei mi dice siano purtroppo vere», premette Chiesa, «come lo sono i processi degenerativi anche da noi». E’ delusa, la lettrice russa, dall’ultimo intervento del giornalista a “Radio Padania”, che l’ha resa «molto triste». Motivo: «Mi sono resa conto – gli scrive – di come il tuo giudizio sulla Russia intera sia influenzato da ciò che vedi a Mosca. E anche di quanto questa Mosca benestante sia completamente disinteressata a ciò che succede nel resto del paese».I nuovi intellettuali democratici citati da Chiesa a “Radio Padania”? «Io non so nulla di questa nuova generazione di intellettuali – aggiunge la donna – perché il nostro eroe principale, da queste parti, è il delinquente marginale, che ruba e non fa niente di niente. E le leggi lo difendono». Non solo: grazie a questa “esemplare” impunità, aggiunge la lettrice, si forma la nuova generazione che appare allo sbando. «Vorrei che tu vedessi e sentissi come ragazzi e ragazze, giovanissimi, parlano tra loro, con un linguaggio dove altro non c’è che la più bassa volgarità. Perché non conoscono altro linguaggio che quello». Tutto ciò, aggiunge la donna, «mentre le persone normali sono ormai minoranza, e per loro non esiste alcun ordine pubblico, nemmeno l’elementare sicurezza, poiché chiunque voglia può infierire su di loro». Soprattutto, continua la lettera, «non c’è all’orizzonte alcuna prospettiva, non c’è luogo o occasione dove ognuno possa impiegare le sue forze e energie intellettuali. Non c’è posto per realizzare semplicemente il proprio desiderio di fare qualche cosa che abbia un senso, un’utilità, per la quale sacrificare se stessi». E questo, assicura, non accade soltanto nella sua piccola città: «Anche nel capoluogo più vicino alla piccola città in cui vivo è difficilissimo incontrare qualcuno che riesce a trovare un posto di lavoro che corrisponda alle sue capacità e alla sua professione. Io, per lo meno, di queste persone non ne conosco nemmeno una. Avverto perfino fisicamente come nella società crescono la stanchezza e l’insofferenza. Nessuno è però in grado di esprimere l’una e l’altra cosa in forme civilizzate».Un esempio italiano? La lettrice russa cita il ministro Toninelli, che ha parlato della “nostra infelice Italia”. «Ti risulta che qualcuno del nostro governo abbia mai pronunciato qualcosa di simile alla “nostra infelice Russia”? Da noi si sentono soltanto lodi sperticate di grandi successi», scrive la donna. «La gente, in Occidente, può manifestare e protestare, mentre da noi non può. Forse perché non abbiamo idea di cosa sia la società civile, o forse semplicemente per la sensazione che “tutto è inutile, e che in ogni caso loro faranno come gli pare”». Negli ultimi tempi, poi, «l’insofferenza si va dirigendo non solo contro i burocrati in generale ma anche contro Putin (al quale in un certo senso molto veniva perdonato, anche perché da noi è ancora forte l’esigenza di uno “zar buono”)». Il dissenso è tale che «può accadere qualche cosa di imprevisto e terribile». Una profezia, confidata a Chiesa: «Probabilmente tu non mi crederai se ti dico che Putin non resterà al suo posto fino alla fine del mandato». La donna manifesta «una grande paura». Teme cioè che la Russia «non sopravviva a un’altra rivoluzione». E conclude con un appello, ben poco ottimistico, alla divina provvidenza: «Che Dio non ci costringa a essere testimoni della rivolta russa, insensata e senza pietà».A tanta franchezza, Giulietto Chiesa replica senza giri di parole: «Cara amica, penso che la tua descrizione dei fatti sia purtroppo molto vicina alla realtà». Ma, aggiunge, «non so se lo siano anche le tue previsioni circa il futuro». E spiega: «Per quel poco che so del popolo russo, penso che il “bunt”, la rivolta, sia molto lontana. La vostra pazienza secolare ha impedito che essa si affacciasse molte volte». Di “bunt”, Giulietto Chiesa assicura di averne visto uno solo: quell’immensa protesta di popolo, a Mosca, nell’ottobre 1993, che precedette il bombardamento del Parlamento (la Casa Bianca) deciso da Boris Eltsin, «con il successivo massacro di cui nessuno parlò». E anche allora, «per quanto immensa fosse quella folla, la rivolta non andò a finire bene». Ma non c’è nessun dubbio, ammette Chiesa, che la politica interna della Russia stia andando assai male, «come non c’è dubbio che la distanza tra l’élite moscovita e pietroburghese e le masse popolari sia in crescita geometrica». Non c’è dubbio, aggiunge Chiesa, «che la corruzione sia dilagante, che la solidarietà sia in calo verticale», e che la cultura «stia degradando, così come l’istruzione». Non c’è alcun dubbio, insomma, «che la fiducia dei cittadini nelle istituzioni dello Stato sia ormai logorata». Il motivo? «La democrazia non ha fatto passi avanti rispetto al momento in cui iniziò la Perestrojka, sollevando grandi speranze in milioni di persone», come lo stesso Chiesa potè vedere con i suoi occhi.«Ma questo distacco dalle masse, che il potere non fa nulla per riempire – aggiunge il giornalista – è, anche per me, fonte di grande preoccupazione». Giulietto Chiesa pensa che la Russia, se vuole risolvere i suoi problemi, «debba in qualche modo essere di esempio al resto del mondo». Ovvero: «Debba, in primo luogo, ridurre la disuguaglianza sociale, impedire che la degenerazione consumistica e intellettuale, e morale, entri nel suo corpo con gli effetti devastanti», peraltro identici – in questo senso – a quelli che stanno investendo tutto l’Occidente. Nello stesso tempo, aggiunge, «io so qual è il peso mondiale della Russia». Sa bene, Chiesa, «qual è stato in questi anni il ruolo di pace che, con Putin, essa ha svolto». Per questo, ribadisce, continua ad appoggiare «la ragionevolezza delle sue prese di posizione, politiche a pratiche». Una precisa visione geopolitica: «Penso che, senza la Russia e il suo ruolo deterrente, il mondo sarebbe già assai più vicino a una guerra gigantesca e definitiva». E tuttavia, ammette Chiesa, il suo consenso rispetto al Cremlino «finisce sui confini della politica estera della Russia», dal momento che «il sistema sociale che è emerso dalla contro-rivoluzione etsiniana è stato un gravissimo passo indietro, al quale fino ad ora non è stato posto rimedio».Sempre secondo Chiesa, «la democratizzazione, nelle forme “russe” che essa non potrebbe non avere (non certo scimmiottando la democrazia “elitaria” che oggi domina l’Occidente) sarebbe indispensabile per ricostruire un rapporto decente tra dirigenti e diretti, e per aiutare il formarsi di una società civile moderna, da cui emergerebbero forze intellettuali e morali», oggi assenti nella Russia “profonda” descritta dalla lettrice. Non ha paura, Giulietto Chiesa, di sottoscrivere la più sincera delle ammissioni: «Credo, per quanto mi riguarda, di essere involontariamente caduto – raccontando la Russia in questi ultimi anni – nell’errore che invece non commisi durante i miei venti anni come corrispondente dall’Urss e poi dalla Russia: quello di pensare che la “vetrina” corrispondesse al paese». Non è così, scrive Chiesa: la “vetrina” non è lo specchio fedele della Russia. «Penso di aver commesso questo errore – aggiunge – confondendo e mettendo sullo stesso piano due cose assai distinte», come appunto «la politica estera e quella sociale interna». E cioè: «Volendo sostenere la prima posso avere dato l’impressione di appoggiare anche la seconda. Con questa mia risposta pubblica – conclude – intendo ristabilire la differenza».Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.
