Archivio del Tag ‘media’
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La Cupola ha in mano il governo. Ma l’alternativa dov’è?
Ma davvero vi aspettavate che la Corte costituzionale desse il via libera al referendum promosso dalla Lega? Ma in che mondo vivete, conoscete le biografie dei giudici costituzionali, chi li ha voluti lì, e più in generale conoscete le leggi inesorabili del potere, il loro reciproco sostegno? E la stessa cosa vale per la decisione della Cassazione in merito alla questione Carola Rackete; pensavate davvero che accadesse il contrario? Per anni siamo stati abituati a considerare chi è al potere come la Casta. È tempo di fare un salto di qualità e considerare che il potere è oggi piuttosto la Cupola. La casta riguardava solo i privilegi, la Cupola è un assetto di potere interdipendente e non espugnabile in modo fortuito. La cupola è una struttura sovrastante che non accetta né immissioni di estranei, né circolazione delle classi dirigenti, né il minimo cedimento dei suoi assetti consolidati. I suoi metodi e i suoi scopi sono finalizzati alla pura conservazione del potere, allo scambio di favori tra poteri, all’associazione di scopo finalizzata al reciproco sostegno. Quello che il popolino al sud sintetizzava nella formula “mantienimi-che-ti-mantengo”, ossia uno regge l’altro ed ambedue impediscono l’accesso di estranei, outsider.
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Koenig: vergogna, Soleimani invitato a Baghdad da Trump
Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.I giornalisti del sistema mainstream media sono troppo codardi per temere di rischiare il lavoro o di perdere l’accesso alla sala stampa della Casa Bianca. Tuttavia, questo è esattamente ciò che il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha detto, incredulo per l’accaduto: «Trump prima mi chiede di mediare con l’Iran, e poi uccide il mio invitato». Abdul-Mahdi ha sicuramente più credibilità di Trump o di uno dei suoi compari, dello stesso Pompeo che, non molto tempo fa, disse a “Rt”: «Quando ero il direttore della Cia, mentivamo, tradivamo, rubavamo. Abbiamo avuto interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano». Il generale Soleimani è stato prelevato all’aeroporto di Baghdad da Abu Mahdi al-Muhandis, comandante militare iracheno e leader delle forze di mobilitazione popolare. Sono partiti con un Suv, quando i missili-drone statunitensi li hanno colpiti e polverizzati, insieme ad altri 10 militari di alto rango di entrambi i paesi. Soleimani aveva l’immunità diplomatica – e gli Stati Uniti lo sapevano. Ma nessuna regola, nessuna legge e nessuno standard etico è rispettato da Washington. Un comportamento molto simile a quello dei barbari.Il generale Soleimani, che era molto più che un generale, era anche un grande diplomatico, fu richiesto dal primo ministro Abdul-Mahdi per conto di Trump di venire a Bagdad per far parte di un processo di mediazione che Trump aveva chiesto a Mahdi di guidare, per allentare le tensioni tra Iran e Arabia Saudita, nonché tra Stati Uniti e Iran. Era uno stratagemma vile e codardo per assassinare Qassem Soleimani. Quanto in profondità puoi affondare? Non ci sono parole per descrivere un crimine così orribile. Pompeo, rotto a ogni menzogna, ha trovato immediatamente una formula di copertura: Soleimani era un terrorista e un pericolo per la sicurezza nazionale Usa. Attenzione, caro lettore: nessun iraniano, né il generale Soleimani né nessun altro, ha mai minacciato gli Stati Uniti, né con le parole, né con le armi. Invece, il capo-barbaro ha avuto l’audacia di minacciare l’Iran di colpire 52 siti del suo patrimonio culturale, nel caso in cui l’Iran avesse osato vendicarsi. Come ulteriore atto immediato contro la legge, Trump ha vietato al ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, di andare alle Nazioni Unite a New York per rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, semplicemente rifiutando il visto d’ingresso negli Stati Uniti.Ciò è contrario alla Carta delle Nazioni Unite firmata dagli Stati Uniti nel 1947, in base alla quale ai rappresentanti stranieri deve essere sempre consentito l’accesso al territorio delle Nazioni Unite a New York (lo stesso vale per le Nazioni Unite a Ginevra). E dov’è il signor António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, quando ne hai bisogno? Che cosa ha da dire? Nulla, un grande nulla. Non ha nemmeno condannato l’omicidio del generale Soleimani. Ecco cos’è diventato l’Onu: un corpo senza denti e senza valore, pronto a eseguire le disposizioni dell’Impero Barbarico. Che triste eredità. Quand’è che la maggioranza degli Stati membri chiederanno l’espulsione degli Stati Uniti dall’Onu? Ci sono 120 Stati non allineati che si trovano dietro paesi che sono molestati, oppressi e sanzionati dagli Stati Uniti, come Venezuela, Cuba, Iran, Afghanistan, Siria, Corea del Nord. Perché non alzarsi all’unisono e fare dell’Onu – senza più il tiranno barbarico – ciò che la sua carta dice di essere?(Peter Koenig, estratto dal post “L’Occidente è gestito da barbari”, pubblicato su “Global Research” il 13 gennaio 2020. Economista e analista geopolitico, specialista in ecologia e risorse idriche, Koenig ha lavorato per oltre 30 anni con la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo).Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.
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Della Luna: addio politica, video e web ci hanno disabilitati
In principio era la fiducia: la fiducia nel progresso, nella giustizia, nella democrazia, nella società liberale aperta, nel benessere garantito, nella crescita illimitata. «Col benessere venne la società huxleyana, del piacere, del divertimento, del consumismo, della droga popolare, dei diritti inflazionati, del rilassamento, in cui si assopirono la coscienza di classe, la vigilanza razionale, la partecipazione attiva, perché si evitava tutto ciò che non diverte e che responsabilizza, rendendo così superfluo il controllo dell’informazione». Avanti così, fino a quando le masse non persero la loro rilevanza economica, quindi il loro potere di contrattazione: Marco Della Luna lo spiega nel suo “Oligarchia per popoli superflui”, rieditato nel 2018 da Aurora Boreale. Le minoranze «leggenti e pensanti», secondo Della Luna, persero anche «la capacità psichica di essere un soggetto politico pro-attivo». Allora, il “sogno huxleyano” basato «sulle gratificazioni rimbecillenti che creano consenso sociale» ha iniziato a offuscarsi e trasformarsi in incubo orwelliano, «basato sulla paura e sulla rabbia che fanno accettare tutto». La trasformazione «è iniziata con le grandi angosce lanciate dai media su terrorismo globale, disastri finanziari, crolli economici, sovraindebitamenti e crisi climatiche, esaurimento delle risorse, precarietà irreversibile».Questa crisi, prosegue Della Luna sul suo blog, è passata per le grandi privatizzazioni, le cessioni di sovranità statale e l’imposizione del pensiero unico, fino ad arrivare alla società tecno-controllata e tecno-macellata (cominciando con la Grecia) da un’oligarchia globale che sta dietro a primedonne come Angela Merkel e Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e Hillary Clinton, senza trascurare Emmanuel Macron. «Un’oligarchia che mostra esattamente i tratti psicologici e comportamentali dei signori della villa nel film “Salò, o le centoventi giornate di Sodoma”, ultima opera di Pier Paolo Pasolini». In quell’affresco spaventoso, l’autore «non descriveva le gesta trascorse di alcuni perversi gerarchi fascisti», ma di fatto «ci preavvertiva del tipo di sistema politico a cui eravamo portati e in cui adesso siamo arrivati». Studi sociologici e psicologici hanno messo a fuoco il progressivo scadimento delle facoltà psichiche prodotto dalla “fase huxleyana” anche sulla minoranza leggente-pensante, «ossia su quel 3 o 4% della società che si informa e riflette sul ‘mondo’ studiando e discutendo la saggistica, anziché recepire passivamente quel che passano i mass media», cioè su quell’aliquota del corpo sociale che genera i mutamenti culturali.Ben prima del dilagare dello smartphone, Marshall McLuhan osservava “il mezzo è il messaggio”: oggi, ormai, il mezzo riforma anche la psiche, sostiene Della Luna. Con l’avvento della televisione (e poi dei video su web, scapito della lettura) si punta sulle emozioni per