Archivio del Tag ‘Marco Travaglio’
-
Travaglio: giusto scavare su Berlusconi, mafia e terrorismo
Com’era prevedibile soprattutto da lui, il violento attacco di Renzi alla Procura di Firenze che indaga sull’ipotesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi del ‘92-93 ha scavalcato Salvini, Meloni e i vertici di Forza Italia (molto più prudenti) e suscitato l’entusiasmo del “Giornale” di Sallusti, oltre che le congratulazioni di molti “garantisti” dell’area Pd. Marco Travaglio, sul “Fatto”, spiega perché non sarebbe affatto “assurda” l’iniziativa degli inquirenti toscani contro il Cavaliere. «Forse, a distanza di 26-27 anni», afferma Travaglio, l’ipotesi investigativa «non troverà prove sufficienti per sfociare in un processo». Eppure, alla luce dei fatti accertati, è «pienamente logica, plausibile e coerente» con la storia del rapporto tra Cosa Nostra e la politica berlusconiana. La premessa del direttore del “Fatto” è semplice: crollata la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite, sia la mafia che il patron di Mediaset vedevano crollare i loro tradizionali partiti di rifemento: «E’ così assurdo pensare che concordassero sull’urgenza di farne uno nuovo che li garantisse entrambi?». D’accordo, ma che c’entra Berlusconi con la mafia? Nella sentenza che lo condanna in via definitiva, la magistratura afferma che Marcello Dell’Utri, dal 1974 al 1992, era stato il «mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa Nostra».Patto? Secondo altri analisti, è possibile che Berlusconi si sia visto costretto a fronteggiare le cosche, dalle quali era stato pesantesente minacciato in senso estorsivo. All’inizio del ‘93, scrive invece Travaglio, i boss mafiosi Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella progettarono il partito autonomista “Sicilia Libera”, per poi scioglierlo a fine anno «per fare campagna elettorale alla neonata Forza Italia». Nel novembre di quell’anno, le agende di Dell’Utri registrano due incontri con Vittorio Mangano, uscito di galera 19 anni dopo l’ingaggio come “fattore” ad Arcore. «Di che parlavano i due? Del partito che Dell’Utri stava creando o – come giura lui – dei problemi di salute di Mangano?». Il 19-20 gennaio del ’94, Giuseppe Graviano, è a Roma: il boss di Brancaccio convoca il suo killer di fiducia, Gaspare Spatuzza (già autore materiale delle bombe in via D’Amelio, via dei Georgofili, via Palestro e alle due basiliche romane) al Bar Doney di via Veneto. Il bar, osserva il direttore del “Fatto”, è proprio «di fronte all’hotel Majestic, dove all’epoca soggiorna Dell’Utri per selezionare i candidati di Forza Italia». Lì – racconterà Spatuzza – il boss gli confida che Berlusconi e Dell’Utri «ci stanno mettendo l’Italia nelle mani», ma occorre il «colpo di grazia», ovvero: l’attentato all’Olimpico di Roma.Perché Spatuzza, pentito sempre puntualmente “riscontrato” a partire dalla confessione su via D’Amelio che spazzò via i depistaggi, dovrebbe inventarsi proprio quella frase? Il 23 gennaio, a due mesi dalle elezioni anticipate – continua Travaglio – Cosa Nostra tenta ma fallisce l’attentato all’Olimpico. «La strage è rinviata a una domenica successiva. Ma il 26 gennaio, col famoso videomessaggio, B. “scende in campo”. Il 27 i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano (dove hanno procurato un lavoro a un loro favoreggiatore che deve seguire il figlio calciatore, dopo un provino nei pulcini del Milan ottenuto grazie all’interessamento di Dell’Utri). Cosa Nostra annulla la strage allo stadio e depone le armi: i boss sparavano da due anni a casaccio, o erano un po’ stanchini, o non volevano disturbare il partito amico?». Vinte le elezioni del ‘94 Berlusconi va al governo «e vara subito il decreto Biondi, con tre norme pro mafia, anticipate da Dell’Utri a Mangano nei loro incontri nella villa di Como», scrive Travaglio. Intanto, anche da premier e dopo tutte le stragi, Berlusconi «continua a pagare 250 milioni di lire ogni sei mesi a Cosa Nostra». Si domanda il direttore del “Fatto”: «La pax mafiosa sta dando i primi frutti, o anche queste sono coincidenze?».Nel 1996 il boss Salvatore Cancemi, già membro della Commissione di Cosa Nostra e ora pentito (il più alto in grado della storia d’Italia), parla di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi. «Lo seguiranno decine di altri collaboratori di giustizia», scrive Travaglio. «Ma, anche fingendo che non esistano, c’è il boss irriducibile Giuseppe Graviano che, intercettato in carcere nel 2016-2017, racconta le stragi al compagno d’ora d’aria come di “una cortesia” chiesta da “Berlusca”». A quanto pare, Cancemi freme d’ira contro Berlusconi perché 25 anni prima, dice, «mi sono seduto con te, mangiato e bevuto», «ti ho portato benessere», e ti invece «hai fatto il traditore», «mi hai pugnalato», «mi stai facendo morire in galera». Conclude Travaglio: perché mai, parlando delle stragi, Cancemi dovrebbe tirare in ballo Berlusconi e infuriarsi per il presunto tradimento, al punto di progettare un ricatto ai suoi danni? «Si annoiava? Voleva divertirsi?». O davvero, invece, Berlusconi e Dell’Utri «nel ‘93-94 gli avevano chiesto e promesso qualcosa?». Per questo, Travaglio invita «Renzi e gli altri mafiologi della mutua» a fornire «la loro versione dei fatti», visto che l’iniziativa giudiziaria su Berlusconi li scandalizza tanto.Com’era prevedibile soprattutto da lui, il violento attacco di Renzi alla Procura di Firenze che indaga sull’ipotesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi del ‘92-93 ha scavalcato Salvini, Meloni e i vertici di Forza Italia (molto più prudenti) e suscitato l’entusiasmo del “Giornale” di Sallusti, oltre che le congratulazioni di molti “garantisti” dell’area Pd. Marco Travaglio, sul “Fatto”, spiega perché non sarebbe affatto “assurda” l’iniziativa degli inquirenti toscani contro il Cavaliere. «Forse, a distanza di 26-27 anni», afferma Travaglio, l’ipotesi investigativa «non troverà prove sufficienti per sfociare in un processo». Eppure, alla luce dei fatti accertati, è «pienamente logica, plausibile e coerente» con la storia del rapporto tra Cosa Nostra e la politica berlusconiana. La premessa del direttore del “Fatto” è semplice: crollata la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite, sia la mafia che il patron di Mediaset vedevano crollare i loro tradizionali partiti di riferimento: «E’ così assurdo pensare che concordassero sull’urgenza di farne uno nuovo che li garantisse entrambi?». D’accordo, ma che c’entra Berlusconi con la mafia? Nella sentenza che lo condanna in via definitiva, la magistratura afferma che Marcello Dell’Utri, dal 1974 al 1992, era stato il «mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa Nostra».
-
Vox Italia: Dio, patria e famiglia. Chi ha paura di Fusaro?
Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate: oscurati da Facebook già in partenza, tanto per cominciare. E se si prova a varcare la soglia del sito ufficiale, voxitalia.net, è Google a trasformarsi in Cerbero: sito pericoloso, potrebbero scipparvi la carta di credito e i dati sensibili. Aiuto! Non insperate mai veder lo cielo, specie se vi chiamate Vox Italia. Come mai tanta paura, per il neonato movimento ispirato e guidato dal giovane filosofo torinese Diego Fusaro? Basta fare un giretto sul web per farsene un’idea. Le reazioni vanno dalla minimizzazione all’irrisione, fino alla diffamazione. Cos’è Vox Italia? Un movimento, si legge, che nasce per dar voce all’interesse nazionale. Slogan: “Pensare e agire altrimenti”, e muoversi “obstinate contra”, scrive Fusaro. «In direzione ostinata e contraria», avrebbe detto Fabrizio De Andrè, in un’Italia dove ancora esistevano menti come quella di Fabrizio De Andrè. «Il movimento – chiarisce Fusaro – unisce valori di destra e idee di sinistra». Più precisamente: «Valori dimenticati dalla destra e idee abbandonate dalla sinistra». Vox Italia si smarca dal «coro virtuoso del politicamente corretto», definito «superstruttura santificante i rapporti di forza del globalismo finanziario a beneficio degli apolidi signori del big business sradicato e sradicante».