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Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo
Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.
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Carpeoro: sappiate che i massoni hanno una marcia in più
Quando facevo l’avvocato feci processare il responsabile italiano di Scientology, che poi altro non è che l’ennesima deviazione negativa della massoneria: perché Ron Hubbard era un 33esimo grado del Rito Scozzese, ahimè. È come quando ti iscrivi a un Gran Premio: magari hai la Ferrari, ma non è detto che – solo per questo – tu sia meritevole di vincere la gara. Il problema è che la massoneria ti dà degli strumenti mentali e dottrinali: è come una Ferrari. Poi però dipende da come li usi. Hubbard era una persona di rara intelligenza e astuzia, e anche di rara creatività – era pure un ottimo scrittore di romanzi di fantascienza – ma con quella “Ferrari” ha costruito una specie di piramide del male. È normale: ma la colpa non è della massoneria, è del progetto. Ognuno di noi ha un progetto di vita, anche Vallanzasca aveva il suo. E il progetto non dipende certo dalla massoneria. Ma tu, se ti avvicini alla massoneria, puoi utilizzarla come strumento per il tuo progetto. E non solo dal punto di vista pragmatico: sei favorito dal punto di vista della formazione dottrinale e mentale, nel senso che hai comunque una marcia in più. Perché la dottrina della massoneria, se studiata bene, ti dà mentalmente una marcia in più.Se ne facciano una ragione, quelli che pensano che la massoneria sia solo una “fabbrica” di raccomandazioni. C’è anche quella, naturalmente: le logge sono piene di avvocati in cerca di incarichi, e di impresari edili in cerca di appalti. Ma la massoneria è stata anche frequentata fa grandi avvocati e da insigni costruttori (ci sono ancora, ma purtroppo nella massoneria attuale sono una minoranza). A monte, però, è la struttura mentale che esce in maniera molto rafforzata, dall’attività che si svolge in loggia. La mente diventa più funzionale, più efficace. E chi è più strutturato, mentalmente, finisce per essere ovviamente favorito, nelle normali competizioni della vita umana. Se poi il suo è un progetto indirizzato al bene, non c’è niente di male nel fatto che uno sia favorito; se invece un progetto è indirizzato al male, come quello di Ron Hubbard, allora qualcosa di male c’è. Si tratta sempre, comunque, si utilizzare strumenti. E c’è una distorsione ricorrente, in base alla quale si ritiene che gli strumenti della massoneria siano inaccessibili. Non è così: anziché guardare sempre lo stesso filmaccio francese degli anni Trenta, che sulla massoneria dice un sacco di cretinate, basta guardare i tanti documentari, seri, che oggi parlano della massoneria. Uscite, per cortesia, dagli stereotipi, perché gli stereotipi non fanno mai bene.Ormai, tutto quello che era pubblicabile, sulla massoneria, è stato pubblicato. Quindi, un non-massone che sa studiare e che sa adoperare il cervello, acquisisce gli stessi strumenti mentali di un massone. Cosa impara, esattamente come i massoni? La simbologia. La massoneria sa che lo studio dei simboli è la strada maestra. Ma non è necessario essere massoni, per acquisire certi strumenti mentali. Basta leggere i libri che spiegano l’architettura simbolica, le costruzioni, la tradizione, la cultura egizia. Sono i libri che dovrebbero studiare i massoni, appena entrano in massoneria, perché questi libri poi ti danno modo di decodificare tutto quello che leggerai in seguito, nella vita. Io ho scritto un’opera di duemila pagine, sulla simbologia: si chiama “Summa Symbolica”, e i primi due volumi già usciti stanno continuando a vendere benissimo. Già quei libri lì, secondo me – anche se non dovrei essere io a dirlo, dato che “ogni scarrafone è bello a mamma sua” – danno degli strumenti. Sono strumenti mentali generici, universali, non per forza specifici degli appassionati di simbologia. Perché il simbolo è tutto: è la decodifica di tutta la realtà. E un libro che ti dà strumenti di decodifica della realtà è utile, se è fatto bene (se invece il mio è fatto male, lapidatemi).Questi strumenti, la simbologia te li offre comuque, a prescindere dal fatto che uno sia massone o no (se è idiota non ce la può fare: massone o meno, quando uno non ci arriva, non ci arriva). Perché far parte oggi della massoneria? Be’, la frequentazione del tempio e la ritualità che vi si svolge può anche farti stare bene: finisci per frequentare persone che, teoricamente, hanno la tua stessa struttura mentale. Ed è un’agevolazione, rispetto al dover frequentare solo persone e non capiscono nulla di quelle cose. L’estrema sintesi nell’esposizione dei concetti è un fondamento della massoneria, ma anche del corretto pensiero simbolico, del corretto modo di pensare umano.Certo, sarebbe bello se la massoneria fosse ancora così: non lo è più, quasi ovunque. E in questo momento non vedo grosse differenze tra il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia degli Alam. In base ai luoghi e ai tempi, ci può essere stata rivalità oppure reciproco riconoscimento tra gli adepti del Rito Scozzese e quelli del Rito di York. Quello di York è ispirato alla tradizione anglosassone, l’altro a quella scozzese. E siccome queste due realtà in Gran Bretagna si sono anche fatte una guerra, quella delle “due rose” (Lancaster e York), se si va a studiare l’attuale momento storico si trovano delle risposte, sulle differenze tra i due riti. La massoneria neo-aristocratica che infiltra la politica? Ha legami un po’ con tutti i partiti. Definirla “aristocratica” però è improprio: è una massoneria aristocratica familistica e oligarchica. Se fosse solo aristocratica sarebbe quasi un complimento (ariostòs significa “migliore”). Invece, quella neo-aristocratica è una massoneria familistica e oligarchica, che quindi si traduce in qualcosa di reazionario, che mi vede fiero oppositore.