Archivio del Tag ‘manager’
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Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».
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Giannuli: sindacalisti da 300.000 euro, fate davvero schifo
Nella calura ferragostana rischia di perdersi una notizia che invece merita molta attenzione: nella Cisl ci sono dirigenti nazionali che percepiscono stipendi o pensioni per 300.000 euro all’anno, il dirigente locale che lo ha denunciato verrà espulso dall’organizzazione. E’ moralmente accettabile che un dirigente sindacale riceva una retribuzione dieci o dodici volte superiore a quella della media dei suoi iscritti? Il colmo è che la direzione della Cisl (nella quale saranno tutti più o meno super-retribuiti) caccia il reprobo che ha fatto sapere la notizia: come dire che non sappiamo più cosa sia il pudore. Anzi uno degli interessati (240.000 euro di pensione) ha dichiarato di esserne orgoglioso, perché il suo era un posto di alta responsabilità ed un altro ha precisato che per mansioni come la sua, nelle banche i manager sono molto più pagati. Va bene, ma perché non sono andati a far carriera in banca? Quale medico gli ha ordinato di lavorare nel sindacato? Forse era più facile far carriera qui?Il fatto è che questi personaggi sono dirigenti sindacali che hanno come loro parametro di raffronto e meta da raggiungere il livello di vita del management e dei padroni. Fanno i sindacalisti perché non avevano la stoffa per fare i manager e l’eredità familiare per fare i padroni. La loro non è lotta di classe, ma invidia. Come volete che un individuo del genere faccia gli interessi dei lavoratori? Nello stesso tempo, dalle fessure di una grande (anzi grandissima) Camera del Lavoro filtra la notizia di qualche milione di euro sparito fra sindacato dei pensionati e patronato (ce ne occuperemo dopo le ferie per non disperdere l’affare nella sonnacchiosa aria d’agosto), pare ci sia stato un intervento del nazionale che ha rimosso qualche dirigente ma, naturalmente, di recuperare il malloppo neanche se ne parla. Vi pare una cosa sopportabile?E non parliamo dell’allegra gestione dei patronati da circa 30 anni, dell’uso del denaro pubblico, dei casi di corruzione personale di sindacalisti in vertenze e via proseguendo. Ah, quanto sarebbe auspicabile una “Mani Pulite” del sindacato! E non sarebbe nemmeno difficile per il più sprovveduto dei sostituti procuratori avviare l’inchiesta: basterebbe dare un’occhiata ai bilanci dei patronati, alle loro linee telefoniche. Insomma, il sindacato in questo paese è diventato un lerciume che non si può guardare, ma la funzione del sindacato è troppo importante per essere così malridotto: senza sindacato i lavoratori sono condannati al super sfruttamento (che è esattamente quello che sta accadendo con questi sindacati finti). I sindacati sono troppo importanti per la democrazia e si impone una energica opera di ripulitura a costo di radere al suolo anche le sedi di questa pagliacciata di sindacato.Da questo autunno dovrà partire una campagna durissima contro queste burocrazie sindacali. Gramsci a suo tempo li chiamava “bonzi”, e pensare che quelli non si sarebbero mai sognati di darsi retribuzioni cosi scandalose o rubare al sindacato. Ma cari amici sindacalisti, non sentite prepotente la spinta di andare allo specchio e sputarvi in faccia? Non vi sentire dei vermi? Ma, qualcuno mi dirà, solo pochi guadagnano quelle cifre e la maggioranza non sono ladri: non fa niente, ladro è chi ruba e chi regge il sacco. Chiunque taccia omertosamente su questo malcostume, chiunque accetti una retribuzione più che doppia della media dei suoi iscritti, chiunque non si dissoci da un provvedimento vergognoso come l’espulsione di quello che ha rotto l’omertà mafiosa dell’organizzazione, è complice e risponde delle colpe di tutti, in solido.In autunno occorrerà sviluppare una campagna di risanamento del sindacato: non sarebbe bene che tutti i dirigenti sindacali, dal livello di responsabilità provinciale in su, pubblicassero on line la propria dichiarazione dei redditi e che altrettanto si facesse per i bilanci di ogni struttura sindacale? Si potrebbe anche fare una proposta di legge di iniziativa popolare in questo senso. Non sarebbe bello che la magistratura avviasse qualche inchiesta a tutela del denaro pubblico che affluisce in quelle casse? E che partisse una campagna di controinformazione sul web? E che bella boccata d’ossigeno sarebbe tornare alle giornate dell’estate 1993, quando i dirigenti di Cgil, Cisl e Uil non potevano aprire bocca in piazza perché erano coperti di fischi e monetine (qualche volta bulloni)! Chissà che non succeda. Forse la ripresa della conflittualità sociale potrebbe partire proprio da una tempesta sul sindacato.