Archivio del Tag ‘massacro sociale’
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Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà
Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».
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D’Attorre: per l’euro noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa
Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?Se gli economisti discutono sulla praticabilità di un’uscita dalla moneta unica, su altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l’euro è stato costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e l’ostilità tra i popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati. Secondo: l’Italia è uno dei paesi per i quali la scelta dell’euro ha prodotto gli effetti più negativi. Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico che illustri comparativamente l’andamento della produttività, della bilancia commerciale, del reddito pro capite o del Pil fra Italia e Germania prima e dopo l’introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l’Italia era l’unico paese dell’Eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del Pil pro capite rimaneva inferiore a quello del 1999, l’anno in cui siamo stati ammessi nella moneta unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali.Di fronte all’evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero riconoscere apertamente l’errore storico compiuto nell’appoggiare un progetto fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all’avventurismo del M5S. L’altra riflessione che si dovrebbe aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, specie tra quelli più impegnati per il No al referendum, riguarda il rapporto fra euro e Costituzione repubblicana. Se si fa della battaglia referendaria la strada non solo per sconfiggere il renzismo, ma per restituire alla Costituzione il ruolo di bussola fondamentale dello sviluppo del paese, è arrivato il tempo di interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il funzionamento della moneta unica si regge.Le famigerate “riforme strutturali” richieste dall’Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione, risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della moneta unica. Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della periferia dell’Eurozona l’austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei paesi su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria.Se non si riconoscono questi dati di realtà, protestare contro la svalutazione del lavoro o invocare il ritorno a un livello di investimenti pubblici incompatibili con i vincoli finanziari della moneta unica significa semplicemente abbaiare alla luna. Per quanto possa considerare difficile e rischiosa l’uscita dalla moneta unica, la sinistra non può più permettersi di considerare l’euro un Moloch sovraordinato rispetto ai principi costituzionali. Se la vittoria del No al referendum impedirà un ulteriore svuotamento della sovranità democratica nazionale a vantaggio dei poteri tecnocratici europei e rimetterà al centro della politica italiana la Costituzione a tutto tondo, bisognerà mettere in atto una strategia di resistenza costituzionale rispetto a ogni ulteriore trasformazione economica, sociale e democratica imposta dalla logica di funzionamento della moneta unica. Prendere di nuovo sul serio la Costituzione potrà difendere gli italiani dalle conseguenze dell’euro molto più di quanto abbia fatto la classe politica di destra o di sinistra nell’ultimo ventennio.(Alfredo D’Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l’euro”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 ottobre 2016, articolo ripreso da “Sinistra Lavoro”).Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?
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La tragedia greca dei salari: vivere con 260 euro al mese
L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.La maggiore diminuzione degli stipendi, tra -42% e -25%, colpisce i lavoratori giovani e quelli nell’età più produttiva, cioè i trentenni e i quarantenni. I lavoratori trentenni di solito progettano di formare una famiglia, e quelli verso i 40 e oltre spesso hanno già delle famiglie e dei figli. Hanno quindi da gestire impegni economici maggiori con redditi che diminuiscono. Ci sono 548.000 lavoratori nella fascia di età 40-49 anni. I lavoratori registrati over 50 sono 335.000. Prima della crisi molti di loro guadagnavano più di 1.600 euro lordi al mese. Nel 2012 i salari minimi sono diminuiti da 780 a 580 euro lordi per i lavoratori sopra i 25 anni e sono diminuiti a 510 euro lordi per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni. Secondo lo stesso Dataset, le pensioni medie sono diminuite del 13,96% tra il 2012 e il 2016. Nel periodo 2010-2017 le pensioni di base e integrative sono state tagliate 14 volte.Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso a causa dei lavori stagionali nel settore turistico. Nell’aprile 2017 il tasso di disoccupazione in Grecia era il 21,7% ed è tuttora il più alto dell’Unione Europea. Seconda viene la Spagna, con una disoccupazione al 17,1%. Tuttavia, secondo l’Unione dei Lavoratori nel Turismo e nella Ristorazione, gli imprenditori pongono l’enfasi sull’ingaggio di lavoratori giovani, fino a 25 anni di età, grazie ai loro minori salari. I salari in questo settore per questo gruppo di età sono di 510 euro al mese lordi per un lavoro a tempo pieno, che diventano 410 euro netti dopo aver scalato tasse e contributi previdenziali. Questa tendenza, che i media greci descrivono come “la cattiva cultura degli imprenditori”, impedisce la firma di contratti collettivi che permetterebbero di ingaggiare lavoratori più anziani, con più anni di esperienza e conseguentemente salari più alti.(“La tragedia greca dei salari: la generazione dei 265 euro al mese”, report di “Keep Talking Greece”, 1° agosto 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.