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 30 settembre 2018, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Autore di saggi e romanzi, Carpeoro è stato a capo della più storica tradizione massonica italiana del Rito Scozzese, da lui stesso auto-disciolta. Pur rivendicando la sua identità massonica – 33° grado – e difendendo l’utilità culturale della dottrina esoterica trasmessa mediante iniziazione, negli ultimi anni Carpeoro si è distinto per la sua forte polemica contro le obbedienze massoniche, a suo parere degradate a mero strumento di potere, senza più neppure la memoria del vero significato della ritualità tradizionale. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, ha indicato la matrice massonica – e non islamica – del “neoterrorismo” europeo targato Isis, messo in relazione con settori dell’intelligence atlantica. E l’anno seguente, nel saggio “Il fascio, il compasso e la mitra”, Carpeoro ha svelato il ruolo della massoneria laico-progressista nell’ascesa del primo Mussolini, nel cui iniziale “sansepolcrismo” le logge vollero vedere elementi di socialismo, salvo poi “divorziare” dal Duce divenuto anti-massonico per compiacere il Vaticano, nell’evoluzione clerico-fascista del regime che condusse ai Patti Lateranensi).Quando facevo l’avvocato feci processare il responsabile italiano di Scientology, che poi altro non è che l’ennesima deviazione negativa della massoneria: perché Ron Hubbard era un 33esimo grado del Rito Scozzese, ahimè. È come quando ti iscrivi a un Gran Premio: magari hai la Ferrari, ma non è detto che – solo per questo – tu sia meritevole di vincere la gara. Il problema è che la massoneria ti dà degli strumenti mentali e dottrinali: è come una Ferrari. Poi però dipende da come li usi, quegli strumenti. Hubbard era una persona di rara intelligenza e astuzia, e anche di rara creatività – era pure un ottimo scrittore di romanzi di fantascienza – ma con quella “Ferrari” ha costruito una specie di piramide del male. È normale: ma la colpa non è della massoneria, è del progetto. Ognuno di noi ha un progetto di vita, anche Vallanzasca aveva il suo. E il progetto non dipende certo dalla massoneria. Ma tu, se ti avvicini alla massoneria, puoi utilizzarla come strumento per il tuo progetto. E non solo dal punto di vista pragmatico: sei favorito dal punto di vista della formazione dottrinale e mentale, nel senso che hai comunque una marcia in più. Perché la dottrina della massoneria, se studiata bene, ti dà mentalmente una marcia in più.
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Vaccini, massoni e tabù: Colors Radio licenzia Gramiccioli
Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.«Permetteteci di esprimere subito la nostra solidarietà nei confronti del collega David Gramiccioli, che ha diffuso la notizia del suo licenziamento», afferma Fabio Frabetti di “Colors Radio” nella video-chat settimanale con Massimo Mazzucco, su YouTube. Una realtà radiofonica, quella di “Colors Radio”, che si stava affermando: grazie a Gramiccioli, «era diventata un vettore molto importante, per quanto riguarda il discorso vaccini e non solo». Purtroppo, gli fa eco lo stesso Mazzucco, «la storia di David è costellata da situazioni del genere: credo che questa sia la quarta o quinta volta che gli succede di essere licenziato per questi motivi». Mazzucco ricorda la sua prima intervista con Gramiccioli, a poca distanza dall’attentato alle Torri Gemelle, per quella che allora si chiamava “Radio Spazio Aperto”: si cominciava appena, a parlare di “verità non ufficiale” sull’11 Settembre, e Gramiccioli era già “sul pezzo”. «Poi le pressioni sono cresciute, la trasmissione è stata chiusa e il conduttore è stato costretto a licenziarsi». Il problema? Gramiccioli «tratta temi veramente scomodi: non solo l’11 Settembre ma anche la pedofilia, specie quella nella Chiesa», spiega Mazzucco. All’inizio le radio libere gli danno carta bianca, «ma appena lui guadagna ascolti – come stava succededo ora, con “Colors Radio” – qualcuno comincia a fare pressioni perché smetta di parlare di argomenti tanto delicati».A quel punto, continua Mazzucco, «l’editore si trova tra l’incudine e il martello, e comunica a Gramiccioli: “Guarda che mi stanno facendo pressioni: o la smetti o devo licenziarti”. Ma David è una persona con la schiena dritta, e risponde: io vado avanti. Così finisce regolarmente senza lavoro». Purtroppo, sottolinea Mazzucco, questo dimostra che, tanto per cominciare, «il discorso sui vaccini è veramente insidioso: oltre una certa soglia di attenzione non si può andare». Facile anche dedurre che Gramiccioli «abbia pagato il grande successo del suo spettacolo, “Il decreto”, che ha portato in tutta Italia: racconta la vera storia del decreto Lorenzin, di come è nato e di cosa c’è dietro. Io l’ho visto – conferma Mazzucco – ed è uno spettacolo veramente devastante, per quelli che sostengono la versione ufficiale sui vaccini, perché c’è dietro una storia di conflitto d’interessi che è veramente enorme». Gramiccioli, evidentemente, «si è creato dei nemici ad alto livello». Il che è un titolo di merito, se uno fa davvero il giornalista: permette al pubblico di scoprire verità che gli altri non raccontano mai.Informazione libera? Una rosa piena di spine: «Se c’è di mezzo la pubblicità, cominciano i condizionamenti», osserva Mazzucco: «Se devi pagare stipendi finisci per dipendere dalla pubblicità, e può succedere che ti si chieda di “sacrificare” certe trasmissioni che danno fastidio a chi comanda». Come si finisce nel mirino dei censori? Basta uscire dal “frame” citato da Marcello Foa, ora presidente Rai, nella sua coraggiosa polemica sulle viltà quotidiane dei media mainstream. Nelle notizie c’è sempre un “frame” (una cornice, un telaio ben preciso) all’interno del quale si deve restare, con qualunque argomentazione, sui grandi media. «Ma appena esci fuori da quel “frame”, da quella cornice – sottolinea Mazzucco – la notizia diventa tabù: certi argomenti non si possono più trattare, se affrontati in modo autonomo». Brutta storia: «Ci sembra sempre di avere una grande libertà di stampa solo perché viviamo – ci dicono – in un paese libero, in democrazia. Ma se appena esci fuori da quelle rotaie ti segano le caviglie», conclude Mazzucco, sicuro – comunque – che lo «spirito libero» di David Gramiccioli (già sommerso di attestazioni di solidarietà) gli ispirerà nuove avventure, come sempre dalla parte di quella verità che i grandi media temono, e di cui il pubblico ha sempre più bisogno.Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.