(Aldo Giannuli, “Ma che schifo è diventato il sindacato!”, dal blog di Giannuli del 15 agosto 2015).Nella calura ferragostana rischia di perdersi una notizia che invece merita molta attenzione: nella Cisl ci sono dirigenti nazionali che percepiscono stipendi o pensioni per 300.000 euro all’anno, il dirigente locale che lo ha denunciato verrà espulso dall’organizzazione. E’ moralmente accettabile che un dirigente sindacale riceva una retribuzione dieci o dodici volte superiore a quella della media dei suoi iscritti? Il colmo è che la direzione della Cisl (nella quale saranno tutti più o meno super-retribuiti) caccia il reprobo che ha fatto sapere la notizia: come dire che non sappiamo più cosa sia il pudore. Anzi uno degli interessati (240.000 euro di pensione) ha dichiarato di esserne orgoglioso, perché il suo era un posto di alta responsabilità ed un altro ha precisato che per mansioni come la sua, nelle banche i manager sono molto più pagati. Va bene, ma perché non sono andati a far carriera in banca? Quale medico gli ha ordinato di lavorare nel sindacato? Forse era più facile far carriera qui?
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Monica Maggioni, ovvero: la Rai di Renzi formato Bilderberg
Già da due giorni si era capito che la nomina del nuovo presidente del Consiglio di amministrazione della Rai sarebbe stato la “carta da spariglio” che Renzi si sarebbe giocato. «Mentre tutti si accanivano sulla nomina di un outsider competente come Freccero o di illustri ma sconosciuti portaborse dentro il nuovo Cda, il presidente del Consiglio aveva la sua carta in mano da giocare», scrive Sergio Cararo. «Questa carta si chiama Monica Maggioni, la ex corrispondente internazionale della Rai che in questi anni aveva “normalizzato” quella che era stata l’isola felice di RaiNews24, allineandola sempre più all’informazione embedded imposta dai poteri forti». Una funzione «a questo punto realizzata e suggerita da uno dei centri di potere più forti: il gruppo Bilderberg». La Maggioni ha partecipato agli incontri di questa organizzazione riservatissima dei potenti del mondo, «facendosi legittimare proprio dalla Rai di cui si apprestava a diventare presidente», come si evince dalla risposta destinata a Roberto Fico, del M5S: sì, la Maggioni è andata al meeting del Bilderberg e a noi va bene così.La Rai era stata sollecitata da un’interrogazione del presidente grillino della Commissione Vigilanza in merito alla partecipazione della Maggioni alla riunione del Bilderberg del 29 maggio scorso. Roberto Fico si era sentito rispondere, testualmente: «Si conferma che la dottoressa Monica Maggioni ha partecipato a Copenaghen al meeting annuale di Bilderberg nel periodo compreso tra il 29 maggio e il 1° giugno. La Rai – ancorché la partecipazione citata sia avvenuta a titolo personale – ritiene assolutamente legittimo che, nell’ambito della propria attività professionale, un suo dipendente possa partecipare, se invitato, a prendere parte ad eventi organizzati da un think tank di tale rilevanza internazionale, e che tale partecipazione costituisca elemento di prestigio per l’azienda stessa». Per onestà, aggiunge Cararo su “Contropiano”, occorre sottolineare come la Maggioni non sia affatto l’unica giornalista di comando a partecipare alle riservate riunione del Bilderberg. «Negli anni passati, negli hotel di lusso che ospitavano gli incontri si potevano incontrare Lilli Gruber, Gianni Riotta, Ugo Stille, Arrigo Levi, Ferruccio de Bortoli, Lucio Caracciolo. Soprattutto quelli del “Corriere della Sera” erano di casa».Sulla funzione del Bilderberg come “facilitatore” nel controllo dei punti strategici del comando, continua Cararo, è interessante il meccanismo descritto nel libro di Domenico Moro (“Club Bilderberg”), ossia quello delle “porte girevoli”, per cui un ministro (o, nel caso degli Usa, un segretario di Stato) si ritrova poi al vertice di una multinazionale, o magari ne aveva fatto parte prima. Mentre grandi manager pubblici come Romano Prodi, dopo aver portato avanti massicce privatizzazioni, si ritrovano presidenti del Consiglio o ai vertici dell’Unione Europea. O ancora, uomini come Mario Draghi, che passano da presidente del Comitato economico e finanziario del Consiglio della Ue a direttore generale del ministero del Tesoro italiano, per poi diventare vicepresidente della Goldman Sachs, dopo di che governatore della Banca d’Italia e infine presidente della Banca centrale europea. «Insomma una vera e propria oligarchia esclusiva, che occupa sistematicamente tutti i