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Italia: poveri triplicati in 10 anni, mentre l’economia crolla
Da “Bloomberg”, una foto impietosa della relazione tra crisi demografica e crisi economica italiana, basata sul rapporto Istat pubblicato di recente. «Dopo aver perso il 25% della produzione industriale nella crisi più profonda dalla Seconda Guerra Mondiale, con la disoccupazione ufficiale all’11% e la popolazione in povertà assoluta triplicata nell’ultimo decennio e arrivata a quasi 5 milioni di persone, non è difficile capire perché gli italiani facciano meno figli: fare un figlio significa diventare poveri», scrive “Voci dall’Estero”, riprendendo un articolo di “Bloomberg” firmato da Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano. La demografia è ormai il nuovo campo della lotta di classe nel nostro paese? «Gli italiani che vivono al di sotto del livello di povertà assoluta sono quasi triplicati nell’ultimo decennio, mentre il paese attraversava una doppia recessione di durata record». L’Istat ha appena dichiarato che i poveri assoluti, ovvero coloro che non sono in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari, hanno raggiunto i 4,7 milioni l’anno scorso, dai quasi 1,7 milioni nel 2006. È il 7,9% della popolazione, e molti di questi poveri sono concentrati nelle regioni meridionali dell’Italia.Italia più povera: gli italiani che non possono permettersi un livello accettabile di vita sono quasi triplicati dal 2006. Mentre il paese tra il 2008 e il 2013 attraversava la sua più profonda recessione, e quindi la più lunga dalla Seconda Guerra Mondiale, più di un quarto della produzione industriale nazionale è stato spazzato via, ricorda “Bloomberg”. Nello stesso periodo, anche la disoccupazione è aumentata, con il tasso dei senza lavoro cresciuto fino al 13% nel 2014, partendo da un livello basso, del 5,7%, nel 2007. La disoccupazione era all’11,3% nell’ultima rilevazione di maggio. Pochi anni di Eurozona (drammatica contrazione della spesa, quindi del Pil, del lavoro e dei consumi, con esplosione della tassazione) sono bastati a mettere il ginocchio l’ex quarta-quinta potenza industriale del pianeta. Poi è arrivata anche l’emergenza demografica: «Per decenni l’Italia ha lottato con un basso tasso di fertilità: solo 1,35 bambini per donna rispetto a una media di 1,58 in tutta l’Unione Europea a 28 paesi nel 2015, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati comparabili», osserva “Bloomberg”.«Il rapporto sulla povertà mostra che è inutile domandarsi per quale motivo ci siano meno neonati in Italia», dichiara Gigi De Palo, presidente del Forum delle Associazioni Familiari. «Fare un figlio significa diventare poveri, sembra che in Italia i bambini non siano visti come un bene comune». Il numero di poveri assoluti è aumentato l’anno scorso tra le classi sociali più giovani, raggiungendo il 10% nel gruppo di quelli tra i 18 e i 34 anni. Il rapporto Istat ha mostrato anche che tra i più anziani è sceso, arrivando al 3,8% nel gruppo degli ultra65enni. All’inizio di quest’anno, aggiunge “Bloomberg”, il Parlamento italiano ha approvato un nuovo strumento contro la povertà chiamato “reddito di inclusione”, che sostituisce le misure esistenti per il sostegno al reddito. Sarà utile a 400.000 famiglie, per un totale di 1,7 milioni di persone, secondo quanto riferisce “Il Sole 24 Ore” citando documenti parlamentari. Il programma quest’anno sarà finanziato con risorse per circa 2 miliardi di euro, che dovrebbero salire a quasi 2,2 miliardi di euro nel 2018, sempre secondo quanto riporta il “Sole”.Anche l’incidenza della povertà relativa in Italia, calcolata sulla base della spesa media di consumo e che interessa un numero di persone più grande, è aumentata l’anno scorso, aggiunge “Bloomberg”. Secondo il rapporto dell’Istat, gli individui poveri in termini relativi sono quasi 8,5 milioni, il 14% della popolazione, con una incidenza maggiore nelle famiglie con un numero maggiore di bambini e nei gruppi di età inferiore ai 34 anni. Sono gli effetti tangibili dell’efferata politica di rigore somministrata dalla Trojka Ue a partire dal 2011, con la destituzione di Berlusconi e l’imposizione del governo Monti, “disegnato” da Napolitano e sostenuto anche dal Pd di Bersani. Tagli al welfare, devastazione delle pensioni con la legge Fornero, licenziamenti in massa, crollo di migliaia di aziende. Il tutto con l’alibi dello spread e lo spauracchio del debito pubblico. Poi è arrivato Renzi, insieme ai 5 Stelle (all’opposizione), ma nessuno dei due soggetti ha affrontato il problema euro-Ue: la politica italiana oggi non offre nessuna soluzione a questa crisi, basata sul rigore di bilancio imposto da Bruxelles e regolarmente eseguito da tutti i ministri dell’economia, incluso Padoan.Da “Bloomberg”, una foto impietosa della relazione tra crisi demografica e crisi economica italiana, basata sul rapporto Istat pubblicato di recente. «Dopo aver perso il 25% della produzione industriale nella crisi più profonda dalla Seconda Guerra Mondiale, con la disoccupazione ufficiale all’11% e la popolazione in povertà assoluta triplicata nell’ultimo decennio e arrivata a quasi 5 milioni di persone, non è difficile capire perché gli italiani facciano meno figli: fare un figlio significa diventare poveri», scrive “Voci dall’Estero”, riprendendo un articolo di “Bloomberg” firmato da Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano. La demografia è ormai il nuovo campo della lotta di classe nel nostro paese? «Gli italiani che vivono al di sotto del livello di povertà assoluta sono quasi triplicati nell’ultimo decennio, mentre il paese attraversava una doppia recessione di durata record». L’Istat ha appena dichiarato che i poveri assoluti, ovvero coloro che non sono in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari, hanno raggiunto i 4,7 milioni l’anno scorso, dai quasi 1,7 milioni nel 2006. È il 7,9% della popolazione, e molti di questi poveri sono concentrati nelle regioni meridionali dell’Italia.
