Archivio del Tag ‘Massimo Mazzucco’
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Mediocrità e ipocrisia nell’Italia di Renzi alla Casa Bianca
Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?Nemmeno negli spot del Mulino Bianco succedono queste cose. Ma, lo sappiamo tutti, pur di vincere un Oscar c’è anche chi è disposto a stravolgere il senso della Storia. Beatrice Vio: lo sport paraolimpico è una triste invenzione dei tempi del politically correct: da una parte il mondo delle persone normali, che si ripuliscono dai sensi di colpa verso gli handicappati inventando delle Olimpiadi fatte su misura per loro. Dall’altra questi handicappati, vittime designate di questa catarsi collettiva, nella quale si finge di esaltarsi per imprese sportive che sono tali solo nei parametri del nostro relativismo sociale. Le paraolimpiadi sono il festival dell’ipocrisia collettiva, e i loro eroi non sono che il trofeo sociale di questa ipocrisia. Giusy Nicolini: il sindaco di Lampedusa è un esempio innegabile di altruismo, generosità e profondo senso civico. Ma Giusy Nicolini è soltanto la sottile foglia di fico che nasconde, proprio grazie alla sua generosità, una tragedia infinita sia dal punto di vista umano che da quello politico. La tragedia di un sistema – la cosiddetta civiltà occidentale – che da una parte porta guerre d’invasione in tutto il mondo, e dall’altra è assolutamente incapace di gestire i risultati catastrofici che queste guerre vengono a creare.Di Paolo Sorrentino so poco (“E ci sarà un motivo”, direbbero Aldo Giovanni e Giacomo). So solo che ha fatto un film mediocre, con il quale è riuscito inspiegabilmente a vincere un Oscar. Forse gli americani hanno creduto di trovarsi di fronte ad un nuovo “La dolce vita”, ma sta di fatto che nessun critico italiano, per quanto venduto possa essere, è riuscito a gridare al capolavoro. Sorrentino è il classico emblema della mediocrità elevata ad eccellenza per semplice mancanza di talenti reali. Raffaele Cantone: il famoso magistrato incaricato da Renzi di combattere corruzione, mafia e clientelismo nel nostro paese. Finge di beccare qualcuno ogni tanto, spara sentenze feroci (ma innocue) contro i corrotti, mentre in realtà si presta volentieri a fare da emblema di un’Italia che finge di combattere i propri mali, quando questi stessi mali vengono alimentati da scelte politiche decisamente ambigue, come ad esempio i continui condoni per gli evasori fiscali.Giorgio Armani: “Re Giorgio” è sicuramente un’eccellenza di valore assoluto. Ma eccellenza di che cosa, se non dell’effimero? Che cosa rappresenta l’alta moda, in un mondo di 6 miliardi di persone nel quale cinque e mezzo di loro fanno la fame, se non il trionfo dell’élite a discapito di tutti gli altri? Celebrare un uomo che ha costruito un impero basato sull’apparenza invece che sulla sostanza significa in fondo celebrare l’effimero al posto del reale, l’inutile al posto dell’utile, la stupidità al posto dell’intelligenza. Con questa squadra di persone (e pochi altri) il nostro premier ha pensato bene di andare a rappresentare l’Italia alla Casa Bianca. Qualcuno potrebbe domandarsi, a questo punto, perché non abbia scelto di portare invece un tornitore della Breda in cassa integrazione, un agricoltore del Salento che lavora sottocosto, o un disoccupato del Lodigiano costretto a dormire in macchina con tutta la famiglia perché non riesce più a pagare il mutuo della sua casa. Ma questo sarebbe stato troppo, perché si rischiava che di colpo la dura realtà di oggi facesse irruzione nel mondo da cartolina del nostro amatissimo Matteo Renzi.(Massimo Mazzucco, “Foto di gruppo alla Casa Bianca”, dal blog “Luogo Comune” del 24 ottobre 2016).Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?
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Trump e le donne: la cara, vecchia macchina del fango
Se c’è qualcuno che ancora non ha capito quale sia l’importanza del cosiddetto “media news cycle”, ovvero il ciclo giornaliero delle news americane, vorrei offrirgli questa breve riflessione. Io per abitudine guardo la “Cnn” almeno un’ora al giorno. Nell’arco di quell’ora, infatti, mi rendo conto di quale sia il ciclo particolare delle news di quel giorno (dopo un’ora le notizie cominciano a ripetersi, e a meno di eventi eccezionali non cambiano più fino al giorno dopo). Partiamo quindi dal clamoroso scoop del “Washington Post”, che venerdì 7 ottobre ha reso pubblico il video del 2005 nel quale Donald Trump si vantava di poter fare alle donne tutto quello che vuole, “perché tanto lui è famoso”. Non appena compresa l’importanza della notizia Trump è corso ai ripari, e nel giro di 8 ore (venerdì sera) ha pubblicato su Facebook un video nel quale “si scusava” per quelle dichiarazioni, giustificandosi con il fatto che «però Bill Clinton ne racconta di molto peggio, quando andiamo insieme a giocare a golf».Il sabato mediatico è quindi trascorso a decidere se le scuse di Trump fossero sufficienti (e sincere), oppure no. Poi c’è stato il confronto diretto con la Clinton, domenica sera, e l’argomento ha occupato una sana mezz’ora del dibattito a reti unificate. Durante questo dibattito il moderatore, Anderson Cooper, ha avuto l’astuzia di chiedere a Trump se le sue fossero state «soltanto vanterie», oppure se avesse fatto davvero quelle brutte cose alle donne. Trump è caduto nella trappola e ha negato di averle fatte veramente, dicendo che in fondo si trattava solo di “locker room talk” (discorsi da spogliatoio, tipicamente maschili). A partire da lunedì, quindi, hanno iniziato ad uscire allo scoperto diverse donne che accusavano Trump di averle molestate sessualmente nel corso degli anni. Il focus del “news cycle” si è quindi spostato su ciascuna di queste donne, e sulla credibilità delle loro accuse. Trump sosteneva che fossero state pagate per mentire, mentre le donne sostenevano di essere state realmente molestate.Siamo andati avanti così per diversi giorni, con nuove donne che uscivano allo scoperto praticamente ogni giorno, ciascuna riempiendo il “news cycle” con la propria vicenda personale. Ad oggi siamo arrivati a 9 donne diverse che accusano Trump di averle molestate sessualmente. E ora che il filone delle accusatrici sembra estinguersi, l’argomento è passato in mano agli sportivi. Proprio mentre scriviamo queste righe, alla “Cnn” stanno intervistando diversi sportivi famosi, i quali si fingono offesi e indignati dalle parole di Trump. «Non è vero che negli spogliatoi facciamo questi discorsi», dicono gli eroi nazionali del baseball e del basket: «Noi siamo persone serie, rispettiamo le donne e negli spogliatioi parliamo soprattutto di sport». Certo, come no. E ‘l mi babbo è Michael Jackson. Grazie quindi a questo mix di ipocrisia politically correct e di mastodontico spin mediatico, siamo arrivati al decimo giorno consecutivo in cui sulle televisioni americane non si parla d’altro che delle molestie sessuali di Trump. Guardate che non è affatto poco, per una nazione che sceglierà il proprio presidente fra meno di tre settimane.(Massimo Mazzucco, “L’importanza del news cycle sui media americani”, dal blog “Luogo Comune” del 16 ottobre 2016).Se c’è qualcuno che ancora non ha capito quale sia l’importanza del cosiddetto “media news cycle”, ovvero il ciclo giornaliero delle news americane, vorrei offrirgli questa breve riflessione. Io per abitudine guardo la “Cnn” almeno un’ora al giorno. Nell’arco di quell’ora, infatti, mi rendo conto di quale sia il ciclo particolare delle news di quel giorno (dopo un’ora le notizie cominciano a ripetersi, e a meno di eventi eccezionali non cambiano più fino al giorno dopo). Partiamo quindi dal clamoroso scoop del “Washington Post”, che venerdì 7 ottobre ha reso pubblico il video del 2005 nel quale Donald Trump si vantava di poter fare alle donne tutto quello che vuole, “perché tanto lui è famoso”. Non appena compresa l’importanza della notizia Trump è corso ai ripari, e nel giro di 8 ore (venerdì sera) ha pubblicato su Facebook un video nel quale “si scusava” per quelle dichiarazioni, giustificandosi con il fatto che «però Bill Clinton ne racconta di molto peggio, quando andiamo insieme a giocare a golf».