-
Matteocrazia: Renzi e Salvini partner perfetti nel Circo Italia
Tu chiamala, se vuoi, Matteocrazia. Chi meglio di Salvini, per resuscitare Renzi? E chi meglio di Renzi, per aiutare Salvini ad allenarsi all’opposizione? Tramontato nonno Silvio, in giro non ci sono altri protagonisti: a meno che qualcuno non pensi, davvero, che sia qualcosa di diverso da una comparsa di lusso il professor-avvocato Giuseppe Conte, provvisoriamente miracolato dall’incerta lotteria dei sondaggi. L’altro vero protagonista, Beppe Grillo, gioca comodamente da casa, col telecomando con cui pilota la spaurita scolaresca grillina, fino a ieri guidata (in apparenza) dal capoclasse Di Maio, ora eclissato al ministero degli esteri, lasciando il mestiere diplomatico a Conte, Mattarella e Gentiloni. Altri? Non pervenuti, se non a spiccioli: il nano-liberismo all’italiana di Carlo Calenda, il mausoleo della fu sinistra di Bersani e Zingaretti, la piccola destra di complemento capitanata da Giorgia Meloni. Bipolarismo onomastico, Salvini e Renzi: coppia perfetta per reggere il palcoscenico. Il buono e il cattivo: intercambiabili, a seconda della platea. Il poeta e il contadino, il bizantino Machiavelli e il guerriero padano di Pontida.I due Mattei, in fondo, sono gli unici padroni della scena. Il fiorentino si gode la recentissima, spericolata conquista del ring. Ha letteralmente sfrattato Zingaretti, azzerato Di Maio, atterrito Conte. Un uno-due magistrale: prima il governo coi profughi grillini, poi il divorzio dal rottamificio. Uno spettacolo che deve aver letteralmente deliziato il competitore omonimo, impegnato nel facilissimo bombardamento quotidiano contro l’osceno partito trasversale delle poltrone. Che fortuna, per Salvini, scoprire in Renzi il partner ideale per recitare la commedia, in questa Italia in cui svettano giganti del pensiero politico come Marco Travaglio, Lilli Gruber e Corrado Formigli, per oltre un anno impegnati nel supremo cimento antifascista, antisovranista e antirazzista, ingaggiato con indomito coraggio per la salvezza morale, politica e spirituale della nazione. Come non chiamarli eroi, sentinelle della democrazia italiana? E’ grazie a loro, dopotutto, se il Belpaese è rimasto in Europa anziché essere annesso all’Impero Zarista, potendo oggi godere dell’immenso prestigio internazionale assicurato da statisti del calibro di Conte e Gentiloni, di cui parleranno per secoli i libri di storia.Questa coraggiosa battaglia per la libertà italiana è stata combattuta non esattamente in solitudine, certo: gli impavidi opliti della resistenza cartacea e radiotelevisiva hanno potuto beneficiare delle testate Rai, Mediaset e La7, del “Corriere” e di “Repubblica”, della “Stampa” e del “Fatto”. Giusta causa: cacciare l’usurpatore e impedire che il paese sprofondasse nella barbarie. Che meraviglia, oggi, ritrovare i vecchi amici dell’Italia, dalla Merkel a Macron, fino alla diletta Ursula, novella condottiera della gloriosa Unione Europea che tante gioie ha regalato agli italiani. Se però la festa ha un sapore imperfetto, con un che di beffardo, forse dipende proprio dall’inatteso avvento della nuovissima Matteocrazia. Si possono immaginare, le risate dei due Mattei, di fronte allo spettacolo di Salvini e Zingaretti alle prese con il terrore delle imminenti elezioni regionali, in cui si tenteranno alleanze elusive e mimetiche, deboli e perdenti. Il povero Conte già traballa: finito di negoziare ogni virgola col Matteo di ieri, gli tocca ricominciare col Matteo di oggi. Se non altro, il patetico avanspettacolo ha regalato al pubblico una verità: sono in pista gli unici due politici capaci di pensare, rischiare e decidere. E’ la Matteocrazia, appunto. E i vari Travaglio, Gruber e Formigli non possono davvero farci niente.Tu chiamala, se vuoi, Matteocrazia. Chi meglio di Salvini, per resuscitare Renzi? E chi meglio di Renzi, per aiutare Salvini ad allenarsi all’opposizione? Tramontato nonno Silvio, in giro non ci sono altri protagonisti: a meno che qualcuno non pensi, davvero, che sia qualcosa di diverso da una comparsa di lusso il professor-avvocato Giuseppe Conte, provvisoriamente miracolato dall’incerta lotteria dei sondaggi. L’altro vero protagonista, Beppe Grillo, gioca comodamente da casa, col telecomando con cui pilota la spaurita scolaresca grillina, fino a ieri guidata (in apparenza) dal capoclasse Di Maio, ora eclissato al ministero degli esteri, lasciando il mestiere diplomatico a Conte, Mattarella e Gentiloni. Altri? Non pervenuti, se non a spiccioli: il nano-liberismo all’italiana di Carlo Calenda, il mausoleo della fu sinistra di Bersani e Zingaretti, la piccola destra di complemento capitanata da Giorgia Meloni. Bipolarismo onomastico, Salvini e Renzi: coppia perfetta per reggere il palcoscenico. Il buono e il cattivo: intercambiabili, a seconda della platea. Il poeta e il contadino, il bizantino Machiavelli e il guerriero padano di Pontida.
-
L’Ultima Fregatura, nuovo film di Renzi nella caverna-Italia
Sarà contento, il travaglismo nazionale, di aver tolto a Salvini le chiavi del governo per riconsegnarle a Renzi. Era il IV secolo avanti Cristo quando Platone inventò il cinema, con il Mito della Caverna: quella disegnata sulla parete non è la realtà, sono solo le ombre proiettate dal fuoco. Il mondo vero, tridimensionale, è là fuori: ad andare in scena nella grotta è un semplice spettacolo. Si può cadere in errore, certo. Dipende anche dal talento del proiezionista. Il Mago di Rignano, ad esempio, ne ha da vendere: superò il 40% dei suffragi dopo aver elargito la mancia degli 80 euro, brillando nell’arte cabarettistica in cui si sarebbe cimentato Di Maio. Poco dopo, nell’estate 2016, dal cinema si passò al teatro: uno spettacolare vertice con la Merkel e Hollande, sul ponte della portaerei Garibaldi al largo di Ventonene, per celebrare la farsa dell’unità europea evocando abusivamente il fantasma di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo del Novecento. Un pretesto altamente scenografico, con una missione illusionistica: spacciare per Europa Unita l’aborto dell’attuale Disunione Europea, di cui l’Italia – da Renzi a Conte – si candida a restare servitrice sottomessa e depredabile.
-
De Magistris, giustizia militante: un politico del medioevo
L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».Da Rold polemizza col nostro sistema giudiziario: i Pm: sono rimasti gli ultimi, negli ordinamenti democratici occidentali, a essere ancora parificati ai giudici. E in più «si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa». È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, il filosofo radicale “adottato” da Casaleggio, «ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso». La prova del nove? «Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu». Famosi nemici della separazione tra magistratura inquirente e giudicante, due personaggi non proprio democratici: il leader fascista Dino Grandi e il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, «anche lui appassionato dell’unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio». I tempi cambiano, ma non per tutti: «Ora anche il Portogallo ci ha ripensato; l’Italia invece difende combattiva la non-separazione».Tornando alla cronaca: la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato i fascicoli sottraendoli all’attuale sindaco di Napoli. Resta dunque valida la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno, che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, assolti «per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado». A parole, de Magistris (due volte sconfitto) non si arrende: «Continuerà probabilmente a parlare di complotti», avverte Da Rold. «Ma tutta la sua vicenda – aggiunge – è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia: quello della magistratura, gestita principalmente – per un lungo periodo – proprio dai Pm alla de Magistris».Per rendersi conto di quanto capitato, continua Da Rold, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: «La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda “Why not”. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita, a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero, già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura». Insomma: per Da Rold, «Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici». Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento Europeo. «Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste», anche se «tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani».“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi e i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana, annota Da Rold. «Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero». Tutta quella storia di “Why not” fu «uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi», travolgendo il ministro della giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. «Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Non era una novità, in quegli anni della già affermata Seconda Repubblica: l’Italia, ricorda Da Rold, era un paese «destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita e da una confusione demenziale della classe dirigente, politica e imprenditoriale», con i magistrati inquirenti spessissimo sopra le righe.Una fenomenologia cominciata in realtà nel 1992, quando la magistratura italiana, «risvegliatasi dal suo torpore, aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946». Senza contare i circa 1.000 miliardi di lire (secondo Stéphane Courtois) che affluivano al Pci dall’Urss, «potenza ufficialmente nemica». E tutto poi «amnistiato, naturalmente». In fondo, continua Da Rold, la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del pool Mani Pulite: giornate scandite dalle “sensazionali rivelazioni” che qualche talpa del Palagiustizia passava sottobanco ai giornali. «È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta». Per non parlare della battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura, fino alla pagina nera del Csm con il clamoroso “caso Palamara”, l’inciucio col Pd, di cui si cerca di parlare il meno possibile, sui media.Teoricamante il nostro è uno Stato di diritto, eppure «la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti». E il peggio è, scrive Da Rold, che non si ha il coraggio di riconoscere che in Italia «questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen». Ogni speranza di riforma finisce per naufragare, grazie anche alle “intemerate” del fedelissimo Marco Travaglio, «che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze». Buio pesto anche dal ministro Alfonso Bonafede, devoto a Giuseppe Conte, «quindi un visconte per tradizione feudale».«E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i grillini sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio 1997», chiosa Da Rold. In questo si dice: «È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice, al fine di assicurare un processo giusto». Sentenze autorevolmente emesse, al termine di processi in cui si condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ha voglia di scherzare, Da Rold: «Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore?». In questo caso, aggiunge, «lo spettacolo sarebbe assicurato, e poi si potrebbe emigrare tranquillamente».L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».