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Banchieri marci e oligarchi, la vera Bad Company è l’Ue
Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.Secondo il precedente capo della Commissione Europea, Barroso, ben 4.000 miliardi di danaro pubblico in tutta Europa furono spesi per salvare le banche. Questa denuncia non ha avuto alcun seguito nella politica europea e neppure il suo estensore se ne é sentito toccato, visto che ora opera in Goldman Sachs. Una valanga di soldi dei cittadini europei ha difeso e rafforzato il potere dei banchieri, ma non un solo istituto di credito è stato assunto in mano pubblica per questo. La Germania, sempre ultra rigorista verso i paesi del Sud, ha speso 247 miliardi solo per salvare le sue banche locali. Alla fine la crisi bancaria globale nella Unione Europea fu scongiurata e come ringraziamento un finanziere britannico, prima della Brexit a cui ovviamente era contrario, affermò: l’economia è ripartita ed è ora che noi banchieri la si finisca di sentirci in colpa. Salvato il sistema coi soldi dei cittadini, cioè coi tagli allo stato sociale, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, l’Unione Europea decise che era giunto il momento di essere davvero per il libero mercato.È quindi stata varata l’Unione Bancaria, da noi ovviamente presentata come un altro passo verso i meravigliosi Stati Uniti d’Europa. L’unione bancaria, come il Fiscal Compact e altre sconcezze, in realtà era solo una ulteriore sottrazione di sovranità economica agli Stati, a favore delle banche, della burocrazia europea e naturalmente del potere del solo Stato diverso da tutti gli altri, la Germania. Ai governanti e ai politici italiani, da Monti, a Letta, a Renzi, che hanno gestito l’adesione dell’Italia alla unione bancaria, secondo me una causa per danni andrebbe fatta. Infatti quella decisione, invece che mettere in sicurezza il sistema bancario del nostro paese, lo ha esposto a tutte le tempeste. Il succo del nuovo trattato era proibire i salvataggi di stato delle banche, cui finora tutti i paesi più ricchi d’Europa erano ricorsi. Dal 2016, le banche in crisi avrebbero dovuto essere salvate con i soldi dei loro azionisti e dei loro correntisti, per deposti superiori a 100.000 euro. Non so come si traduca in tedesco “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, ma il concetto è quello. In inglese, la lingua che si usa sempre per fregarci, invece tutto questo è stato definito: passare dal “bail out” al “bail in”.Ovviamente la chiusura dell’ombrello di Stato, usato in tutta Europa, ha accelerato le sofferenze delle banche gia in difficoltà, ed in Italia abbiamo avuto il crollo prima delle banche toscane, legate al Pd e poi di quelle venete legate storicamente al centrodestra. Un fallimento bipartizan. Il primo fallimento, quello toscano, è stato affrontato proprio con il bail in e ha provocato una catastrofe economica e sociale. Per questo, al crollo delle banche venete tutto il potere governativo italiano ed europeo ha deciso di reagire in altro modo. È il metodo europeo della cavia, usato brutalmente sulla Grecia e calibrato più prudentemente sugli altri paesi Piigs. Si sperimenta una misura brutale e poi si aggiusta la dose tenendo conto delle vittime e soprattutto delle ribellioni provocate. Così per le banche venete gli aiuti di Stato, fieramente avversati dalla Ue quando si tratti di chiudere fabbriche e tagliare servizi, sono stati subito approvati dai vertici europei. Lo strumento trovato per salvare l’ipocrisia e favorire gli affari è, anche qui c’è l’inglese, la “bad company”. Letteralmente la cattiva impresa, quella sulla quale vengon scaricati, debiti, costi, personale in esubero, in modo che la nuova impresa che rileva l’attività, la “new company”, parta solo con il miglior cuore del carciofo.L’uso della bad company in Italia non è nuovo. In Alitalia il governo Berlusconi la adoperò per permettere alla crema della imprenditoria italiana di salvare la compagnia aerea, con i risultati che abbiamo visto e pagato. Il top manager modello per Renzi, Marchionne, fece lo stesso alla Fiat di Pomigliano. Da un lato la bad company che aveva come unica ragione sociale la cassa integrazione per migliaia di operai, dall’altro la newco dove venivano selezionati uno per uno coloro che avrebbero ripreso a lavorare in condizioni durissime. La bad company è diventata il modello italiano di gestione di crisi e ristrutturazioni, da ultimo in Ilva, ed è quindi stato adottato anche per le banche venete. Non c’è strumento migliore per socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Lo Stato si è accollato tutti i costi e gli esuberi delle banche fallite, Banca Intesa ne ha rilevato le attività al prezzo di 1 euro, naturalmente a condizione di ricevere finanziamenti e garanzie adeguate. Che potrebbero arrivare fino a 17 miliardi, con un costo virtuale medio di 440 euro per ognuno dei 38 milioni e mezzi di contribuenti. Il titolo Intesa è volato in Borsa.La banca Santander di Spagna ha protestato per questo salvataggio, perché in condizioni analoghe essa aveva dovuto rilevare anche tutte le passività, senza scaricarle su una bad company, dell’istituto di credito che salvava, ma La Ue ha risposto che in Italia era tutto regolare. Sono diventati più buoni? No le ragioni del sì europeo all’intervento pubblico italiano sono tre. La prima è che lo Stato paga, ma il privato guadagna. Se le banche venete fossero state nazionalizzate, allora sì che la Unione Europea sarebbe insorta gridando alla violazione del libero mercato. L’importante è che lo Stato, coi soldi dei cittadini, non aiuti se stesso e i cittadini che pagano, poi si può fare tutto. In secondo luogo si può sospettare che Banca Intesa, che usufruisce del salvataggio, sia in tali buoni rapporti con la finanza internazionale, magari anche con quella tedesca, da far presagire nuovi più vasti affari europei.In terzo luogo c’è la certezza che il governo italiano, per ottenere il via libera al salvataggio delle banche, abbia promesso alla Ue un bel po’ di massacro sociale e privatizzazioni, da realizzare con la prossima finanziaria. Che dovrebbe procedere a tagli e svendite di servizi e beni pubblici per una cifra superiore ai 20 miliardi stanziati per le banche. Così i conti tornano e del resto la logica è sempre la stessa: si prendono in ostaggio i lavoratori, i risparmiatori, i cittadini colpiti dalle crisi e poi, per salvarli, si autorizzano le speculazioni più sfacciate. Nonostante ciò che urla la propaganda di regime, l’alternativa reale non è salvataggi pubblici o libero mercato. La scelta vera è tra spendere il danaro pubblico a favore del profitto privato e della finanza, oppure per la proprietà pubblica e i cittadini. A quest’ultima scelta si oppone oggi pesantemente l’Unione Europea, la più grande bad company di cui è necessario liberarsi.(Giorgio Cremaschi, “La bad company è l’Unione Europea”, da “Micromega” del 4 luglio 2017).Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.