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Un oceano di dollari e droga, l’Afghanistan 15 anni dopo
Sono passati 15 anni dall’invasione militare dell’Afghanistan da parte degli americani, supportati dalla cosiddetta “coalizione internazionale”, di cui anche noi facciamo parte. Le truppe americane hanno invaso l’Afghanistan il 7 ottobre del 2001, meno di un mese dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre a New York e Washington. Quella che era sembrata una rapida vittoria sul regime dei Talebani si è trasformata in una sanguinosa guerriglia che continua ancora oggi. L’amministrazione del presidente Bush aveva accusato l’organizzazione Al-Qaeda di Osama Bin Laden di aver dirottato gli aerei civili che hanno colpito e World Trade Center e il Pentagono. La Casa Bianca era convinta che Bin Laden si trovasse in Afghanistan, e pretese e i Talebani glielo consegnassero. I Talebani, guidati dal Mullah Omar, chiesero agli americani di mostrare le prove della sua colpevolezza. In cambio, ebbero la guerra. Con l’aiuto dei jet e delle truppe americane, i signori della guerra della Alleanza del Nord scacciarono i Talebani dalle città più importanti e presero il controllo della capitale, Kabul, a metà di novembre.Venne insediato un nuovo governo guidato dal presidente Hamid Karzai, sostenuto dagli americani, ricorda “Russia Today”, in una ricostruzione ripresa da “Luogo Comune”, il blog di Massimo Mazzucco. Gli alleati della Nato legittimarono in qualche modo l’azione americana, mandando truppe per aiutare “la ricostruzione” dell’Afghanistan. «Per quanto sia stato il presidente Bush a iniziare la guerra in Afghanistan, è stato il suo successore, Barack Obama, a dare luogo alla “surge”, l’incremento militare che avrebbe dovuto mettere fine alla guerra», ricorda “Rt”. Così, 15 anni dopo l’invasione, oggi sono poco meno di 9.000 i militari americani in Afghanistan, da un picco di 100.000 che era stato raggiunto nel 2011. Questi soldati fanno parte dell’operazione “Sentinella della Libertà”, e il Pentagono insiste nel dire che il loro unico ruolo sia di “consigliare e assistere” i militari afghani, e non di combattere i Talebani o lo Stato Islamico. Ma, di recente, il sergente Adam Thomas è stato ucciso nella provincia di Nangarhar, apparentemente a causa di una bomba artigianale. È il terzo soldato americano ucciso in Afghanistan nel 2016.Secondo la “Reuters”, a partire dal 2002 gli Stati Uniti hanno speso più di 60 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afghane. Poi c’è la droga, continua “Russia Today”: la coltivazione di oppio, che era stata proibita sotto la stretta interpretazione islamica dei Talebani, ha avuto un ritorno “glorioso” durante la guerra. Secondo un rapporto della Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite su droga e crimine, si stima oggi l’estensione delle coltivazioni di oppio in Afghanistan ad oltre 200.000 ettari. Le cifre finali rischiano di superare il record del 2014, che era di 224.000 ettari. «L’eradicazione delle coltivazioni è stata praticamente zero», ha detto il direttore della Unodc, Yury Fedotov. Come siamo arrivati a questa situazione? Per quanto l’invasione del 2001 sia riuscita a rovesciare il governo dei Talebani, afferma “Rt”, gli Stati Uniti non sono riusciti a catturare o uccidere Bin Laden – il presunto organizzatore dell’11 Settembre – che 10 anni dopo, nel presunto (e tuttora oscuro) blitz di Abbottabad, in Pakistan, da cui però non è mai giunta nessuna foto del cadavere del capo di Al-Qaeda, che poi sarebbe stato “sepolto in mare”, gettato dal ponte di una portaerei.«Per un mese – ricorda “Russia Today” – le truppe americane hanno inutilmente setacciato le grotte di Tora Bora, al confine col Pakistan, dove si credeva che Bin Laden fosse nascosto. «Nonostante Bush avesse promesso, in campagna elettorale, di mettere fine all’ingerenza americana nelle altre nazioni, i soldati americani e della Nato si sono presto ritrovati a combattere una tipica guerra di contro-insorgenza, lanciando continue offensive contro gli sfuggevoli Talebani e i ribelli di Al-Qaeda». I comandi americani in Afghanistan continuavano a chiedere sempre più truppe, ma la maggior parte delle forze americane era impegnata in Iraq, dopo che l’invasione del 2003 aveva seguito un percorso analogo: da una rapida vittoria a un incubo senza fine. «Grazie ad una combinazione fra un incremento di truppe e accordi sottobanco con i leader locali, gli Stati Uniti sono riusciti a neutralizzare la maggior parte della ribellione in Iraq». E ora, dopo la sua rielezione, «Obama ha implementato un programma simile anche in Afghanistan».E dire che, nel maggio 2011, una squadra di Navy Seals aveva attaccato il presunto rifugio di Abbottabad, dove – secondo Washington – sarebbe stato ucciso Bin Laden. «Questo significava il raggiungimento dello scopo principale della guerra, per quanto sia arrivato dopo quasi un decennio». Con la presunta scomparsa di Bin Laden, Obama ha annunciato il ritiro graduale dall’Afghanistan entro la fine del 2016, mentre le operazioni di combattimento – ufficialmente – sarebbero terminate nel dicembre del 2014. «Qualcuno però si è dimenticato di dirlo al Talebani», se è vero che, nel maggio 2015, un drone americano ha ucciso in Pakistan il loro leader, Mohammad Mansour. «E’ ora che gli afghani smettano di combattere e inizino a costruire un futuro tutti insieme», disse allora il ministro degli esteri statunitense John