-
Le fiabe di Don Marco (Travaglio) per incantare Rousseau
Si prova quasi tenerezza di fronte all’ingenuità delle frottole sciorinate da Marco Travaglio nel tentativo di orientare il voto della cosiddetta “base grillina” sulla fantomatica piattaforma Rousseau. Un tempo icona del giornalismo “con la schiena diritta”, celebrato nel santuario televisivo del collega Michele Santoro, il giustizialista Travaglio rimediò una tiepida figura nel 2013, quando l’Orribile Cavaliere – spintosi nella tana dei leoni – se la cavò benissimo di fronte alle domanducce dell’inquistore del “Fatto”. Ora, seppellito nonno Silvio, Travaglio ha semplicemente sostituito il Nemico. Il nuovo Uomo Nero, va da sé, si chiama Matteo Salvini. Pregustando il delitto eccellente, Travaglio riesce a digerire di tutto: dall’indecente grillismo “di lotta e di governo”, che ha fatto ridere l’Italia, all’eroico Renzi, riabilitato a tempo di record come geniale stratega. «Non avendo mai avuto tessere – pigola Travaglio, lindo come un giglio – non ho il problema del voto su Rousseau. Ma – aggiunge – se fossi iscritto, non avrei dubbi sul Sì al Conte-2». Nobile, il Cavaliere della Giustizia: il giornalista più sfacciatamente politico d’Italia non si sporca con la politica, ci mancherebbe; ma in questo caso si può ben fare un’eccezione. Ed ecco allora, sul “Fatto”, i dieci motivi per votare Sì al “governo dei prestanome”.Primo: i 5 Stelle (anche se non lo sanno) nacquero come «coscienza critica del centrosinistra». Nel 2007, scrive Travaglio, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio «sfidarono il Pd a opporsi davvero al berlusco-leghismo e a cambiare registro, cancellando le leggi-vergogna e sposando legalità e ambiente». Le loro proposte le portarono a Prodi, non a Berlusoni e Bossi. «E Grillo si iscrisse al Pd per candidarsi alle primarie, non a FI o alla Lega». Vero: quello che gli interessava, infatti, era sfasciare subito il neonato partito di Veltroni, Fassino e D’Alema, che infatti lo mandarono a stendere. «Ora, 12 anni dopo, il Pd cambia idea e tende la mano. Grillo l’ha subito afferrata. Perché i 5 Stelle dovrebbero respingerla?». E certo, sarebbe un peccato. L’oligarca Grillo, peraltro, non ha solo “teso la mano” al nemico storico: ha anche gambizzato Di Maio e imposto il suo potere monarchico ai sudditi, i parlamentari terrorizzati dalle elezioni anticipate. Ma queste sono quisquilie, per Marco Travaglio, che preferisce sfoderare il violino per dedicare una bella serenata ai votanti di Rousseau. «Il programma del Conte-2 include le bandiere storiche M5S», che diamine. Infatti: «Alt a nuovi inceneritori e trivelle, revisione delle concessioni autostradali, infrastrutture eco-compatibili, investimenti in green economy, riforma Bonafede della giustizia, pene più alte agli evasori, salario minimo, taglia-parlamentari. Bandiere stracciate da Salvini e accettate dal Pd. Perché dire No a se stessi e alla propria storia?».Qui Travaglio tocca il culmine della comicità involontaria. Si è già dimenticato delle altre “bandiere storiche” dell’armata grillina? Trivelle e Tap, Ilva e Tav, vaccini, Muos, F-35. Tutte “stracciate da Salvini”? Ridicolo. Ma il travaglismo “prestato alla politica” non si ferma qui: «Conte può restare premier solo con il governo M5S-centrosinistra. E merita di restarci». Ma certo: altrimenti come farebbero a brindare, gli amiconi dell’Italia? Sono già pronti col calice in mano: Macron e Merkel, il maxi-criminale Juncker (recordman dell’elusione fiscale in Lussemburgo ai danni del Belpaese), e perfino quel simpaticone di Günther Oettinger, quello che “saranno i mercati a insegnare agli italiani come votare”. Vogliamo deluderli, tutti questi Conte-Boys? Ma non si esaurisce qui, la predica di Don Marco: «Salvini e B. vedono il governo giallo-rosa come il fumo negli occhi: due ottime ragioni per farglielo trovare subito». Buona, questa: lo sanno anche i sassi, che Salvini si sta fregando le mani all’idea che Renzi & Grillo estinguano il Pd e i 5 Stelle, riversando altri milioni di voti sulla Lega grazie al governo patibolare del professor-avvocato di Volturara Apula, il compare dell’euro-brigata coalizzata contro gli italiani.Poi, Travaglio scende senza paura nell’officina inguardabile delle trattative: «Zinga non voleva Conte premier né Di Maio ministro e chiedeva un solo vicepremier Pd, poi ha ceduto su tutti e tre i punti». Vero, ma in cambio di cosa? Quale meravigliosa sorpresa è stata riservata all’ex elettore italiano? Ma attenzione: «Di Maio ha rinunciato a Palazzo Chigi, ricompattando un movimento in rotta e a rischio di estinzione. E recuperando Grillo in prima linea». Bum! Di Maio – preso a calci da Grillo, a reti unificate – avrebbe “ricompattato” i parlamentari? E il valletto avrebbe addirittira “recuperato” l’imperatore, spingendolo – lui, Giggino – a muovere il fondoschiena, ai suoi ordini, per schierarsi in prima linea? Siamo ormai nel regno del surreale. «Se vincesse il No – piange Travaglio – i gruppi parlamentari si spaccherebbero», finalmente. «Conte andrebbe a casa», ma magari!, «e Salvini avrebbe ciò che vuole». E cioè: «Voto, vittoria e “pieni poteri”». Brr, che paura. Si sono visti, i pieni poteri di Salvini: sberle rimediate sul deficit, gogna mediatica, ostracismo squadristico. Salvini ha dovuto assistere alla lapidazione di Armando Siri, l’inventore della Flat Tax, per un semplice avviso di garanzia. E’ stato inoltre accusato di sequestro di persona (in italiano: privare qualcuno della libertà di andare dove vuole) per aver impedito a stranieri di sbarcare in Sicilia (non di dirigersi altrove). Toglie il sonno, in effetti, l’idea che un simile mostro possa tornare in auge.«Le due alternative al governo Conte-2 sono peggiori», svela l’illuminato maestro Travaglio: «Elezioni, cioè governo Salvini-Meloni-B., che cancellerebbe Reddito, dl Dignità, Anticorruzione, blocca-prescrizione e reato di abuso d’ufficio e ripartirebbe con inceneritori e trivelle; nuovo Salvimaio, che coprirebbe i 5 Stelle di ridicolo e servirebbe a Salvini per tradirli di nuovo e/o per finire di mangiarseli». Finge di non vedere, Travaglio – reticente coi grillini e con i suoi lettori – che Salvini sta facendo di tutto per evitarlo, il “governo Salvini-Meloni-B”. Quanto al tesoro nazionale che l’ipotetico esecutivo “neofascista, razzista e xenofobo” comprometterebbe, c’è da mettersi le mani nei capelli: il reddito di cittadinanza – unica misura percepibile, del grillismo di governo – è una bazzecola, a fronte del super-tradimento dei 5 Stelle, al seguito dei domatori Grillo e Conte, in favore del feroce rigore eurocratico di Ursula von der Leyen. Una coltellata all’alleato Salvini, concepita per costingere il leghista a staccare la spina e chiudere la breve e ambigua stagione di semi-libertà che gli italiani si erano conquistati con il voto del 2018. Il Belpaese deve tornare una semplice espressione geografica, una colonia periferica e depredabile dal Sacro Romano Impero, tra gli applausi del post-giornalismo nazionale.Il seguito del sermone di Travaglio è un piccolo capolavoro letterario che oscilla tra il cabaret e la metafisica. «L’unica opzione migliore, per un iscritto, è un monocolore M5S. Mission impossible: dovrebbe superare il 40%. Questo Parlamento è grillino al 33%: il prossimo mi sa di no». Così scrive – senza ridere – il direttore del “Fatto Quotidiano”. «Un Pd così sbiadito e diviso, senza leader né slogan forti – aggiunge – è un alleato meno insidioso e concorrenziale del monolite Salvini». E avanti di questo passo: «Le coalizioni tra diversi sono sempre rischiose. Ma forse, dopo la cura Salvini, il M5S ha comprato mutande di ghisa per non farsi fregare». Prego? Chi ha votato a tradimento per Macron e Merkel in Europa, la Lega o i 5 Stelle? La decima e ultima tappa dell’orazione travagliesca suona persino puerile: «Fino a un mese fa Salvini era sempre tra i piedi e in prima pagina. Ora sfugge ai radar. Chi lo rivuole in copertina?». Nel 2011, un giornalista