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Cremaschi: sull’euro-regime, da sinistra e M5S solo ciance
Servono nuove rappresentanze sindacali e politiche contro euro e globalizzazione. I grandi sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil sono oggi parte del problema e non certo della soluzione. Io in questa fase lavoro soprattutto coi sindacati di base: ieri ero a Trieste a una grande manifestazione dell’Usb a sostegno dei lavoratori colpiti da provvedimenti drammatici da parte delle multinazionali. Mi sento di dire che sul piano sindacale sta avvenendo qualcosa di simile a quanto avviene sul piano politico: c’è un establishment che è parte del problema anche se a parole dice di volerlo risolvere, e c’è l’esigenza di far emergere nuove rappresentanze che abbiano una posizione molto più netta contro la globalizzazione, contro le politiche europee, l’euro e tutto quello che da 15 anni ci sta massacrando. Le uniche speranze provengono “da fuori”, rispetto agli schieramenti tradizionali, su questo non c’è dubbio sia sul piano sociale che su quello politico, almeno in Italia. Ma non è così sempre e ovunque, ci sono paesi nei quali le forme di rinnovamento in parte sono anche venute dall’interno del sistema: basti guardare a Sanders negli Stati Uniti, che se fosse stato candidato alla presidenza avrebbe probabilmente vinto, o a Corbyn in Gran Bretagna che è riuscito a portare i laburisti su posizioni opposte rispetto a quelle che avevano.Ogni paese ha quindi la propria ricetta. Parlando per l’Italia non vedo la possibilità di rinnovamento nel tradizionale mondo del centrosinistra o nel tradizionale mondo sindacale. A sinistra si sta parlando di ricomposizioni in vista delle elezioni politiche? Ho un’opinione molto scettica, francamente. Non si può riscoprirsi “di sinistra” solo quando c’è da fare le liste elettorali, e questo la gente lo capisce perfettamente. Io credo che la sinistra in Italia può risorgere solo con un progetto totalmente alternativo, in contrapposizione al Pd e con un progetto sociale di rottura totale con il liberismo, il che vuol dire rompere con l’euro e fare le nazionalizzazioni: un po’ il programma di Corbyn, il quale non aveva il problema dell’euro ma sulle altre cose è stato molto chiaro. Per dirne una: la sinistra non può tacere sul fatto che il governo italiano regala 7 miliardi di euro a Banca Intesa per salvare le banche anziché nazionalizzarle. Queste sono le cose che contano. Tutto il resto, i cosiddetti valori della sinistra, sono aria fritta.I 5 Stelle? Vedo degli aspetti di crisi politica vera, nel M5S, che derivano da una serie di errori che vedono tutti, ma anche da una questione di fondo che è nel loro imprinting originale, su cui hanno in parte ragione e in parte torto. E’ vero che “sinistra” e “destra” dal punto di vista delle politiche del palazzo sono distinzioni ridicole, perché poi quando vanno al governo fan tutti le stesse cose; ma non è vero che le politiche economiche e sociali di sinistra e quelle di destra siano la stessa cosa. I 5 Stelle confondono l’aspetto di “palazzo” con la sostanza della proposta politica e questo li porta in contraddizione, quindi una volta hanno posizioni di destra e altre di sinistra. Loro non è che non siano né di destra né di sinistra, semplicemente alternano delle posizioni a seconda dei temi. Questo può funzionare in certi brevi periodi, ma in un contesto nel quale i principali poli si stanno riorganizzando ciò rischia di mettere i 5 Stelle in una condizione di essere lacerati, anziché di lacerare.Onestamente non vedo questa possibilità che i 5 Stelle possano andare al governo. La fase di sfondamento basata sulla crisi degli altri due schieramenti principali è in qualche modo finita, quindi i 5 Stelle forse dovrebbero fare (ma credo che non la faranno) la scelta di “Podemos”, ovvero prepararsi a un percorso di più lunga prospettiva, costruire un vero programma sociale di cambiamento. Io condivido la loro proposta sul reddito, ma non può essere quello perché bisogna sapere come si prendono i soldi, quali sono i processi economici, cosa si fa sull’economia, sulle banche e sistema industriale. Il M5S ha fatto una carica di cavalleria quando il campo era deserto, ma adesso il campo è occupato e bisogna scendere dai cavalli e scavare le trincee: non so come andrà. A me dispiace se i 5 Stelle falliscono, perché penso che il ritorno a centrodestra e centrosinistra in Italia non sia una cosa augurabile, però temo che le loro debolezze di fondo alla fine portino a questo.(Giorgio Cremaschi, dichiarazioni rilasciate a Maurizio Ribechini per l’intervista “Sinistra rompa con Pd, euro e liberismo; vi spiego la crisi del M5S”, pubblicata da “Blasing News” il 25 giugno 2017).Servono nuove rappresentanze sindacali e politiche contro euro e globalizzazione. I grandi sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil sono oggi parte del problema e non certo della soluzione. Io in questa fase lavoro soprattutto coi sindacati di base: ieri ero a Trieste a una grande manifestazione dell’Usb a sostegno dei lavoratori colpiti da provvedimenti drammatici da parte delle multinazionali. Mi sento di dire che sul piano sindacale sta avvenendo qualcosa di simile a quanto avviene sul piano politico: c’è un establishment che è parte del problema anche se a parole dice di volerlo risolvere, e c’è l’esigenza di far emergere nuove rappresentanze che abbiano una posizione molto più netta contro la globalizzazione, contro le politiche europee, l’euro e tutto quello che da 15 anni ci sta massacrando. Le uniche speranze provengono “da fuori”, rispetto agli schieramenti tradizionali, su questo non c’è dubbio sia sul piano sociale che su quello politico, almeno in Italia. Ma non è così sempre e ovunque, ci sono paesi nei quali le forme di rinnovamento in parte sono anche venute dall’interno del sistema: basti guardare a Sanders negli Stati Uniti, che se fosse stato candidato alla presidenza avrebbe probabilmente vinto, o a Corbyn in Gran Bretagna che è riuscito a portare i laburisti su posizioni opposte rispetto a quelle che avevano.