posti rilevanti nell’economia, nella politica, nell’informazione e nella diplomazia internazionale». Chiosa Cararo: «Con un presidente del Consiglio in odore di grembiulini come Renzi (come aveva scritto l’ex direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio de Bortoli, immediatamente messo alla porta), la nomina di una partecipante al Gruppo Bilderberg a presidente del Consiglio di amministrazione della Rai è tutt’altro che una sorpresa, è una conferma».Già da due giorni si era capito che la nomina del nuovo presidente del Consiglio di amministrazione della Rai sarebbe stato la “carta da spariglio” che Renzi si sarebbe giocato. «Mentre tutti si accanivano sulla nomina di un outsider competente come Freccero o di illustri ma sconosciuti portaborse dentro il nuovo Cda, il presidente del Consiglio aveva la sua carta in mano da giocare», scrive Sergio Cararo. «Questa carta si chiama Monica Maggioni, la ex corrispondente internazionale della Rai che in questi anni aveva “normalizzato” quella che era stata l’isola felice di RaiNews24, allineandola sempre più all’informazione embedded imposta dai poteri forti». Una funzione «a questo punto realizzata e suggerita da uno dei centri di potere più forti: il gruppo Bilderberg». La Maggioni ha partecipato agli incontri di questa organizzazione riservatissima dei potenti del mondo, «facendosi legittimare proprio dalla Rai di cui si apprestava a diventare presidente», come si evince dalla risposta destinata a Roberto Fico, del M5S: sì, la Maggioni è andata al meeting del Bilderberg e a noi va bene così.
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Comprare l’Italia (per poi chiuderla) prima che crolli l’euro
La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – PRIMA prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.Ecco, questa è in pillole la teoria che Mitt Dolcino ha propugnato nei suoi interventi degli scorsi tre anni; forse bisognerebbe ponderare se avesse/avrà o meno ragione, l’acquisto di Italcementi – il più grande cementiere del sud Europa – è un boccone enorme. Di più, un vero banco di prova. Vero che su questo sito si era preconizzata l’acquisizione in passato di Enel da parte dei tedeschi. Altrettanto vero che tale “piece of news” pare fosse informazione accurata, peccato che da una parte l’acquirente in pectore tedesco si stia letteralmente liquefacendo a seguito dei suoi enormi errori manageriali e dei pessimi (relativi al settore) risultati di bilancio (…); dall’altra il duo “governo/Ad di Enel” [bravissimo] hanno saputo tessere una tela ramificatissima e pregevolissima che, anche grazie a supporti esterni (Usa, vedasi l’accordo con Ge per il rinnovabile in Nord America) e all’astuzia del governo con le Tlc in fibra allocate al gigante elettrico, ha esteso le coperture della golden share [e della geopolitica che conta] alla nostra multinazionale dell’energia.Ma ciò non toglie che quello di Italcementi sia un vero simbolo, un passo decisivo nel piano egemonico tedesco, certamente – si teme – solo il primo di una serie: la Germania, avendo compreso che l’euro è destinato a crollare, deve comprare ORA ora le aziende che le fanno concorrenza, soprattutto nella manifattura e soprattutto nel suo settore di elezione, quello primario (cemento, acciaio, energia, autotrazione, chimica etc. ma non nell’oil in quanto ne fu esclusa dopo la sconfitta nell’ultima guerra). O al limite farle chiudere/sperare che chiudano, come la Riva Acciai competitore della iper-problematica ThyssenKrupp (il crollo di Riva a fine del 2011 ha prima di tutto salvato il gigante tedesco dell’acciaio; coincidenza delle coincidenze è che il crollo del nostro gruppo siderurgico sia coinciso con l’alba del governo di Mario Monti e del golpe contro un primo ministro italiano democraticamente eletto, considero il Professore certamente un affiliato o quasi dell’ordoliberismo tedesco, per non dire molto di più).E – lo ripeterò fino allo sfinimento – la Germania deve acquisire i propri competitor in Ue indeboliti dalla crisi PRIMA prima che l’euro si rompa, con il fine di evitare che la svalutazione competitiva italiana spiazzi i suoi giganti nazionali. Ben inteso, sarà facile verificare che Heidelberg ha acquisto Italcementi per farla chiudere o comunque per ridimensionarla, eliminando un competitor. Per altro solo l’aspetto fiscale – tasse molto più basse in Germania che in Italia – giustificherebbe la chiusura della maggioranza delle filiali italiane rispetto a quelle meno tassate/vessate in Germania. Verificate gente, verificate se quanto stiamo asserendo si trasformerà in realtà: in particolare occhio all’occupazione di Italcementi nei