Archivio del Tag ‘Matteo Renzi’
-
Ma fa davvero paura a qualcuno, il subcomandante Di Maio?
I partiti di governo della Prima Repubblica facevano i congressi anche “coi morti”, cioè non depennando i militanti nel frattempo defunti dal computo rissoso delle correnti, e dunque delle rispettive poltrone. La notizia? I congressi, i partiti di oggi non li fanno proprio più, nemmeno “con i vivi”. Sono tutti morti? Ovvero: è vivo, il Pd che non ha ancora osato guardare in faccia Matteo Renzi e la sua catastrofe a rate, dal referendum 2016 alle politiche 2018? E’ viva Forza Italia, che dopo tanti anni non sa ancora cosa voglia dire mettere in discussione il verbo del fondatore-padrone? Ed è il vivo il Movimento 5 Stelle, che non ha mai celebrato un congresso – nemmeno per sbaglio – in tutta la sua vita? E’ vivo, un partito-marketing nato via web senza neppure una vera sede e i cui iscritti ed eletti non sono nemmeno legittimi comproprietari, pro quota, della sovranità politica simbolica del marchio sotto cui si presentano alle elezioni? Il mondo è in mano a multinazionali, imperi finanziari e potentissimi tecnocrati, signori della proprietà assoluta intesa come religione. Che idea si possono esser fatti, di una nazione politicamente nullatenente? Cosa devono pensare dell’Italia che sceglie di votare per partiti i cui iscritti e militanti non contano niente? Gli attuali partiti-fantasma sembrano lo specchio perfetto di un paese ideale, per il sommo potere: un paese in cui sono i cittadini a non contare nulla.Dalle catacombe della fu sinistra, è l’ex viceministro bersaniano Stefano Fassina ad avvertire il Quirinale: «Preoccupa che anche Mattarella affronti la questione della sovranità popolare con scomunica di “sovranismo”», scrive Fassina su Twitter. «L’alternativa all’Ue liberista fondata sulla svalutazione del lavoro non è autarchia o ritorno all’800, ma patriottismo costituzionale». Eppure, per il mainstream è giusto, sacrosanto, che il capo dello Stato pretenda di “suggerire” personalmente i ministri chiave, dagli esteri all’economia. Lo ripetono a reti unificate personaggi come il filosofo televisivo Massimo Cacciari e il giornalista Massimo Giannini: guai, se i titolari di quei dicateri dovessero esser scelti da politici avventati e pericolosamente populisti come Di Maio e Salvini. Guai, se a comporre davvero il cuore del futuro governo fossero le due forze – 5 Stelle e Lega – che hanno stravinto le elezioni. Vorrebbe dire che l’Italia potrebbe trovarsi di colpo, per la prima volta dopo molti anni, di fronte al grave pericolo di scegliere il proprio destino in modo democratico. Guai, quindi, se a comporre il toto-ministri fossero proprio i due partiti che hanno raccolto oltre il 50% dei consensi degli italiani. L’altra metà della verità può sembrare altrettanto sgradevole: siamo sicuri che Salvini, ma soprattutto Di Maio, rappresentino davvero un fondato motivo di allarme per l’establishment bancario ed eurocratico?Quantomeno, il leader della Lega ha eletto al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai, nemico storico del rigore di Bruxelles, e ha promesso di demolire l’austerity facendo crollare la tassazione. Salvini ha anche condannato le sanzioni alla Russia e i missili Nato sulla Siria, ma Di Maio? Al contrario, ha graziosamente visitato i santuari massonici della finanza angloamericana e ha “sbianchettato” dal programma pentastellato i passaggi pro-Russia, tacendo sulla guerra siriana. Ha sventolato il totem del reddito di cittadinanza evitando però di spiegare esattamente come attuarlo, senza violare le regole-capestro imposte dall’Ue. Ha dovuto pure digerire l’insolenza di chi gli rinfacciava l’ex lavoro di steward allo stadio, anziché domandarsi chi fosse davvero, Luigi Di Maio, e perché mai è stato incoronato leader dei 5 Stelle (senza un vero programma) dopo primarie-burla, vinte in solitaria. Di chi è, il Movimento 5 Stelle? Che fine farebbe, un militante (o peggio, un eletto) che osasse esprimere dissenso? Undici milioni di voti, elargiti non si sa esattamente a chi, né per fare cosa. Il tutto tra i moniti di Mattarella e la platea d’élite, che guarda l’Italia votare in massa contro l’euro anzi per l’euro, per la Nato o meglio per la Russia, per i vaccini obbligatori o forse contro, non si sa. E’ davvero così malconcio, il super-potere, da inquietarsi al cospetto del minuscolo Di Maio?I partiti di governo della Prima Repubblica facevano i congressi anche “coi morti”, cioè non depennando i militanti nel frattempo defunti dal computo rissoso delle correnti, e dunque delle rispettive poltrone. La notizia? I congressi, i partiti di oggi non li fanno proprio più, nemmeno “con i vivi”. Sono tutti morti? Ovvero: è vivo, il Pd che non ha ancora osato guardare in faccia Matteo Renzi e la sua catastrofe a rate, dal referendum 2016 alle politiche 2018? E’ viva Forza Italia, che dopo tanti anni non sa ancora cosa voglia dire mettere in discussione il verbo del fondatore-padrone? Ed è il vivo il Movimento 5 Stelle, che non ha mai celebrato un congresso – nemmeno per sbaglio – in tutta la sua vita? E’ vivo, un partito-marketing nato via web senza neppure una vera sede e i cui iscritti ed eletti non sono nemmeno legittimi comproprietari, pro quota, della sovranità politica simbolica del marchio sotto cui si presentano alle elezioni? Il mondo è in mano a multinazionali, imperi finanziari e potentissimi tecnocrati, signori della proprietà assoluta intesa come religione. Che idea si possono esser fatti, di una nazione politicamente nullatenente? Cosa devono pensare dell’Italia che sceglie di votare per partiti i cui iscritti e militanti non contano niente? Gli attuali partiti-fantasma sembrano lo specchio perfetto di un paese ideale, per il sommo potere: un paese in cui sono i cittadini a non contare nulla.