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Magaldi: legge elettorale affondata, ma siamo in una palude
Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.Pd e 5 Stelle in affanno? Senz’altro, ma la verità è che nessuno è in forma, nell’Italia politica di oggi. «Il Pd è in difficoltà perché lo è il suo segretario», Matteo Renzi, che «naviga in bruttissime acque» dopo la “vittoria di Pirro” della rielezione. Alla sua sinistra, per così dire, si aggirano veri e propri fantasmi, come Bersani, che vorrebbe rappresentare istanze popolari dopo essersi piegato all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione, votando senza fiatare tutte le peggiori misure antipopolari del governo Monti, incluso il massacro sociale della legge Fornero sulle pensioni. Bersani, peraltro, ha l’impudenza di paventare il ritorno della “destra”, cioè il centrodestra insieme al quale lui stesso aveva sorretto il governo Monti. Destra, cioè Salvini e l’anziano Silvio? «La Lega non è in grado, da sola, di rappresentare un’alternativa, e del resto ha anch’essa le sue zone grigie», dichiara Gioele Magaldi. «C’è una freschezza politica in alcune istanze di Salvini, anche benemerite, ma ci sono moltissimi limiti nell’impostazione di fondo». Un po’ come per Marine Le Pen in Francia: obiettivamente, nonostante il coraggio e l’impegno, non poteva vincere contro Macron. Sicché, tolto Salvini, resta solo Silvio. E c’è chi vede nella “macchina del fango” prontamente riattivata dal “Fatto Quotidiano” (il boss Giuseppe Graviano intercettato in carcere) il segnale che il Cavaliere stia per tornare in campo.«Oggi Berlusconi non è un pericolo per nessuno», taglia corto Magaldi, che gli indirizzò una celebre lettera aperta. «Lo dico con autoironia: non sta seguendo i benevoli e “fraterni” consigli che il sottoscritto continua a lanciargli. Gli ripropongo di fare il padre nobile di un nuovo centrodestra, non di fare il grottesco imitatore di se stesso, che arranca dietro a una Forza Italia che non sarà mai più come prima». La leggenda delle origini “mafiose” del capitale all’origine delle fortune del Cavaliere? «Dev’essere chiaro che questa storia è intenzionale: Graviano sapeva di essere intercettato, e quindi ha detto delle cose su Berlusconi. Queste non sono prove di alcunché», insiste Magaldi: «Sono messaggi», da parte di «qualcuno, che magari ha qualche rancore nei confronti di Berlusconi, e lo sputtana». Questo, aggiunge Magaldi, «non significa non porsi sul piano storico il problema delle origini delle iniziative economiche di Berlusconi, ma va fatto con ben altra serietà e rigore. E naturalmente con un timing che è quello della storia, non quello della politica spicciola o del desiderio di screditare un personaggio a vantaggio di qualcun altro». Meglio stare alla larga da «dubbi e illazioni, laddove non regna certezza».Quanto a Berlusconi, Magaldi esprime un giudizio netto: un grande imprenditore e un pessimo politico, ancorché ingiustamente maltrattato. «Ha fallito politicamente, ma non è stata giusta tutta quella filiera di attacchi sul piano della sua vita privata o su quello della delegittimazione aprioristica», da parte di chi lo ha presentato «come personaggio immorale, indegno per ciò stesso di fare politica». Come imprenditore televisivo ha introdotto in Italia una nuova voce, la Tv commerciale. Si appoggiava a politici? Non era il solo: lo facevano anche i suoi concorrenti. Berlusconi è stato abile, magari non impeccabile, ma certo non il mostro dipinto dai suoi detrattori. «Non è stata colpa sua se non è stata fatta una legge sul conflitto d’interessi: la colpa non è mai della tigre che ti sbrana se la lasci libera, ci vuole il domatore e ci vogliono istituzioni che sappiano creare il pluralismo adeguato», ribadisce Magaldi. «Quindi l’incapacità di contenere le esigenze di profitto e di espansione di Berlusconi deve ricadere su quella classe politica che non è stata in grado (talvolta per interesse, vedi D’Alema) di arginare l’oligopolio berlusconiano». Ma adesso sarebbe meglio che Silvio si facesse da parte, il suo tempo è scaduto. E se Berlusconi sta maluccio, nemmeno gli altri si sentono bene, nella stagnante palude italiana, che contro la crisi non sa trovare credibile un Piano-B.Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.
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Il “fratello” Romano Prodi, globalizzatore in grembiulino
Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo ricevuto nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.Nel “primo round” delle sue clamorose rivelazioni – silenziate dal mainstrem in modo tombale – Magaldi ha scontato una critica ricorrente: non aver documentato le sue affermazioni, spesso esplosive, al punto da ridisegnare la mappa del vero potere, mettendo in relazione personaggi come Monti, Draghi e Napolitano con il mondo internazionale delle 36 Ur-Lodges che rappresentano il supremo vertice delle grandi decisioni. In realtà, Magaldi è stato chiaro dal principio: «Ogni mia affermazione è documentabile, dispongo di 6.000 pagine di dossier. Sono pronto a esibirle, se qualcuno contesterà quanto ho scritto». Ma gli interessati, naturalmente, si sono ben guardati dal fiatare: molto meglio la congiura del silenzio. E ora, dopo “La scoperta delle Ur-Lodges”, si avvicina la pubblicazione del sequel, “Globalizzazione e massoneria”, con retroscena sulla svolta oligarchica che ha svuotato le democrazie occidentali, imponendo politiche di rigore (e oggi anche terrorismo targato Isis) affidate a docili esecutori: come lo stesso Prodi, la cui vera identità – secondo Magaldi – è sfuggita alla maggior parte degli italiani. Un uomo di potere, in grembiulino. L’elettorato di sinistra lo ricorda con nostalgia? Sbaglia: il primo a metterlo in croce, quand’era a capo della Commissione Ue, fu Paolo Barnard su “Report”, che presentò il ritratto di un cinico tecnocrate, schierato con i peggiori oligarchi.Prodi è stato l’unico a battere Berlusconi, due volte su due? Vero, ammette Magaldi, parlando a “Colors Radio”: all’inizio, «quel grande carrozzone che è stato l’Ulivo individuò in modo perfetto, in Prodi, il suo leader». E Berlusconi, «grazie ai buoni uffici della Lega di Bossi, fu defenestrato, nel ‘94». Poi l’interregno di Lamberto Dini e quindi l’arrivo di Prodi nel ‘96. Con che esito? «L’effetto del governo Prodi è stato così ottimo, traghettandoci così bene in Europa, che nel 2001 Berlusconi ha rivinto». Poi c’è stata la seconda vittoria prodiana del 2006, di stretta misura, presto naufragata tra il Pd veltroniano, Bertinotti e Mastella, fino a rimettere Berlusconi al potere nel 2008. Certo, «Berlusconi si è rovinato con le sue mani: non è stato all’altezza della situazione». Ma a pesare, nel fallimento di Prodi, «sono state le pessime azioni di governo, da parte di Prodi e di tutti coloro che l’hanno accompagnato: il centrosinistra italiano, con Prodi e gli altri, non ha saputo produrre una politica lungimirante per questo paese». In altre parole, per Magaldi, «Prodi non ha saputo interpretare il post-1992 in un senso utile a costruire benessere, non dico uguale ma almeno di poco inferiore a quello della Prima Repubblica».Al pari del centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra «ha fatto scempio dell’interesse del popolo italiano», piegandosi all’élite eurocratica. E quindi, «che benemerenza c’è nel fatto che Prodi si sia alternato a Berlusconi, battendolo?». In pratica, «sono due facce della stessa medaglia: centrodestra e centrosinistra si sono alternati senza nessuna vera differenza nella gestione di un paese che dipendeva da linee progettate altrove: costoro hanno soltanto fatto da esecutori, secondo una commedia dell’arte per cui, magari, apparentemente, mettevano ingredienti diversi, ma la sostanza rimaneva la medesima». Linee progettate altrove: nei santuari dell’oligarchia finanziaria, industriale, militare, che – partendo dai circuiti esclusivi delle superlogge internazionali – dirama vere e proprie direttive, declinate attraverso think-tank e organismi paramassonici (Trilaterale, Bilderberg, World Bank, Fmi) per poi scendere, a cascata, fino ai governi nazionali, ai leader come D’Alema, Prodi, Renzi. A volte, poi, l’élite supermassonica “commissaria” direttamente un paese: è accaduto con il “fratello” Monti, «che rappresenta quanto di peggio può offrire la rete massonica sovranazionale in senso neo-aristocratico».