di ben altra caratura – Paolo Barnard – accusò Travaglio di depistare i lettori su falsi bersagli, proprio come i 5 Stelle hanno fatto con gli elettori. Valgono una crociata i decretucci come lo “spazzacorrotti” o il demenziale taglio dei parlamentari, mentre i veri lestofanti – Juncker e i compari di Ursula – si allontanano indisturbati col bottino, centinaia di miliardi di euro. I tempi cambiano, comunque: da quando è diventato l’organo di stampa del grillismo governativo, il “Fatto Quotidiano” vende meno di 30.000 copie al giorno. Ne ha perse diecimila solo nell’ultimo anno.Si prova quasi tenerezza di fronte all’ingenuità delle frottole sciorinate da Marco Travaglio nel tentativo di orientare il voto della cosiddetta “base grillina” sulla fantomatica piattaforma Rousseau. Un tempo icona del giornalismo “con la schiena diritta”, celebrato nel santuario televisivo del collega Michele Santoro, il giustizialista Travaglio rimediò una tiepida figura nel 2013, quando l’Orribile Cavaliere – spintosi nella tana dei leoni – se la cavò benissimo di fronte alle domanducce dell’inquistore del “Fatto”. Ora, seppellito nonno Silvio, Travaglio ha semplicemente sostituito il Nemico. Il nuovo Uomo Nero, va da sé, si chiama Matteo Salvini. Pregustando il delitto eccellente, Travaglio riesce a digerire di tutto: dall’indecente grillismo “di lotta e di governo”, che ha fatto ridere l’Italia, all’eroico Renzi, riabilitato a tempo di record come geniale stratega. «Non avendo mai avuto tessere – pigola Travaglio, lindo come un giglio – non ho il problema del voto su Rousseau. Ma – aggiunge – se fossi iscritto, non avrei dubbi sul Sì al Conte-2». Nobile, il Cavaliere della Giustizia: il giornalista più sfacciatamente politico d’Italia non si sporca con la politica, ci mancherebbe; ma in questo caso si può ben fare un’eccezione. Ed ecco allora, sul “Fatto”, i dieci motivi per votare Sì al “governo dei prestanome”.
-
Mascalzoni contro il popolo: eccolo, il Patto del Lazzarone
Poi c’è l’Italia. E ci sono gli italiani. Quelli che ascoltano sconcertati e indifesi le registrazioni da Bibbiano e vedono la famiglia sotto attacco, i bambini plagiati e costretti a denunciare i loro genitori per abusi inesistenti. Quelli che vedono in tv un marocchino che strazia con otto coltellate una barista a Bologna. Quelli che vedono altre ondate di migranti a bordo, stremati e malati, e poi si scopre che si tratta solo dell’otite di un passeggero; vivono la tragedia di essere imbarcati da giorni mentre, si sa, venivano da una vita agiata, da un’attesa confortevole in Libia, e sono stati costretti da qualcuno a imbarcarsi… E questa sarebbe l’emergenza nazionale, la priorità assoluta per il governo che verrà, mentre gli italiani vivono con disagio in un paese calante ed inefficiente, sentono la pressione e l’oppressione dell’Europa, temono l’aumento dell’Iva e le mazzate del fisco, si sentono indifesi, isolati, raggirati, per giunta in balia di magistrati irresponsabili e schierati. Vedono che la realtà è da una parte e la rappresentazione e soprattutto la rappresentanza va da un’altra. Si può parlare restando decenti di un governo giallorosso che parte con l’80 per cento di contrari tra il popolo sovrano?Quattro italiani su cinque non vogliono un’alleanza grillina-sinistra; e noncuranti il Palazzo, i Media, il Patriziato euro-nazionale, si spende tutto per quell’alleanza. Dalla sinistra estrema ai moderati illuminati, dai vecchi marpioni del regime ai grillini antisistema, dai giornaloni ai Travaglio, tutti – cani e porci, più gentil farfallette – nell’arca di Noè anti-voto e anti-salvini. C’è pure lui che propone un nuovo patto del Lazzarone, versione mascalzona del già torbido patto del Nazareno, e tutti gli danno torto, salvo seguire fedelmente le sue istruzioni. Eccolo che si prepara, il governo di lorsignori. E quelli che fino a ieri erano considerati barbari, i grillini, vengono d’un colpo costituzionalizzati, profumati e incravattati, vengono perfino definiti gentiluomini liberali. E i grillini per campare accettano di diventare domestici, si lasciano cioè addomesticare, entrano nel sistema, alzano la zampa quando glielo dice il domatore, giocano perfino col pallone sul naso, come le foche ammaestrate. Sono ammessi nel club esclusivo dei patrizi, salvo cacciarli appena non servono più, accompagnati dal loro avvocato Zelig Conte, trasformista, equilibrista, multitasking, democristiano quanto serve, progressista quanto basta, brillantina europeista, cromatina da notabile del sud, pochette tardoborghese da taschino più un’incipriata di populismo da tinello per compiacere il gentil volgo.Vi dico già i ministri di culto del governo che hanno in mente, in parità di quote: Greta, Carola, Ursula e Saviano, Lucano e Romano (Prodi). Con la benedizione straordinaria di Bergoglio & Scalfari associati. Ma che possiamo fare noi cittadini, oltre che dire, scrivere e votare quando ci chiameranno, mi scrivono sconfortati alcuni lettori? Niente, ragazzi, già l’idea di manifestare il dissenso in piazza diventa in questo caso tentato golpe e insurrezione armata. A cuccia, buoni. Altrimenti vi fanno le scariche al cervello. Come in Cina, come a Bibbiano. Bene, prendiamo atto che il popolo sovrano non conta un beato fico secco, e se si orienta per i sovranisti e dimezza i grillini, il patriziato si ingegna a salvare i grillini e a massacrare chi ha sostegno popolare. Prendiamo atto che si possono fare scelte, governi, nomine in cui i cittadini non contano assolutamente nulla. Allora, vi dico, perché non avete il coraggio di mutare la Costituzione, mutare forma al regime democratico? Vi consiglio una soluzione decorosa, comunque meno assurda di quella orwelliana di dichiarare che state salvando la democrazia mentre l’affossate.Seguitemi. Per separare la volontà popolare, il consenso elettorale, dal governo e dal potere praticate una riforma astuta. Ripristinate un’antica magistratura di 25 secoli fa, i Tribuni della Plebe, e consentite agli elettori di votare per loro. Date ai Tribuni della Plebe il massimo ascolto, la massima rilevanza, ma poi a governare e a designare chi governa ci pensa sempre il patriziato, cioè voi medesimi, in persona personalmente. Voi vi tenete il potere consolare, e a loro date di premio di consolazione. Loro vegliano su chi governa, rappresentano le istanze del popolo, strepitano, insomma sono difensori del popolo e oppositori riconosciuti. Ma, a governare ci pensate voi, levandovi di torno quella plebaglia, gli italiani. Elezioni democratiche, libertà di parola e di dissenso, diritto di ascolto garantiti. Ma poi decidete voi, col Patto del Lazzarone.(Marcello Veneziani, “Il Patto del Lazzarone”, da “La Verità” del 21 agosto 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Poi c’è l’Italia. E ci sono gli italiani. Quelli che ascoltano sconcertati e indifesi le registrazioni da Bibbiano e vedono la famiglia sotto attacco, i bambini plagiati e costretti a denunciare i loro genitori per abusi inesistenti. Quelli che vedono in tv un marocchino che strazia con otto coltellate una barista a Bologna. Quelli che vedono altre ondate di migranti a bordo, stremati e malati, e poi si scopre che si tratta solo dell’otite di un passeggero; vivono la tragedia di essere imbarcati da giorni mentre, si sa, venivano da una vita agiata, da un’attesa confortevole in Libia, e sono stati costretti da qualcuno a imbarcarsi… E questa sarebbe l’emergenza nazionale, la priorità assoluta per il governo che verrà, mentre gli italiani vivono con disagio in un paese calante ed inefficiente, sentono la pressione e l’oppressione dell’Europa, temono l’aumento dell’Iva e le mazzate del fisco, si sentono indifesi, isolati, raggirati, per giunta in balia di magistrati irresponsabili e schierati. Vedono che la realtà è da una parte e la rappresentazione e soprattutto la rappresentanza va da un’altra. Si può parlare restando decenti di un governo giallorosso che parte con l’80 per cento di contrari tra il popolo sovrano?