prossimi tre/quattro anni ed ai tagli che seguiranno, facile prevedere che finirà come Acciai Speciali Terni simboleggiata nel disastro di Torino, bassi investimenti e chiusura progressiva (speriamo che questa volta almeno si eviti la tragedia). Credetemi, questa storia la conosco davvero bene e non temo – purtroppo – smentita nella visione proposta.E in tutto questo tristissimo epilogo, i nostri politici fanno grande fatica a riconoscere la grave realtà che ci aspetta; questo è l’aspetto più irritante. E soprattutto, a vedere l’ormai evidente protervia tedesca, un piano ben congegnato. Attenti, politici: se la disoccupazione dovesse esplodere per colpa diretta dei tedeschi, stile abbattimento/forte ridimensionamento di Italcementi da parte di Heidelberg, penso che questa volta rischierete davvero di pagarla di fronte ai cittadini, soprattutto vis a vis con le maestranze esodate in forza ad esempio degli effetti del Jobs Act. E ai giovani intraprendenti dico: andatevene da questo paese, se la politica permette che gli stranieri che ci impongono il rigore ci comprino i nostri grandi gruppi a valle all’indebolimento preventivo causato dall’austerity, per voi non c’è futuro. E probabilmente nemmeno per i giovani politici; aspettate per credere, sono pronto a scommettere che da qui a qualche anno saranno loro i responsabili del disastro. Ben inteso, fosse per me chiederei a Mario Monti di emigrare…(“La teoria secondo cui il sistema tedesco deve comprarsi la manifattura italiana prima del crollo dell’euro comuncia ad avverarsi: Italcementi acquistata da Heidelberg”, intervento di “Fantomas” da “Scenari Economici” del 29 luglio 2015).La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.
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Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio
Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Bce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».«Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».(Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
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Il Guardian: perché continuiamo ad eleggere questi idioti
Politici. La loro reputazione è davvero bassa. In tutta onestà, questa è di gran lunga la loro più grande colpa, ma sarebbe stupido pensare che ogni politico sia tale. Se tutti lo fossero, il mondo intero collasserebbe prima ancora che si possano pronunciare le seguenti parole: “posso mettere nel rimborso spese?”. Tutti pensano che i politici siano riprovevoli e quindi pensano sempre al peggio. Un politico mette in atto una cattiva politica? E’ una persona terribile. Cambia idea e fa retromarcia? È debole e non propenso alla leadership. I politici promettono miglioramenti (tagli delle tasse, aumento della spesa)? Naturalmente stanno mentendo. I politici promettono di fare qualcosa di non popolare (aumentare le tasse, tagliare la spesa)? Sarà una garanzia assoluta. È una situazione da cui nessuno esce vivo, quindi perché importunano? Molti politici sono nelle loro posizioni per scopi personali, ma sicuramente ce ne sono tanti che cercano realmente di fare del loro meglio e si rassegnano alle opinioni negative che ricevono.Dunque, per la cronaca, non tutti i politici sono idioti (sebbene la vostra definizione di idiota possa variare). Ma ne è comunque pieno. Gli Stati Uniti sembrano particolarmente toccati dalla questione; Sarah Palin, Ted Cruz, queste persone stavano/stanno contendendo la presidenza. Esempio: George W. Bush è stato presidente. Per 8 anni. L’uomo le cui stupide riflessioni sono state in grado di sostenere affari con un arsenale nucleare al suo comando. Non che il Regno Unito possa sentirsi compiaciuto, con il grado di comprovata idiozia che ha al suo interno. Michael Gove, Chris Graylng, Grant Shapps, Jeremy Hunt, David Tredinnick, un partito laburista ridicolo (un insieme di babbei), l’ascesa dell’Ukip e il caro sindaco Boris Johnson. Un gran numero di persone è pronto a dire che Boris Johnson sia davvero intelligente/pericoloso, e che stia solo facendo finta di essere un buffone. Ma questo supporta la nostra tesi: una persona intelligente deve fingersi stupida per raggiungere il successo politico.Cosa sta succedendo? In teoria, si dovrebbe voler avere una persona intelligente e che capisca l’approccio e i metodi migliori per governare un paese nel miglior modo possibile. Ma non è così, la gente sembra attratta da esempi di discutibile abilità intellettuale. Ci sono tutta una serie di fattori coinvolti tra cui quelli ideologici, culturali, sociali, storici, finanziari; i politici comprendono tutti questi aspetti, ma ci sono anche dei processi psicologici