Kerry, invitando i Talebani a prendere accordi con il governo afghano del nuovo presidente, Ashraf Ghani. I Talebani invece hanno scelto il mullah Haibatullah Akhundzada come nuovo leader, lanciando una nuova offensiva. Nel settembre 2015 hanno preso Kunduz, importante città del nord del paese, vicino al confine con il Tajikistan. Ne sono stati scacciati dopo due settimane di pesanti combattimenti, nel corso dei quali gli aerei americani hanno distrutto l’ospedale di “Medici Senza Frontiere”. Un anno dopo, però, i Talebani rientravano nuovamente a Kunduz, piantando la loro bandiera al centro della piazza principale della città.Alla “conferenza dei donatori”, in Austria, Stati Uniti ed Europa hanno appena promesso 15 miliardi di dollari per sostenere il governo afghano nei prossimi quattro anni. «Il costo della guerra in Afghanistan è stato stimato in 685 miliardi di dollari dal Servizio di Ricerca del Parlamento americano», aggiunge “Rt”. Secondo una stima della Harvard Kennedy School of Government, però, il costo a lungo termine potrebbe arrivare a 6 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, se si calcolano «i costi di assistenza medica a lungo termine e di disabilità per i veterani, il rinnovamento dell’arsenale militare ed i costi economici e sociali». Tutti soldi «scomparsi nel nulla». Miliardi di dollari destinati alla “ricostruzione” dell’Afghanistan sono stati spesi «in aerei da guerra che sono poi stati svenduti a prezzo di rottame», ma anche «in stazioni di rifornimento da 30 milioni di dollari ciascuna», e anche «in aerei per combattere il traffico di droga che non sono mai decollati, com’è stato documentato dall’ispettore generale degli Stati Uniti per la ricostruzione in Afghanistan».La sola lotta al narcotraffico, conclude “Russia Today”, ha ingoiato 8,4 miliardi di dollari, senza dare il minimo risultato visibile: «L’Afghanistan oggi produce il 90% dell’eroina nel mondo, in quantità ancora maggiori di quanto lo facesse prima del 2001». Forse la più grossa ironia della guerra in Afghanistan sta nel fatto che «gli americani hanno finito per combattere la stessa gente che avevano supportato durante la Guerra Fredda». Sul finire degli anni ‘70, Washington aveva finanziato di nascosto i ribelli islamici per attirare l’Unione Sovietica in un “incubo simile al Vietnam”. Missione compiuta, peraltro: grazie anche a Osama Bin Laden, appositamente reclutato e armato da emissari della Casa Bianca, del calibro del super-massone Zbigniew Brzezinski. «Dopo il ritiro dei sovietici, nel 1989, gli stessi ribelli – i mujaheddin – iniziarono a lottare fra di loro, permettendo così ai Talebani di emergere come fazione dominante». I soggetti ideali per la “guerra infinita”, l’alibi perfetto per il conflitto permanente e la militarizzazione del pianeta.Sono passati 15 anni dall’invasione militare dell’Afghanistan da parte degli americani, supportati dalla cosiddetta “coalizione internazionale”, di cui anche noi facciamo parte. Le truppe americane hanno invaso l’Afghanistan il 7 ottobre del 2001, meno di un mese dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre a New York e Washington. Quella che era sembrata una rapida vittoria sul regime dei Talebani si è trasformata in una sanguinosa guerriglia che continua ancora oggi. L’amministrazione del presidente Bush aveva accusato l’organizzazione Al-Qaeda di Osama Bin Laden di aver dirottato gli aerei civili che hanno colpito e World Trade Center e il Pentagono. La Casa Bianca era convinta che Bin Laden si trovasse in Afghanistan, e pretese e i Talebani glielo consegnassero. I Talebani, guidati dal Mullah Omar, chiesero agli americani di mostrare le prove della sua colpevolezza. In cambio, ebbero la guerra. Con l’aiuto dei jet e delle truppe americane, i signori della guerra della Alleanza del Nord scacciarono i Talebani dalle città più importanti e presero il controllo della capitale, Kabul, a metà di novembre.
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Charroux: islamici colpiranno le Torri con aerei. Era il 1969
“Arriverà un giorno in cui degli islamici, tramite aerei dirottati, abbatteranno i due monumenti speculari più importanti per la cultura americana”. E’ scritto, nero su bianco, in un libro di cui nessuno parla mai, men che meno in relazione all’11 Settembre. Lo scrisse il francese Robert Joseph Grugeau, in arte Robert Charroux. Titolo del volume, nell’edizione italiana: “Il libro dei segreti traditi”. Attenzione: fu pubblicato nel 1969, mentre le Twin Towers erano ancora in costruzione. Una sconcertante, precisissima profezia? No, peggio: «Probabilmente quella era un’istruzione. Come dire: guardate, quando dovrete fare quella cosa, contro l’America, la dovrete fare così». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, esoterista e studioso di simbologia, ospite di “Border Nights” insieme al regista Massimo Mazzucco, all’indomani della strage parigina del Bataclan, 13 novembre 2015. Stessa matrice: super-massoneria deviata. «Essendo l’11 Settembre nato in ambito massonico o paramassonico, l’attentato alle Torri lo hanno fatto esattamente così, perché così funziona. Il Batalclan richiama la fuga dei Templari braccati da Filippo il Bello, che lasciarono Parigi riparando in Scozia dove fondarono la massoneria moderna. E l’11 Settembre richiama la “predizione” di Robert Charroux». Non sono coincidenze, ma “firme”: «Consentono, a chi deve decodificare l’attentato, di capire perfettamente da dove è partito».