-
Di Maio licenziato dagli italiani che ha preso in giro per mesi
Follie italiane. Luigi Di Maio grida al tradimento, dopo aver annacquato il programma e offerto i suoi voti sia all’antagonista euroscettico Salvini che al suo esatto opposto, cioè il Pd ultra-europeista rottamato dagli elettori – un partito fantasma, che non ha ancora trovato il coraggio di analizzare le ragioni della catastrofe renziana. Sconcertante? Almeno quanto Di Maio, che per due mesi ha proposto in “grillese”, sotto forma di “contratto”, l’antico refrain italico, “Franza o Spagna”. Tattica incresciosamente fallimentare, oltre che irritante: parla da solo il crollo dei 5 Stelle alle regionali in Friuli, dopo il flop della settimana precedente in Molise. Avvertimento esplicito: sorvolando sulle enormi ambiguità di Di Maio, in pellegrinaggio pre-elettorale nei santuari massonici della finanza inglese e americana, un elettore su tre aveva comunque concesso il suo voto ai 5 Stelle, per metterli alla prova. In poche settimane, Di Maio sembra aver bruciato il super-bonus del 4 marzo: i pentastellati sono considerati in calo verticale ovunque, e un sondaggio li “vede” addirittura sotto il 20%. Da qui il tentativo – involontariamente umoristico – di correre ai ripari in qualche modo, riesumando un profilo “da battaglia” con il fanta-referendum sull’euro. Credibilità, zero. «Mi verrebbe da dire: visto? Gli italiani chiedono davvero una politica diversa», avverte Marcello Foa.«Dieci giorni fa, prima del voto in Molise, osservavo in un post che il vento nel paese era cambiato, che gli elettori attribuivano particolare importanza alla coerenza dei leader politici, soprattutto a quelli della protesta contro l’establishment (M5S e Lega, in primis) e che non avrebbero accettato di essere traditi un’altra volta», scrive Foa sul “Giornale”. «Questa era la ragione per cui la popolarità di Salvini continuava a salire e quella di Di Maio a scendere. E mi chiedevo: il capo pentastellato saprà ascoltare questo messaggio?». La risposta è arrivata forte e chiara alle elezioni friulane, che per il Movimento 5 Stelle si sono tradotte in un vero e proprio tracollo: aveva ottenuto il 24% alle politiche, ma il suo candidato regionale Morgera si è fermato al 12%. Peggio: come voto di lista, i 5 Stelle hanno ottenuto appena un umiliante 7%. «Non poteva essere altrimenti – osserva Foa – per un partito che, pur di governare si è offerto al Pd, che fino a ieri indicava come il Male Assoluto, il tumore da estirpare». Un partito che, con Di Maio, «ha sbianchettato i programmi pur di compiacere l’establishment, trasformandosi da forza contraria alle imposizioni della Ue a garante degli interessi europei». In una parola, il Movimento 5 Stelle «ha rinnegato in poco più di un mese la sua storia e i suoi valori per l’evidente, insaziabile ambizione del suo giovane leader e per l’incapacità degli altri capi storici di opporvisi».Al contrario, continua Foa, «Matteo Salvini è stato premiato perché è rimasto fedele sia al patto elettorale di centrodestra, relativizzando gli scatti umorali di Berlusconi, sia esigendo il rispetto dei punti fondamentali del suo programma, anteponendoli alle lusinghe del potere». Il messaggio che ha lanciato dopo il 4 maggio secondo Foa «è credibile, forte e soprattutto coerente: quello di un leader di parola, come desiderato dagli italiani». Il voto in Friuli legittima la Lega quale capofila incontrastato della coalizione e, in quanto tale, quale forza di riferimento a livello nazionale. «Il nuovo corso di Salvini, capace in pochi mesi di proporsi come leader solido ed equilibrato, apre prospettive politiche di lungo periodo», secondo Foa. Un punto di riferimento, su cui ricostruire una politica italiana capace di farsi rispettare in Europa? E’ presto, per dirlo: Salvini resta legato a Berlusconi, che proprio per rassicurare i super-poteri di Bruxelles ha proposto il nome di Antonio Tajani come candidato per Palazzo Chigi. Per ora, resta la malinconia dello spettacolo offerto da Di Maio: «Alla fine – scrive Foa – il cerino è rimasto in mano a colui che pensava di dettare le condizioni a tutti e che è riuscito persino a rivalutare Renzi, il quale, ribadendo il no a un accordo “contro natura” con il Movimento 5 Stelle, si è riappropriato della scena in casa Pd. Resta un solo, sicuro perdente: Di Maio, che non sarà premier, ha perso il Molise ed è stato quasi azzerato in Friuli. Chi l’avrebbe detto, la sera del 4 marzo?».Follie italiane. Luigi Di Maio grida al tradimento, dopo aver annacquato il programma e offerto i suoi voti sia all’antagonista euroscettico Salvini che al suo esatto opposto, cioè il Pd ultra-europeista rottamato dagli elettori – un partito fantasma, che non ha ancora trovato il coraggio di analizzare le ragioni della catastrofe renziana. Sconcertante? Almeno quanto Di Maio, che per due mesi ha proposto in “grillese”, sotto forma di “contratto”, l’antico refrain italico, “Franza o Spagna”. Tattica incresciosamente fallimentare, oltre che irritante: parla da solo il crollo dei 5 Stelle alle regionali in Friuli, dopo il flop della settimana precedente in Molise. Avvertimento esplicito: sorvolando sulle enormi ambiguità di Di Maio, in pellegrinaggio pre-elettorale nei santuari massonici della finanza inglese e americana, un elettore su tre aveva comunque concesso il suo voto ai 5 Stelle, per metterli alla prova. In poche settimane, Di Maio sembra aver bruciato il super-bonus del 4 marzo: i pentastellati sono considerati in calo verticale ovunque, e un sondaggio li “vede” addirittura sotto il 20%. Da qui il tentativo – involontariamente umoristico – di correre ai ripari in qualche modo, riesumando un profilo “da battaglia” con il fanta-referendum sull’euro. Credibilità, zero. «Mi verrebbe da dire: visto? Gli italiani chiedono davvero una politica diversa», avverte Marcello Foa.