catturare l’attenzione, «ricorrendo al sensazionalismo, alla rapida successione, all’estrema semplificazione, ai dibattiti superficiali e contumeliosi», Si evita come la peste qualsiasi possibilità di approfondimento: la complessità è nemica dell’audience. E i risultati sono catastrofici: «Rispetto all’era della lettura, il ricevere passivamente lasciando guidare la propria attenzione ha atrofizzato la capacità di attenzione selettiva, volontaria, autoimposta», scrive Della Luna. «E lo spettacolarismo emotigeno ha avvezzato a non usare e non sviluppare la riflessione, il ragionamento, il dubbio critico, la verificazione, la contestualizzazione, il confronto». La stimolazione neurofisiologica del monitor «porta nei fanciulli a un indebolimento delle facoltà cognitive e mnemoniche». E se la televisione commerciale ha massimizzato la superficialità, i media cartacei l’hanno rincorsa. Risultato: il video impigrisce il cervello e atrofizza la capacità di analisi.A un livello superiore, osserva Della Luna, si indebolisce la facoltà – esclusiva dell’uomo – di discorrere di se stesso, del proprio pensiero, del proprio dire e rappresentare. «Buona parte della minoranza leggente e pensante è finita sotto questi effetti della televisione, assimilando il modo distorto, impoverito e frammentato di percepire il mondo, a cui essa educa; e in tal modo ha perso buona parte del suo potenziale critico-creativo dei modelli socio-culturali. E’ stata politicamente neutralizzata attraverso i suoi canali emotivi». E’ stata una rivoluzione antropologica, in sostanza, che «ha cambiato il sistema, ha destrutturato l’opinione pubblica e i comportamenti politici». Dalla dissoluzione della sintassi del pensiero siamo arricati a dissolvere «la sintassi della socialità», dopo decenni di sovraesposizione totalizzante al dominio del video. Tutto questo, sempre secondo Della Luna, ormai «rende semplicemente impossibile l’esistenza di un’opinione pubblica informata e ragionante, quindi di una partecipazione o anche una consapevolezza dal basso rispetto alle “policies” del potere».Contrariamente alle ottimistiche previsioni di qualcuno, «Internet non ha affatto prevenuto la disinformazione e il degrado cognitivo di massa». E quindi «non ha avuto un effetto ‘democratizzante’». Tutt’altro: «Fornisce potentissimi strumenti di disinformazione, manipolazione e profilazione, oltre a compromettere ulteriormente le funzioni psichiche», tanto che si configura in sindrome patologica. Lo psichiatra Manfred Spitzer (Garzanti, 2013) la chiama “Demenza digitale”. In conclusione: per Della Luna non siamo solo di fronte alla fine della politica pubblica, ma proprio «alla fine della possibilità a priori della politica pubblica». Da un lato, il super-potere effettivo, che opera in condizioni di assoluto isolamento tecnocratico, «non lascia più uno spazio decisionale effettivo a una politica pubblica, a porte aperte». Dall’altro, purtroppo, è venuto meno un soggetto pubblico a cui rivolgersi, per cambiare la governance. L’opinione pubblica è stata sostituita da un’audience anonima, intrattenuta da quella che sembra «una compagnia di teatranti della politica, sostanzialmente uomini di spettacolo», personaggi «seguiti per le loro capacità comunicative, concentrati sui sondaggi e sull’immagine, privi di reale competenza». Di fatto, «soggetti a rapida obsolescenza».In principio era la fiducia: la fiducia nel progresso, nella giustizia, nella democrazia, nella società liberale aperta, nel benessere garantito, nella crescita illimitata. «Col benessere venne la società huxleyana, del piacere, del divertimento, del consumismo, della droga popolare, dei diritti inflazionati, del rilassamento, in cui si assopirono la coscienza di classe, la vigilanza razionale, la partecipazione attiva, perché si evitava tutto ciò che non diverte e che responsabilizza, rendendo così superfluo il controllo dell’informazione». Avanti così, fino a quando le masse non persero la loro rilevanza economica, quindi il loro potere di contrattazione: Marco Della Luna lo spiega nel suo “Oligarchia per popoli superflui”, rieditato nel 2018 da Aurora Boreale. Le minoranze «leggenti e pensanti», secondo Della Luna, persero anche «la capacità psichica di essere un soggetto politico pro-attivo». Allora, il “sogno huxleyano” basato «sulle gratificazioni rimbecillenti che creano consenso sociale» ha iniziato a offuscarsi e trasformarsi in incubo orwelliano, «basato sulla paura e sulla rabbia che fanno accettare tutto». La trasformazione «è iniziata con le grandi angosce lanciate dai media su terrorismo globale, disastri finanziari, crolli economici, sovraindebitamenti e crisi climatiche, esaurimento delle risorse, precarietà irreversibile».
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Master Roosevelt: per conoscere i segreti del grande potere
Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.Il corso è destinato a italiani disposti a ricevere una formazione speciale, che li metta nelle condizioni di vedersela alla pari con i grandi player dell’attualità. Storia della conoscenza, storia del potere e delle civiltà umane. E poi: economia post-keynesiana e rooseveltiana, finanza etica e conti pubblici, geopolitica. Comunicazione: marketing e pubblicità, giornalismo, media e televisione. Ma anche “scienza, polis e potere”, filosofia politica, ecologia, salute, arte e letteratura, cinema, musica e “affabulazione collettiva”. Sono alcune delle materie del “Master Roosevelt in Scienze della Polis”, al via a fine gennaio: 12 weekend intensivi, tra Roma e Milano, con anche il supporto video per chi non potrà partecipare a tutte le lezioni. «Solo il nostro master – assicurano i promotori – offre insegnamenti teorico-pratici che coprono tutto lo “scibile” contemporaneo». Informazioni preziose per affrontare il buongoverno della cosa pubblica, consapevoli dei propri diritti e doveri, oltre che della propria sovranità di cittadini. «Inoltre – aggiungono gli organizzatori – questo master soddisfa esigenze di conoscenza inter-disciplinare (di natura sia “materiale” che “spirituale”) che nessun’altra alta scuola di formazione può garantire».Basta dare un’occhiata alle docenze proposte. Per esempio: storia, teoria e pratica dei servizi segreti e dell’intelligence pubblica e privata. Oppure: esoterismo, iniziazioni e massoneria. Ancora: introduzione alla Kabbalah. E poi simbologia, ideologie e sistemi di pensiero. Un lavoro in profondità: si parlerà di archetipi psicologici e comportamenti politico-sociali, svelando «i segreti delle energie sottili e delle arti marziali e venusiane». Premessa: è il potere stesso – per chi non l’avesse ancora capito – a padroneggiare queste materie. E il Master Roosevelt è dunque la prima opportunità, offerta a tutti, di esplorare quel mondo elusivo, precluso ai più. Ad affermarlo è lo stesso Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha tolto il velo all’aspetto più segreto dell’establishment: «A muovere anche i massimi oligarchi è una sorta di “aristocrazia dello spirito”, che li induce a ritenersi gli unici depositari dei destini del mondo». Non la pensa così l’autore di “Massoni”, già inziato alla superloggia progressista “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. La sua tesi: «La vera massoneria è costituzionalmente progressista. Storicamente, è stata proprio la “libera muratoria” a produrre le forme della modernità, lo Stato di diritto, la relativa libertà del cittadino non più suddito e la facoltà di auto-governarsi mediante elezioni democratiche, una volta conquistato il suffragio universale».Pietra miliare: la Rivoluzione Francese, con la caduta dell’Ancien Régime. Da allora, lotte e rivolte in tutto il mondo, fino al Risorgimento italiano. Quindi i decenni gloriosi del boom, nell’ultimo dopoguerra: «Era massone Franklin Delano Roosevelt, che volle il Piano Marshall dopo aver sconfitto il nazismo. Era “libera muratrice” sua moglie Eleanor, madrina dei diritti umani. Era massone Keynes, lo stratega del benessere diffuso in Occidente. Ed erano massoni John Rawls e William Beveridge, gli inventori del welfare (concepito per eliminare il gap tra ricchi e poveri)». Nel suo saggio – un vero e proprio bestseller italiano – Magaldi scrive che la leadership culturale e politica delle superlogge progressiste fu sabotata con la violenza alla fine degli anni Sessanta, negli