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Mazzucco: l’11 Settembre spiegato ai pompieri, a casa mia
Questa mattina abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco, per un piccolo incidente domestico. Si era rotta la serratura della porta d’ingresso, ed eravamo rimasti chiusi in casa. Hanno dovuto entrare dal balcone per venire a “liberarci”. Mentre i suoi colleghi lavoravano per smontare la porta, io ho fatto due chiacchiere con il caposquadra. Aveva gli occhi sottili come due fessure, la pelle bruciata dal sole, e la fronte imperlata di sudore. Mi domandavo come facessero a lavorare, d’estate, con quei pesantissimi pantaloni e quegli stivaloni di gomma. Abbiamo iniziato a parlare degli incendi estivi, e lui mi ha spiegato che sono quasi tutti dolosi, ma che non c’è una intenzione particolare di creare dei disastri. «Di solito – mi spiegava – sono gli stessi contadini che danno fuoco ai loro prati ormai seccati, perché l’erba fresca che ricresce produce nelle capre un latte migliore e meno amaro. Ogni tanto la cosa gli scappa di mano, e noi dobbiamo intervenire». A quel punto ho provato a spostare l’argomento sull’11 Settembre. «Ogni volta che vedo i vigili del fuoco in azione – ho detto – mi vengono in mente quei poveracci morti nelle Torri Gemelle».«Quelli sono stati proprio sfortunati», ha detto lui, con un sospiro: «Gli è crollato tutto addosso, mentre cercavano di spegnere le fiamme». «Veramente non è andata proprio così», ho detto io: «Quelle torri non dovevano crollare». «Come no?», ha replicato lui: «Lì il calore ha sciolto la struttura, ed è venuto giù tutto». «Ma scusi – gli ho suggerito io – la struttura era in acciaio, e l’acciaio fonde a 1500°, giusto?». Giusto. «Il cherosene [combustibile degli aerei] però sviluppa al massimo 800°, quando brucia». «Ah già, è vero. Non ci avevo mai pensato», ha detto lui: «Ma allora, scusi, perché sono venute giù?». «Sono venute giù perché le hanno tirate giù», ho detto io: «Con gli esplosivi». «Con gli esplosivi? E chi li ha messi gli esplosivi?». «Li hanno messi loro, gli americani. Quelli del Pentagono. Avevano bisogno di creare un disastro, per dare la colpa a bin Laden e andare a fare la guerra in Afghanistan». A quel punto le fessure delle palpebre si sono aperte, e ho visto due grandi occhi azzurri, completamente persi nel vuoto.E’ rimasto in silenzio per qualche secondo, poi ha chiamato i suoi colleghi: «Vincenzo, Salvatore, venite un po’ qua. Sentite cosa ha da dire questo signore». E così ho iniziato a parlare della struttura delle Torri Gemelle, dell’amianto che contenevano, delle 80.000 tonnellate di struttura sana sotto il livello di impatto, di caduta libera, di dozzine di testimonianze sulle esplosioni, del fatto miracoloso che due aerei siano riusciti a far crollare tre grattacieli nello stesso giorno, ecc. ecc. Poi è arrivato il momento più delicato, quando gli ho detto: «I vostri fratelli non sono morti fra le macerie per semplice sfortuna. Sono morti perché ce li hanno mandati, a morire. Li hanno mandati lì dentro, pur sapendo che poco dopo le torri sarebbero crollate. Avevano bisogno di martiri, per scatenare l’indignazione popolare e andare a fare la guerra in Afghanistan». Loro mi guardavano stupefatti. Uno era rimasto letteralmente con la bocca aperta e il cacciavite in mano.Non dev’essere facile, per gente che è abituata a rischiare la vita per gli altri, sentirsi dire che qualcuno li ha ammazzati apposta per farsi i propri porci comodi. Hanno finito il lavoro in silenzio, senza più parlare. Poi, prima di andarsene, il comandante mi ha chiesto: «Ma scusate, com’è che noi di queste cose non ne sappiamo niente?». Io una risposta l’avrei avuta, ma sarebbe stata troppo lunga e troppo complicata. Ho preferito regalargli una copia di “Inganno Globale”, dicendogli: «Guardate questo, passatevelo fra voi e decidete da soli quello che è successo. Poi se un giorno volete fare due chiacchiere, io sono sempre qui. Passate di qui quando volete, e ci beviamo un bel caffè». «Lo faremo sicuramente», mi ha risposto il comandante, mentre scendevano silenziosi le scale.(Massimo Mazzucco, “Vigili del fuoco e 11 Settembre”, dal blog “Luogo Comune” del 21 agosto 2016).Questa mattina abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco, per un piccolo incidente domestico. Si era rotta la serratura della porta d’ingresso, ed eravamo rimasti chiusi in casa. Hanno dovuto entrare dal balcone per venire a “liberarci”. Mentre i suoi colleghi lavoravano per smontare la porta, io ho fatto due chiacchiere con il caposquadra. Aveva gli occhi sottili come due fessure, la pelle bruciata dal sole, e la fronte imperlata di sudore. Mi domandavo come facessero a lavorare, d’estate, con quei pesantissimi pantaloni e quegli stivaloni di gomma. Abbiamo iniziato a parlare degli incendi estivi, e lui mi ha spiegato che sono quasi tutti dolosi, ma che non c’è una intenzione particolare di creare dei disastri. «Di solito – mi spiegava – sono gli stessi contadini che danno fuoco ai loro prati ormai seccati, perché l’erba fresca che ricresce produce nelle capre un latte migliore e meno amaro. Ogni tanto la cosa gli scappa di mano, e noi dobbiamo intervenire». A quel punto ho provato a spostare l’argomento sull’11 Settembre. «Ogni volta che vedo i vigili del fuoco in azione – ho detto – mi vengono in mente quei poveracci morti nelle Torri Gemelle».
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Api a rischio estinzione, un insetticida ne uccide lo sperma
La natura sabotata dal “genocidio delle api”, in derastico calo negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni. Ora si scopre che la colpa è anche di un potente insetticida recentemente introdotto, che disabiliterebbe le facoltà riproduttive degli insetti che presiedono largamente alla funzione strategica dell’impollinazione. Secondo una nuova ricerca, uno degli insetticidi più diffusi ha come effetto collaterale di uccidere una percentuale significativa dello sperma delle api, offrendo così una possibile spiegazione per la drastica diminuzione nella popolazione mondiale di api, scrive “Rt” in un post tradotto da Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. Un gruppo di scienziati svizzeri ha indagato su come una categoria di insetticidi neuro-attivi, chiamati “neonicotinoidi”, possa danneggiare le api. I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sul “Royal Society B’s journal Proceedings”. L’esperimento ha mostrato che i maschi delle api che consumavano polline trattato con neonicotinoidi producevano il 39% in meno di sperma di quelli che non erano stati esposti alle stesse sostanze.Secondo la ricerca, «il diffuso utilizzo profilattico dei neonicotinoidi potrebbe avere sottovalutato effetti contraccettivi sugli insetti, limitandone la capacità di conservazione». I ricercatori dell’università di Berna hanno commentato che «le funzioni riproduttive non sono state pienamente interrotte, ma è diventato chiaramente più difficile per le api regina concepire, accoppiandosi con maschi che hanno perso parte della loro forza virile». Al di là degli effetti negativi sullo sperma, prosegue “Russia Today”, anche la durata vitale delle api che sono state in contatto con l’insetticida si è ridotta da 22 a 15 giorni. Questo problema è stato attribuito al malfunzionamento del sistema immunitario. «Studi recenti – prosegue il report scientifico elvetico – hanno rivelato che i composti agrochimici sono in grado di invalidare la funzione immunitaria. È quindi possibile che i maschi esposti al neonicotinoidi abbiano visto ridurre le proprie capacità di detossificazione, riducendo così la durata della loro vita».Le colonie di insetti da pollinazione si stanno depopolando in Europa e Nord America, in un processo chiamato “sindrome dello spopolamento degli alveari”, nel quale la maggioranza delle api operaie abbandonano la regina e le altre api immature, nonostante ci sia per loro una grande abbondanza di cibo di cui nutrirsi, conclude il post di “Rt” tradotto da Mazzucco. «Questo disordine ha portato a significative perdite economiche, dal momento in cui le api ed altri insetti sono responsabili per la pollinazione di tre quarti delle coltivazioni mondiali». Traduzione economica piuttosto immediata, che rende l’idea delle dimensioni anche numeriche del problema: «Nel 2013 i contadini che devono affittare le api per l’impollinazione hanno dovuto affrontare un aumento di costi del 20% circa, dovuto alla scarsità di api».La natura sabotata dal “genocidio delle api”, in drastico calo negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni. Ora si scopre che la colpa è anche di un potente insetticida recentemente introdotto, che disabiliterebbe le facoltà riproduttive degli insetti che presiedono largamente alla funzione strategica dell’impollinazione. Secondo una nuova ricerca, uno degli insetticidi più diffusi ha come effetto collaterale di uccidere una percentuale significativa dello sperma delle api, offrendo così una possibile spiegazione per la drastica diminuzione nella popolazione mondiale di api, scrive “Rt” in un post tradotto da Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. Un gruppo di scienziati svizzeri ha indagato su come una categoria di insetticidi neuro-attivi, chiamati “neonicotinoidi”, possa danneggiare le api. I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sul “Royal Society B’s journal Proceedings”. L’esperimento ha mostrato che i maschi delle api che consumavano polline trattato con neonicotinoidi producevano il 39% in meno di sperma di quelli che non erano stati esposti alle stesse sostanze.