che contribuiscono a questo fenomeno. La sicurezza ispira sicurezza. Le persone sicure di sé sono più convincenti. È stato dimostrato in molti studi. La maggior parte di questi prende spunto dall’ambiente dell’aula di tribunale e suggerisce che un testimone sicuro è più convincente per la giuria rispetto a uno nervoso e titubante (il che ha ovviamente implicazioni preoccupanti per la giustizia), ma può essere dimostrato anche altrove. È un fenomeno che è stato sfruttato per decenni dai venditori di automobili e dagli agenti immobiliari. I politici ne sono chiaramente consapevoli, e così tutti i media e il management delle public relations; un politico che non si presenti convinto e sicuro di sé viene (metaforicamente) distrutto. Dunque la sicurezza è importante in politica.Comunque, l’effetto Dunning-Kruger rivela che le persone meno intelligenti sono incredibilmente sicure di sé. Le persone più intelligenti, al contrario, non lo sono. L’autovalutazione è un’utile abilità metacognitiva, ma richiede intelligenza; se non ne hai abbastanza, non ti consideri con difetti o ignorante, perché non ne hai l’abilità tecnica per farlo. Quindi se vuoi una persona intrinsecamente sicura di sé per rappresentare pubblicamente il tuo partito politico, una persona intelligente sarebbe una cattiva scelta sotto molti punti di vista. Tuttavia questo potrebbe avere un risvolto positivo; alcuni studi hanno evidenziato che quando si dimostra che una persona sicura di sé mente o si sbaglia, viene considerata decisamente meno affidabile e attendibile rispetto a una persona non sicura di sé. Questo può in parte spiegare la cattiva fama dei politici, che riguarda per lo più una serie di persuasive individuali grandi promesse e una serie di miserabili fallimenti nel riuscire a mantenerle. Queste cose disgustano i cittadini. Effettivamente, governare un paese di decine di milioni di persone, ciascuna delle quali ha diverse richieste e necessità, è un lavoro incredibilmente complicato. Ci sono talmente tante variabili che devono essere considerate. Sfortunatamente è impossibile far rientrare tutto ciò in una conveniente formula onnicomprensiva da usare con i media moderni, quindi le personalità cercano di venire alla ribalta più spesso. E le personalità meno intelligenti sono più sicure, quindi più persuasive e così via.La gente è spesso infastidita da temi intellettuali e complessi e più in generale dalle discussioni. Potrebbero non avere esperienza nel tema, o ritenere superfluo avvicinarsi per la quantità di tempo e di sforzo che sarebbe necessaria. Ma la politica, e in particolare la democrazia, richiede una partecipazione attiva delle persone. Diversi studi sulla personalità suggeriscono che molte persone dimostrano una propensione agli obiettivi, una “indole verso lo sviluppo o la dimostrazione di abilità a raggiungere delle situazioni”. Sentire che si sta attivamente influenzando qualcosa (per esempio le elezioni) è una motivazione potente, ma se un qualche tipo ben informato inizia a sparare paroloni su tassi di interesse o sulla mancata gestione dei fondi di health care, questi alienerebbe quelli che non seguono tali questioni e non se ne intendono. Quindi se una persona sicura di sé dice che c’è una soluzione semplice o promette di far sparire le cose difficili, loro sembrano molto più appagati.Questo è anche dimostrato dalla legge sulla banalità di Parkinson, secondo cui le persone passano molto più tempo e sforzo focalizzandosi su qualcosa di effimero che possono capire rispetto a qualcosa di complicato che non possono afferrare. Nella prima situazione, c’è una possibilità più ampia per la partecipazione e l’influenza. E la gente ama davvero le cose effimere, ergo le persone meno intelligenti riducendo i grandi problemi a rapidi (e inaccurati) ritagli sono potenziali vincitori del voto. Alla gente piace connettersi, comunicare. Una delle più citate frasi di George W. Bush era che la gente sentiva che avrebbe potuto “bersi una birra con lui”. Quindi, sentivano che potevano connettersi a lui, sentirlo vicino. Al contrario, l’elitarismo è una qualità negativa. L’idea che coloro che governano il paese siano al di fuori delle norme della società è allarmante per molti e da qui i costanti sforzi dei politici per “rientrare” nella definizione.La maggior parte della gente è naturalmente propensa a preconcetti inconsci, pregiudizi, stereotipi, e preferisce stare nei propri “gruppi”. Nessuna di queste cose è particolarmente logica né supportata da realtà o indizi evidenti e alle persone davvero non piace che venga detto loro quello che non vogliono sentirsi dire. La gente è anche terribilmente attaccata