Usa, con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King: i rooseveltiani li avevano scelti, come presidente e vice, per cambiare faccia al mondo. Non è andata così: nel 1973 (proprio l’11 settembre) la superloggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller organizzò il golpe in Cile introducendo il neoliberismo con i carri armati. Due anni dopo, la Trilaterale avrebbe spiegato, con il manifesto “La crisi della democrazia”, che era iniziata la grande retromarcia storica: meno diritti, meno pace e meno benessere per tutti. Sulla base di cosa? Di un piano egemonico: la riconquista del pianeta, da parte di un’élite massonica che i sodali di Magaldi definiscono “controiniziata”, avendo rinnegato l’impegno massonico per il progresso democratico dell’umanità.Nel 2011, in televisione, lo stesso Magaldi si espose in prima persona per segnalare la militanza – nella supermassoneria reazionaria – di primattori come Mario Monti, il presidente Napolitano e lo stesso Draghi. Sei mesi dopo l’uscita del suo dirompente saggio (silenziato dai grandi media), Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt, un soggetto meta-partitico che si propone di “risvegliare” la politica italiana in modo trasversale, appellandosi a tutti i partiti per il ripristino della democrazia sostanziale nella governance, dominata da un’Ue non democratica. Nel 2019, viste le incertezze deludenti del governo gialloverde, Magaldi (insieme all’economista Nino Galloni, vicepresidente “rooseveltiano”) ha anche aperto il cantiere del “Partito che serve all’Italia”, work in progress politico-programmatico: fine dell’austerity, istruzioni per l’uso. E ora, con il master, si passa direttamente all’attività formativa. Nel corso di un anno, il programma affronta materie vaste e complesse: istituzioni democratiche e meccanismi elettorali, amministrativi e parlamentari, approfondendo anche le leggi ordinarie e quelle costituzionali. E poi relazioni istituzionali pubbliche e private, euro-atlantismo e Nato, area mediterranea e strategie militari globali, storia contemporanea e dinamiche planetarie.Tra le docenze non mancano “polis e disabilità”, rigenerazione urbana e architettura, organizzazione del lavoro, “percezione di sé e osservazione dell’ambiente”. Un impegno a 360 gradi: modelli democratici ed elettorali a confronto. Una bussola precisa: mente, coscienza ed etica, tra politica e società. In altre parole: si tratta di formare super-cittadini, capaci di misurarsi senza timidezza con qualsiasi interlocutore, per arrivare – domani – a irrobustire finalmente una classe politica diversa, più preparata, in grado di tutelare l’Italia nel solo modo che Magaldi e i suoi ritengono possibile, e cioè recuperando la sovranità democratica di concerto con il resto d’Europa e del mondo. Da qualche tempo, lo stesso Magaldi segnala indizi di un possibile cambiamento in corso: «L’élite massonica neoaristiocratica che ha messo in piedi quest’Europa post-democratica sta per cedere, di fronte al disastro socio-economico che ha prodotto: lo dimostrano anche le esternazioni pubbliche e private di un supermassone come Mario Draghi, tra i massimi architetti dell’austerity, che ora si dichiara pronto a tornare sui suoi passi, recuperando la lezione di Keynes e quella personalmente ricevuta dal grande economista italiano Federico Caffè».Durissimo nel denunciare le peggiori malefatte del potere e i suoi aspetti più occulti, Magaldi ha fiducia nel futuro: crede sinceramente che la democrazia sociale sperimentata in Europa nel dopoguerra possa riprendere il suo corso. Ma per sbriciolare il potere degli oligarchi, dice, occorre una nuova generazione di italiani, all’altezza della sfida. Occorre anche gettare nella spazzatura l’ipocrisia che, nel nostro paese, impedisce di riconoscere il ruolo della massoneria, menzionando le logge solo per demonizzarle. E se sono massoni molti dei protagonisti negativi dell’attuale establishment, è meglio acquisire quelle stesse competenze, anche senza entrare in massoneria. Pure questa, in fondo, è tra le missioni del Master Roosevelt: fare in modo che nessuno detenga il monopolio della conoscenza. Avverte Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sui misfatti neo-feudali del neoliberismo: ai “mostri” del vero potere, menti raffinatissime e preparatissime, non puoi opporre un branco di politicanti spesso mediocri e ignoranti come quelli italiani. Prima ancora che il servilismo, è la loro incompetenza a trasformarli fatalmente in docili maggiordomi, meri esecutori di decisioni prese altrove.Se siamo ridotti così, con governi-fantasma che prendono ordini da Bruxelles, da una Commissione Europea che è solo la cinghia di trasmissione del volere di potentati privati, secondo Magaldi dipende dagli snodi cruciali della storia recente. Per esempio l’eliminazione del massone progressista Olof Palme, campione del welfare svedese, alla vigilia delle trattative che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Da quel “frame” sciagurato non siamo ancora usciti: ci hanno fatto credere che il debito pubblico sia una colpa, e che lo Stato sia come una famiglia che, se s’indebita, poi deve ripagare tutto (e con gli interessi). Solo nel 2018, sulla base di questi presupposti – a essere sovrani sono i mercati finanziari, non i cittadini – Mattarella impedì a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. In quell’occasione, Magaldi chiese le dimissioni del presidente della Repubblica, che definì «un servizievole paramassone». Rispetto all’epoca del governo Monti, l’informazione alternativa ha fatto passi da gigante, grazie al web. E’ cresciuta una forte minoranza, finalmente informata. Fioriscono iniziative, convegni, gruppi. Ma manca ancora un progamma organico per mettere a fuoco il problema in modo esauriente, forgiando autentici esperti. Ed è esattamente a questo che punta il Master Roosevelt, prima scuola italiana che nasce per insegnare a sfidare, domani, questo potere che tiene prigioniero il paese.(L’avvio del Master Roosevelt in Scienze della Polis è previsto per sabato 25 gennaio 2020, ore 9, presso l’Istituto Sant’Orsola di via Livorno 50/a, Roma).Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Carpeoro: Craxi ucciso dai nostri nemici, complici gli italiani
Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” l’Italia, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».Avvocato per trent’anni, Carpeoro (Pecoraro, all’anagrafe) – massone, simbologo, saggista e romanziere – era cresciuto tra i giovani socialisti calabresi alla corte di Giacomo Mancini. A Milano, aveva seguito Bobo Craxi e ricoperto vari incarichi nel Psi. Poi, tra lui e il leader socialista c’erano stati dissapori, quando a Carlo Tognoli fu preferito Paolo Pilliteri come sindaco milanese: «Il problema, con Bettino, era che non accettava che gli si desse torto, né in pubblico né in privato». Si riconciliariono in piena tempesta Mani Pulite: «Gli scrissi, apprezzò le mie parole. Poi, quando riparò ad Hammamet, andai a trovarlo due volte». Beninteso: «Craxi non è semplicemente morto: è stato ucciso», sottolinea Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. L’accusa: gli fu impedito di essere curato in modo adeguato, in Italia, senza venire arrestato. Era piagato dal diabete, insidiato da un tumore. E Craxi preferì morire, piuttosto che affrontare il carcere. In un suo libro appena uscito, Fabio Martini ricorda: l’allora premier Massimo D’Alema chiese al procuratore Francesco Saverio Borrelli di attivare una procedura umanitaria, in modo che Craxi potesse essere operato a Milano, da uomo libero. Ma Borrelli rifiutò. A quel punto, D’Alema avrebbe potuto emanare un decreto, ma non osò farlo. E Craxi, poco dopo, morì. «In carcere, sarebbe sopravvissuto tre giorni», dice Carpeoro: «E per impedirgli di dire la sua, comunque, gli avevano minacciato i figli».Rivelazioni clamorose, anticipate da Carpeoro nel 2015 durante una conferenza dell’associazione “Salus Bellatrix” di Vittorio Veneto, guidata da Francesca Salvador. «Perché Craxi non si difese a viso aperto, contrattaccando, visto che si sentiva vittima di un complotto? Ci aveva provato, contattando Paolo Mieli, Giovanni Minoli e Giancarlo Santalmassi, cioè il “Corriere” e la televisione. Ma quella sera stessa lo raggiunse un avvertimento anonimo e minaccioso all’hotel Raphael, dove alloggiava a Roma». Messaggio