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Terrore fai da te, il mostro sfugge al suo stesso inventore?
Il terrorismo mondiale negli ultimi 15 anni sembra essersi articolato in tre fasi diverse. La prima fase è stata quella in cui si è voluto creare il nuovo brand internazionale del cosiddetto “terrorismo islamico”. L’evento madre ovviamente è stato l’11 Settembre, il quale a sua volta era stato ottimamente preparato dalla “false flag” del primo attentato alle Torri Gemelle, otto anni prima. Una volta che i media mondiali si sono bevuti la messinscena dell’11 Settembre, è stato universalmente stabilito che il terrorismo islamico esisteva, e da quel giorno tutta la geopolitica mondiale ha cominciato a ruotare intorno a questa nuova realtà, con le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq a farla ovviamente da protagoniste. Poi è arrivato l’attentato di Londra del 2005, e con questa terza “false flag” clamorosa è stato stabilito non soltanto che il terrorismo islamico esisteva, ma che avrebbe potuto continuare a colpirci in ogni momento, in ogni parte del mondo. Grazie a questo, i vari governi occidentali hanno ottenuto di poter dare numerosi giri di vite ai diritti civili dei propri cittadini. Questo ha portato alla chiusura della prima fase.Nella seconda fase i grandi burattinai del terrorismo mondiale hanno iniziato a godere dei frutti di ciò che avevano seminato. […] Ogni volta che era necessario, negli Stati Uniti arrivava puntuale un comunicato di Bin Laden, inteso a mantenere viva la paura nella popolazione. E quando non c’era un comunicato di Bin Laden, c’era sempre un imbecille pronto a farsi beccare con le mutande piene di esplosivo mentre si imbarcava su un aereo internazionale. Qualunque attentato succedesse nel mondo – ci veniva detto – era sempre fatto da qualcuno che era in qualche modo “collegato ad Al Qaeda”. E così sono passati gli anni, con una popolazione occidentale alla quale veniva regolarmente ricordato che esiste un “pericolo islamico”. Israele ne ha approfittato per far passare sotto silenzio la sua truculenta repressione nella striscia di Gaza. Staterelli minori magari ne approfittavano per regolare dei conti interni, facendo ricadere il tutto sotto la bandiera del terrorismo. Diversi equilibri nelle nazioni africane venivano alterati con la scusa del terrorismo. E poi naturalmente c’è stata l’Isis, che ha raccolto l’eredità di una Al Qaeda ormai logora e senza più credibilità, rilanciando in Occidente la paura dei tagliagole.E così, da un’operazione all’altra, siamo arrivati all’anno funesto 2015, nel quale sono stati perpetrati i due attentati in Francia (Charlie Hebdo e Bataclàn) che hanno stabilito definitivamente che da oggi anche noi europei dobbiamo avere costantemente paura. E gli attentati di Bruxelles hanno fatto da perfetto corollario ai primi due. Ora però questa seconda fase sembra terminata, o meglio, sembra che sia sfuggita di mano ai suoi creatori, per dare luogo ad un’ondata di attentati fai-da-te che diventa sempre più difficile da catalogare all’interno di categorie ben precise. Talmente poco ortodossi sembrano essere questi terroristi dell’ultima ora, che i media si sono affrettati ad inventare un nuovo termine: il terrorista “radicalizzato rapidamente”. Come se il terrorista fosse una specie di bibita liofilizzata contenuta in bustina, nella quale basta versare un po’ d’acqua per “radicalizzarlo” dalla sera alla mattina.In realtà gli ultimi episodi – quello di Nizza, il treno in Germania, e per ultimo la strage di Monaco – mostrano chiaramente che ormai le redini del controllo sono sfuggite a chi questo terrorismo l’aveva inventato, e gli episodi di emulazione – impossibili per loro stessa natura da catalogare – rischiano di diventare la caratteristica predominante di questa terza fase. Una fase in cui chiunque abbia una pistola si disegna in casa una bandiera dell’Isis e poi esce per massacrare la zia che gli ha rotto i coglioni, oppure per fare fuori una scolaresca solo per fnire il giorno dopo sui giornali. In altre parole, come era già successo in passato, gli americani hanno creato il mostro, e ora il mostro gli sta scappando di mano. Ne saranno felici i neocons, storici fautori del caos totale.(Massimo Mazzucco, “Terrorismo, è iniziata la terza fase?”, da “Luogo Comune” del 23 luglio 2016).Il terrorismo mondiale negli ultimi 15 anni sembra essersi articolato in tre fasi diverse. La prima fase è stata quella in cui si è voluto creare il nuovo brand internazionale del cosiddetto “terrorismo islamico”. L’evento madre ovviamente è stato l’11 Settembre, il quale a sua volta era stato ottimamente preparato dalla “false flag” del primo attentato alle Torri Gemelle, otto anni prima. Una volta che i media mondiali si sono bevuti la messinscena dell’11 Settembre, è stato universalmente stabilito che il terrorismo islamico esisteva, e da quel giorno tutta la geopolitica mondiale ha cominciato a ruotare intorno a questa nuova realtà, con le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq a farla ovviamente da protagoniste. Poi è arrivato l’attentato di Londra del 2005, e con questa terza “false flag” clamorosa è stato stabilito non soltanto che il terrorismo islamico esisteva, ma che avrebbe potuto continuare a colpirci in ogni momento, in ogni parte del mondo. Grazie a questo, i vari governi occidentali hanno ottenuto di poter dare numerosi giri di vite ai diritti civili dei propri cittadini. Questo ha portato alla chiusura della prima fase.