allo status sociale; abbiamo bisogno di sentirci superiori agli altri per pensare che continuiamo a valere la pena. Come risultato, qualcuno più intelligente dicendo cose complicate che contengono fatti scomodi (e accurati) non susciterà interesse alcuno, e qualcuno chiaramente meno intelligente che non andrà a turbare la percezione dello status sociale se dirà cose semplici e magari intrinseche di pregiudizi che negano quei fatti scomodi, ancora meglio. È una situazione infelice, ma questo sembra essere il modo in cui funziona la mente delle persone. C’è molto di più di quanto detto in queste righe, ma includendo più aspetti avremmo reso il tutto più complicato e questo, come risulta da quanto detto fino ad ora, non è il modo per far piacere le cose alla gente.(Dean Burnett, “Perché continuamo a eleggere degli idioti – democrazia vs psicologia”, dal “Guardian” del 28 aprile 2015, tradotto da Guendalina Anzolin per “Come Don Chisciotte”).Politici. La loro reputazione è davvero bassa. In tutta onestà, questa è di gran lunga la loro più grande colpa, ma sarebbe stupido pensare che ogni politico sia tale. Se tutti lo fossero, il mondo intero collasserebbe prima ancora che si possano pronunciare le seguenti parole: “posso mettere nel rimborso spese?”. Tutti pensano che i politici siano riprovevoli e quindi pensano sempre al peggio. Un politico mette in atto una cattiva politica? E’ una persona terribile. Cambia idea e fa retromarcia? È debole e non propenso alla leadership. I politici promettono miglioramenti (tagli delle tasse, aumento della spesa)? Naturalmente stanno mentendo. I politici promettono di fare qualcosa di non popolare (aumentare le tasse, tagliare la spesa)? Sarà una garanzia assoluta. È una situazione da cui nessuno esce vivo, quindi perché importunano? Molti politici sono nelle loro posizioni per scopi personali, ma sicuramente ce ne sono tanti che cercano realmente di fare del loro meglio e si rassegnano alle opinioni negative che ricevono.
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Troppi dipendenti pubblici? E’ una leggenda metropolitana
I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.Pura fantascienza, in Svezia, i 135 lavoratori pubblici ogni mille abitanti. Ci batte solo la “risparmiosa” Germania: il paese europeo che più di ogni altro ha compresso i salari e danneggiato i lavoratori annovera 54 dipendenti statali ogni mille cittadini, 4 meno dell’Italia. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni il nostro paese ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri partner europei hanno assunto forza lavoro nel pubblico impiego: un incremento del 36,1% in Irlanda, del 29,6% in Spagna, del 12,8% in Belgio e del 9,5% nel Regno Unito. In Italia, gli stipendi del pubblico impiego pesano sul bilancio statale per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche qui siamo il fanalino di coda: per i dipendenti pubblici la Danimarca spende il 19,2% del suo Pil, la Svezia e la Finlandia il 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del loro prodotto interno lordo. Altra bufala storica: la concentrazione del pubblico impiego al Sud: con 409.000 addetti, la Lombardia batte persino il Lazio, nonostante la selva di uffici della capitale. Segue la Campania, ma dopo Milano e Roma.Quanto alla vita quotidiana dietro agli sportelli, sono dolori: l’età media dei dipendenti pubblici è in costante crescita, per colpa del blocco del turnover e dell’aumento dell’età pensionabile. In Francia, circa il 30% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, nel Regno Unito gli “under 35” sono il 25% (uno su quattro) mentre in Italia solo il 10%. La percentuale di addetti sotto i 25 anni, inoltre, è pari all’1,3%: una miseria, rileva “Lettera 43”, nonché il segno che il rapporto fra le università e la pubblica amministrazione è tutt’altro che lineare. Roberto Perotti, economista della Bocconi, confronta i nostri stipendi pubblici con quelli del Regno Unito: «Le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil pro capite». Nel nostro paese lo stipendio di un docente delle scuole elementari, incluse le indennità e le spese accessorie, è di 24.849 euro contro i 37.400 (in media) degli inglesi. Idem per gli insegnanti delle superiori: 28.547 euro, contro i 41.930 euro dei britannici. In compenso, nei ministeri, un nostro capo di gabinetto guadagna 275.000 euro l’anno contro i 192.000 del collega inglese, una differenza del 43%. E’ la casta, bellezza: quella che serve ad affondare il sistema, sabotando la “concorrenza” pubblica che tanto infastidisce l’élite privatizzatrice.I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.