esplicito: attento, se parli colpiremo i tuoi figli. «Nel giro di poche ore lo chiamarono Bobo e Stefania: lui aveva trovato la sua casa messa a soqquadro, mentre a lei avevano anche preso i vestiti dagli armadi e glieli avevano bruciati sul terrazzo». I figli erano spaventati, il padre pure: i responsabili della sicurezza di Craxi gli dissero che si trattava di minacce credibili, pericolose. Al che, continua Carpeoro, Bettino rinunciò alle interviste-bomba e passò al Piano-B: «Chiamò l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, e lo incaricò di mediare coi giudici di Milano». L’offerta: siate “morbidi”, e io lascerò l’Italia. Detto fatto: «In molti notarono l’anomala mitezza di Di Pietro nell’interrogatorio di Craxi». Era il segnale atteso: Craxi lasciò il paese da uomo libero, come pattuito. «La Tunisia, l’estradizione non l’avrebbe mai concessa. Ma l’Italia non l’ha comunque mai chiesta».Ipocrisie colossali? E non è tutto: «Nell’archivio del tribunale di Milano – aggiunge Carpeoro – c’è una stanza inaccessibile dove sono tuttora tenuti sotto chiave i dossier riguardanti 6 anni di indagini condotte prima che si venisse a sapere di Mani Pulite». Indagini-fantasma? «A quanto pare, condotte con metodi non legali», cioè senza avvertire gli indagati. «Me ne parlò direttamente un magistrato», dichiara Carpeoro. «Riferii subito la cosa a Bettino, ma decise di non fare nulla: sottovalutò il pericolo. Io comunque sono pronto a testimoniare in aula, se si apre un’inchiesta su questo». Si riaprirà? Carpeoro ne dubita: «Troppi poteri forti non vogliono che se ne parli: dovranno passare altri dieci anni, prima che questo capitolo si possa riaprire». Ancora tanti, i protagonisti in circolazione. L’ex giustiziere Di Pietro? «Una figura interamente costruita per affondare l’Italia colpendo Craxi. Ogni giorno era a colazione con il console americano: al punto che, per l’imbarazzo, gli Usa furono costretti a liberarsi di quel diplomatico». Bruciava ancora la notte di Sigonella: quale altro leader europeo aveva mai osato far circondare i marines dalla propria polizia, per proteggere un commando palestinese? Gli americani volevano Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi della nave da crociera Achille Lauro. Craxi lo difese, in nome della sovranità nazionale, pagando per questo un prezzo altissimo.«Quello che i cialtroni della nostra carta stampata continuano a non dire, e a far finta di non sapere – aggiunge Carpeoro – è che l’unica vittima dei sequestratori della nave, l’anziano paralitico Lion Klinghoffer, non era solo un pensionato ebreo con passaporto statunitense: era anche e soprattutto un alto esponente del B’nai B’rith», l’esclusiva massoneria ebraica che rappresenta il nerbo del Mossad, che in quegli anni si era reso responsabile di azioni sanguinose contro i palestinesi. Era il 1985: l’Italia, quinta potenza industriale del mondo, aveva ancora una politica estera (oltre che un vero governo). Bel problema: andava “risolto”. Aldo Moro era stato “sistemato” come sappiamo, dopo esser stato minacciato di morte da Henry Kissinger. Un anno dopo Sigonella, i killer colpirono Olof Palme a Stoccolma: «Era il leader carismatico dei socialisti europei», ricorda Carpeoro: «Lui vivo, non sarebbero mai riusciti a fare questo aborto di Ue». Per un po’ resistette la Francia, «ma lo stesso Mitterrand fu messo fuori gioco». Restava Craxi, e si sa com’è finita. «Se ti metti contro certi poteri, devi solo sperare di vincere», aggiunge Carpeoro: «Sai già in partenza che, se perdi, poi finisci ad Hammanet. E infine muori, assassinato – di fatto – dai nemici del tuo paese, e con la complicità dei tuoi stessi concittadini, che il potere ha messo contro di te».Carpeoro non fa sconti, agli italiani: si sono lasciati manipolare, come i topolini dal pifferaio di Hameln. Solo oggi, vent’anni dopo, molti di loro aprono gli occhi. «Craxi aveva un progetto ben preciso: voleva un’Europa unita, ma governata dai socialisti». Era stata la dottrina di Olof Palme: «Tagliare le unghie al capitalismo, frenarne gli eccessi». Peccato che il potere, in programma, avesse ben altro: neoliberismo assoluto e “totalitario”, svuotamento della democrazia e sottomissione della politica. Tagli alla spesa, crollo della classe media, rigore fiscale, mortificazione dell’economia reale a favore delle grandi concentrazioni finanziarie. In altre parole, l’attuale Disunione Europea: «Profetiche, in questo senso, le invettive di Craxi da Hammamet di fronte all’avvento dell’euro: ma ormai era un leader screditato in ogni modo, esiliato, latitante». Si era battuto per l’Italia, senza che gli italiani se ne accorgessero. La fine della scala mobile? Per Carpeoro, una concessione tattica al sistema. Il “serpente monetario” Sme? Una vittoria craxiana: uno stratagemma per proteggere la lira dalle speculazioni dei Soros. Dopo di lui, il diluvio: privaizzazioni selvagge, fine dello Stato. Oggi l’Italia è in ginocchio, col cappello in mano a mendicare elemosine a Bruxelles, e senza uno straccio di progetto politico – e men che meno, di statista – in grado di disegnare un futuro diverso.Ha stravinto il peggior potere, il neoliberismo finanziario che ci ha imposto l’austerity come dogma religioso. E l’Italia l’ha messa nel sacco nel solito modo, cooptando italiani “collaborazionisti”. «Siamo un paese così, fin dal Rinascimento: pur di sconfiggere la signoria rivale, ci si allea con gli stranieri». Ben lieti, i baroni dell’ex Pci, di accettare il “vincolo esterno” imposto dall’Ue alla politica italiana: caduta la Prima Repubblica arrivarono finalmente al governo, ma a patto di obbedire agli ordini della sovragestione internazionale. «Craxi fu tolto di mezzo perché, esattamente come Moro, una cosa simile non l’avrebbe mai accettata. Non c’era modo di piegarlo: bisognava eliminarlo». Il suo grande errore? «Si fidava degli italiani: immaginava che prima o poi capissero che lavorava per loro». E invece, gli hanno dato del ladro. Non cambiarono idea neppure il giorno che nessun parlamentare alzò la mano per contestarlo, quando in Parlamento chiese: qualcuno può dire di non aver mai percepito finanziamenti politici illegali? «Si evita sempre di ricordare che, in assenza di una legge adeguata per coprire i costi della politica, la Dc fu finanziata per decenni dagli Usa, e il Pci dall’Urss». Ma il ladro era “Bottino” Craxi, come lo chiama Travaglio, anche se persino Borrelli – prima di morire – si è domandato se Mani Pulite non abbia finito per favorire i grandi poteri che volevano depredare l’Italia.«E’ vero che i soldi servivano a finanziare il partito, ma qualcosa restava attaccato alle dita», dice a Craxi un personaggio del film “Hammamet”. «Di sicuro – replica Carpeoro – le dita non erano quelle di Craxi, che per sé non hai preteso una lira: del suo famoso “tesoro”, solo immaginario, non c’è traccia». Aveva tollerato personaggi discutibili, nel Psi? «Certo, ma era inevitabile: se avesse tagliato anche quelli, avrebbe dimezzato i voti. E il suo grande cruccio è sempre stato quello di non essere riuscito a superare il 15%. Già così, comunque, dava fastidio sia alla Dc che al Pci, che avrebbero preferito fingere in eterno di combattarsi, continuando a spartirsi il potere sottobanco in modo consociativo». Cos’è mancato, a Craxi? Gli italiani: il consenso del paese, nonostante gli enormi successi economici. «E il bello è che la parola “socialismo” riscuoteva generale simpatia». Il maggior merito di Craxi? «Aver sgombrato il campo, una volta per tutte, dalla lotta di classe: l’idea di poter raggiungere un socialismo vero con le riforme, cioè senza la violenza di una rivoluzione». Riforme per il popolo, non contro il popolo (come quelle neoliberiste). E com’è che il potenziale campione diventa un nemico pubblico? Pensiero magico: la fabbricazione dell’Uomo Nero. Carpeoro ne fa una teoria argomentata: si educa la gente a votare “contro”, se si vuole distruggere un paese. Caduto un avversario, eccone un altro. L’importante è non costruire mai niente di buono. Ed eccoci qua, con Salvini e le Sardine, Conte e Di Maio. E l’Italia – o quel che ne resta – divorata in un sol boccone dal pescecane di turno.Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere in crescita stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” il Belpaese, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».