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Trump snobba anche la Nato, ma non facciamoci illusioni
Donald Trump è strepitoso. Con la leggerezza che lo contraddistingue, ieri ha messo in dubbio addirittura l’automatismo del sistema di difesa della Nato, voluto storicamente dagli stessi Stati Uniti. Alla domanda del “New York Times” su come si sarebbe comportato nel caso di una richiesta di intervento militare da parte di un’altra nazione Nato, Trump ha candidamente risposto: «Dipende da come loro si sono comportati con noi. Se hanno rispettato i loro obblighi verso di noi, allora sì, potremmo intervenire». In altre parole, Donald Trump ha messo gli accordi Nato sullo stesso piano di un qualunque contratto di lavoro: se tu rispetti gli impegni che hai preso con me, allora io rispetterò quelli che ho preso con te. Altrimenti, sono affari tuoi. La reazione del segretario generale della Nato, Stoltenberg, non si è fatta aspettare: «La solidarietà fra le nazioni partecipanti – ha detto – è un punto centrale per la Nato». Ma Donald Trump da questo orecchio sembra non sentirci. Per lui contano solo gli interessi americani, e l’unico punto di vista che conta è il punto di vista americano.Esattamente come per i suoi business, Trump dice: «Se qualcosa mi conviene la faccio, altrimenti no». E il bello è che se una cosa gli conviene o meno, lo decide soltanto lui. Per ora i sondaggi danno ancora un leggero vantaggio per Hillary Clinton, ma molte cose possono cambiare da oggi a novembre, e di certo nessuno se la sente di escludere che alla Casa Bianca possa andarci davvero Trump. Ma non si faccia illusioni, chi spera magari in un ribaltamento degli equilibri internazionali dovuto ad una presidenza così poco ortodossa come quella di Trump: anche George Bush, nella campagna elettorale del 2000, predicava che gli Stati Uniti dovevano tirarsi indietro dal “nation building”, e che dovevano tornare a farsi gli affari propri, in casa loro. Poi è arrivato l’11 Settembre, e abbiamo visto tutti com’è andata a finire.E anche con l’avvento di Barack Obama le cose non sono cambiate molto. Pur partito con gli intenti migliori (chiudere Guantanamo, ritirarsi da Afghanistan e Iraq), anche il presidente nero ha dovuto fare marcia indietro, e trasformarsi lentamente in un guerrafondaio lui stesso. Se quindi per caso dovesse vincere Donald Trump, l’unica cosa “divertente” che potremo fare sarà quella di osservare che cosa riusciranno a combinare gli uomini del complesso militare industriale, per trasformare anche lui in un nuovo, forse ineguagliabile, “premio Nobel per la pace”. Chi comanda alla fine sono sempre loro. Questo non scordiamolo mai.(Massimo Mazzucco, “Donald Trump e la Nato”, da “Luogo Comune” del 21 luglio 2016).Donald Trump è strepitoso. Con la leggerezza che lo contraddistingue, ieri ha messo in dubbio addirittura l’automatismo del sistema di difesa della Nato, voluto storicamente dagli stessi Stati Uniti. Alla domanda del “New York Times” su come si sarebbe comportato nel caso di una richiesta di intervento militare da parte di un’altra nazione Nato, Trump ha candidamente risposto: «Dipende da come loro si sono comportati con noi. Se hanno rispettato i loro obblighi verso di noi, allora sì, potremmo intervenire». In altre parole, Donald Trump ha messo gli accordi Nato sullo stesso piano di un qualunque contratto di lavoro: se tu rispetti gli impegni che hai preso con me, allora io rispetterò quelli che ho preso con te. Altrimenti, sono affari tuoi. La reazione del segretario generale della Nato, Stoltenberg, non si è fatta aspettare: «La solidarietà fra le nazioni partecipanti – ha detto – è un punto centrale per la Nato». Ma Donald Trump da questo orecchio sembra non sentirci. Per lui contano solo gli interessi americani, e l’unico punto di vista che conta è il punto di vista americano.
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Auto senza conducente, il sogno perfetto di chi ci comanda
Sembra inevitabile, ormai sta per arrivare: l’auto senza guidatore è alle porte. Quando senti che Google ha firmato con Fiat Chrysler un accordo per produrre le prime 100 automobili senza guidatore, capisci che ormai il nostro destino è stato deciso. Fra qualche anno ci troveremo tutti a confrontarci sulle nostre strade con un nuovo tipo di mostro tecnologico: un complicatissimo assemblaggio di sensori, computer e telecamere montato su quattro ruote, che viene verso di noi con la stessa sicurezza con cui viaggia un esperto guidatore con trent’anni di esperienza. E noi ci ritroveremo preoccupati a domandarci: “Lo avrà visto, quel cazzo di affare lì, che ho messo la freccia e voglio girare a sinistra? Oppure viene avanti dritto e mi sfonda la fiancata?”. Uno dei principi essenziali della guida, infatti, è che tu puoi contare sulla tua sicurezza proprio perché nelle altre automobili c’è dentro gente che tiene alla propria pelle quanto tu tieni alla tua.A meno di incontrare qualcuno ubriaco marcio, tu sai bene che l’automobilista che ti viene incontro starà molto attento a non invadere la tua carreggiata, perché nel momento in cui lo fa mette a rischio la propria vita ancora prima della tua. Ma nel momento in cui dentro a quelle automobili ci metti un computer con dei sensori, tutti i tuoi parametri sulla sicurezza – che sono basati sulla previsione del comportamento altrui – vanno a farsi benedire. Come potremo prevedere il comportamento di una automobile senza guidatore, nel momento in cui le sue telecamere dovessero scambiare, ad esempio, il lampo di un fulmine con i fari abbaglianti di un’altra macchina? Oppure se dovessero scambiare la sagoma di un gatto nero fermo sulla strada con un rattoppo sull’asfalto più scuro del normale?Il limite di queste automobili sarà sempre, per definizione, il limite stesso dell’intelligenza artificiale: l’intelligenza artificiale può solo elaborare dati che conosce già in anticipo, e per i quali ha ricevuto delle precise istruzioni in proposito. Ma non potrà mai elaborare dati che sono sono stati già previsti in sede di progettazione. E purtroppo, come tutti sappiamo, le variabili che sono in gioco quando si guida una macchina sono praticamente infinite. Per ora, infatti, i test dell’auto senza conducente vengono condotti in zone sicure, all’interno del perimetro tranquillo e ordinato della sede Google di Mountain View. Lì tutti rispettano gli stop, tutti procedono a velocità controllata, e tutti mantengono la distanza di sicurezza. Persino un cieco, in quelle condizioni, riuscirebbe ad arrivare a destinazione.Provate invece ad immaginare un’auto senza conducente che cerca di attraversare una cittadina come Castellammare di Stabia durante l’ora di punta (chi è di quelle parti sa bene a cosa mi riferisco): procedere all’interno di quel caos metafisico, tenendo conto di tutte le variabili impazzite che si mettono contemporaneamente in movimento, richiede una creatività e una rapidità di riflessi che soltanto l’essere umano possiede. Creatività e rapidità di riflessi che, a loro volta, debbono potersi basare sulla capacità di prevedere il comportamento altrui. Io