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Magaldi: Mattarella difende la Costituzione di Mario Monti?
Avete capito bene: il presidente della Repubblica è allarmato dal Def gialloverde che porta il deficit al 2,4%. Meglio dei governi Monti, Renzi, Letta e Gentiloni, ma pur sempre una miseria, ben al di sotto della soglia già di per sé “punitiva” del 3% (imposta da Maastricht solo sulla base della “teologia” neoliberista, senza alcun fondamento scientifico per la salute dell’economia). Fu allora che tutto cominciò: la favola dello Stato equiparato alla normale famiglia, per la quale il debito è un pericolo. Siamo in un film dell’orrore o piuttosto in un film comico, considerando che il più preoccupato degli attuali guardiani dell’establishment – l’ex ministro renziano Pier Carlo Padoan – era addirittura marxista con simpatie maoiste, e da giovane sognava di abbattere il capitalismo? Oggi invece canta nel coro dei Boeri, Monti, Draghi, Visco: guai a spendere soldi per il popolo, è severamente proibito. Da chi? «Da quelle stesse élite a cui questi signori devono le poltrone che occupano», dice Gioele Magaldi, keynesiano democratico-progressista, presidente del Movimento Roosevelt. Quanto a Mattarella, una domanda secca: «Quale Costituzione difende, quella democratica e sociale del 1948 o quella “stuprata” nel 2012 dal pareggio di bilancio imposto dai poteri oligarchici che spedirono Monti a Palazzo Chigi?».E’ sconcertante, aggiunge Magaldi in web-streaming su YouTube, che a scatenare il finto panico mediatico sia bastato il timido Def gialloverde con quell’esiguo 2,4% di deficit: «Lorsignori si stracciano le vesti a reti unificate, dichiarandosi preoccupati per il popolo italiano e per il futuro dei nostri giovani?». Non sono credibili: «L’unica cosa che li preoccupa è il futuro dei figli degli oligarchi che hanno ridotto l’Italia in questo stato, con le tasse alle stelle, la disoccupazione ovunque, i consumi crollati, le pensioni devastate dalla legge Fornero e i giovani italiani costretti a lavori precari, senza più la possibilità di progettare il loro futuro». Ed è proprio sui numeri, aggiunge Magaldi, che l’allarmismo mediatico scade nel ridicolo: Berlusconi – che oggi si unisce all’ipocrita moralismo dei cantori del rigore – teneva il deficit attrono al 4-5%. E lo stesso Renzi, fenomenale fanfarone, una volta perso Palazzo Chigi (dove si era attenuto alla consegna dell’austerity sorvegliata da Padoan) se ne uscì annunciando: possiamo sfidare Bruxelles, portando il deficit al 2,9%. E’ lo stesso Renzi che oggi accusa di irresponsabilità i gialloverdi, per via del loro 2,4? Ebbene, sì. Ma non è il solo.Gli fanno eco tutti gli economisti di corte, che affollano giornali e televisioni, senza mai uno straccio di contraddittorio giornalistico. Ma il guaio, sostiene Magaldi, è che il Quirinale non interviene nel modo che ci si aspetterebbe, per ristabilire la verità calpestata dai media. Anzi: si appella al mitico “equilibrio di bilancio”, inserito in Costituzione solo dall’Italia. Il pareggio di bilancio fu introdotto nel 2012 da Monti, insieme alla mannaia del Fiscal Compact, proprio mentre i poteri finanziari puntavano la pistola contro l’Italia, ricattata dallo spread. Sicuri, si domanda Magaldi, che Sergio Mattarella sia all’altezza della carica che ricopre? E’ duro, il presidente del Movimento Roosevelt, con il Capo dello Stato, che criticò aspramente, mesi fa – invitandolo alle dimissioni – dopo aver giudicato improprio, costituzionalmente, il rifiuto di ratificare la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia. Oggi dichiara: «Non ho ancora sentito un intervento di Sergio Mattarella che abbia contribuito in qualche misura al benessere del popolo italiano». Possibile, aggiunge, che Mattarella non si renda conto del pericolo gravissimo, per aziende e famiglie, costituito dal taglio del deficit? «Eppure Mattarella viene dalla sinistra democristiana, tradizionalmente attenta alle esigenze degli strati meno abbienti della popolazione».Cos’è successo, in questi anni, al punto da accecare i radar dell’informazione e mettere la politica al guinzaglio dell’economia finanziarizzata? Lo tsunami del neoliberismo: la rivoluzione “teologica” che innalza il profitto al di sopra delle istituzioni democratiche. Chi paga il conto? Tutti noi. Meno lo Stato spende a deficit per l’economia reale, sintetizza Magaldi, e più crescono le fortune stellari di un’élite miliardaria e privatizzatrice, a scapito di tutti gli altri. La paura del disavanzo? Un mito, fabbricato ad arte: «Se distribuisco investimenti e abbasso le tasse, faccio crescere l’economia. Faccio salire i consumi, dunque il prodotto interno lordo, e quindi migliorerò il rapporto debito-Pil: in ultima analisi, risanerò i conti pubblici. Dal 2011 in poi, con Monti – continua Magaldi – è stato fatto esattamente il contrario: si è tagliato il deficit, alzando le tasse. Risultato finale: stiamo tutti peggio, e sono peggiorati anche i conti pubblici». Lo spread? Un altro mito: «Basterebbe che la Bce emettesse “eurobond”, e il problema sparirebbe. Ma anche ridotti come siamo, cioè senza più vere banche centrali – nazionali e non – un grande paese industriale come l’Italia ha mezzi enormi per finanziarsi, ad