-
Democrazia sovrana, il fantasma che spaventa questi partiti
Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.La piramide tecnocratica chiamata Unione Europea è solo l’interfaccia del sommo potere economico, che non ha altra bandiera che quella del denaro. Operazione ormai messa in chiaro: “Lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, la chiamava il sociologo Luciano Gallino. Immenso trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, mai visto dall’avvento della modernità industriale. Neo-feudalesimo, al posto della democrazia ormai svuotata: lo Stato non ha più sovranità, è costretto a eseguire ordini. Per cosa votare, allora? Punti di vista. Nel famoso referendum del 4 dicembre si votò contro Renzi in modo ipocrita, dichiarando ufficialmente di voler difendere la Costituzione così com’era, cioè già irrimediabilmente lesionata dall’inserimento di un obbligo aberrante, quello del pareggio di bilancio. Una norma-killer, che equivale alla morte clinica dello Stato come comunità politica sovrana: se non posso più decidere come investire sulla società e sull’economia, dove finisce la mia teorica democrazia? Si riduce, come avviene oggi, allo spettacolo di estenuanti trattative attorno al nulla: alleanze “impossibili”, oppure l’ennesimo governo sottomesso “all’Europa”. All’orizzonte resta il mesto ritorno alle urne, con partiti che (tranne la Lega e Fratelli d’Italia) hanno tutti accuratamente evitato – prima, durante e dopo – di affrontare il vero, grande problema da cui discende la crisi italiana: cioè il vincolo capitale di Bruxelles, che impedisce agli elettori di decidere davvero del loro futuro.Destra e sinistra? Parole che avevano un senso nel ‘900, cioè in regime di relativa sovranità. Storicamente, di fronte a un’emergenza democratica, le estreme si alleano: in Italia accadde sotto l’occupazione nazifascista e, subito dopo, al momento di scrivere (insieme) la Costituzione. Poi, per mezzo secolo e oltre, destra e sinistra si sono confrontate apertamente. Oggi sono praticamente scomparse. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, un’élite residuale della ex sinistra ha assunto il comando – non in proprio, ma per conto dei signori di Bruxelles – applicando alla lettera ogni diktat della destra economica privatizzatrice. Prodromi: il funesto divorzio fra Tesoro e Bankitalia, già negli anni ‘80 (all’origine dell’esplosione artificiosa del debito pubblico) e la drammatica rottamazione dell’Iri, che ha lesionato il sistema industriale italiano su input franco-tedesco. Andreatta, Ciampi, Prodi. E poi Amato e Visco, Bassanini e D’Alema, Padoa Schioppa. Una parabola infelice e rovinosa, conclusa con il crollo del grottesco Pd renziano, consegnatosi alla post-politica terzista, apparente protagonismo personalistico al servizio delle lobby.Dalla destra elettorale, messa all’angolo dalla “filiera del rigore” inagurata da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni, viene la nuova Lega di Salvini, alleata con Fratelli d’Italia nel mettere a fuoco l’identità del vero avversario, il potere che manovra la tecnocrazia di Bruxelles. Ma Salvini e Meloni, costretti per ragioni tattiche nella coalizione di centrodestra, si sono votati alla rinuncia: sapevano fin dall’inizio che il loro partner ingombrante, Berlusconi, non li avrebbe seguiti nella battaglia per difendere l’Italia dall’Ue. Peggio ancora l’ambiguo Movimento 5 Stelle, che ha saltato l’ostacolo Bruxelles evitando di parlarne: ha fatto il pieno di voti promettendo il reddito di cittadinanza (senza spiegare come finanziarlo) dopo aver mandato Di Maio nei santuari della finanza, per rassicurare i nemici dell’Italia: con lui al governo, le regole-capestro non sarebbero cambiate. L’aspirante premier venuto dal nulla oggi parla di “contratti”, come se le alleanze fossero merce in saldo. E affida a un oscuro docente universitario lo studio dei programmi dei vari partiti, per verificare possibili aree di convergenza.Sul piano estetico, la sensazione è devastante: là dove servirebbe la politica, si affollano maggiordomi e funzionari. Gli elettori di Di Maio saranno felici si scoprire che le sorti del prossimo governo italiano potrebbero dipendere dal professor Giacinto Della Cananea, ordinario di diritto amministrativo a Tor Vergata e allievo di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Come se Di Maio, per il suo “contratto”, dovesse ricorrere all’inarrivabile sapienza di un super-consulente, un tecnocrate di rango. L’agenda politica, nel frattempo, resta in bianco: con Salvini o il Pd è uguale, l’importante è arrivare a Palazzo Chigi (o almeno, fingere di volerci arrivare). Se qualcuno voleva che gli elettori italiani si spazientissero, concludendo che le elezioni del 4 marzo sono state perfettamente inutili, ci sta riuscendo. La situazione non è solo bloccata dai veti incrociati: non esiste proprio orizzonte diverso da quello degli ultimi anni, in cui il paese è precipitato in una crisi che non ha eguali, dal dopoguerra. Le lingue sono tagliate, non dicono la verità: alle varie incarnazioni del demonio di comodo – Berlusconi, Renzi – si sono opposti esorcisti altrettanto improbabili, pronti a maneggiare qualsiasi slogan tranne quelli che servirebbero. Va bene tutto, persino la guerricciola contro i famigerati vitalizi, pur di non evocare lo spettro di cui tutti hanno paura: quello della sovranità democratica.Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.