-
Nessuno legge più i quotidiani: solo 600.000 copie vendute
Seicentomila copie, appena. E’ quanto vendono, oggi, gli 11 quotidiani italiani a diffusione nazionale. Negli anni ‘80, attorno a quota 600.000 si davano battaglia le due “corazzate” del mainstream cartaceo, il “Corriere della Sera” e “Repubblica”. Oggi quei numeri impallidiscono: il “Corrierone” si deve accontare di 186.500 copie, mentre il quotidiano fondato da Scalfari è a quota 141.355. Sono impietosi i dati ufficiali, aggiornati al giugno 2019. Per i quotidiani italiani la crisi si è aggravata, scrive Sergio Carli su “Blitz Quotidiano”. «E nella crisi generale, ancora più acuta è la crisi del “Fatto”». Nel giugno scorso, il giornale di Travaglio ha venduto il 25% di copie in meno, rispetto all’anno scorso. «Mentre nell’insieme il mercato ha perso il 10%, dopo il -9 registrato in maggio e il -8 di gennaio e febbraio, il “Fatto” subisce un calo in progressione impressionante: del 10% in gennaio, del 13% in marzo, del 20% in aprile, del 23% in maggio, del 25 virgola in giugno». Malissimo anche il “Corriere”, che in giugno ha subito un crollo improvviso, preciptando al -10%. E “Repubblica”, dopo un -3% di maggio, si è allineata al -10% del concorrente, il peggior dato negativo da inizio anno.Impressiona la pochezza dei numeri: se “Corriere” e “Repubblica” sono abbondantemente al di sotto delle 200.000 copie vendute ogni giorno, la “Stampa” è sotto le centomila copie (95.398). Poi, l’abisso: il “Giornale” di Sallusti galleggia a quota 43.000 insieme al “Sole 24 Ore” (40.159), mentre il “Fatto” si deve accontentare di 27.959 copie (erano oltre 37.000 un anno fa). Seguono “Libero” di Feltri (quasi 24.000), “La Verità” di Belpietro (23.600), “Avvenire” della Cei (22.500) e “Italia Oggi” (20.000 copie). Fanalino di coda il “Manifesto”, con appena 7.000 copie vendute al giorno. Decisamente meglio fanno i quotidiani regionali: 80.000 copie il “Resto del Carlino” di Bologna, 70.000 il “Messaggero” di Roma, 60.000 “La Nazione” di Firenze. Attorno alle 30.000 copie resistono voci importanti dei territori italiani, come il “Gazzettio” di Venezia, il “Secolo XIX” di Genova, “Il Tirreno”, “L’Unione Sarda”. Una solidità, quella dell’editoria locale, basata in gran parte sulla cronaca provinciale. Dove invece a dominare è la politica nazionale – sull’ex “grande stampa” – il trend è in spaventoso calo.«Questi pochi numeri denunciano l’emergenza del settore», scrive Carli. «I governi cattivi di Andreotti e Craxi salvarono i giornali, mentre quelli che piacciono tanto ai giornalisti, targati Pd e M5S, li hanno massacrati». I conti confermano il declino: nei ricavi, Rcs passa da 503 a 475 milioni, il gruppo Gedi scivola da 321 a 303 milioni, mentre il fatturato di “Repubblica” scende da 124 a 116 milioni. Impressiona l’esiguità delle cifre, soprattutto riguardo alle copie vendute: solo mezzo milione di italiani legge le analisi degli editorialisti che la televisione propone a ciclo continuo, come se fossero veri opinion leader. Molti di loro hanno condotto una specie di crociata contro il grande concorrente – il web – colpito anche dalle disposizioni-bavaglio dell’Ue con l’alibi della tutela del copyright. Nel frattempo, crolla anche il prestigio professionale dei giornalisti, quasi sempre percepiti come faziosi co-protagonisti del gioco politico: la loro credibilità, come dimostrano le vendite, è ai minimi storici. Stando ai dati, quelli più in crisi sono gli alfieri del “Fatto”, vicini ai 5 Stelle, e i loro colleghi di “Repubblica”, sempre generosi con il Pd.Seicentomila copie, appena. E’ quanto vendono, oggi, gli 11 quotidiani italiani a diffusione nazionale. Negli anni ‘80, attorno a quota 600.000 si davano battaglia le due “corazzate” del mainstream cartaceo, il “Corriere della Sera” e “Repubblica”. Oggi quei numeri impallidiscono: il “Corrierone” si deve accontare di 186.500 copie, mentre il quotidiano fondato da Scalfari è a quota 141.355. Sono impietosi i dati ufficiali, aggiornati al giugno 2019. Per i quotidiani italiani la crisi si è aggravata, scrive Sergio Carli su “Blitz Quotidiano”. «E nella crisi generale, ancora più acuta è la crisi del “Fatto”». Nel giugno scorso, il giornale di Travaglio ha venduto il 25% di copie in meno, rispetto all’anno scorso. «Mentre nell’insieme il mercato ha perso il 10%, dopo il -9 registrato in maggio e il -8 di gennaio e febbraio, il “Fatto” subisce un calo in progressione impressionante: del 10% in gennaio, del 13% in marzo, del 20% in aprile, del 23% in maggio, del 25 virgola in giugno». Malissimo anche il “Corriere”, che in giugno ha subito un crollo improvviso, precipitando al -10%. E “Repubblica”, dopo un -3% di maggio, si è allineata al -10% del concorrente, il peggior dato negativo da inizio anno.