esempio emettendo titoli. Dire che lo Stato è come una famigliola costretta a risparmiare è semplicemente una menzogna».Per Magaldi, «siamo davvero alla follia orwelliana spacciata per saggezza e senso di responsabilità». Una cosa «davvero vergognosa, che suscita indignazione (e riso)». In fondo, aggiunge, Salvini e Di Maio «hanno imboccato la strada giusta, che come Movimento Roosevelt avevavamo consigliato loro anche pubblicamente». Potrebbe non farcela, il governo gialloverde? «Se devono cadere, provvisoriamente, che cadano eroicamente “con le armi in pugno”». In altre parole: se adesso, per colpa dell’irrisorio 2,4% si scatenano i soliti mercati “eterodiretti”, se si scatena «questa canea di falsi uomini di Stato che dicono di preoccuparsi del bene comune e di quello dei giovani», e se quindi a un certo punto il governo venisse “strangolato” e messo nelle condizioni di non operare, ebbene: «Lega e 5 Stelle chiedano di andare a nuove elezioni, e vedremo il popolo chi premierà», conclude Magaldi. Vedremo se l’elettorato italiano «premierà questi sepolcri imbiancati che si preoccupano del 2,4% e si fingono solleciti nell’interesse comune, mentre sono solleciti rispetto alle proprie poltrone e a chi ce li ha messi». Vedremo, chiosa Magaldi, se invece l’elettore «premierà chi, seppure in modo ancora imperfetto, sta cercando di portare un reale cambiamento nel paradigma della governance economica italiana».Avete capito bene: il presidente della Repubblica è allarmato dal Def gialloverde che porta il deficit al 2,4%. Meglio dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, ma pur sempre una miseria, ben al di sotto della soglia già di per sé “punitiva” del 3% imposta da Maastricht (solo sulla base della “teologia” neoliberista, senza alcun fondamento scientifico per la salute dell’economia). Fu allora che tutto cominciò: la favola dello Stato equiparato alla normale famiglia, per la quale il debito è un pericolo. Siamo in un film dell’orrore o piuttosto in un film comico, considerando che il più preoccupato degli attuali guardiani dell’establishment – l’ex ministro renziano Pier Carlo Padoan – era addirittura marxista con simpatie maoiste, e da giovane sognava di abbattere il capitalismo? Oggi invece canta nel coro dei Boeri, Monti, Draghi, Visco: guai a spendere soldi per il popolo, è severamente proibito. Da chi? «Da quelle stesse élite a cui questi signori devono le poltrone che occupano», dice Gioele Magaldi, keynesiano democratico-progressista, presidente del Movimento Roosevelt. Quanto a Mattarella, una domanda secca: «Quale Costituzione difende, quella democratica e sociale del 1948 o quella “stuprata” nel 2012 dal pareggio di bilancio imposto dai poteri oligarchici che spedirono Monti a Palazzo Chigi?».
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Si è spento Crozza (il comico, non Maurizio). Lo rivedremo?
Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.La puntata di “Fratelli di Crozza” andata in onda il 28 settembre su “La9” lascia addosso un senso di sgomento, quasi di lutto, per la perdita – irrimediabile? – di una voce critica a cui il pubblico s’era ormai abiutato. Quando si trasforma in pedestre propagandista del pensiero unico, tanto per cominciare, un comico non fa più ridere. Se poi insiste, per tutta la puntata, a prendere di mira solo il governo in carica, chiunque capisce che c’è qualcosa di profondamente stonato, nella sua perfomance. La satira, si sa, è efficace quando spara cannonate contro il potere. E solo un cieco, oggi, potrebbe non vedere che il potere – quello vero – non siede a Palazzo Chigi o nei ministeri, ma sta altrove: è nei giornali e nelle televisioni, alla Banca d’Italia, al Quirinale, alla Bce, nel direttivo di Confindustria, negli uffici della Commissione Europea e nei santuari della Borsa. E’ un assedio impressionante, quello che sta subendo il governo Conte: non si era mai visto un tale accanimento contro un esecutivo nazionale (ottimo, pessimo o mediocre che fosse). Va da sé: tanto zelo, nel contrastarlo, induce a sospettare che il governo in carica, comunque lo si valuti, stia creando effettivamente problemi all’establishment, all’oligarchia del denaro che – ormai l’hanno capito anche i sassi – tiene in ostaggio intere nazioni. Possibile che il brillante Maurizio Crozza non ne tenga conto? Ebbene, sì.Nel fatale autunno 2018, non pago di presentarsi al suo pubblico ormai nelle malinconiche vesti di ex comico, Crozza sale in cattedra come un Mario Monti qualsiasi, tentando di spacciare per verità di fede – alla platea – l’incresciosa storiella neoliberista dello Stato equiparato alla famiglia: che imperdonabile imprudenza, fare debiti, se poi i soldi bisogna restituirli. Ha mai sentito parlare di sovranità monetaria, Crozza? E’ convinto che Mario Draghi disponga di appena 100 soldi, finiti i quali resterebbe in bolletta? Si è mai chiesto, Crozza – feroce, col ministro Toninelli alle prese con la grana del viadotto Morandi – come fece, l’Italia, a costruire quel viadotto genovese? Crede che il governo dell’epoca abbia usato i risparmi della nonna saggiamente accantonati sotto il materasso? E poi: non si rende conto, Crozza, che il 70% degli italiani lo sostiene, questo precario governo che denuncia l’impostura dell’austerity? Non riesce a spiegarselo, il perché? Non sospetta che, forse, gli italiani abbiano fiutato il grosso imbroglio con il quale sono stati raggirati per decenni, dai cantori del rigore altrui? Tutto questo accade mentre un altro mattatore del piccolo schermo, Fazio Fabio, ospita stabilmente l’oligarca Carlo Cottarelli, presentandolo come neutrale scienziato dell’economia. La differenza? Cottarelli e Fazio non faranno ridere, ma almeno non sono accreditati come comici. Maurizio Crozza, invece, a far ridere non ci prova neppure più.Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno in cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.