-
Palma: governo senza il centrodestra? Golpe, elettori traditi
«Sta per concretizzarsi il sovvertimento della volontà del popolo, con pedissequo tradimento del principio della sovranità popolare». L’ennesimo golpe bianco, dopo quello che portò al governo Monti? Lo afferma l’avvocato Giuseppe Palma, coautore con Paolo Becchi del saggio “Come finisce una democrazia”, edito da Arianna. Numeri alla mano, il 4 marzo gli italiani hanno votato contro l’establishment: quasi 55 elettori su cento hanno scelto i 5 Stelle, la Lega e Fratelli d’Italia, bocciando le “forze di sistema”, dal Pd costretto al 18% a Forza Italia, regredita al 13%. Per la prima volta, osserva Palma su “Scenari Economici”, «le forze sistemiche non hanno i numeri per formare un governo». L’altra notizia è che le elezioni le ha vinte il centrodestra: ha il 37% dei voti (e il 42% dei seggi). In una democrazia parlamentare le maggioranze si formano in aula? Giusto, a patto però di non “tradire” gli elettori violando il principio democratico: «Chi ottiene più voti deve necessariamente partecipare alla formazione del governo». Anche perché, se prescindiamo da questo principio, «diventa superfluo indire le elezioni e chiamare il popolo alle urne». Rispettare il voto: era una regola d’oro, nella Prima Repubblica. «Oggi la situazione è la stessa, con la particolarità che il Rosatellum prevede le coalizioni tra liste». Eppure è il Movimento 5 Stelle, arrivato secondo, a trattare il futuro governo con il Pd, arrivato terzo e bocciato sonoramente. Un partito «che gli elettori hanno inequivocabilmente destinato all’opposizione».Perfettamente leggibile, in modo aritmetico, il giudizio politico sul partito al potere negli ultimi anni: con Bersani nel 2013 si fermò al di sotto del 25%, l’anno seguente balzò oltre il 40% con Renzi alle europee ma ora è crollato sotto il 20%. In un sistema democratico, scrive Palma, non si può non tenere conto dell’importanza dei numeri, cioè della sovranità popolare. «Se 5 Stelle e Pd riuscissero a formare un governo, ciò non sarebbe rispettoso del “principio democratico”, tanto più che la coalizione che ha ottenuto più voti resterebbe totalmente estranea alla formazione dell’esecutivo». In Germania e in Austria, aggiunge Palma, le rispettive leggi elettorali (sistema proporzionale) non annoverano le coalizioni tra liste in senso stretto. La Merkel non ha gli stessi voti di Salvini e Berlusconi (ha il 32,9%, un bottino paragonabile a quello dei 5 Stelle), però – come vincitrice relativa – ha conservato la “golden share” nella formazione del governo, di cui infatti è rimasta il capo. La sola differenza è che in Italia la coalizione conta più del singolo partito: non tenerne conto significherebbe «non solo una violazione di legge, ma addirittura un palese tradimento della volontà popolare». Gli elettori infatti hanno votato le liste alleate tra loro, «sapendo già prima delle elezioni quali erano le coalizioni, i candidati e i programmi elettorali».Con la particolarità, aggiunge Palma, che tutti i candidati dei collegi uninominali delle liste coalizzate erano espressione condivisa delle coalizioni medesime: e l’assenza del voto disgiunto ha “blindato” la scelta dell’elettore alla scelta delle liste coalizzate. «Inoltre, nel caso specifico della coalizione di centrodestra, questa aveva addirittura depositato presso il ministero dell’interno un programma elettorale comune, sottoscritto da tutti i leader delle liste che la componevano. Questo – sottolinea Palma – produce certamente effetti giuridici dai quali è impossibile prescindere». Pertanto, se i componenti del centrodestra restassero fuori dal perimetro del governo, saremmo di fronte a «un sovvertimento del “principio democratico”». Secondo i tifosi dei 5 Stelle le coalizioni sarebbero un’anomalia, da non far pesare? «Nulla di più falso», taglia corto Palma. Il Rosatellum sarà anche orrendo, però è legge. In altre parole, «non è possibile prescindere dai risultati elettorali delle coalizioni». Tornando al percorso che conduce ad un ipotetico governo tra 5 Stelle e Pd, «qualunque ne sia l’espressione finale», secondo Palma sta per verificarsi un tradimento completo della volontà degli elettori: «E quando si sovverte il “principio democratico” si è di fronte ad un vero e proprio colpo di Stato».«Sta per concretizzarsi il sovvertimento della volontà del popolo, con pedissequo tradimento del principio della sovranità popolare». L’ennesimo golpe bianco, dopo quello che portò al governo Monti? Lo afferma l’avvocato Giuseppe Palma, coautore con Paolo Becchi del saggio “Come finisce una democrazia”, edito da Arianna. Numeri alla mano, il 4 marzo gli italiani hanno votato contro l’establishment: quasi 55 elettori su cento hanno scelto i 5 Stelle, la Lega e Fratelli d’Italia, bocciando le “forze di sistema”, dal Pd costretto al 18% a Forza Italia, regredita al 13%. Per la prima volta, osserva Palma su “Scenari Economici”, «le forze sistemiche non hanno i numeri per formare un governo». L’altra notizia è che le elezioni le ha vinte il centrodestra: ha il 37% dei voti (e il 42% dei seggi). In una democrazia parlamentare le maggioranze si formano in aula? Giusto, a patto però di non “tradire” gli elettori violando il principio democratico: «Chi ottiene più voti deve necessariamente partecipare alla formazione del governo». Anche perché, se prescindiamo da questo principio, «diventa superfluo indire le elezioni e chiamare il popolo alle urne». Rispettare il voto: era una regola d’oro, nella Prima Repubblica. «Oggi la situazione è la stessa, con la particolarità che il Rosatellum prevede le coalizioni tra liste». Eppure è il Movimento 5 Stelle, arrivato secondo, a trattare il futuro governo con il Pd, arrivato terzo e bocciato sonoramente. Un partito «che gli elettori hanno inequivocabilmente destinato all’opposizione».
-
Folli: governo “istituzionale” con Pd e M5S o nuove elezioni
«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».Di Maio si è rivolto agli elettori del Pd, ha difeso la necessità di un “contratto di governo al rialzo”. Ha detto che serve una legge sul conflitto di interessi e ha perfino “difeso” Salvini dal possibile attacco mediatico di Berlusconi. «Il conflitto di interessi non è una novità per Di Maio, ma stavolta è stata una minaccia: Berlusconi badi a non mettersi troppo di traverso». Secondo Folli, «le blandizie a Salvini sono poca cosa, se l’obiettivo è cercare di riaprire il fronte leghista, con l’idea che Salvini possa mollare Berlusconi dopo il voto in Friuli», alle regionali. Di Maio continua a parlare da premier in pectore, ma lo sarà mai? «No, né lui né Salvini», risponde Folli. «Di Maio parla al suo elettorato, che comincia ad essere assai deluso di quanto sta accadendo». Attenzione: «Se al malumore crescente per l’ipotesi di un’alleanza con il Pd si aggiunge la rinuncia esplicita a Palazzo Chigi, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere nei 5 Stelle». Sul fronte opposto, i “governisti” del Pd sono ancora in minoranza, ma non è detto che il 3 maggio la direzione nazionale del partito sancisca per forza il “no” all’ipotesi di un governo col Movimento 5 Stelle: «La politica è strana», ammette Folli. «Stiamo vivendo una stagione piena di imprevisti».Difficile