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Chossudovsky: terrorismo Usa, mini-atomiche contro l’Iran
Trump ha fatto ammazzare il generale Qasem Soleimani, che aveva cacciato l’Isis prima dall’Iraq e poi dalla Siria. E come c’era arrivato, lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria? In carrozza, grazie a Barack Obama. Lo ricorda il professor Michel Chossudowsky, economista canadese e analista geopolitico, direttore del newsmagazine “Global Research”. Nel giugno del 2014, una interminabile processione di pick-up Toyota attraversò 200 chilometri di deserto tra Iraq e Siria, senza che si alzasse in volo un solo jet americano: azzerare la colonna sarebbe stato un gioco da ragazzi. Obama, al contrario, s’inventò la farsa dell’operazione “Responsabilità di proteggere”: una coalizione di 19 paesi, che in tre anni non ha liberato proprio niente. A sgominare l’Isis ha provveduto l’aviazione della Russia, con l’aiuto sul terreno delle forze iraniane del generale Soleimani e gli Hezbollah libanesi in appoggio all’esercito siriano. Che i media occidentali non ne parlino, è motivo di ulteriore vergogna. Ma ormai, ricorda Chossudowsky, tutto il Medio Oriente sa benissimo che sono stati gli Usa e la Nato a creare l’Isis. Per questo Trump scherza col fuoco, mentre l’Iraq intima lo sfratto ai militari americani. E se proprio la Casa Bianca volesse colpire Teheran in modo efficace, secondo Chossudowsky dovrebbe ricorrere alla bomba atomica.Sempre secondo l’analista canadese, peraltro, il Pentagono non è in una posizione ottimale: continua a considerare super-sicura la sua principale base operativa nell’area, quella di Al-Udeid vicino a Doha in Qatar, ignorando che nel frattempo «il Qatar ha normalizzato le sue relazioni con l’Iran, avviando persino una cooperazione militare estesa ad Hezbollah e addirittura ad Hamas». Mentre i bombardamenti e gli attacchi missilistici possono essere lanciati da altre basi in Medio Oriente e da Diego Garcia nell’Oceano Indiano, gli 11.000 soldati più vicini all’Iran sono proprio quelli stanziati in Qatar, cioè in un paese arabo che ha preso le distanze dal terrorisimo sunnita finanziato dall’Occidente, schierandosi apertamente con le forze sciite. Né dovrebbe rassicurare particolarmente il fatto che l’altra grande base della regione, quella di Incirlik, finora strategica in tutte le operazioni a guida Usa-Nato in Medio Oriente, sia sotto il controllo di un partner problematico come la Turchia, che sta trattando l’acquisto con Mosca dei missili anti-missile S-400, che neutralizzano razzi, droni e caccia della Nato. Mentre una guerra contro l’Iran resta sul tavolo del Pentagono, in queste condizioni – secondo “Global Research” – è impensabile una guerra-lampo di tipo convenzionale, con l’impiego simultaneo di forze terrestri e aeronavali.Proprio per questo, aggiunge Chossudowsky, i falchi di Trump pensano ad attacchi missilistici mirati, le cosiddette “operazioni da naso sanguinante”. Tra queste, purtroppo, l’opzione nucleare: cosa che porterebbe inevitabilmente all’escalation “mondiale”, da tutti temuta. Follia? «I pazzi fanno cose pazze», avverte un analista come Edward Curtin, puntando il dito contro gli oligarchi che circondano Trump: il segretario di Stato Mike Pompeo, il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien e lo stesso Brian Hook, rappresentante speciale per l’Iran e consigliere di Pompeo. «Potrebbero “consigliare” al presidente Trump di autorizzare una “operazione da naso sanguinante” contro l’Iran usando armi nucleari tattiche (B61 bunker-buster), che il Pentagono ha classificato come “innocue per i civili perché l’esplosione è sotterranea”. Ma è una bugia, protesta Chossudowsky: «L’arma nucleare tattica ha una capacità esplosiva tra un terzo e 12 volte una bomba di Hiroshima, secondo il “Bulletin of Atomic Scientists”». Proprio le incertezze degli Usa riguardo alla loro supremazia assoluta, sul piano concenzionale, poterebbero spingere i “pazzi” della Casa Bianca a usare le micidiali “bunker-buster”, definite “tattiche”?«Le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran stanno salendo a spirale verso uno scontro militare che ha una reale possibilità che veda gli Stati Uniti usare armi nucleari», scrive Chossudowsky. «L’assortimento di capacità asimmetriche dell’Iran – tutte costruite per essere efficaci contro gli Stati Uniti – quasi assicura uno scontro del genere. E l’attuale posizione nucleare degli Usa lascia l’amministrazione Trump almeno aperta all’uso di armi nucleari “tattiche” nei teatri convenzionali». Alcuni, nell’attuale amministrazione, potrebbero pensare che la bomba-bunker possa assicurare «una vittoria rapida e decisiva nel centro petrolifero del Golfo Persico». Nel rappoprto del 2029 del “Bulletin of Atomic Scientists”, Hans Kristensen e Matt Korda spiegano che gli Usa dispongono di circa 230 ordigni nucleari tattici. Di queste bombe-bunker, circa 50 sono in Turchia nella base di Incirlik, mentre 180 atomiche “tattiche” sono dislocate nei quattro paesi europei non nucleari: Germania, Belgio, Paesi Bassi e, naturalmente, Italia. Secondo Chossudowsky, il pericolo è reale: «L’uso di armi nucleari “tattiche” non richiede l’autorizzazione del “comandante in capo”, che riguarda esclusivamente le cosiddette armi nucleari strategiche».Trump ha fatto ammazzare il generale Qasem Soleimani, che aveva cacciato l’Isis prima dall’Iraq e poi dalla Siria. E come c’era arrivato, lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria? In carrozza, grazie a Barack Obama. Lo ricorda il professor Michel Chossudovsky, economista canadese e analista geopolitico, direttore del newsmagazine “Global Research“. Nel giugno del 2014, una interminabile processione di pick-up Toyota attraversò 200 chilometri di deserto tra Iraq e Siria, senza che si alzasse in volo un solo jet americano: azzerare la colonna sarebbe stato un gioco da ragazzi. Obama, al contrario, s’inventò la farsa dell’operazione “Responsabilità di proteggere”: una coalizione di 19 paesi, che in tre anni non ha liberato proprio niente. A sgominare l’Isis ha provveduto l’aviazione della Russia, con l’aiuto sul terreno delle forze iraniane del generale Soleimani e gli Hezbollah libanesi in appoggio all’esercito siriano. Che i media occidentali non ne parlino, è motivo di ulteriore vergogna. Ma ormai, ricorda Chossudovsky, tutto il Medio Oriente sa benissimo che sono stati gli Usa e la Nato a creare l’Isis. Per questo Trump scherza col fuoco, mentre l’Iraq intima lo sfratto ai militari americani. E se proprio la Casa Bianca volesse colpire Teheran in modo efficace, secondo Chossudovsky dovrebbe ricorrere alla bomba atomica.
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Teheran, il Boeing “truccato” perché sembrasse militare?