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Guai a chi tocca i Benetton: l’indegna crociata sui media
Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».Le misure preventive di Autostrade «erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema», malgrado la concessionaria fosse «in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo». Eppure si perseverò nella «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria». Così il ponte è crollato, non tanto per «la rottura di uno o più stralli», quanto per «quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali». E la «mancanza di cura» nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe «aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo». Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: «Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni sono trascurabili». Occhio ai dati: «Il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999», quando le autostrade furono donate ai Benetton, e dopo «solo il 2%».Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di «1,3 milioni di euro nel 1982-1999»; con i Benetton si passò a «23 mila euro circa». Il resto della relazione, che documenta anche il dolce far nulla dei concessionari, ben consci della marcescenza e persino della rottura di molti tiranti, lo trovate alle pagine 2 e 3. Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); revocare subito la concessione sarebbe giustizialismo, populismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione politica, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “no a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, oscurantismo (“Repubblica”, “Corriere”, “Stampa”, il “Giornale”); l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.“Repubblica”: «In attesa che la magistratura faccia luce», guai e fare di Atlantia «il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza, tipici del populismo». “Corriere”: revocare la concessione sarebbe «una scorciatoia, un errore e un indizio di debolezza». “La Stampa”: il crollo del ponte è «questione complessa» e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), «sacrificati» come «capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi», come nei «paesi barbari». Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate. Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. In un paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore. E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. Per la vergogna.(Marco Travaglio, “Mi fate schifo”, dal “Fatto Quotidiano” del 28 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”, che pubblica anche il link alla relazione istituzionale su Genova, scaricabile dal sito del ministero di Toninelli).Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».
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Becchi e Palma: via il Fiscal Compact, torniamo a crescere
La guerra sui numeri che impazza in questi giorni su Tv e giornali ha un nome ed un cognome: Fiscal Compact. Di cosa si tratta? Di un trattato intergovernativo, firmato il 2 marzo 2012 per il nostro paese da Mario Monti, con il quale ci impegnavano al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno. L’Italia subiva le conseguenze del colpo di Stato con il quale era stato fatto cadere l’ultimo governo Berlusconi e, in deroga ai trattati istitutivi dell’Unione (Maastricht e Lisbona), si impegnava a fare pareggio di bilancio, cioè zero spesa a deficit. Il governo Monti – tra il plauso dei media – sottoscrisse quel trattato intergovernativo imponendo la cosiddetta austerità. Anche se nessuno oggi lo ricorda, è per questo che ormai da diversi anni i governi italiani fanno a braccio di ferro con Bruxelles per elemosinare lo “zero virgola” in più. Il Fiscal Compact – ribadiamolo – è un trattato intergovernativo, quindi non rientra formalmente nei trattati dell’Unione Europea. Tuttavia, il secondo comma dell’articolo 2 del trattato – sul punto – è chiarissimo: «Il presente trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea e con il diritto dell’Unione Europea. Esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica».Bene. Se il Fiscal Compact, per sua stessa previsione, è applicabile solo se compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea, va da sé che sia palesemente nullo. Vediamo perché. I trattati istitutivi della Ue, su tutti quello di Maastricht e successivamente quello di Lisbona, prevedono che ciascuno Stato possa spendere a deficit nella misura del 3% del rapporto deficit pubblico/Pil. Poco, a dire il vero, ma in linea di principio non è austerità. Vi è di più. Maastricht e Lisbona prevedono anche che gli Stati possano andare oltre il tetto del 3% quando la spesa a deficit riguarda investimenti produttivi ad alto impatto sul prodotto interno lordo. Una eccezione limitata e temporanea, alla quale hanno fatto ricorso più volte nel corso degli anni Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, senza che nessuno battesse ciglio. L’Italia, invece, dal 2007 in avanti si è (con poche eccezioni) tenuta sotto la soglia del 3%. Il Fiscal Compact, però, in quanto non conforme ai trattati istitutivi della Ue, è nullo – come scriveva qualche anno fa Giuseppe Guarino, e oggi tutti se lo sono dimenticati. Un trattato intergovernativo, che per suo stesso espresso richiamo va applicato finché sia compatibile coi trattati istitutivi dell’Unione, deve essere ritenuto nullo dal governo italiano in quanto non conforme alle fonti del diritto gerarchicamente superiori, cioè i trattati istitutivi.Stando così le cose, la guerra sui numeri non ha alcun senso. Il Def predisposto dal governo Gentiloni-Padoan aveva previsto, per il 2019, un rapporto deficit-Pil dello 0,8% (corretto allo 0,9%). Il ministro dell’economia dell’attuale governo, Giovanni Tria, vorrebbe fare invece l’1,6%, una soglia più alta ma non sufficiente per portare a compimento le misure