pensare a un accordo diretto tra Pd e 5 Stelle, «però un governo di garanzia o istituzionale sarebbe certamente visto in modo diverso nel Pd, anche da parte di coloro che oggi dicono “no” e basta». Sarebbe l’unica soluzione alternativa alle elezioni anticipate, sostiene Folli. Ma che governo dovrebbe essere, per essere votato anche da Salvini e Di Maio? «Un governo senza un’impronta politica, senza rappresentanti dei partiti nella squadra di governo e senza una maggioranza politica intesa come tale a sostenerlo». In altre parole: un esecutivo che non contenga nessuna delle istanze emerse alle elezioni (“la solita merda”, per dirla con Carpeoro). Cambiare almeno la legge elettorale? Solo strada facendo, dato che «ci vuole un accordo trasversale molto ampio, una maggioranza politica», mentre oggi «si comincerebbe da una semplice convergenza parlamentare su un governo di transizione». Un governo, ricorda Ferraù, che dovrebbe innanzitutto farsi carico del Def: cioè la “lista del rigore” che l’Ue pretende, come se gli italiani non avessero votato – in larga maggioranza – per archiviare l’austerity, tagliando le tasse e finanziando il reddito di cittadinanza. Il Def che incombe sul paese, ricorda Stefano Folli, prevede invece il taglio della spesa per scongiurare l’aumento dell’Iva: «Un’eventualità micidiale per l’economia italiana. E’ davvero singolare che non se ne parli».In mancanza di un’alternativa politica, osserva Folli, questo tipo di governo sarebbe la prima opzione del Colle. «L’altro giorno Di Maio ha scartato questa soluzione, a parole; nei fatti, potrebbe andare diversamente». E se anche questa soluzione dovesse fallire? «Resterebbero solo le elezioni anticipate, insieme al problema del governo con cui arrivarci», sottolinea l’editorialista di “Repubblica”. «Sarebbe un fallimento politico tremendo: altri Stati europei hanno rivotato in breve tempo senza terremoti, ma nella situazione italiana bisognerebbe pensarci bene prima di precipitarsi di nuovo alle urne, magari solo per calcoli e ripicche». Eppure, questa è la situazione: l’unica svolta politica – l’alleanza tra Di Maio e Salvini – è bloccata da Berlusconi, con cui Salvini non romperebbe mai, dato che punta a ereditare l’elettorato del Cavaliere: «Non gli conviene fare il partner di minoranza di un governo Di Maio, nemmeno in cambio di qualche ministro di peso». E se Berlusconi teme le urne, a scommettere sulle elezioni anticipate sarebbe proprio Renzi. Un calcolo spericolato, motivato solo dalla voglia di «regolare ancora una volta i conti con i suoi nemici interni, Franceschini per primo, e ottenere il controllo assoluto di un partito che ritiene non possa scendere sotto la percentuale del 4 marzo», un umiliante 18,7%. Un tracollo inflittogli dall’elettorato leghista e grillino, che il Pd pro-Bruxelles non ancora trovato il coraggio di discutere. Sul fronte opposto, chi ha vinto le elezioni (alzando il tono contro il rigore Ue) sembra destinato, ancora una volta, a “perdere” il governo.«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».
-
Il valzer delle poltrone archivia il 25 Aprile che ci salverebbe
Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.«Alla fine, aver messo sullo stesso piano Lega e Pd si rivelerà la mossa sbagliata del M5S», scrive Enrico Mentana, in una nota ripresa da Vincenzo Bellisario sempre sul blog del Movimento Roosevelt. «Non si può essere europeisti o euroscettici, per la Fornero o contro, per la Flat Tax o l’imposizione progressiva (e la lista sarebbe lunga) a seconda dell’alleato che ti dà i voti per andare a Palazzo Chigi», sostiene Mentana. Oltretutto, «non è ciò che il movimento ha predicato in questi cinque anni». Per il direttore del Tg La7, il Movimento 5 Stelle «si avvicina sempre più al paradosso del Pd: che fece il governo con Forza Italia perché il M5S lo aveva rimbalzato, con ottimi argomenti che però ha nel frattempo dimenticato». Lo spettacolo è inequivocabile: «Tutti, a turno, hanno una sana vocazione maggioritaria: ma quando poi i voti non bastano si diventa cultori delle alleanze». Adesso il tempo è scaduto, avverte Bellisario: «Credo sia giunto il momento in cui il centrodestra e il “rottamatore” Renzi diano un taglio netto a questa “falsa” insopportabile: chiedo a entrambi i Matteo di “rottamare” tutto e tornare al voto». Tutti d’accordo? Nemmeno per idea: a remare contro le elezioni anticipate, scrive il “Giornale”, c’è il “club dei ministri” capitanato da Dario Franceschini.«Più di mezzo Partito democratico vuole andare al governo con i Cinque stelle e ha lavorato di sponda con il Quirinale per non fare cadere questa ipotesi sotto i bombardamenti renziani», scrive Gian Maria De Francesco sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. «D’altronde, tra i consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella vi sono molti franceschiniani. A partire dal capo della segreteria Simone Guerrini fino al consigliere segretario Daniele Cabras, passando per il consigliere per l’informazione Gianfranco Astori e al portavoce Giovanni Grasso». Franceschini garantisce «l’obbligo di verificare nei contenuti la possibilità di un’intesa». Ma a lavorare sottotraccia per un accordo coi 5 Stelle ci sarebbero anche Andrea Orlando (giustizia) e Anna Finocchiaro (rapporti con il Parlamento), insieme al reggente Pd Maurizio Martina (già ministro dell’agricoltura), a Roberta Pinotti (difesa) e Marco Minniti (interno). Vero: il “club dei ministri” poco avrebbe potuto, se non fosse stato in qualche modo sospinto dal Quirinale e se il Luigi Di Maio «non avesse fallito miseramente la trattativa con il centrodestra ostracizzando (e consentendo di ostracizzare) Forza Italia». Ma questo è accaduto: si è chiusa la porta in faccia al possibile cambiamento.«Un epilogo che nessuno ha cercato di evitare – chiosa De Francesco – lasciando campo libero alle vecchie volpi cresciute a Piazza del Gesù, prima fra tutte l’ex enfant prodige Dario Franceschini, che ha saputo muoversi con abilità in questa palude. Aumentando le probabilità per tutto il Club di mantenere la poltrona». Felpate manovre, alle spalle degli elettori: questo il clima politico del 25 Aprile 2018, tra le celebrazioni che commemorano la Resistenza di allora. Ma il voto del 4 marzo non è stato soprattutto una delega a centrodestra e 5 Stelle per rompere la sottomissione italiana rispetto a Bruxelles? Come ricorda Moiso, subiamo infatti «il controllo esclusivo, da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, delle risorse monetarie». Attenzione: si tratta di «un controllo tale da determinare la sudditanza economica delle masse». C’è quindi «bisogno e urgenza di vivere nel modo più autentico e aggiornato possibile lo Spirito della Resistenza», non certo confermando poltrone come quelle del Padoan di turno; non sarà certo un Cottarelli a interpretare la “volontà degli elettori” espressa due mesi fa. «Combattendo nel presente per migliorare il futuro», Moiso sottolinea la necessità di «tornare a incidere, tramite un’azione politica consapevole, gagliarda e lungimirante», valutando finalmente «se nuove forme di oppressione antidemocratica non siano molto più vicine a noi di quanto pensiamo».Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.