«Ho più rispetto e stima per un Mario Draghi, che reputo più pericoloso», dice Magaldi. «Monti è un massone che è stato vittima della propria tracotanza, della propria retorica manipolatoria. E appena ha avuto l’occasione di passare dal “back-office” al “front-office”, ha fallito miseramente per eccesso di narcisismo, avendo creduto lui stesso alla retorica che i media italiani avevano creato attorno alla sua figura e alle meraviglie presunte del suo governo». Per Magaldi, Mario Monti è comunque «un grande sconfitto, in questo tentativo di devastazione industriale, economica e sociale dell’Italia: ci ha provato, ha fatto dei danni, ma poi è stato preso a calci nel sedere dall’elettorato». Dopo di lui, è arrivato Enrico Letta, che secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è un “paramassone”, in realtà in quota all’Opus Dei. «Non ne sentiamo la mancanza», assicura Magaldi. «Nessun rimpianto: se c’è una cosa buona che ha fatto Renzi, a parte la legge sulle unioni civili, è stata quella di aver mandato a casa Enrico Letta e il suo soporifero governo, che peraltro riprendeva e ricalcava pienamente le politiche di Monti». Quanto alle tentazioni massoniche dell’ex premier, Magaldi si è già espresso più volte: «Renzi ha ripetutamente bussato alle porte della supermassoneria reazionaria, attraverso il Council on Foreign Relations, ma non gli è stato aperto». A differenza del “fratello” Romano Prodi, che invece – secondo Magaldi – siede da lunghi anni nel salotto buono della super-massoneria di potere.Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa, tra le tante: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo “ricevuto” nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.
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Macron, il gattopardo mannaro spremerà sangue francese
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.Dopo la prima tornata elettorale, Marta Fana e Lorenzo Zamponi spiegavano su “Internazionale” come il successo di Macron si basasse sulla debolezza del socialista Hamon e del gollista Fillon, e soprattutto sull’ampia visibilità garantitagli dai media, che l’hanno presentato come un argine affidabile contro l’ascesa dei “populisti” di destra e di sinistra: a spaventare i moderati, lo strappo anto-Ue promesso da Le Pen e Mélenchon, che ha messo in allarme soprattutto gli interessi immobiliari di fronte allo spettro di un crollo dei prezzi. Ma Macron non sembra affatto rappresentare un’inversione di rotta nell’Europa dell’austerity, continua Russo Spena: «Ha annunciato, tra le varie misure, di voler tagliare 120mila funzionari pubblici, oltre a proporre una nuova riforma del lavoro». Attenzione: la legge Loi Travail, il Jobs Act francese, già motivo di dure proteste giovanili, «è una sua filiazione politica». E ora il nuovo inquilino dell’Eliseo «è pronto addirittura ad irrigidire alcune norme in materia». Così, la sua svolta graverà «in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli», già in fibrillazione nelle piazze.Secondo un articolo del “Sole24ore”, Macron deciderà di intervenire subito liberalizzando ulteriormente il mercato del lavoro: già a luglio chiederà al Parlamento di votare la legge che consentirà al governo di agire rapidamente con decreti di immediata attuazione su almeno due punti chiave, a rischio di scontrarsi con sindacati e mobilitazioni sociali: il trasferimento di maggiori competenze a livello di categoria e impresa, nonché i tetti alle indennità di licenziamento. Come scrive l’economista Emiliano Brancaccio, «Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione Europea. Al di là degli slogan di facciata, cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza».Per dirla con Paolo Barnard: «Il razzismo di Le Pen e ogni altra sua orripilante facciata erano noccioline in confronto al regalo che ci avrebbe fatto la sua vittoria, cioè: fine dell’Ue, dell’Eurozona e dell’economicidio di milioni di famiglie». Veder vincere Marine Le Pen sarebbe stato come «pagare il prezzo del bombardamento di Montecassino per la fine della Germania nazista». Ora abbiamo Macron, che «fa rima col peggio di Wolfgang Schaeuble», ma anche col nome Rothschild, in cui il rampante Emmanuel «fu centrale nella bella fetta di torta (10 miliardi di dollari) che la Nestlé si è pappata dal colosso mondiale dei più potenti e corrotti informatori farmaceutici del mondo, cioè la Pfizer». Peter Brabeck-Letmathe, che era il capo della Nestlé quando rifiutò a Barnard un’intervista per “Report”, «fu un patrigno di Macron mentre ammazzavano qualche milioncino di bambini col loro latte finto, venduto in Africa e in Sud America dicendo alle madri che il latte delle loro tette era infetto». E poi il nome Macron «fa rima con ’sti colossi francesi della sanità privata, roba che la rivoltante UniSalute è una scorreggia in confronto, cioè International Sos, che lavora in 1.000 laboratori-rapina in 90 paesi del mondo estorcendo ad ammalati disperati i risparmi per un’ecografia salvavita».E non è tutto: «Macron prende soldi da Meetic», la piattaforma online per “cuori solitari”, che incassa «una media di 150 milioni di dollari all’anno». E ancora: «Come potevano mancare nell’armadio di Macron nomi come Walter Lippmann, Edward Bernays, Samuel Huntington e Sundar Pichai? Ed ecco che uno dei fratellini di Macron è la Atari Corp., uno dei colossi mondiali della distrazione di massa sul divano, inclusi Casinò Social, e gioco d’azzardo, quelli della “terza ondata di apatizzazione dei popoli”, scritta e studiata a tavolino». Non ha dubbo, Barnard: «Macron è fratellino anche di questi, ’sto tizio descritto dai vostri giornali come “un liberale in economia ma di sinistra sulle questioni sociali”». E questo, spacciato come “il nuovo”, sarebbe il Macron-pensiero: nient’altro che l’ultima puntata del filone lib-lab capeggiato da Tony Blair, quella cosiddetta “terza via” entrata irreversibilmente in crisi. Riciclaggio politico: «L’establishment ha risolto così il modo per sopravvivere al crollo dei partiti tradizionali», dice Russo Spena su “Micromega”. Un circolo vizioso: «Le politiche dei Macron producono, come reazione, le politiche delle Le Pen, per arginare le quali poi i Macron ci chiedono il “voto utile”». Serve un’alternativa vera, perché «il cambiamento non passa per i gattopardi: i Macron non sono la soluzione, ma parte del problema».Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.