-
Gozi nel governo Macron: un italiano a Parigi, contro l’Italia
«Tra una mia elezione come eurodeputato (di “En Marche”, ndr) e la vittoria dell’Italia ai Mondiali? L’Italia può aspettare». La volontà di entrare nell’organico del partito di governo francese non l’ha mai nascosta, ma dopo aver sbattuto contro la bocciatura per una poltrona al Parlamento Ue, Sandro Gozi entra direttamente nel governo francese al servizio di Emmanuel Macron: l’ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni ricoprirà lo stesso incarico, nell’esecutivo che ha come premier Edouard Philippe. A quanto si è saputo, Gozi (che è anche indagato a San Marino per una presunta consulenza “fantasma” da 220mila euro con l’accusa di amministrazione infedele in concorso) dovrebbe rimanere nella sede del primo ministro a Parigi in attesa di prendere posto a Bruxelles dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. «L’europarlamentare avrà il compito di monitorare la creazione di nuove istituzioni europee e le relazioni con il Parlamento Ue, operando in stretta collaborazione con il Segretariato generale per gli affari europei francese», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una nomina che ha scatenato le proteste di tutti i principali partiti italiani – tranne il Pd – che in coro hanno chiesto: di chi ha fatto gli interessi, Sandro Gozi, mentre serviva l’Italia?Dura la reazione del grillino Stefano Buffagni, sottosegretario per gli affari regionali: «Che schifo! Ecco da chi eravamo governati fino allo scorso anno, ecco a voi i membri del Pd che fanno la morale a tutti». Leggere di un ex membro del governo Renzi che viene nominato nell’esecutivo del paese che più di ogni altro oggi contesta l’Italia, per Buffagni «è qualcosa di veramente vomitevole e preoccupante». Tra i “successi” di Gozi, l’aver perso l’Agenzia Europea del Farmaco, richiesta da Milano nel 2017. «La domanda sorge quindi spontanea: per chi lavorava allora Gozi? Rappresentava davvero gli interessi dell’Italia o giocava su altri campi per altri paesi? Non c’è il rischio di alto tradimento contro la personalità dello Stato italiano?», si domanda Buffagni. Un altro pentastellato, Pino Cabras, capogruppo nella commissione esteri della Camera, evidenzia il filo rosso che lega la Francia e alcuni esponenti del partito di Zingaretti: «Dopo le schiere di 13 esponenti Pd, da Fassino a Franceschini, passando per Letta e Sala, che negli ultimi sedici anni hanno ricevuto la Legion d’Onore francese, non potendo ricevere una seconda onorificenza per Sandro Gozi è scattata direttamente la nomina a responsabile degli Affari Europei del governo Macron».Quali dossier tra Italia e Francia ha trattato, Gozi, «evidentemente non certo a sfavore degli amici d’Oltralpe», durante il suo mandato governativo con Renzi e Gentiloni? Per Cabras, si tratta di «una una nomina che inquieta, e che desta politicamente più di un sospetto». La pensa così anche Giorgia Meloni: «Voglio sapere perché Emanuel Macron e il governo francese ci tengano a premiare così un signore che, fino a qualche mese fa, avrebbe dovuto fare gli interessi degli italiani». Stessa musica da Matteo Salvini: «Gozi, già sottosegretario agli affari europei con Renzi e Gentiloni, con la benedizione di Macron viene ora nominato, nello stesso ruolo, nel governo francese: immaginate di chi facesse gli interessi questo personaggio quando era nel governo italiano. Pazzesco, questo è il Pd». Tra i dossier “caldi” che vedono contrapposte Italia e Francia, ricorda sempre il “Fatto Quotidiano”, il primo è certamente il rapporto con le diverse fazioni in campo nello scacchiere libico. «Come è noto, mentre l’Italia, già al tempo di Gozi sottosegretario, rappresenta uno dei principali interlocutori del Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, oltre che il partner di riferimento per l’Unione Europea, la Francia è uno dei pochi paesi dell’Ue a vantare rapporti privilegiati con la controparte della Cirenaica, con a capo il generale Khalifa Haftar».In un clima di tensione nuovamente alta nel paese nordafricano, con le milizie di Tobruk che da mesi spingono per rovesciare l’esecutivo tripolino, sostenute da alcuni alleati regionali come Arabia Saudita ed Emirati, oltre alla Russia (e almeno in passato, la Francia) un ex membro del governo italiano ora al servizio di Parigi «potrebbe essere a conoscenza di accordi mai resi pubblici stipulati tra Roma e le varie fazioni in campo: Tripoli, Misurata, altre milizie non allineate e lo stesso Haftar, con cui l’Italia sta cercando di intavolare un dialogo per arrivare il prima possibile a un cessate il fuoco». Poi ovviamente c’è il tema migranti: da una parte si chiede all’Italia di accoglierli, mentre la Francia resta libera di respingerli. «L’immigrazione, inoltre, è un tema sul quale Italia e Francia si sono già scontrate negli anni passati: basta ricordare i respingimenti della Gendarmeria d’Oltralpe a Ventimiglia, i fatti di Bardonecchia e un altro respingimento in territorio italiano, in Alta Val Susa».Restando in Libia, quella tra Haftar e al-Sarraj non è solo una lotta per governare il paese, ma «uno scontro tra diverse alleanze internazionali per mettere le mani su giacimenti di petrolio tra i più ricchi e appetibili del mondo», aggiunge il “Fatto”. In questa battaglia sono schierate da una parte l’Eni, dall’altra la Total. «A febbraio 2019, ad esempio, il portavoce dell’Esercito nazionale libico, che fa capo ad Haftar, aveva annunciato la presa del campo petrolifero di Al Sharara, nella regione di Ubari, a 900 km a sud di Tripoli, la cui produzione era bloccata da 2 mesi. Il sito è strategico per l’economia dell’intera Libia e per gli Stati che hanno interessi petroliferi nel paese: gestito dalla società Akakus, joint-venture tra la Noc, la compagnia petrolifera nazionale controllata dal governo di Fayez Al Sarraj, principale interlocutore dell’Italia, la spagnola Repsol, la Total, l’austriaca Omv e la norvegese Statoil». Non è tutto: a scaldare i rapporti tra Italia e Francia già durante i governi Pd di cui faceva parte Gozi – continua il giornale di Travaglio – ci sono più controversie tra le grandi multinazionali italiane e francesi, sia pubbliche che private. La prima partita economica è senz’altro quella su Fincantieri-Stx: «Dopo un lungo tira e molla, nel settembre 2017, il governo Gentiloni riuscì a sbloccare l’operazione ottenendo per Fincantieri il 50% di Stx più l’1% in prestito dallo Stato francese. Ma il prestito è sottoposto a verifiche periodiche e il governo francese ha facoltà di chiedere indietro la quota prestata in caso di inadempienza italiana».Nel caso in cui l’1% venga ritirato, Fincantieri può solo decidere di cedere tutto il 50% di Stx a Parigi. «Il governo transalpino ha quindi oggettivamente la possibilità di rendere difficile la vita a Fincantieri che è controllata dal Tesoro via Cassa Depositi e Prestiti». Altre vicende, anche se legate ad affari privati (in cui lo Stato è però già intervenuto in passato) sono quelle relative a Tim-Vivendi e Mediaset-Bolloré. «Nel maggio 2018, ad esempio, il fondo Elliott è riuscito a modificare gli equilibri di potere in Tim grazie al voto favorevole del socio pubblico Cassa Depositi e Prestiti. La vicenda non è piaciuta a Vivendi, estromessa dalla guida del gruppo, e al suo socio di riferimento, Vincent Bolloré, azionista anche di Mediobanca e di Mediaset, in guerra aperta con la famiglia Berlusconi». Sono tanti i dossier che un ex membro di governo potrebbe aver gestito o di cui potrebbe aver sentito parlare. E anche per questo Giorgia Meloni ha annunciato che Fratelli d’Italia ha già depositato un’interrogazione: «Vogliamo sapere quali sono tutti i dossier che Sandro Gozi ha seguito quando era alla presidenza del Consiglio italiano che riguardano anche i francesi. Noi vogliamo sapere che cosa deve Emmanuel Macron a Sandro Gozi».«Tra una mia elezione come eurodeputato (di “En Marche”, ndr) e la vittoria dell’Italia ai Mondiali? L’Italia può aspettare». La volontà di entrare nell’organico del partito di governo francese non l’ha mai nascosta, ma dopo aver sbattuto contro la bocciatura per una poltrona al Parlamento Ue, Sandro Gozi entra direttamente nel governo francese al servizio di Emmanuel Macron: l’ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni ricoprirà lo stesso incarico, nell’esecutivo che ha come premier Edouard Philippe. A quanto si è saputo, Gozi (che è anche indagato a San Marino per una presunta consulenza “fantasma” da 220mila euro con l’accusa di amministrazione infedele in concorso) dovrebbe rimanere nella sede del primo ministro a Parigi in attesa di prendere posto a Bruxelles dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. «L’europarlamentare avrà il compito di monitorare la creazione di nuove istituzioni europee e le relazioni con il Parlamento Ue, operando in stretta collaborazione con il Segretariato generale per gli affari europei francese», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una nomina che ha scatenato le proteste di tutti i principali partiti italiani – tranne il Pd – che in coro hanno chiesto: di chi ha fatto gli interessi, Sandro Gozi, mentre serviva l’Italia?
-
Ieri Borrelli e Craxi, oggi paga Salvini: farà posto a Draghi?