-
Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
-
Stalinismo e 5 Stelle: il partito bara, ma ha sempre ragione
Il partito ha sempre ragione. Se sbaglia si ha l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza mininamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.La dannazione è la sorte che il cattolicesimo medievale riservava agli eretici. Su di essi veniva fatta calare una maledizione, a scopo intimidatorio: era pericoloso anche solo rievocarne la memoria. Certe strutture gerarchiche utilizzano deliberatamente il metodo brutale dell’Inquisizione: il silenzio-assenso generale di fronte alla violenza del verdetto è il cemento con cui si costruisce un potere autoritario, che – dall’indomani – potrà contare sull’assoluta impunità del vertice, sempre investito (per autodefinizione) di una missione superiore, altissima, quasi mistica, certo non sindacabile dai comuni mortali, quantunque aderenti fin dall’inizio al sacro patto escatologico verso la Terra Promessa. L’ostinato silenzio dei dirigenti dell’Ottobre – muti, di fronte ai fulmini che si abbattevano su di loro, uno alla volta – rese più facile, al dittatore, eliminarli tutti, uno dopo l’altro. Si tratta di un principio duro a morire, anche se la pratica democratica dell’aborrita e corrotta partitocrazia, in Italia e nel mondo, ha comunque evitato il ripetersi della fenomenologia staliniana. Se i partiti della Prima Repubblica vivevano di correnti in perenne lotta tra loro, quelli della Seconda hanno comunque celebrato congressi e primarie, dando vita a dinamiche di aperta concorrenzialità interna: Bossi e Maroni, Berlusconi e Fini, Bersani e Renzi. Col Movimento 5 Stelle, attraverso il totem della Rete (controllata dall’onniveggente Casaleggio) si è tornati all’antico: “uno vale uno”, in teoria, ma alcuni sono “più uguali” degli altri.In modo quasi unanime, i meriti dei 5 Stelle sono considerati indiscutibili, nell’aver aggregato milioni di italiani attorno alla speranza di un mondo migliore. L’impegno: leggi da riscrivere da cima a fondo per ridisegnare una comunità socio-economica unita dal bisogno di valori condivisi. Fin dall’inizio, ingenerosamente, c’è chi ha considerato il Movimento come un mero “gatekeeper”, uno sfiatatoio del dissenso abilmente allestito al solo scopo di canalizzare la rabbia della società verso obiettivi innocui per l’establishment. Qualcuno si stupisce se Di Maio “sbianchetta” il programma elettorale dei 5 Stelle, laboriosamente assemblato con il lavoro collettivo degli iscritti? Eppure è lo stesso Di Maio che ha sparato contro “la massoneria” dopo aver bussato ai santuari massonici della finanza di Londra e di Washington, rassicurandoli sulle sue reali intenzioni. E’ lo stesso Di Maio che non ha fatto barricate contro l’obbligo vaccinale della legge Lorenzin, che non ha mai detto una parola chiara sull’euro, e che oggi si rivolge con disinvoltura al Pd dopo averlo definito abominevole, disgustosamente corrotto e mafioso, catastrofico per l’Italia.Non è Di Maio, a fare notizia, ma il perdurante silenzio-assenso dei grillini. Se le circostanze lo richiedessero, lo stesso Di Maio verrebbe rottamato all’istante. L’importante, per i sovragestori, è che – ancora e sempre – la platea approvi, ribadendo che il partito ha sempre ragione. I dirigenti stalinisti dei vari partiti comunisti europei erano leggendari per la loro celebrata doppiezza, spacciata per acume machiavellico: il dire il contrario di quello che si pensava era contrabbandato per sopraffina virtù. Un’astuzia genialmente tattica, in vista delle “magnifiche sorti e progressive”. Un riverbero di questa pratica, fondata sulla non-trasparenza, lo si è percepito nelle parole di Beppe Grillo di fronte al tragicomico infortunio del tentato trasloco, al Parlamento Europeo, nelle file degli ultra-euristi dell’Alde: come se i 5 Stelle fossero stati agenti speciali sotto copertura, un temibile cavallo di Troia introdotto tra le schiere nemiche. La “rete”, naturalmente, era stata lasciata all’oscuro della manovra. Del resto, quanto contino davvero gli iscritti lo di vede anche dall’assoluta tranquillità con cui Di Maio ne ha “bonificato” il programma.Segnali di ribellione? Non pare. Il sistema, del resto, funziona benissimo. I 5 Stelle sono il primo partito italiano. I parlamentari, selezionati via web a volte con poche decine di voti. E impegnati a pagare di persona una multa, nel caso cambiassero casacca. E’ aberrante? Di nuovo: la notizia non sta nel diktat, ma nella sua accettazione – un vulnus costituzuionale subito dai candidati e approvato dalla base, che immagina di controllarli, evidentemente non fidandosi completamente di loro. Giornalisti e commentatori, che per anni di sono esercitati nella più gratuita denigrazione del Movimento 5 Stelle, oggi tendono a incensare Luigi Di Maio come abile tattico, dimenticando di averne ripetutamente denunciato le fragilità, le incertezze, l’impreparazione. Meno è autorevole, un politico, e più è facilmente manovrabile. I caimani dell’Europa finanziaria guardano all’Italia con inquietudine, temendo che da uno dei maggiori contraenti fondativi dell’Unione Europea possa scoccare la scintilla del cambiamento, la messa in discussione dello status quo fondato sul rigore, il rifiuto del pareggio di bilancio. Possono continuare a dormire sonni tranquilli, sembra avvertirli lo “sbianchettatore” Di Maio: con lui al governo, niente di sostanziale cambierebbe. Con buona pace dei quasi 11 milioni di italiani che l’hanno votato.Il partito ha sempre ragione. Tu non sai perché, ma lui sì. E se sbaglia hai l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza minimamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.