vedo il tizio davanti a me che di colpo si è fermato in mezzo alla strada, e quindi inizio a frenare prima ancora che lui apra la portiera per fare scendere la suocera. Ma tutto questo, come abbiamo già detto, non sarà applicabile alle auto senza guidatore. I computer non possono prevedere che le suocere vengano scaricate nel bel mezzo della carreggiata.Nel momento in cui inizieremo a vedere questi veicoli che circolano per le nostre strade, quindi, sapremo che il conto alla rovescia sarà iniziato. Presto sarà necessario adeguare il sistema di circolazione a queste automobili, togliendo di mezzo progressivamente i guidatori umani, con tutte le loro “variabili impazzite”. Agli esseri umani che ancora vorranno divertirsi a guidare un’automobile non resterà che recarsi su circuiti appositi, chiusi al resto del pubblico, un po’ come fanno adesso alla domenica gli automobilisti tedeschi, che per divertirsi prendono la loro Volkswagen Passat e vanno a farsi un giretto al vecchio Nurburgring. Pensate che bello, il futuro che ci attende: tutti chiusi dentro le nostre scatoline di latta, che ci portano lentamente e ordinatamente da casa al posto di lavoro, mentre noi possiamo finalmente dedicarci a chattare con gli amici full time, senza più nemmeno staccare gli occhi dallo schermo dello smartphone. Un sogno, per chi ci comanda. Un incubo, per tutto il resto dell’umanità.(Massimo Mazzucco, “Tecnologia senza umanità”, da “Luogo Comune” del 24 maggio 2016).Sembra inevitabile, ormai sta per arrivare: l’auto senza guidatore è alle porte. Quando senti che Google ha firmato con Fiat Chrysler un accordo per produrre le prime 100 automobili senza guidatore, capisci che ormai il nostro destino è stato deciso. Fra qualche anno ci troveremo tutti a confrontarci sulle nostre strade con un nuovo tipo di mostro tecnologico: un complicatissimo assemblaggio di sensori, computer e telecamere montato su quattro ruote, che viene verso di noi con la stessa sicurezza con cui viaggia un esperto guidatore con trent’anni di esperienza. E noi ci ritroveremo preoccupati a domandarci: “Lo avrà visto, quel cazzo di affare lì, che ho messo la freccia e voglio girare a sinistra? Oppure viene avanti dritto e mi sfonda la fiancata?”. Uno dei principi essenziali della guida, infatti, è che tu puoi contare sulla tua sicurezza proprio perché nelle altre automobili c’è dentro gente che tiene alla propria pelle quanto tu tieni alla tua.
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I nostri eroi: guai se il popolo decide da solo, come a Londra
Dopo lo shock mattutino, che ha regalato al mondo una imprevista uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tutti gli europeisti più convinti (in mala o buona fede che siano) hanno dedicato la giornata a metabolizzare questa fragorosa legnata sui denti. Il risultato di questa metabolizzazione si può riassumere in due diverse correnti di pensiero: la prima dice, sostanzialmente, che “l’Europa deve cambiare, se non vuole morire”. Questo ovviamente non significa nulla, perché l’Europa per come è stata costruita, con un Parlamento senza alcun reale potere esecutivo, non sarà mai in grado di modificare se stessa. E’ stata creata apposta come una gabbia per convogliare e controllare i consensi, e quello dell’“Europa che deve cambiare” è soltanto lo slogan disperato di coloro che si rendono conto che il loro “sogno europeo” ha ormai imboccato la china del tramonto. La seconda corrente di pensiero invece è molto più interessante, poiché era più difficile da prevedere: c’è infatti un diffuso senso di insoddisfazione – o quasi di rancore, si potrebbe dire – verso “le masse che non sono in grado di decidere”.Questo concetto è stato espresso, con diverse sfumature, da molti di coloro che hanno partecipato ieri alle varie trasmissioni televisive. Il capro espiatorio di questo presunto “errore” è naturalmente lo stesso Cameron, l’uomo che pur di essere rieletto aveva promesso al suo popolo un referendum sulla permanenza in Europa. Il rancore contro Cameron non è soltanto stato espresso da personaggi come Mario Monti (cosa più che prevedibile, nel suo caso), ma anche da semplici giornalisti come ad esempio Beppe Severgnini. Durante la trasmissione di Lilli Gruber, infatti, l’editorialista del “Corriere” ha gettato la maschera dell’imparzialità e ha dichiarato apertamente che il popolo inglese non andava lasciato votare «su una questione così complessa e delicata come l’uscita dall’Europa», perché il popolo non è pronto a fare scelte di tale importanza.Il popolo può fare i referendum – ha detto sostanzialmente Severgnini – finché si tratta di scegliere sull’acqua pubblica, oppure sull’abolizione di una certa legge, ma le cose più complicate, come appunto un’eventuale uscita dall’Europa, andrebbero lasciate «a chi se ne intende». Ovvero – secondo lui – agli stessi euro-tecnocrati che questo grande pasticcio l’hanno creato. Sulle stesse corde, anche se non ha parlato apertamente di “ignoranza popolare”, si è ritrovato anche Antonio Padellaro, ex-direttore del “Fatto Quotidiano”. Insomma, il sentimento diffuso, fra coloro che si sentono sconfitti dal risultato del referendum, è che “la prossima volta bisogna stare molto più attenti, prima di mettere in mano al ‘popolo bue’ scelte di radicale importanza come la struttura dell’Unione Europea”.Naturalmente, tutte queste persone accettano ben volentieri il voto del “popolo bue” quando questo si reca alle urne, chiude gli occhi e mette una crocetta su un partito a caso, lasciando poi a questo partito di decidere chi e come andrà a rappresentarlo nelle varie sedi parlamentari. Ma se per caso il popolo bue decide di prendere in mano direttamente le sorti del proprio destino, allora questo non va più bene, “perché il popolo non è preparato”. Insomma, a questi personaggi la democrazia va bene soltanto finché la gente vota come fa piacere a loro.(Massimo Mazzucco, “La tentazione antidemocratica”, da “Luogo Comune” del 25 giugno 2016).Dopo lo shock mattutino, che ha regalato al mondo una imprevista uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tutti gli europeisti più convinti (in mala o buona fede che siano) hanno dedicato la giornata a metabolizzare questa fragorosa legnata sui denti. Il risultato di questa metabolizzazione si può riassumere in due diverse correnti di pensiero: la prima dice, sostanzialmente, che “l’Europa deve cambiare, se non vuole morire”. Questo ovviamente non significa nulla, perché l’Europa per come è stata costruita, con un Parlamento senza alcun reale potere esecutivo, non sarà mai in grado di modificare se stessa. E’ stata creata apposta come una gabbia per convogliare e controllare i consensi, e quello dell’“Europa che deve cambiare” è soltanto lo slogan disperato di coloro che si rendono conto che il loro “sogno europeo” ha ormai imboccato la china del tramonto. La seconda corrente di pensiero invece è molto più interessante, poiché era più difficile da prevedere: c’è infatti un diffuso senso di insoddisfazione – o quasi di rancore, si potrebbe dire – verso “le masse che non sono in grado di decidere”.