Fu Christine Lagarde a organizzare la caduta di Dominique Strauss-Kahn, travolto dallo scandalo per uno stupro (mai avvenuto): Strauss-Kahn ha fatto la fine di ogni vero socialista, liquidato per via giudiziaria. La Lagarde voleva semplicemente prendergli il posto, alla guida del Fmi: spero che mi quereli, la signora, perché posso dimostrare quello che dico. Ora guiderà la Bce, con l’incarico di “normalizzare” ulteriormente l’Europa. Lavorerà in tandem con la tedesca Ursula von der Leyen, una nazistella che fino a ieri faceva la yes-girl della Merkel. E’ stata messa a capo della Commissione Europea con il contributo determinante dei grillini, che non sanno che sarà proprio lei a decretare la loro morte. E questo conferma che c’è qualcosa di strano, dietro alla gestione dei 5 Stelle, che ora contestano a Salvini il caso delle presunte promesse di finanziamento da Mosca. L’avevo anticipato settimane fa, che contro Salvini si sarebbe scatenata una grossa tempesta giudiziaria. Rinaldi e Borghi gridano al golpe, denunciando le manovre per un governo tecnico presieduto da Draghi, con Pd e 5 Stelle, e Conte commissario europeo? Avevo previsto in anticipo anche il piano per un governo Draghi – che ora va avanti, visto che Draghi ha rifiutato di prendere il posto della Lagarde al Fmi. L’innesco è sempre la magistratura, oggi per eliminare Savini? Giustizia a orologeria? Ne sapeva qualcosa Francesco Saverio Borrelli, appena scomparso.Borrelli è una figura che si è prestata a una manovra non legittima, nel modo in cui è stata condotta, benché l’indagine fosse di per sé legittima. E’ stata una trappola, in cui Craxi è caduto: si era fidato di personaggi che lo attorniavano, da Paolo Pillitteri al magistrato Livia Pomodoro, che lo avevano rassicurato sulla linearità di Borrelli, che poi invece non c’è stata. D’altro canto, lo stesso Borrelli era stato nominato alla guida della Procura di Milano con una manovra simil-Palamara: corsi e ricorsi storici. Quel periodo ha fatto danni che tuttora perdurano, sia nell’ambito della giustizia che in quelli della società e della politica. E se c’è gente che ancora oggi queste cose non le vede, e quando sente parlare di Craxi e di Mani Pulite gli salta il sangue agli occhi, aspettiamo: perché poi magari in un bel tritacarne giudiziario ci capitano pure queste persone, così mi sapranno dire cosa significa e come si sta. In Italia è diminuita, la corruzione, dopo Tangentopoli? Per certi aspetti, Tangentopoli non c’entra niente con la corruzione, intesa come fenomeno sociale. Tangentopoli si rivolse innanzitutto nella direzione del finanziamento illecito dei partiti, nel cui alveo era rifiorita la corruzione: perché quando tu consenti qualcosa di illecito, dall’illecito derivano altri illeciti. Se non fai una normativa di trasparenza, sul finanziamento dei partiti, prima o poi dal finanziamento illecito si passa al vendersi l’appalto (che è cosa diversa).Un conto è il finanziamento illecito: qualcuno ti dà dei fondi, che poi non risultano a bilancio. Altra cosa è il fatto che tu ti sei venduto un appalto per averli, quei fondi. In Italia c’era un sistema di spartizione, per arrivare al finanziamento: se l’erano inventato i partiti più piccoli, per cercare di bilanciare i finanziamenti illeciti provenienti dall’estero, e precisamente dall’America (diretti alla Dc) e dalla Russia (destinati al Pci). Era un finanziamento necessariamente illecito: con che voce mettere a bilancio soldi che venivano dagli Usa e dall’Urss? Questo ha provocato il fatto che i partiti non sono stati trasparenti nei bilanci. E non essendo trasparenti nei bilanci, ne sono discese una serie di cose: era una situazione a catena. Poi, ovviamente, nei partiti, quelli più corrotti facevano carriera: perché al partito portavano finanziamenti che, magari, quelli meno corrotti non riuscivano a portare. In altre parole, il problema era sistemico. Nel momento in cui si doveva dare un giro di vite, dopo l’amnistia dell’89, i partiti hanno rifiutato il “dimagrimento”: erano così grossi, da non saper ridurre le strutture – ormai elefantiache – di cui si erano dotati.Peraltro, l’avvento della televisione commerciale aveva resto costosa la pubblicità elettorale, che prima – con le varie Tribune Politiche – era gratuita. Questo ha provocato un aumento dei costi della politica. E non essendoci più i soldi dell’America e della Russia, quei costi hanno gravato sul sistema degli appalti, anche da parte dei partiti maggiori, e quindi il sistema è esploso. Per questo dico che l’inchiesta Tangentopoli era inevitabile. Quello che era evitabile è che venisse strumentalmemte diretta solo contro Craxi e contro i democristiani. E invece, con la copertura di Borrelli – che pure, comunista non era – il Pci è stato completamente graziato. Il motivo? I comunisti (come s’è visto anche dalle ultime vicende) si erano infiltrati in modo talmente capillare, nella magistratura – istituzionalmente, oserei dire – per cui, tramite personaggi come D’Ambrosio e Caselli, il dialogo era continuo. Perdura anche oggi, questa coltre pseudo-comunista? Sembra evidente, se si pensa all’incrocio tra Palamara, Pd e Csm. Aveva ragione Berlusconi, quando parlava di toghe rosse? Non diceva una bugia. Ma siccome in Italia il più pulito ha la rogna, questa cosa Berlusconi la diceva mescolata a talmente tante bugie, da non essere credibile. Devi poterle dire, certe cose: Berlusconi invece è sempe sceso a patti, sottobanco, con tutti i poteri di cui aveva denunciato l’illegittimità. L’ha fatto per tutelare i suoi interessi, il suo patrimonio, e non c’è nemmeno riuscito fino in fondo – però ci ha provato, certo.Sbagliato considerare la corruzione una piaga italiana? Niente affatto: l’Italia ce l’ha nel Dna, la corruzione. Da noi, se hai bisogno di un certificato non vai al Comune: cerchi un amico, specialmente nel Meridione. E questo deriva da un’atavica assenza di senso dello Stato, e dall’assenza dello Stato stesso. Sicché, non funzionando le cose, le gente si arrangia. Se si arrangia un povero diavolo qualsiasi di un paesino del Sud, poi chi può ci piglia gusto, e magari cerca anche di farci dei soldi. La gente, insomma, si accorge che lo Stato non funziona. Quelli più semplici si limitano a fare in modo che funzioni per loro, ricorrendo a vie traverse. Poi ci sono quelli che dicono: ma visto che il sistema non funziona, perché non ci guadagno sopra? Bisogna ristabilire il senso dello Stato, e quindi innanzitutto la presenza dello Stato: a quel punto sarà facile distinguere gli onesti dai disonesti, mentre ora non lo è. E’ come il mondo degli evasori fiscali: ci sarà pure una percentuale di contribuenti che proprio non ce la fanno, a pagare quelle tasse, ma sono mescolati con delinquenti che le tasse non le pagano perché non le vogliono pagare. Come fai a distinguerli? Devi rendere diverso il sistema fiscale, se vuoi che la differenza risulti evidente. A quel punto diventa facile fare un’agevolazione solo per chi non ce la fa. Invece oggi le agevolazioni si chiamano condoni, e favoriscono pure gli evasori veri, quelli che i soldi per pagare le tasse li avevano, ma se li sono messi via.Ora siamo all’attesissima lapidazione giudiziaria di Salvini? Tanto per cominciare, nell’Eni – che è stata privatizzata – lo Stato ha ormai solo una “golden share”. Tecnicamente, l’Eni non è più una società pubblica. Quindi come si giustifica l’ipotetico reato di corruzione? Senza contare che, a quel tavolo, dell’Eni non c’era seduto nessuno. A Mosca non è stata nemmeno nominata, l’Eni. A quel tavolo semmai c’era qualcuno che rappresentava la Gazprom, che però è russa: quindi dove li stanno ravvisando, i reati? Certo, si sta gonfiando il caso lo stesso: perché l’Italia è fatta così. Ci sono una serie di giornali, di media, che sono sempre pronti a montare meccanismi mediatico-giudiziari. Lo specialista direi che è Marco Travaglio. Ma ci sono altri fior di specialisti, come Peter Gomez, che fanno un giornalismo molto simile alla macelleria. Sono macellai del giornalismo, e quindi vendono coratelle: smembrano manzi e vendono frattaglie, quinto quarto, mezzene. Questo modo di fare, che ha anche delle regie, comporta il fatto che, se una cosa si profila anche solo lontanamente utile per un piano che serva a incastrare qualcuno, il caso viene montato: sottacendo le cose che non fanno comodo e sottolineando gli aspetti che invece fanno comodo per quel progetto.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Carpeoro Racconta” dei 21 luglio 2019).Fu Christine Lagarde a organizzare la caduta di Dominique Strauss-Kahn, travolto dallo scandalo per uno stupro (mai avvenuto): Strauss-Kahn ha fatto la fine di ogni vero socialista, liquidato per via giudiziaria. La Lagarde voleva semplicemente prendergli il posto, alla guida del Fmi: spero che mi quereli, la signora, perché posso dimostrare quello che dico. Ora guiderà la Bce, con l’incarico di “normalizzare” ulteriormente l’Europa. Lavorerà in tandem con la tedesca Ursula von der Leyen, una nazistella che fino a ieri faceva la yes-girl della Merkel. E’ stata messa a capo della Commissione Europea con il contributo determinante dei grillini, che non sanno che sarà proprio lei a decretare la loro morte. E questo conferma che c’è qualcosa di strano, dietro alla gestione dei 5 Stelle, che ora contestano a Salvini il caso delle presunte promesse di finanziamento da Mosca. L’avevo anticipato settimane fa, che contro Salvini si sarebbe scatenata una grossa tempesta giudiziaria. Rinaldi e Borghi gridano al golpe, denunciando le manovre per un governo tecnico presieduto da Draghi, con Pd e 5 Stelle, e Conte commissario europeo? Avevo previsto in anticipo anche il piano per un governo Draghi – che ora va avanti, visto che Draghi ha rifiutato di prendere il posto della Lagarde al Fmi. L’innesco è sempre la magistratura, oggi per eliminare Savini? Giustizia a orologeria? Ne sapeva qualcosa Francesco Saverio Borrelli, appena scomparso.