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Magaldi: 25 aprile, niente da festeggiare. Nemmeno a Parigi
«Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il canditato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».Un vero peccato, aggiunge Magaldi, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, perché Marine Le Pen «ha compiuto una grande evoluzione, decisamente apprezzabile: il Front National non è più quello di un tempo, si è laicizzato, anche al prezzo del duro scontro con il fondatore Jean-Marie Le Pen, padre di Marine». Magaldi è autore del saggio “Massoni” e presiede il Movimento Roosevelt, soggetto “metapartitico” che ora guarda con interesse a Michele Emiliano, condividendo le critiche al sistema Ue e l’apertura al dialogo con i 5 Stelle. «Io rispetto Marine Le Pen», insiste: «Trovo condivisibili alcune sue idee, altre meno. Certo, non l’avrei votata. Ma meno che mai avrei votato per Macron, canditato accuratamente “fabbricato” lasciare la situazione della Francia esattamente com’è». In questo, ammette Magaldi, bisogna “ringraziare” anche le massonerie transalpine, coalizzate contro la Le Pen «per via di antiche ruggini tra la libera muratoria e la destra nazionalista francese». Ripensamenti, tra i grembiulini? Magaldi lo spera: «Data la sconfitta dei raggruppamenti tradizionali, destra e sinistra, forse si avvicina la possibilità di nuove alchimie. E conto molto sul fatto che parecchi massoni, finora sul fronte conservatore, cambino idea e si schierino con i progressisti». Ma il futuro immediato resta grigio.Per Magaldi, paradossalmente, l’Italia è messa meno peggio: pur nel suo caos, il Belpaese potrebbe partorire idee e soluzioni rompendo vecchi schemi, operazione che in Francia, invece, sembra ancora impossibile. «Dell’enorme frammentazione politica – dice – può stupirsi solo chi non ha seguito il sistematico, scientifico disgregarsi della proposta politica socialista, defintivamente naufragata con l’imprensentabile Hollande». L’attuale candidato socialista, «il povero Benoît Hamon», ha tentato di giocare in conttrotendenza «rispolverando temi da sinistra radicale, istanze sociali avanzate, come del resto aveva fatto lo stesso Hollande, all’epoca». E’ colpa di Hollande, non di Hamon, se il Ps è stato umiliato con appena il 6,3% dei voti. «Hollande – continua Magaldi – si era candidato come campione anti-merkeliano per un diverso paradigma europeo. Poi invece ha tradito il patto col popolo e si è ridotto al ruolo di cagnolino, di pecorone: peggio ancora di Sarkozy, che almeno aveva espresso una sua personalità precisa». E’ così che si è arrivati a Macron, continua Magaldi: il candidato “made in Rotschild” «non regala fremiti, non ha alcun appeal: è stato costruito a tavolino, sapientemente, con grandi finanziamenti».Obiettivo dell’operazione-Macron: portare all’Eliseo una fotocopia dei predecessori, entrambi proni ai voleri del super-potere finanziario europeo. Macron sarebbe un docile continuatore del sedicente neogollista Sarkozy e del finto-socialista Hollande: prolungherebbe la politica di rigore, senza soluzione di continuità. «Ma se il sistema politico francese è così bloccato – aggiunge Magaldi – la responsabilità è anche di Marine Le Pen: se l’alternativa all’euro-sistema dei diktat è lei, alla fine la maggioranza le preferità Macron, come quando gli elettori si coalizzarono e votarono Chirac, turandosi il naso, pur di sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen». Se la signora del Front National non è ancora abbastanza rassicurante per la maggioranza dei francesi, tantomeno – e lo si è visto al primo turno – lo sono gli uomini del Ps: «Per avere un progetto politico vincente e percepito come appetibile – conclude Magaldi – bisogna creare tutt’altra narrazione, lontana anni luce dall’atteggiamento fasullo e fellone dei socialisti francesi». Morale: «Dopo aver avuto Hollande per cinque anni, con Macron il malinteso continuerà: e per i francesi ci sarà ancora più da piangere».«Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, spesso riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il candidato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».