-
Cacciari e Farinetti: Salvini e 5 Stelle insieme, senza illusioni
Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».In pratica, dice Mazzucco, è come se qualcuno ti battesse una mano sulla spalla dicendoti: stai ben attento a quel che fai, potresti pentirtene. Al che, c’è il bivio: o ci si piega, per quieto vivere, oppure si trova il coraggio di andare fino in fondo, restando fedeli alle proprie idee, peraltro appena “vendute” agli elettori. Di Maio? E’ diventato flessibile: morbidissimo con l’Unione Europea, con gli Usa e con la Nato, e meno “amico” della Russia. Cosa che a Cacciari va benissimo. E poi, dice, è sbagliato parlare di traformismo: «Quando mai un partito ha continuato a dire, sic e simpliciter, quello che diceva in campagna elettorale? E’ chiaro che la campagna ha necessariamente un aspetto demagogico, di promesse». Farinetti spera che Mattarella convinca i partiti a fare una nuova legge elettorale sul modello francese, col ballottaggio tra i primi due partiti. «Con una legge elettorale a doppio turno come quella per eleggere i sindaci – dice – i partiti sarebbero costretti a dire quello che vogliono davvero, quello che veramente sentono di poter fare». E il Di Maio europeista? Ottima notizia, per Cacciari: certifica «il pieno riconoscimento del nostro destino europeo: o la democrazia si ripensa su scala continentale, o cesserà di funzionare». E questo cambiamento, nei 5 Stelle, «segna un discrimine netto rispetto ai fondamenti culturali della Lega».Per il filosofo, grillini e leghisti dovrebbero raggiungere un accordo di governo, segnando almeno «una discontinuità generazionale», sapendo però di essere incompatibili: «E alla lunga, questa incompatibilità strategica – come base sociale, come idee – verrà fuori». L’incremento elettorale dei 5 Stelle, ricorda Cacciari, viene dal Pd. In più, il 50% degli elettori grillini si dichiara “di sinistra” (solo il 20% si considera “di destra”). «Sul piano culturale – aggiunge – l’incompatibilità tra Lega e 5 Stelle è evidentissima, ma bisogna che maturi e che si esprima. Certo la loro sarebbe un’alleanza a termine: non è la prospettiva su cui si risolveranno i problemi del paese, che richiedono scelte drastiche». E il Pd? Il rischio è che decida di suicidarsi: «Se fa un congresso vero, rapidamente (prima dell’estate) ed elegge un nuovo segretario, allora può esserci un nuovo inizio. Ma se aprono adesso – come hanno intenzione di fare – una campagna elettorale tra 15-20 persone per fare le primarie in autunno, muoiono: scompaiono. E allora l’unica forza di centrosinistra, in questo paese, diventeranno i 5 Stelle». Al posto di Renzi e colleghi, Cacciari avrebbe fatto il contrario dell’Aventino: «Io auspicavo che il Pd, riconoscendo la vittoria dei 5 Stelle e ribadendo la sua estraneità al centrodestra nel suo insieme, dicesse: sono disposto a far partire un governo monocolore 5 Stelle, verificando poi di volta in volta i provvedimenti, da valutare singolarmente».Al reggente Maurizio Martina, Farinetti suggerisce di non sbattere la porta in faccia ai 5 Stelle, come invece fecero i grillini nel 2013 con Bersani: «Cercherei di capire se il loro reddito di cittadinanza è visto come misura strategica o solo d’emergenza, verso la creazione dell’unica prospettiva seria, cioè la creazione di posti di lavoro, specie al Sud, tenendo conto delle grandi vocazioni di questo paese». Utopia, riconoscono Farinetti e Cacciari: il Pd non sembra intenzionato ad aprire un vero dialogo, temendo di suicidarsi politicamente in caso di alleanza coi 5 Stelle. A loro volta, i grillini considerano un suicidio l’intesa con Berlusconi. E Salvini, infine, sa benissimo che rompere oggi col Cavaliere gli impedirebbe di continuare a dissaguare Forza Italia. Stallo assoluto? Non è detto. Il nodo è Berlusconi, dice Cacciari: basterebbe convincerlo che un governo Salvini-Di Maio sarebbe il male minore. Restando defilato per non imbarazzare i 5 Stelle, avrebbe ministri «tipo Cancellati» e garanzie precise sui suoi vastissimi interessi. L’alternativa? Non esiste: «In caso di elezioni anticipate, Berlusconi scompare. Gli conviene, un governo con Salvini e Di Maio». I grillini “annacquati”? Inevitabile, chiosa Farinetti: «Serve tempo, per vedere se c’è la possibilità di fare un meraviglioso compromesso. Non vedo l’ora – aggiunge – di vedere all’opera partiti che, giustamente, dall’opposizione portavano avanti teorie assolute: comprenderanno che l’unica cosa perfetta, in natura, è proprio il compromesso».Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».
-
Becchi: grazie a Di Maio, il Quirinale punta all’accordo col Pd
Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inagurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli ettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».Secondo Becchi, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, «il Quirinale ha un preciso disegno in testa», però «intende arrivarci gradualmente, certificando il fallimento delle ipotesi alternative». Ha conferito a Elisabetta Casellati un mandato esplorativo a stretto giro, mentre «centrodestra e M5S non hanno raggiunto un accordo in un mese e mezzo». Impensabile che accada qualcosa di decisivo prima delle elezioni regionali, in programma il 22 aprile in Molise e il 29 in Friuli. Cosa c’entrano le elezioni regionali? «L’intento di Mattarella – sostiene Becchi – è quello di mettere in difficoltà i due probabili vincitori di questo voto, amministrativo ma di grande valore politico, perché se Berlusconi perde malamente in Molise, dove si sta impegnando in prima persona, politicamente è finito. A quel punto Salvini sarebbe più autonomo e potrebbe alzare la posta». Significa che il Colle vuole impedire a Di Maio e Salvini di mettere sul piatto delle trattative di governo le rispettive vittorie elettorali in Molise e Friuli? «Significa che vuole impedire a Salvini di avere più peso politico all’interno della coalizione vincente nelle urne del 4 marzo, tagliando così le gambe alle possibilità residue di un accordo M5S-Lega».La manovra servirebbe a legittimare altri scenari, ovvero «un patto M5S-Pd, oppure un “governo del presidente”, affidato per esempio a Sabino Cassese», giurista e accademico, giudice emerito della Corte Costituzionale. Lo stesso Cassese, in un editoriale “interventista” sul “Corriere della Sera”, ha lanciato un monito a tutti, dalla Siria all’Italia: la sovranità degli Stati «va tenuta sotto controllo», e inoltre gli Stati «agiscono per la realizzazione di principi globali». Princìpi che il nuovo M5S “atlantista” potrebbe sottoscrivere. «Il disegno è chiaro», dice Becchi: «Far saltare l’accordo del M5S con il centrodestra per evitare il “pericolo” leghista e far nascere un “governo del