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Twain: se le elezioni servissero, non ci lascerebbero votare
In tempi di elezioni si sente spesso citare la frase di Mark Twain: «Se le elezioni servissero a qualcosa, non ce le lascerebbero fare». Si può fare però anche il ragionamento opposto: se le elezioni non servissero a nulla, perché mai i politici si dannano in modo disumano per riuscire a vincerle? In realtà, questa è una finta contrapposizione, perché la prima frase è vista dall’ottica dell’elettore, mentre la seconda è vista dall’ottica del candidato politico. Si potrebbe concludere quindi che le elezioni non servono a nulla per quel che riguarda i cittadini, mentre servono moltissimo ai politici che le vincono, perché saranno poi loro a gestire il potere. C’è però un passaggio mancante, ed è questo: se è vero che le elezioni non servono al cittadino, ma servono al politico per arrivare a gestire il potere, perché il cittadino vota quel politico? Anche qui, la risposta è semplice: il cittadino vota quel politico perché crede che quel politico farà qualcosa di buono per lui.Quindi, le elezioni sono un grande inganno nel quale sostanzialmente un piccolo gruppo di teatranti (i politici) chiedono di avere l’autorizzazione da parte dei cittadini (il pubblico pagante) a gestire il loro denaro. Perché ormai è una cosa l’abbiamo capita tutti: governare significa gestire montagne praticamente infinite di denaro pubblico. Nient’altro. Sembrerebbe quindi un inganno perfetto: da una parte si obbligano i cittadini a versare quote sostanziali dei loro guadagni in forma di tasse (con la scusa dei “servizi pubblici”), e dall’altra si ottiene poi l’autorizzazione da parte degli stessi cittadini per gestire il loro denaro a proprio piacimento. Lasciando in più a loro l’illusione di avere scelto. Per dirla con Cioran, «la democrazia è il paradiso e la tomba dei popoli». C’è però un però: che cosa succede se i cittadini comprendono il meccanismo perverso che da sempre li ha portati ad essere legati al palo a cui volevano essere legati? Che cosa succede nel momento in cui si accorgono che negando il proprio voto a chi fino ad oggi gli ha soltanto rubato dei soldi, costui non potrà più continuare a rubarglieli?In fondo, è vero che il ladro sta dall’altra parte, ma sei tu che gli offri le chiavi di casa tua, nel momento in cui lo voti. La questione quindi non è democrazia-sì o democrazia-no, ma è democrazia becera e irrazionale (ingannevole e manipolatoria) contro democrazia critica ed informata (responsabile e partecipata). Lo ha spiegato bene James Madison (uno dei Padri Fondatori americani) quando ha detto: «Nulla potrebbe essere più irragionevole che dare potere al popolo, privandolo tuttavia dell’informazione senza la quale si commettono gli abusi di potere. Un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura l’informazione. Un governo popolare, quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa o a una tragedia, e forse a entrambe». Oppure, come diceva Rathenau, «Democrazia è regime di popolo nelle mani di un popolo politicamente educato; nelle mani di un popolo impolitico e ineducato è cricca di circoli e rigurgito di tavolini da caffè». La stessa cosa l’ha detta de Toqueville, in modo ancora più sintetico: «La democrazia è il potere di un popolo informato». It’s a long way to Tipperary.(Massimo Mazzucco, “A cosa servono le elezioni?”, dal blog “Luogo Comune” dell8 giugno 2016).In tempi di elezioni si sente spesso citare la frase di Mark Twain: «Se le elezioni servissero a qualcosa, non ce le lascerebbero fare». Si può fare però anche il ragionamento opposto: se le elezioni non servissero a nulla, perché mai i politici si dannano in modo disumano per riuscire a vincerle? In realtà, questa è una finta contrapposizione, perché la prima frase è vista dall’ottica dell’elettore, mentre la seconda è vista dall’ottica del candidato politico. Si potrebbe concludere quindi che le elezioni non servono a nulla per quel che riguarda i cittadini, mentre servono moltissimo ai politici che le vincono, perché saranno poi loro a gestire il potere. C’è però un passaggio mancante, ed è questo: se è vero che le elezioni non servono al cittadino, ma servono al politico per arrivare a gestire il potere, perché il cittadino vota quel politico? Anche qui, la risposta è semplice: il cittadino vota quel politico perché crede che quel politico farà qualcosa di buono per lui.
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Barnard: ed ecco l’omicidio perfetto per fermare la Brexit
Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.Il fatto indubitabile è che l’opinione pubblica inglese ora con una probabilità vicina al 99% si sposterà verso il voto pro Ue, mentre gli ultimissimi sondaggi davano Brexit davanti. Anche perché la fanfara della nomenklatura strillerà a 8000 decibel che i pro Brexit sono una masnadsa di fascisti, hooligan, medievali nazionalisti, buffoni alla Farage, estremisti pericolosi ecc. Non finirà più di suonare da qui al 23 giugno. Credo – e spero tanto di sbagliarmi, ma no – che dovremo dire addio a Brexit, dire addio cioè alla più straordinaria opportunità della Storia di distruggere la nomenklatura di Bruxelles che, come detto sopra, uccide diecimila volte di più del bastardo cane assassino di Jo Cox. Sono senza parole. E giuro, e guardate che veramente lo scrivo con le dita che mi si stanno rattrappendo fino a spezzarmi le falangi, che non posso levarmi dalla testa l’idea che ho sempre ritenuto l’ultima idea che un giornalista vero debba mai intrattenere nel suo cervello, dopo aver esaurito ogni altra ricerca: il complotto.Cazzo, che caso, mi dice una parte della mia testa, Cameron a febbraio cospira con la mega azienda di private security Serco per far partire una campagna segreta di sputtanamento di Brexit. Tutta la nomenklatura dei peggiori ceffi di Bruxelles fa muro contro Brexit. I neo-nazi di Merkel-Schauble ragliano minacce di fuoco, ma tutto quello che ottengono è che i sondaggi volano sempre più verso il voto per uscire dalla Ue. Poi arriva la riunione del Bilderberg in Germania, e oplà, uno dei volti più belli e umanamente puliti del ‘Rimaniamo in Ue’ viene macellata a pochi giorni dal voto al grido di “Prima la Gran Bretagna!”. Oplà, eh? Ma io non sono un Blondet o un Mazzucco, io faccio un altro mestiere, il giornalista, e senza l’Edward Snowden del caso Cox io ficco il complotto nella spazzatura, e dico solo una cosa. Una morte ora rischia con altissime probabilità di permetterne altre decine di migliaia per decenni per ciò che ho scritto due paragrafi più sopra. Sono senza parole, I’m beyond words.(Paolo Barnard, “Un morto aiuterà a produrne altre decine di migliaia, goodbye Brexit?”, dal blog di Barnard del 17 giugno 2016).Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.