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Bravi, lavorate da casa: così vi sfrutteremo ancora di più
Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.In questo modo i principi di autonomia, responsabilità individuale e libertà da costrizioni gerarchiche dirette, elaborati dal management postfordista (e copiati di peso, come dimostra un bel libro di Boltanski tradotto da Mimesis intitolato “Il nuovo spirito del capitalismo”, dalla cultura dei movimenti post sessantottini), vengono resi perfettamente compatibili con i principi del taylorismo: autocontrollo e autosfruttamento sostituiscono il controllo da parte di capiufficio e capisquadra. Non basta: per rendere ancora più efficace il sistema, occorre “emancipare” il lavoratore anche dalla vicinanza fisica con i capi, virtualizzare il loro rapporto. Ecco perché, come apprendiamo da un altro articolo pubblicato dall’“Huffington Post”, il telelavoro – dopo un periodo in cui sembrava avere perso appeal, smentendo le profezie entusiastiche dei guru della rivoluzione digitale – torna di attualità, al punto che anche Yahoo – società simbolo della New Economy, che qualche anno fa aveva imposto ai dipendenti che praticavano il telelavoro di rientrare in azienda – ha cambiato idea e ora favorisce l’esodo di chi preferisce lavorare da casa.Questa inversione di tendenza si spiega con il fatto che molte ricerche hanno dimostrato che i lavoratori a domicilio sono più produttivi, lavorano più ore (perdendo consapevolezza della differenza fra tempo di lavoro e tempo libero), fanno meno pause, non si danno mai malati; in poche parole: si auto sfruttano selvaggiamente. Per spiegare questa docilità autoimposta alle esigenze di valorizzazione del capitale non basta evocare l’indebolimento dei rapporti di forza delle classi subordinate, logorate dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”: disoccupazione, individualizzazione, desindacalizzazione, che li inducono a ingaggiare una spietata guerra fra poveri per “meritarsi” un salario; la catastrofe è in primo luogo frutto della disfatta culturale provocata dalla conversione delle sinistre all’ideologia liberista. Una conversione che, per la socialdemocrazia, ha assunto la forma della “sottomissione” (per citare Houellebecq) al dio mercato, per i “nuovi movimenti” quella dell’emancipazionismo individuale e identitario.(Carlo Formenti, “Telelavoro e autosfruttamento”, da “Micromega” del 22 marzo 2015).Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.
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Un’azienda svedese innesta microchip ai propri dipendenti
C’è un palazzo, in Svezia, dove si supera l’ingresso protetto semplicemente sfiorando un sensore con il dorso della mano. Il trucco? Sotto la pelle è stato installato un microchip, per identificare ogni dipendente. Lo rivela un breve servizio televisivo di “EuroNews”, nella rubrica “Hi-Tech”, che mostra belle ragazze entrare e uscire dal complesso ultramoderno “Epicenter”, a Stoccolma, che ospita «imprese innovative» e si propone di accorpare aziende grandi e piccole dell’hi-tech sotto lo stesso tetto. «Gli impiegati possono aprire le porte con un chip impiantato nella mano», annuncia con soave naturalezza lo speaker di “EuroNews”. «L’Rfid, identificazione radio-frequenze, è un chip in pirex che contiene antenna e microchip: al posto del codice di accesso, l’impiegato deve solo portare la mano davanti al sensore». E attenzione, il dispositivo non serve solo per l’apertura delle porte: «Il personale può attivare la fotocopiatrice e scambiarsi dati tramite Smartphone». Ma è solo l’inizio: i dipendenti-cavia aiuteranno a sviluppare questa tecnologia verso impieghi fino a ieri inimmaginabili.«Il chip – spiega Patrick Mesterton, co-fondatore di Epicenter – ha la dimensione di un grosso chicco di riso, circa 12 millimetri, e si applica sottopelle con una siringa». Inviando il codice Rfid, il chip «diventa uno strumento di identificazione che può comunicare con gli oggetti circostanti». Insomma, per Mesterton la cimice ultra-piccola è estremamente pratica: «Può aprire le porte, può comunicare col telefono cellulare, può inviare il vostro biglietto da visita alle persone che avete incontrato». Per ora le prestazioni del chip sottocutaneo sono limitate, ammette “EuroNews”, ma l’obiettivo è esplorare le possibilità che rappresenta, e ovviamente svilupparle. «La speranza – spiega l’emittente televisiva – è che gli impiegati dell’edificio potranno acquistare pasti in mensa e controllare la loro salute tramite il chip». A tal punto, infatti, si spingono le possibili espansioni della microspia sottopelle, destinata a esercitare un controllo totale sulla persona che ha accettato di farsela inserire nel corpo.