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Cremaschi: il precariato è schiavismo, un inferno mafioso
A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia. Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico. Pochi giorni fa la Usb ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia. Qui ho saputo da un lavoratore disperato che, nella pubblica amministrazione, ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi.Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali, che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime. Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro. La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento.Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani. Negli anni ‘70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del Fiscal Compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi-gratuito in fabbrica.È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi. Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all’inferno.(Giorgio Cremaschi, “Oggi lo schiavismo si chiama precarietà”, da “Micromega” del 4 aprile 2017).A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
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Può finire il Pd, non il romanzo criminale che sabota l’Italia
In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.Nella sua visione da criminologo, Barnard fa i nomi: Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi vietarono alla Banca d’Italia di continuare a fare da “bancomat del governo” a costo zero, imponendo allo Stato, da quel momento, di finanziarsi diversamente: ricorrendo cioè alla finanza privata attraverso l’emissione di bond, a beneficio della grande finanza, cui da allora lo Stato avrebbe riconosciuto lauti interessi, facendo esplodere il debito pubblico. Poi l’euro, cioè l’istituzionalizzazione definitiva della “trappola finanziaria”: lo Stato non può più fare retromarcia, deve “prendere in prestito” la moneta emessa da un soggetto esterno, la Bce, i cui azionisti sono le banche centrali non più pubbliche, ma controllate da cartelli bancari privati. A quel punto è l’euro a imporre la sua legge, attraverso la Commissione Europea, cioè il governo non-eletto dell’Europa. E la Commissione Europea vara la norma finale, esiziale, per qualsiasi governo democratico: il pareggio di bilancio, che equivale al decesso finanziario dello Stato. In regime di sovranità (Usa, Giappone, resto del mondo) il debito pubblico misura la salute del paese: più il deficit è alto, più l’economia è prospera. L’Unione Europea inverte i termini del paradigma: taglia la spesa pubblica, e ottiene crisi. L’Italia, addirittura, ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. E, peggio ancora, da anni il bilancio italiano è in “avanzo primario”: per i cittadini, lo Stato spende meno di quanto i contribuenti versino in tasse.Come si è arrivati a questo? Smantellando la sinistra, risponde Barnard, citando l’avvocato Lewis Powell, uno stratega di Wall Street incaricato dalla Camera di Commercio Usa, all’inizio degli anni ‘70, di redigere un vademecum per guidare l’élite, spodestata dalla democrazia sociale nel dopoguerra, verso la riconquista dell’atavico potere perduto. Detto fatto, come da manuale: leader radicali stroncati, leader riformisti “comprati” per annacquare i loro partiti e sindacati, rendendoli docili e spingendoli a convincere i loro elettori ad accettare “riforme” concepite per “smontare” le tutele sociali, privatizzando progressivamente l’economia. Campioni assoluti, in Italia: personaggi come Romano Prodi, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Berlusconi? Irrilevante: si è limitato a proteggere i suoi interessi. Gli artefici delle “riforme strutturali” provengono tutti dalla sinistra storica: la più adatta, come insegna Lewis Powell, a convincere la società ad affrontare dolorosi “sacrifici”, magari imposti sulla base di norme senza alcun fondamentio economico, come il famigerato limite alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil. Una invenzione di François Mitterrand, come ricorda l’economista Alain Parguez, allora consulente del presidente francese. Mitterrand? «Un monarchico, travestito da socialista». L’ennesima maschera della sinistra messasi al servizio del supremo potere oligarchico, neo-feudale, ansioso di sbarazzarsi dell’ingombro della democrazia per tornare all’antico splendore.La “mente” di Mitterrand? Jacques Attali, che Barnard definisce “il maestro” di D’Alema, l’ex comunista italiano che, da Palazzo Chigi, vantò il record europeo delle privatizzazioni. Nel suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Gioele Magaldi aggiunge un ulteriore filtro alla lettura di Barnard, quello super-massonico, derivate dal potere di 36 organizzazioni segrete, denominate Ur-Lodges, in cui gli uomini del massimo vertice mondiale – finanziario, industriale, militare, politico – disegnano le loro trame, per condizionare governi e paesi. Di Jacques Attali, Magaldi e Barnard offrono un ritratto preciso: l’ennesimo uomo di sinistra, “convertitosi” alla causa dell’oligarchia. E’ uno smottamento che investe l’intero Occidente: i Clinton e poi Obama negli Usa, Tony Blair in Gran Bretagna, Mitterrand in Francia, Gerhard Schröder in Germania con la riforma Hartz che introduce la flessibilità nel lavoro dipendente e i mini-salari dei minijob. Poi arrivano le Merkel e i Trump, ma il “lavoro sporco” l’hanno già fatto gli “amici del popolo”, quelli che ancora oggi in Italia cantano Bandiera Rossa e Bella Ciao, dopo aver votato la legge Fornero e le finanziarie-suicidio di Mario Monti, che per Magaldi milita, insieme a Giorgio Napolitano, nella Ur-Lodge “Three Eyes”, la stessa di Attali, storicamente guidata da personalità come quelle di David Rockefeller ed Henry Kissinger, fondatori della Trilaterale.Anche in Italia, il cortocircuito finanziario introdotto con l’euro (lo Stato improvvisamente in bolletta) si è trasformato in crisi economica, quindi sociale. Ma, ovviamente, il “più grande crimine”, il sabotaggio della sovranità e quindi della democrazia, non è mai stato neppure lontanamente sfiorato dalla cosiddetta sinistra radicale dei Bertinotti e dei Vendola, né tantomeno dalla Cgil. Era tanto comodo il “demonio” Berlusconi, per catalizzare i mali del Balpaese, fino a insediare a Palazzo Chigi direttamente la Trojka, il commissario Monti (Trilaterale, Bilderberg, Goldman Sachs) tra gli applausi di tutti i Bersani di Montecitorio. Poi è arrivato Grillo, poi Renzi: come se il Grande Vecchio, lassù, si divertisse un mondo con il suo giocattolo preferito, l’Italia, cioè il paese in cui nessuno denuncia mai il vero problema, e dunque non può trovare soluzioni. Oggi si sbriciola il Pd, ma nulla lascia supporre che finisca il “romanzo criminale”, con i suoi personaggi-marionetta e le loro piccole partite, fatte di primarie e poltrone, correnti e sigle, bullismi, rancori, rivincite e vendette. Vacilla persino l’Unione Europea, sono in atto rivolgimenti di portata mondiale che mettono in discussione i caposaldi della globalizzazione neoliberista. E in Italia sono in campo Renzi ed Emiliano, Di Maio e la Raggi, Salvini e D’Alema, Prodi e Berlusconi, Pisapia e la Boldrini. Ancora una volta, gli amici del Grande Vecchio potranno dormire sonni tranquilli: l’Europa sta per franare, a cominciare dalla Francia, ma non sarà certo l’Italia a impensierire i grandi architetti della crisi.In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.