più incisive del “contratto di governo”. Che fare, quindi? La decisione è politica e spetta ai due vicepresidenti del Consiglio. Si dovrebbe a nostro avviso procedere con la denuncia unilaterale del Fiscal Compact e tornare – per ora realisticamente – almeno ai parametri di Maastricht. Dall’anno prossimo la musica potrà cambiare. Con un Europarlamento e una Commissione Europea meno invasive si potrà mettere mano anche alla soglia del 3%. Tria o non Tria, qui bisogna iniziare a capire che il ministro dell’economia non può limitarsi a far quadrare conti, altrimenti ci saremmo tenuti Monti e Padoan. Nell’anno del referendum costituzionale, Renzi portò il rapporto deficit-Pil al 2,5% dando agli insegnanti e ai diciottenni la mancetta elettorale dei 500 euro per i concerti. Una misura fatta solo per strappare qualche consenso. Salvini e Di Maio vorrebbero invece arrivare poco sotto il 3% per ridurre le tasse alle partite Iva, abbassare un po’ l’età pensionabile e ridare dignità a chi resta senza lavoro o lo sta cercando. Se rinunciano a questo inizieranno a perdere consensi. Rinunciare al proprio bilancio di Stato significa rinunciare ad essere uno Stato. Bisogna avere coraggio e cominciare a fare l’interesse nazionale. Questo si aspettano gli italiani da un governo sovranista.(Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “Liberiamoci dal Fiscal Compact e torneremo a crescere, il ministro Tria abbia maggiore coraggio”, da “Scenari Economici” del 26 settembre 2018).La guerra sui numeri che impazza in questi giorni su Tv e giornali ha un nome ed un cognome: Fiscal Compact. Di cosa si tratta? Di un trattato intergovernativo, firmato il 2 marzo 2012 per il nostro paese da Mario Monti, con il quale ci impegnavano al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno. L’Italia subiva le conseguenze del colpo di Stato con il quale era stato fatto cadere l’ultimo governo Berlusconi e, in deroga ai trattati istitutivi dell’Unione (Maastricht e Lisbona), si impegnava a fare pareggio di bilancio, cioè zero spesa a deficit. Il governo Monti – tra il plauso dei media – sottoscrisse quel trattato intergovernativo imponendo la cosiddetta austerità. Anche se nessuno oggi lo ricorda, è per questo che ormai da diversi anni i governi italiani fanno a braccio di ferro con Bruxelles per elemosinare lo “zero virgola” in più. Il Fiscal Compact – ribadiamolo – è un trattato intergovernativo, quindi non rientra formalmente nei trattati dell’Unione Europea. Tuttavia, il secondo comma dell’articolo 2 del trattato – sul punto – è chiarissimo: «Il presente trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea e con il diritto dell’Unione Europea. Esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica».
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Salvini con Bannon e Orban? Big Business resusciterà il Pd
Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.Oltretutto, è già stato ampiamente previsto che proprio l’odierna crisi degli “emergenti” già cova in sé l’usuale rimbalzo sia speculativo che in termini di produzione, con profitti cosmici per gli investitori. Il punto: gli uomini con le scarpe da 5.000 dollari che stanno a Manhattan, Hong Kong, Davos o a Francoforte sanno fare i loro conti coi soldi, e oggi, al contrario di solo pochi anni fa, non si possono più permettere di ‘offendere’ quelli neri, marron o gialli. L’accusa, o anche solamente il sospetto, di simpatie o contiguità con la parola razzismo è fra le ultime cose che vogliono al mondo. Basta un titolo sul “Wall Street Journal” che insinui quella vicinanza e loro ci smenano miliardi in pochi minuti. No, non deve succedere. L’implacabile sobillare del padano nella direzione dell’ipertrofico allarme migranti ha appiccicato a questo governo una colossale etichetta di razzismo-xenofobia populista agli occhi di tutto il mondo, e ora non ce la leva più nessuno. Unite i puntini e starete capendo cosa accadrà.L’Italia è un paese ancora ricco, con un notevolissimo bottino in assets privati, che ispira grandi appetiti fra gli investitori internazionali. Si pensi solo che Assogestioni, che ha il polso del risparmio delle famiglie italiane, ha registrato a metà 2016 il suo record storico di patrimonio con 1.857 miliardi, più dell’intero Pil nazionale. E’ quindi ovvio che i mercati non rinunceranno a operare in Italia. Ma fosse stato solo per gli sbraiti nazionali a tinteggiature razziste populiste di Matteo Salvini, e delle sue folle nelle piazze o sui social, è anche possibile pensare che gli investitori internazionali avrebbero solo esercitato prudenza, con Roma. In altre parole: far affari, ma con un basso profilo. Invece, come detto, tutto è cambiato per il peggio e senza rimedio dopo che Salvini si è associato inequivocabilmente, platealmente e sbracando del tutto con Steve Bannon e Viktor Orban. Un atto politico irresponsabile per il paese.I mercati pianificano il loro futuro in politica non a 8 stupidi mesi (le europee) come fa l’esaltato fan-club leghista, ma a 10 o 30 anni. Ora gli investitori internazionali, dopo l’irrimediabile svolta di cui sopra e, ricordo ancora, con ¾ di occhio puntato a tenersi buoni i mercati emergenti dei ‘neri, marron e gialli’, stanno scegliendo l’unico loro possibile interlocutore rimastogli in Italia, quello che non rischia di finire sul “Wall Steet Journal” o su “Bloomberg” come razzista populista: il centrosinistra, che peraltro fu sempre il loro favorito. Il Movimento 5 Stelle è per il momento fuori dai loro radar, perché incatenato (e sottomesso risibilmente) alla Lega. A cosa credete che stiano lavorando in quest’epoca i Romano Prodi, Mario Monti, Corrado Passera o i Giovanni Bazoli, e naturalmente Mattarella e Draghi con la loro enorme rete di contatti in finanza e nelle Powerhouse del mondo? Per essere ancor più chiari: Big Business non potrà sposarsi con un trionfo a breve termine (2019) dei razzisti