Quanto ci vuole a fare in modo che i radar scambino un aereo per un altro? Operazione facilissima, dice un analista come Gianfranco Carpeoro, alludendo al tragico abbattimento del Boeing ucraino nei cieli di Teheran. Un incidente catastrofico, che difficilmente sarebbe accaduto se gli Usa non avessero messo in tensione l’Iran con l’assassinio del generale Soleimani: l’accusa, acuminata, proviene nientemeno che dal premier canadese Justin Trudeau, che rimprovera a Trump il fatto di non aver nemmeno avvertito gli alleati del raid omicida che il Pentagono stava preparando. La strage – 173 morti, iraniani e canadesi – è stata provocata da due missili lanciati dalla difesa iraniana contro il velivolo, scambiato per un aereo nemico (almeno, stando alle ammissioni dei Pasdaran). In modo clamoroso, l’Iran ha compiuto un’operazione-trasparenza più unica che rara, dichiarando pubblicamente la propria responsabilità e chiedendo scusa per l’accaduto, in mondovisione. Per gli ayatollah, uno smacco terribile: l’abbattimento del Boeing spezza le gambe alla propaganda nazionale, gonfiatasi a dismisura sull’onda emotiva innescata dall’uccisione di Soleimani, con 7 milioni di persone ai funerali e il capo del paese – Khamenei – vistosamente in lacrime.Torna alla mente la clamorosa denuncia formulata sui media da Enrico Gianini, l’operatore aeroportuale di Milano Malpensa che qualche anno fa segnalò (anche alla polizia) lo sgocciolamento di liquidi anomali dalle ali dei jet, una volta a terra, nonché l’installazione su diversi aerei di strani serbatoi, sotto la coda, a spese del vano bagagli posteriore. Una denuncia caduta nel vuoto, come tutte quelle succedutesi – anche in Parlamento – sul problema-tabù delle cosiddette scie chimiche: interrogazioni finite nel nulla. Senza seguito persino le parole del generale Fabio Mini, già dirigente di alto livello della Nato: «E’ giusto che le autorità si decidano finalmente a spiegare, ai cittadini, in cosa consistano le strane scie bianche permanenti che gli aerei rilasciano nei cieli da una quindicina d’anni». Ma Gianini, in una intervista a “Border Nights”, disse anche un’altra cosa: assicurò di aver monitorato diversi voli, provenienti ad esempio dalla Svizzera. Voli che, dopo aver spento e riacceso il transponder una volta entrati nello spazio aereo italiano, da civili “diventavano” militari, o viceversa. E se qualcuno avesse analogamente alterato l’identità del Boeing di Teheran, facendolo scambiare per un volo militare nemico?In questo caso, le autorità iraniane avrebbero dovuto riconoscere di essere cadute in una trappola: ammissione impossibile, per un regime che affida proprio alla sua capacità militare la relativa propaganda patriottica di un regime assediato dall’Occidente fin dalla sua nascita, quarant’anni fa. Tralasciando il cinismo stragista di chi avrebbe architettato l’eventuale imbroglio (solo ipotetico, non dimostrato in alcun modo), Alberto Tarozzi su “Alga News” segnala che, nella trasmissione “Tg3 Mondo” condotta da Maria Cuffaro, Raffaele Mauriello ha rivelato lo smarrimento dei cittadini iraniani, prima colpiti dall’agguato contro Soleimani e poi disorientati dal mea culpa di Rohani per l’abbattimento del Boeing. Mentre i grandi media hanno enfatizzato la consistenza delle manifestazioni antigovernative, al pubblico di RaiTre – sintetizza Tarozzi – Mauriello ha riportato «uno sconcerto diffuso, da parte di un popolo che trova più difficile di ieri rivolgersi a qualcuno di cui fidarsi: non certo Trump, non certo questa Ue». In effetti, «nel momento in cui è lo stesso regime a denunciare le proprie fragilità, il popolo iraniano (e non solo le migliaia in piazza l’altro giorno) potrebbe vivere in modo meno stoico le difficoltà economiche incombenti in seguito alle sanzioni».Donald Trump non avrebbe potuto aspettarsi un regalo migliore, dal destino: è semplicemente un copione perfetto, quello che ripropone la vittima (l’Iran) nel ruolo del carnefice, se riesce a uccidere 173 innocenti, in volo verso il Canada, pochi giorno dopo aver subito la più grande ferita, come nazione, dopo la guerra con l’Iraq. Facile aggiungere che, di “false flag”, gli Usa se ne intendono: dall’incidente navale (mai avvenuto) nel Golfo del Tonchino per innescare la Guerra del Vietnam fino all’11 Settembre, nelle cui conseguenze siamo tuttora immersi, gli Stati Uniti non temono rivali, al mondo, in questa specialità. Non c’è dittatura sul pianeta che abbia potuto eguagliare la grande democrazia americana, quando si tratta di massacrare innocenti per far ricadere la colpa della strage sul paese che si progetta di invadere. Dopo le “armi di distruzioni di massa” di Saddam in Iraq, di recente si sono visti i gas nervini (altrettanto inesistenti) di Assad in Siria. Ora è caduto un aereo a Teheran, dopo un’uccisione terroristica – quella di Soleimani – che gli Usa non hanno saputo giustificare: da Trump e soci, nessuna spiegazione seria.Quanto ci vuole a fare in modo che i radar scambino un aereo per un altro? Operazione facilissima, dice un analista come Gianfranco Carpeoro, alludendo al tragico abbattimento del Boeing ucraino nei cieli di Teheran. Un incidente catastrofico, che difficilmente sarebbe accaduto se gli Usa non avessero messo in tensione l’Iran con l’assassinio del generale Soleimani: l’accusa, acuminata, proviene nientemeno che dal premier canadese Justin Trudeau, che rimprovera a Trump il fatto di non aver nemmeno avvertito gli alleati del raid omicida che il Pentagono stava preparando. La strage – 173 morti, iraniani e canadesi – è stata provocata da due missili lanciati dalla difesa iraniana contro il velivolo, probabilmente scambiato per un aereo nemico (almeno, stando alle ammissioni dei Pasdaran). In modo clamoroso, l’Iran ha compiuto un’operazione-trasparenza più unica che rara, dichiarando pubblicamente la propria responsabilità e chiedendo scusa per l’accaduto, in mondovisione. Per gli ayatollah, uno smacco terribile: l’abbattimento del Boeing spezza le gambe alla propaganda nazionale, gonfiatasi a dismisura sull’onda emotiva innescata dall’uccisione di Soleimani, con 7 milioni di persone ai funerali e il capo del paese – Khamenei – vistosamente in lacrime.
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Noi terroristi e i diritti altrui: l’Impero ha assorbito l’America
Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici.”Apparentemente, Soleimani era volato a Baghdad con un volo commerciale “terroristico” segreto, per recarsi ad una sorta di incontro diplomatico “terroristico” altrettanto segreto, dove avrebbe dovuto discutere di de-escalation con i sauditi (che sicuramente non sono “terroristi”), quando l’esercito americano lo aveva preventivamente ucciso con un drone Mq-9b Reaper della General Atomics Aeronautical Systems. L’Iran, (ufficialmente un paese “terrorista” fin dal gennaio 1979, quando gli iraniani avevano rovesciato il brutale fantoccio dell’Occidente che la Cia e l’Mi6 avevano installato come loro “Shah” nel 1953, che aveva defenestrato il primo ministro iraniano, reo di aver nazionalizzato la compagnia petrolifera anglo-persiana, in seguito conosciuta come British Petroleum), aveva reagito all’omicidio preventivo del loro generale “terrorista” proprio come un paese di “terroristi”. L’ayatollah Khamenei (avete indovinato, un “terrorista”) aveva lanciato una serie di minacce “terroristiche” contro i 50.000 uomini del personale militare degli Stati Uniti che, più o meno, circondano completamente il suo paese, con basi in tutto il Medio Oriente.Milioni di iraniani (attualmente “terroristi,” ad eccezione dei membri del Mek), che, secondo i funzionari statunitensi odiavano Soleimani, erano scesi nelle strade di Teheran e di altre città per piangere la sua morte, bruciare bandiere americane e gridare “morte all’America” e altri slogan “terroristici”. L’Impero era andato a Defcon 1. L’82a Divisione Aviotrasporta era stata messa in allerta. Il Dipartimento di Stato aveva consigliato agli americani in vacanza in Iraq di andarsene da lì, #worldwar3 aveva iniziato a fare tendenza su Twitter. I paesi amanti della libertà di tutta la regione stavano per essere annientati. L’Arabia Saudita aveva posticipato la sua già programmata edizione del fine settimana di decapitazioni pubbliche. Israele aveva attivato le sue inesistenti armi nucleari. I kuwaitiani avevano messo guardie armate davanti alle loro incubatrici. Qatar, Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri fedeli avamposti dell’Impero avevano fatto quello che di solito si fa quando si è di fronte all’Armageddon nucleare.Negli Stati Uniti, era un’isteria collettiva. I media corporativi avevano iniziato a pompare storie su Soleimani con «le mani che grondavano sangue», «il terrorista numero uno al mondo», reo di aver ucciso centinaia