-
I 5 Stelle con Pd e Berlusconi votano in Ue contro l’Italia
Non sottovalutate quello che è successo l’altro giorno al Parlamento Europeo: è un preavviso di ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni in Italia. «I grillini che votano con l’odiato asse franco-tedesco, col Pd, coi popolari e con Forza Italia, contro la Lega e gli eurocritici, e diventano decisivi per eleggere Ursula von der Leyen, non sono solo un esempio di cialtroneria, uno spettacolo di clown e trasformisti», avverte Marcello Veneziani: «Sono un campanello d’allarme su come si potrà evolvere la situazione nostrana, quali pieghe insospettate potrà prendere». Ragiona Veneziani, su “La Verità”: «Quando un non-partito è in caduta libera nei sondaggi e nei voti, quando sa che la partita di governo che si sta giocando non consente repliche né prove supplementari, insomma quando si deve giocare il tutto per tutto, allora diventa disponibile a ogni operazione». Pur essendo incapace di governare, aggiunge Veneziani, il M5S diventa capace di tutto, pur di restare a galla, tenendo conto di due fattori decisivi, l’inconsistenza politica grillina e il ruolo di Conte, il premier venuto dal nulla. «I grillini – sostiene Veneziani – non hanno un’idea, una visione, una linea», visto che «sono una mucillagine coagulata dalla rabbia che assume le forme del momento, della rete, dei sondaggi più o meno pilotati».Sempre secondo Veneziani, i pentastellati «non hanno una storia ma solo una piattaforma mobile», e tantomeno hanno una cultura, un’etica politica, «se non il puerile abecedario forcaiolo che gli ha fornito qualche travagliato maestrino». Ovvero: «Basta gridare ogni tre per due “cacciamolo”, “processiamolo” o “in galera!” e poi si è a posto per ogni giravolta». A questa ameba proteiforme dei 5 Stelle, aggiunge Veneziani, «aderisce perfettamente un leguleio astuto come il premier professor avvocato Giuseppe Conte, che ha una sola linea di governo: sopravvivere a tutti i costi, galleggiare a qualunque prezzo». E quando gli ricapita? «Lui concorre a trasformare i grillini da bufali scatenati in vitel tonné da servire ai tavoli europei». Visti questi presupposti, «i grillini saranno buoni a nulla ma sono pronti a tutto pur di sopravvivere a Salvini e galleggiare: diventare alleati dei franco-tedeschi e di Berlusconi, del Pd e delle Ong, di Benetton e dei Sì-Tav, della Cina e del Venezuela». Pur di abbattere l’orso Salvini, «che è il loro alleato ma anche il loro carceriere e la loro sanguisuga», sono pronti a «sparagli un missile di fabbricazione franco-tedesca».Per Veneziani – filosofo e politologo, scrittore, saggista e giornalista – è evidente la matrice pirandelliana della politica italiana, «che i grillini ripercorrono come i trasformisti della prima, della seconda repubblica e della vecchia monarchia». Pirandelliana è l’alleanza con la Lega, «che li soffoca e li sostiene», e Salvini «è il loro amico principale e il loro nemico principale». Siamo al relativismo assoluto, al gioco delle parti e delle combinazioni, al paradosso come criterio di scelta e di comprensione. Risultato: «Il rovesciamento continuo dei ruoli, delle parti e degli scopi, l’ignoranza come virtù, la cultura come un demerito, l’odio del proprio paese come collante nazionale». Sicché, «tutti possono allearsi con tutti e con nessuno, recitano a soggetto, restano prigionieri di se stessi prima che della situazione, ciascuno a giorni alterni si accorda e si sottrae all’accordo, stringe mani e poi chiede mani libere. Il criterio è stare fuori, dentro, sopra o sotto il governo, l’Europa o i patti, senza mai coincidere in modo definitivo. Le variabili sono infinite e impazzite. È la Babele allo stato puro». Lo disse Leo Longanesi: la democrazia si replica per assenza di dittatore.«Solo Pirandello può spiegare quello che sta succedendo nel Movimento 5 Stelle tra Dima e Diba, nel Pd coi suoi personaggi in cerca d’autore, con Berlusconi funambolo che abbraccia Toti per soffocarlo, o coi sovranisti senza sovranità». E restano pagine di teatro surreale «la mimica di Berlusconi all’uscita dalle consultazioni con Mattarella o le prediche on the road con la testa roteante dell’Imam Ale Diba, o il rapporto perverso tra Renzi, Zingaretti, Minniti e il loro partito». Per Veneziani, «solo Pirandello può dare una spiegazione illogica a ciò che sta accadendo: tutto è esilarante, come il gas, e come il gas è letale». Sarà che non riusciamo a liberarci del negativo «perché si sono chiuse pure le discariche della politica in cui incenerire i rifiuti accumulati». Ma c’è qualcosa di assurdo e malefico, nell’aria, che non riusciamo a decifrare – e che siamo riusciti a esportare anche in sede europea. «Solo Pirandello ci può aiutare, dategli l’incarico di presiedere l’Authority della Pazzia. E il fatto che sia morto da un sacco di tempo – chiosa Veneziani – rende ancora più pirandelliana la situazione».Non sottovalutate quello che è successo l’altro giorno al Parlamento Europeo: è un preavviso di ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni in Italia. «I grillini che votano con l’odiato asse franco-tedesco, col Pd, coi popolari e con Forza Italia, contro la Lega e gli eurocritici, e diventano decisivi per eleggere Ursula von der Leyen, non sono solo un esempio di cialtroneria, uno spettacolo di clown e trasformisti», avverte Marcello Veneziani: «Sono un campanello d’allarme su come si potrà evolvere la situazione nostrana, quali pieghe insospettate potrà prendere». Ragiona Veneziani, su “La Verità”: «Quando un non-partito è in caduta libera nei sondaggi e nei voti, quando sa che la partita di governo che si sta giocando non consente repliche né prove supplementari, insomma quando si deve giocare il tutto per tutto, allora diventa disponibile a ogni operazione». Pur essendo incapace di governare, aggiunge Veneziani, il M5S diventa capace di tutto, pur di restare a galla, tenendo conto di due fattori decisivi, l’inconsistenza politica grillina e il ruolo di Conte, il premier venuto dal nulla. «I grillini – sostiene Veneziani – non hanno un’idea, una visione, una linea», visto che «sono una mucillagine coagulata dalla rabbia che assume le forme del momento, della rete, dei sondaggi più o meno pilotati».
-
Italian Russiagate: le bufale di BuzzFeed, che odia Salvini
«L’attacco mondialista a Salvini dimostra proprio questo intento, riprendere il flusso dell’immigrazione fuori controllo e continuare a produrre dumping salariale». Tanto, «il presunto argine ‘antisistema’ rappresentato dai 5 Stelle appare sempre più inadeguato, incoerente e ambiguo», visto che lo stesso Di Maio – nel tentativo disperato di tamponare l’emorragia di voti verso la Lega – partecipa volentieri all’ultimo gioco al massacro contro Salvini, invitandolo a rispondere dei presunti finanziamenti russi davanti al Parlamento: «Quando il Parlamento chiama, il politico risponde, perché il Parlamento è sovrano e lo dice la nostra Costituzione». Sovranità limitata, in realtà: è Bruxelles, non Roma, a stabilire cosa può fare l’Italia, la cui Costituzione è stata deturpata dall’inserimento suicida del pareggio di bilancio. Se n’è dimenticato, Di Maio? È evidente, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, che il capo politico del Movimento 5 Stelle cita “BuzzFeed” come fonte d’informazione altamente attendibile, «celando di proposito le rivelazioni pregresse sulla macchina di propaganda web del MoV, e sul fatto che Alberto Nardelli interpreterebbe un trend politico decisamente di sinistra, avverso al governo gialloverde».