Bannon, Orban, Salvini e codazzo in Ue. Starà calmo in superficie, mentre finanzierà sia la rapida caduta dei populisti che il ritorno dei soliti noti. Ancora dettagli.La storia delle spinte ai partiti da parte della lobbistica e dei mercati, con finanziamenti, appoggi trasversali, lavori di persuasione mediatica, scolastica, accademica, e in particolare di terrorismo economico sugli elettori, l’ho lungamente descritta nella parte storica de “Il Più Grande Crimine”. Ne sarà beneficiario nei prossimi 5-10 anni il centrosinistra, e tornerà a vincere. Basterebbero a questo fine anche solo le aste dei titoli con cui si finanzia il nostro Tesoro, perché sono loro a decidere chi governa o meno, e dunque se tu avrai una vita decente o invece una lunga miseria di fatiche. Quelle aste, di nuovo, le hanno totalmente in mano gli investitori internazionali di cui sopra, perché l’Italia, anche con Salvini e i suoi economisti in malafede, è incastonata nell’Eurozona senza che nessuno seriamente intenda togliervela. E’ desolante nella sua stupidità l’elettorato gradasso tinto di verde nella sua convinzione che nessuno più fermerà il populismo. Balle, loro stessi (e per primi) si squaglieranno al sole quando gli stolti populismi europei mancheranno miseramente di ‘consegnargli il concreto’ nei portafogli.Avete presente i proverbiali topi che saltano dalla nave? Saranno nulla in confronto. Sappiamo bene di cosa è capace l’italiano medio nel suo genio supremo, il trasformismo. Ho descritto quella che sarà una catastrofe a tutto tondo, e per essa dovrete solo ringraziare Matteo Salvini nella sua smisurata e miope ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia. Ma non è tutto. Ci sono i Faang. Sono ahimè pochissimi gli italiani che assieme a me si stanno rendendo conto che qualcosa di ancor più inaudito sta avvenendo alle spalle delle già epocali manovre post-capitalismo sopra descritte. Please welcome i Faang, cioè la dilagante conquista di ogni frammento di globo da parte delle tecnologie di Facebook (F), Apple (A), Amazon (A), Netflix (N), e Google (G) – ma non ci si dimentichi di Alibaba, Tencent, Huawei, dall’altra parte del pianeta, e di migliaia di altri simili al seguito in ogni dove.Come ho già scritto in due anni di lavoro, i colossi “tech” vanno man mano acquisendo niente meno che le chiavi private della vita sul pianeta in ogni campo, dalla finanza alla medicina alle comunicazioni; dai trasporti civili e commerciali all’energia alle materie prime; dagli alloggi alla difesa al cibo stesso, e si potrebbe continuare all’infinito. Possono farlo perché sono loro, e non più il vecchio capitalismo industriale, a brevettare quasi tutto ciò che di nuovo nasce sulla Terra da almeno 20 anni a questa parte. Ma di più: il loro strapotere è balzato oltre l’atmosfera con il dilagare della loro Artificial Intelligence (Machine Learning in particolare), perché, come epicamente detto dal fondatore di Google-DeepMind Demis Hassabis, «noi vogliamo padroneggiare l’intelligenza, e poi risolvere tutto il resto». Questo fu geniale, perché davvero è solo l’intelligenza il motore dell’umanità, e chi la controllerà con le “tech” controllerà il mondo. Ma anche senza esplorare nei dettagli l’inimmaginabile nuovo potere dei Faang e soci, chiunque oggi non viva nelle catacombe vede ogni giorno come la società e l’economia di ogni centimetro quadrato della Terra stiano vestendosi sempre più di Faang.E rieccoci al punto: per motivi che ho per primo divulgato al pubblico, i nuovi padroni “tech” del pianeta stanno correndo forsennatamente verso posizioni etiche sempre più avanzate, che piazzano in primo piano in ogni loro pubblica mossa, ricerca di laboratorio e prodotto. Fa parte del Dna della loro strategia di vendita globale. Occorrerebbe un saggio enorme per dare conto con esempi di questo, ma dovrebbe essere evidente a chiunque segua anche solo distrattamente il dibattito sulle “tech”. Dunque se la parola “Ethics” è spalmata dappertutto fra i padroni del futuro, le parole “Racism” e la consociata “Populism” sono per essi letteralmente virus di peste bubbonica, e anche solo sfiorassero l’immagine aziendale di questi colossi gli farebbero perdere tali volumi d’affari da impietrire i loro Ad. Riapplicate su Faang e soci quanto già detto sopra nel caso degli investitori internazionali, e ci risiamo: con un Salvini al governo che ora puzza internazionalmente del razzismo populista di Bannon-Orban, i padroni delle chiavi orivate della vita sul pianeta in ogni campo sterzeranno molto alla larga dalla Roma gialloverde, e indovinate su chi punteranno? Vi rendete conto di che razza di spinta politica si tratta? Più che spinta, è una certezza.Concludo riprendendo il testimone da qui: il populismo italiano, prima di Salvini e dei suoi inguardabili compari, aveva il potenziale di svilupparsi in una nuova frontiera della difesa dei nostri diritti costituzionali macellati dalla Ue, alla luce del disgustoso tradimento della sinistra politically correct. Ora è un’etichetta marcia, inavvicinabile e senza futuro. La colpa è ben ferma sulle spalle di Matteo Salvini, “nella sua smisurata ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia”. Mercati e Faang sono ora costretti a riportarci il Peggior (P) Destino (D) possibile, nella camera a gas chiamata Eurozona. Agli esagitati stupidi che “il trionfo sarà fra 8 mesi” (le europee), ricordo ancora che oggi il loro futuro è pianificato a 10 o 30 anni a partire da questo minuto da chi gli finanzia il 100% dell’ossigeno di cui vivono. E con quest’arma in mano, quelli difficilmente perdono. Che il volere del popolo sia infermabile è la più sonora balla mai raccontata ai popoli. Da chi? Dai populisti alla Salvini.(Paolo Barnard, estratto dal post “Salvini ha sbracato e ci riporterà il Pd, ecco come”, pubblicato sul blog di Barnard il 26 settembre 2018).Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.