di soldati americani che, nel 2003, dopo aver preventivamente invaso e distrutto l’Iraq, stavano preventivamente massacrando e torturando gli iracheni per impedire loro di attaccare l’America con le loro inesistenti armi di distruzione di massa. Gli americani (la maggior parte dei quali non aveva mai nemmeno sentito parlare di Soleimani fino a quando il loro governo non lo aveva ucciso, e che non sarebbe in grado trovare l’Iran su una carta geografica) si erano buttati su Twitter per chiedere l’immediato bombardamento dell’Iran direttamente dallo spazio. Il sindaco Bill de Blasio aveva ordinato a una divisione di forze “anti-terrorismo” pesantemente armate di vigilare su New York City, fucili imbracciati, per impedire agli iraniani di attraversare a nuoto l’Atlantico (insieme al loro delfini assassini comunisti), toccare terra ad East Hampton Beach, prendere la metropolitana fino in città e commettere atrocità “terroristiche” devastanti, che sarebbero poi state commemorate per l’eternità su portachiavi, magliette e tazze da caffè extralarge.Trump, da buon agente russo, aveva tenuto i nervi saldi e non si era fatto scoprire, eseguendo il suo numero di “completo deficiente” come solo un esperto agente russo è in grado di fare. Mentre l’Iran era ancora in lutto, aveva iniziato a farfugliare in pubblico sul cadavere smembrato di Soleimani, sul bombardamento di siti culturali iraniani e a schernire grossolanamente l’Iran come un ubriaco da strada emotivamente alterato. La sua strategia era chiaramente quella di convincere gli iraniani (e il resto del mondo) di essere un pericoloso imbecille che avrebbe ucciso i funzionari di qualsiasi governo straniero che Mike Pompeo gli avesse indicato, e che poi avrebbe incenerito i loro musei e le loro moschee e, presumibilmente, anche tutto il resto del loro “cessoso” paese, se solo avessero pensato a ritorsioni. Ciononostante, gli iraniani avevano reagito. In una sadica esibizione di “spietato terrorismo”, avevano lanciato una tempesta di missili balistici “terroristici” contro due basi militari statunitensi in Iraq, non uccidendo nessuno e non ferendo nessuno, ma riducendo in cenere alcuni edifici vuoti, un elicottero e un paio di tende.Prima, però, al fine di massimizzare il “terrore”, avevano chiamato i funzionari dell’ambasciata svizzera a Teheran e avevano chiesto loro di avvertire i militari statunitensi che, a breve, avrebbero lanciato alcuni missili contro le loro basi. Come riportato dal sito web di “Moon of Alabama”: «L’ambasciata svizzera a Teheran, che rappresenta gli Stati Uniti, era stata avvertita almeno un’ora prima dell’attacco. Intorno alle 0:00 Utc, la Federal Aviation Administration degli Stati Uniti aveva emesso un avviso agli aviatori (Notam) che proibiva i voli civili statunitensi su Iraq, Iran, Golfo Persico e Golfo di Oman». Sulla scia del devastante contrattacco degli iraniani e delle non-vittime di massa risultanti, chiunque in possesso di una connessione ad Internet o ai canali televisi era sceso nel proprio bunker anti-terrorismo e aveva trattenuto il respiro, in previsione dell’inferno nucleare che Trump avrebbe sicuramente scatenato. Confesso di aver seguito anch’io il suo discorso, uno degli spettacoli pubblici più inquietanti a cui abbia mai assistito.Trump era uscito a passo di carica dalle porte del Grand Foyer della Casa Bianca, drammaticamente retroilluminato, “abbronzato” di fresco, accigliato come un lottatore di wrestling, e aveva annunciato che, finché sarebbe stato presidente, «all’Iran non sarà mai permesso di avere armi nucleari», come se uno qualsiasi degli eventi della settimana precedente avesse avuto a che fare con le armi atomiche (di cui gli iraniani non hanno bisogno e che non vogliono, tranne che in qualche delirio dei Neoconservatori, a meno che non intendano suicidarsi come nazione nuclearizzando Israele). Non ce l’avevo fatta ad ascoltare tutto il suo discorso, proferito in uno staccato affannato e robotico (forse perché Putin, o Mike Pompeo, glielo dettavano, parola per parola, nel suo auricolare), ma era stato chiaro fin dall’inizio che si era evitato lo scontro nucleare completo, faccia a faccia, con l’Asse della Resistenza, o l’Asse del Terrore, o l’Asse del Male o l’asse di qualunque cosa. Ma, seriamente, isteria di massa a parte, nonostante qualunque atrocità debba ancora arrivare, la Terza Guerra Mondiale non scoppierà. Perché, vi chiederete?Ok, ve lo dico, ma non vi piacerà. La Terza Guerra Mondiale non ci sarà perché la Terza Guerra Mondiale è già avvenuta … e l’Impero Capitalista Globale ha vinto. Date un’occhiata alle mappe della Nato (con tutte le varie basi). Guardate la mappa dello Smithsonian delle località in cui i militari statunitensi “combattono il terrorismo”. E ci sono molte altre mappe che potete cercare con Google. Quello che vedrete è l’Impero Capitalista Globale. Non l’Impero Americano, l’Impero Capitalista Globale. Se questo suona come una distinzione senza importanza, be’, in un certo senso lo è (e in un certo senso, no). Quello che voglio dire è che non è l’America (cioè l’America come Stato-nazione, in cui la maggior parte degli americani crede ancora di vivere) che sta occupando militarmente gran parte del pianeta, facendosi beffe del diritto internazionale, bombardando, invadendo altri paesi e assassinando capi di Stato e militari in totale impunità. O meglio, certo, è l’America: ma l’America non è l’America.L’America è una simulazione. È la maschera che l’Impero Capitalista Globale indossa per nascondere il fatto che non esiste l’America, che esiste solo l’Impero Capitalista Globale. L’intero concetto di Terza Guerra Mondiale, di potenti Stati-nazione che conquistano altri potenti-Stati-nazione, è pura nostalgia. L’”America” non vuole conquistare l’Iran. L’Impero vuole ristrutturare l’Iran e poi assorbire l’Iran nell’Impero. Se ne sbatte della democrazia, del fatto che alle donne iraniane sia permesso o meno indossare la minigonna o degli altri “diritti umani”. Se così non fosse, ristrutturerebbe l’Arabia Saudita e applicherebbe la “massima pressione” su Israele. Allo stesso modo, l’idea che “l’America” in Medio Oriente abbia commesso una serie di sfortunati “errori strategici” è una conveniente illusione. Certo, la sua politica estera non ha senso dal punto di vista di uno Stato-nazione, ma è perfettamente logica dal punto di vista dell’Impero.Mentre “l’America” sembra agitarsi senza senso, come un toro in un negozio di porcellane, l’Impero sa esattamente cosa sta facendo e ha continuato a farlo fin dalla fine della Guerra Fredda, aprendo mercati precedentemente inaccessibili, eliminando le resistenze interne, ristrutturando in modo aggressivo tutti quei i territori che non volevano accettare le regole del capitalismo globale. So che è gratificante sventolare la bandiera (o bruciarla, a seconda della vostra propensione politica) ogni volta che le cose si infiammano militarmente; ma ad un certo punto, noi (americani, inglesi, occidentali) dovremo affrontare il fatto che viviamo in un impero globale, che persegue attivamente i suoi interessi globali, e non in Stati nazionali sovrani che fanno gli interessi degli Stati nazionali. (Il fatto che lo Stato-nazione sia defunto è il motivo per cui stiamo assistendo ad una rinascita del “nazionalismo”. Non è un ritorno agli anni Trenta. E’ l’agonia dello Stato-nazione, del nazionalismo e della sovranità nazionale… la supernova di una stella morente). La Terza Guerra Mondiale è stata una battaglia ideologica, tra due sistemi egemonici in competizione. È finita. Questo è un mondo capitalista globale.Come afferma Jensen nel film “Network”: «Sei un vecchio che pensa in termini di nazioni e di popoli. Non ci sono nazioni. Non ci sono popoli. Non ci sono russi. Non ci sono arabi. Non ci sono Terzi Mondi. Non c’è Occidente. Esiste un solo sistema olistico di sistemi: un vasto, immane, intrecciato, interconnesso, multivariato, multinazionale dominio dei dollari. Petro-dollari, elettro-dollari, multi-dollari, reichsmark, yen, rubli, sterline e shekel. È il sistema internazionale delle valute che determina la totalità della vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose, oggi». Quel sistema di sistemi, quel dominio multivariato e multinazionale di dollari, ci tiene tutti per le palle, gente. Tutti quanti. E non sarà soddisfatto fino a quando il mondo non si sarà trasformato in un inutile e privatizzato grande mercato neo-feudale. Quindi dovremmo dimenticarci della Terza Guerra Mondiale ed iniziare a concentrarci sulla Quarta Guerra Mondiale. Sapete di quale guerra sto parlando, vero? Quella dell’Impero Capitalista Globale contro i “terroristi.”#(C.J. Hopkins, “La Terza Guerra Mondiale”, da “Unz.com” del 13 gennaio 2020, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici”.