presidente” con 5 Stelle e Pd, mettendo al posto di un inesperto come Di Maio un ex giudice costituzionale in grado di garantire la collocazione internazionale e la messa in sicurezza del paese». E perché mai Di Maio ci dovrebbe stare? «Perché a quel punto avrà giocato male la sua partita con Salvini e non potrà più tornare indietro», argomenta Becchi. «Dovrà scegliere tra dare un governo al paese o andare al voto. Di Maio ha tirato troppo la corda e alla fine l’ha spezzata. Non se ne è ancora reso conto, ma non farà più il capo del governo». E Renzi? «Darebbe l’okay, perché Di Maio non farebbe più il premier».Di Maio ha detto che vorrebbe governare solo con Salvini? «L’impressione è che alla Lega il governo non interessi» sottolinea Becchi: «L’opposizione è più redditizia e in palio c’è il centrodestra del dopo-Berlusconi». Il professore è ancora convinto che Salvini voglia innanzitutto portare il centrodestra al governo, e che voglia farlo coi 5 Stelle «perché sono le due forze che hanno vinto le elezioni». Ma i due programmi non sono incompatibili? «Non lo credo», risponde Becchi. «Il M5S non ha nessun programma, fa e disfa i programmi a piacimento a seconda delle convenienze. E’ un partito liquido, con a capo un trentenne che si è montato la testa e vuole fare il premier a tutti i costi. E infatti darebbe tranquillamente alla Lega i ministeri di peso». Se la Casellati guadagnasse tempo, aggiunge Becchi, forse prolungherebbe la vita all’ipotesi 5 Stelle-Lega: «Non è stata esplorata fino in fondo, e sono proprio le urne di Molise e Friuli a legittimarla». L’ipotesi della staffetta Di Maio-Salvini «offrirebbe garanzie anche a Berlusconi: gli permetterebbe di avere qualche ministro e soprattutto ci potrebbe stare un accordo per tutelare le aziende».Il veto del Movimento 5 Stelle sul Cavaliere «avvalora l’ipotesi che Di Maio voglia davvero fare il governo col Pd», afferma Becchi». Ma se fosse Berlusconi a continuare a opporsi ai grillini, le elezioni in Molise e in Friuli potrebbero tradirlo: «In questo caso Salvini, più forte grazie al risultato regionale, potrebbe davvero abbandonare Berlusconi, andandosene con Fratelli d’Italia e con metà Forza Italia per fare un centrodestra a propria immagine: se Berlusconi non accettasse, sarebbe il suo funerale politico». Viceversa, un nuovo Patto del Nazareno spaccherebbe il centrodestra: «La Lega e Fratelli d’Italia uscirebbero: Salvini non accetterebbe mai di entrare in un “governo del presidente”». E Di Maio? Perché non si è ancora reso conto del fatto che non farà più il premier? «Per una ragione profonda, non politica», sostiene Becchi. «Di Maio e il gruppo dirigente del M5S, ma la considerazione vale anche per i militanti, sono ormai persone che vivono di rancore, di passioni tristi. Il risentimento li blocca e li bloccherà su tutto. Se non sei più in grado di contemplare una ipotesi politica di governo, se credi che avendo 11 milioni di voti alle spalle ti puoi comportare come vuoi continuando a dire io-io-io, o me o nessuno, se Berlusconi ti dice che non ha veti e tu continui a dire no, allora è finita». Questo lo ha detto, a Di Maio?«Sì, ma non c’è stato verso». Come andrà a finire? «La crisi di governo li sta fregando – chiosa Becchi – perché sta diventando anche e soprattutto colpa loro, di Di Maio soprattutto. E se per caso si vota, i 5 Stelle potrebbero avere brutte sorprese».Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inaugurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli elettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».
-
Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
-
Magaldi: serve ben altro che il taglio (irrisorio) dei vitalizi
Non penseranno di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi, vero? Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?Siamo nel mezzo di una torbida palude, dice un osservatore indipendente come Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché fustigatore pubblico della massoneria più onnipotente, il regno misterioso delle superlogge-ombra come quelle in cui milita George Soros, che firmerà un contributo speciale nel sequel di “Massoni”, saggio di prossima uscita. Già nel primo volume, Magaldi sostiene che l’Italia sia un campo di battaglia decisivo, riguardo al futuro dell’Europa, anche per il mondo esclusivo delle Ur-Lodges: da una parte la fazione dominante, reazionaria, che ha impugnato la clava del rigore finanziario demolendo benessere e diritti, e dall’altra i progressisti, riemersi dall’ombra con Bernie Sanders alle primarie americane e con Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti inglesi. La Francia? Dopo la grande delusione di François Hollande, sponsorizzato dalla “Fraternité Verte”, all’Eliseo è tornata una pedina dell’oligarchia destrorsa, il finto outsider Emmanuel Macron, sorretto dalla supermassoneria neo-aristocratica – che infatti annuncia tagli devastanti al welfare e storiche mutilazioni del pubblico impiego. “En Marche”, ma dalla parte opposta: quella raccomandata dall’élite cha trasformato l’Unione Europea in un bagno penale per “popoli superflui”, per usare un’espressione di Marco Della Luna.Siamo nella palude, dice Magaldi a “Color Radio”, ma non è detto che dal fango fertile non nasca qualche fiore. Purché, appunto, non si monti una gazzarra fuorviante sulla quisquilia dei vituperati vitalizi, pari a zero nel bilancio delle cose che contano davvero. Per esempio: reddito di cittadinanza e scure sulle tasse. Post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, Magaldi tiene ai suoi distinguo: non è saggio pensare a un’assistenzialismo permanente, né a una Flat Tax come quella promessa da Salvini in campagna elettorale, con l’aliquota al 15%. Ma il reddito pentastellato è qualcosa di diverso: se ben amministrato, può essere un ammortizzatore molto utile, almeno in via temporanea. Beninteso: è il lavoro, il faro della riscossa del paese. E la leva strategica sono gli investimenti pubblici, destinati alle imprese private. Non si contano le infrastrutture ormai cadenti cui mettere mano, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Idem, le tasse: passi la boutade elettorale del 15%, ma non è pensabile che si continui a taglieggiare le aziende, messe in croce da uno Stato che sa essere efficiente solo quando veste i panni di esattore. Sono argomenti forti, quelli sul tappeto. L’importante è cominciare a spacchettarli: soccorso finanziario a chi è nei guai, e riduzione netta della tassazione. Si farà sul serio? Sappiano, i vincitori del 4 marzo, che l’Europa li sta guardando – insieme agli italiani che li hanno votati.Non pensino di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi. Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?