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La Lega non ha idee, chiede le elezioni ma spera resti Conte
Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».Se non è un partito, l’ex Carroccio che cos’è? «Uno spazio aperto – secondo Mannino – dove si è imposta la leadership di Salvini in ragione della sua esuberanza». Ma ecco il suo limite: «Salvini non ha né una strategia, né un progetto politico preciso». Quanto a Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia – annota Ferraù – oggi viene accreditata di simpatie atlantiche, indispensabili per andare al governo. «La coerenza con la quale pratica il verbo sovran-nazionalista la rende gradita al giro di Trump», conferma Mannino. Il vero problema è questo: molti osservatori – scrive Ferraù – cominciano a supporre che Salvini e Meloni non facciano vera opposizione perché, se domani andassero al governo, non saprebbero cosa fare. L’ex ministro democristiano conferma: devono “minacciare” di voler andare al governo, ma si augurano che la scadenza elettorale sia la più lontana possibile. La verità è che «temono di vincere», e così «offrono a questa maggioranza l’alibi-pretesto per rimanere in sella, peraltro ben utilizzato dal trasformismo di Conte». L’unico serio problema per la tenuta della maggioranza sembra dunque venire dalla possibile dissoluzione dei 5 Stelle? «Sembra, ma è un’eventualità lontana dai fatti», dice Mannino: «Ogni giorno si accentua la polemica, ma al momento decisivo Di Maio si guarda bene dal rompere, perché non ha alternativa al restare al governo».Oggi, sempre secondo Mannino, nella sostanza i 5 Stelle seguono la linea Grillo-Fico. Obiettivo? Controllare i grillini, una volta che saranno diventati «una corrente nel Pd». Niente male, come orizzonte: «Lo spettro che si agita – aggiunge Mannino – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine. Un rassemblement radicale di massa, con dentro la componente chic». A legittimare questo scenario, secondo Mannino è il ruolo del Pd: «Ha rinunciato anch’esso a essere un partito politico di garanzia democratica per porsi sul terreno movimentistico della resistenza alla Lega». In questa veste, il partito di Zingaretti «ha aperto in tutte le direzioni», in questo non si è accorto di una costante fondamentale: inseguendo i movimenti, i partiti spariscono. «Ogni superamento della forma-partito postula una cangiante versione del populismo», sostiene Mannino: «Anche Berlusconi fu un movimento populista: così si oppose all’armata partitica di brancaleoniana memoria assoldata nel 1994 da Achille Occhetto». Ci risiamo? «Assistiamo a qualcosa di simile nei maggiori paesi», dice Mannino. «I partiti pretendono di intercettare i movimenti, ma in questa operazione diventano instabili, mobili qual piuma al vento. Vale per Trump, per Spd e Cdu in Germania, per il Ps francese messo in crisi da Macron».Domanda Ferraù: sarà dunque questa legislatura a votare nel 2022 il nuovo capo dello Stato? «Al momento attuale – risponde l’ex ministro – questa legislatura è intatta e intangibile, quindi pronta per quella scadenza». E cosa pensare dello strano intreccio tra nuova ipotesi di proporzionale, referendum Calderoli per il maggioritario e referendum contro il taglio dei parlamentari? «Alla fine – afferma Mannino – nessuno vuole il proporzionale, tranne i più piccoli. Ma questi vorrebbero anche essere garantiti, e non potendo esserlo con il proporzionale, un sistema in parte maggioritario e in parte proporzionale come l’attuale rende loro possibile un’alleanza (a sinistra con il Pd, e a destra con la Lega)». La Consulta dirà se il referendum Calderoli è ammissibile. Intanto, Salvini e Meloni hanno detto sì al Mattarellum. Perché? «Siamo alle mosse tattiche: o facciamo la legge nuova insieme o insieme lasciamo l’attuale». Secondo Mannino, questo «significa che la filosofia dominante, nell’attuale confusione temporale e spaziale, è “hic manebimus optime”. Tutti ragionano così: mi tengo quello che ho e sto bene dove sono».Mannino non crede che in Italia possa irrompere un fattore imprevisto che possa mettere in discussione questo status quo, che «dipende dal superamento della linea strategica rooseveltiana che l’America ha costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale». E’ un fatto: «Oggi l’impero è in crisi e le province sono nel caos». Ovvero: «Gli Stati Uniti hanno organizzato l’impero per comparti. Uno è l’Europa: Italia, Francia e Germania facciano pure la Ceca, l’Euratom e tutto il resto, cioè l’Europa unita. Io – gli Usa – però ne dispongo, perché la Nato tiene l’Europa». Ed ecco l’effetto-Donald: «Il sovranismo confusionario di Trump, inserito come elemento di contraddizione nell’attuale sgretolamento dell’assetto politico mondiale, ha un risultato sorprendente: non è avversario dello status quo, ne diviene causa e condizione». Allora sarà Washington, ancora una volta, a dirci chi eleggere al Quirinale? «Assisteremo a un aggiustamento all’interno della maggioranza Pd-M5S», scommette Mattino. Tradotto: Conte al Colle e Zingaretti al governo? «Non riesco a seguire questo giochino di figurine», chiosa Mannino. «Vince chi soffia più forte».Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».
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Billi: Travaglio ha “normalizzato” i 5 Stelle, ora globalisti
Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.Qualche illuso continua ad aggrapparsi all’idea del “torniamo al M5S delle origini”: ebbene, questo è impossibile. Il M5S delle origini rappresentava una sintesi di posizioni possibile in tempo di pace, a globalismo imperante. Questo momento storico, piaccia o no, impone invece di schierarsi: pro, o contro. Succede ovunque, in tutti i paesi, in tutti i continenti, e il M5S non può pretendere di starsene fuori dalla storia per rimanere aggrappato a un purismo ultras partes che avrà sì rappresentato in passato un successo politico, ma che ormai non è più quello che gli stessi elettori chiedono. Per questo perde voti (#stacce, direbbero su Twitter). Il dibattito interno del M5S è completamente fuori sintonia: dito e luna, in due parole. Questo è ciò che succede quando ci si fa orientare la discussione dai giornali, d’altronde. Il “Fatto”, in primis, sta schiacciando l’acceleratore: mi spiace per Luca De Carolis, persona perbene e giornalista serio (uno dei pochi), ma il suo “scoop” su Di Maio contribuirà a dare il colpo di grazia al M5S e normalizzarlo nella direzione voluta dal potere, ovvero l’allineamento al paradigma dominante.Ma soprattutto, lo scopo di tutta l’operazione in corso da mesi è scongiurare il coagularsi di una formazione antiglobalista in Italia: quindi distruzione dell’anima M5S statalista, pro-lavoratori, contro l’arroganza Ue, della finanza, delle banche, le ingerenze e i ricatti delle potenze straniere, via insomma quell’anima ribelle che non avrebbe potuto fare altro che appunto ribellarsi alla prepotenza di un potere che, messo in discussione ovunque, vuole ora imporsi in modo più aggressivo che mai. Tutto il panorama politico italiano va normalizzato, e la scheggia imprevedibile messa sotto controllo (così come è ancora sotto controllo la Lega, tante volte qualcuno si illuda). Non si possono correre rischi di Gilet Gialli nelle strade o peggio, che spunti qualche leader alla Johnson in Parlamento… non che se ne intravedano all’orizzonte del M5S, ma non si sa mai. Di Maio, seppur moderatissimo (ahimé, e questo è il suo errore) dovrà essere asportato in quanto rappresentante del vecchio M5S incontrollabile, e sostituito con qualche figura dal carisma zingarettiano che assicuri la transizione verso la soporifera reincarnazione piddina. Conte il liquidatore farà il resto, come sta peraltro già attivamente facendo.(Debora Billi, “La normalizzazione globalista del M5S”, dalla pagina Facebook della Billi dell’11 gennaio 2020).Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.