«Alcune delle future possibilità – conferma lo stesso Mesterton – investono la funzione dell’odierno Pin, della carta di credito: quindi i pagamenti sono uno degli ambiti». Ma non è tutto. «Penso alla salute», continua il manager svedese, «per comunicare col medico e trasmettere i parametri corporei in relazione a quello che mangi e al tuo stato di salute generale». Monitoraggio elettronico in tempo reale, quindi, interamente tracciato. «Solo i volontari si fanno installare il chip», precisa “EuroNews”, secondo cui l’aggeggio «è totalmente sicuro», dal punto di vista dell’incolumità fisica del portatore. «Il metallo interno è pochissimo», dunque nessun fastidio coi metal detector, assicura “EuroNews”. «E niente rischi di rottura».C’è un palazzo, in Svezia, dove si supera l’ingresso protetto semplicemente sfiorando un sensore con il dorso della mano. Il trucco? Sotto la pelle è stato installato un microchip, per identificare ogni dipendente. Lo rivela un breve servizio televisivo di “EuroNews”, nella rubrica “Hi-Tech”, che mostra belle ragazze entrare e uscire dal complesso ultramoderno “Epicenter”, a Stoccolma, che ospita «imprese innovative» e si propone di accorpare aziende grandi e piccole dell’hi-tech sotto lo stesso tetto. «Gli impiegati possono aprire le porte con un chip impiantato nella mano», annuncia con soave naturalezza lo speaker di “EuroNews”. «L’Rfid, identificazione radio-frequenze, è un chip in pirex che contiene antenna e microchip: al posto del codice di accesso, l’impiegato deve solo portare la mano davanti al sensore». E attenzione, il dispositivo non serve solo per l’apertura delle porte: «Il personale può attivare la fotocopiatrice e scambiarsi dati tramite Smartphone». Ma è solo l’inizio: i dipendenti-cavia aiuteranno a sviluppare questa tecnologia verso impieghi fino a ieri inimmaginabili.
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Sbrighiamoci a morire, l’immortalità è solo per loro
Confondere il corpo umano con la merce, oltre che un orrore, può rivelarsi una dolorosa illusione. Eppure non può passare inosservata la notizia diffusa da alcuni media statunitensi come “Newsweek” o “Bloomberg”, secondo cui i miliardari stanno mettendo fretta e milioni di dollari alla ricerca della vita semi-eterna. Per loro, ovviamente. Bill Maris, manager di Google Ventures, ha ricevuto l’incarico di investire ben 425 milioni di dollari per finanziare studi contro l’invecchiamento, mentre Larry Elison, big boss di Oracle, considera “incomprensibile” la nozione della propria fine. Peter Thiel, patron del sistema di pagamenti PayPal, ha stanziato 3,5 milioni di dollari ad una fondazione privata per un progetto di riparazione e rigenerazione delle cellule. Dalle nostre parti il pensiero corre alle note incursioni di Berlusconi sul terreno dell’intervento sulle cellule per rallentarne l’invecchiamento. Gli scopi e i contorni di questa vicenda, come noto, corrono al confine tra la politica e il pecoreccio.Eppure questa illusione di poter vivere più a lungo, ma soprattutto molto più di tanti altri, ci dà la cifra di cosa significhi la prevalenza degli interessi privati su quelli collettivi, o meglio dell’appropriazione privata della produzione sociale, direbbe il grande barbone di Treviri. Nell’epoca in cui nella produzione sociale sono entrati a pieno titolo il “vivente” e la natura, per i grandi capitalisti anche il corpo umano non può che essere merce. Incluso il loro, ma a condizione che sia meno deteriorabile di quello di tutti gli altri. Vivere più a lungo, sogno ma anche incubo di ogni essere umano, come ci ricorda Simon De Beauvoir nel suo splendido “Tutti gli uomini sono mortali”, diventa così paradigmatico di un XXI Secolo in cui la disuguaglianza è tornata ad essere un valore e l’uguaglianza un disvalore.Sul nostro giornale abbiamo spesso evocato il “Dovete morire prima” come aspirazione neanche più troppo nascosta delle classi dominanti nel loro rapporto con le classi subalterne. Meccanismi concreti come l’innalzamento dell’età pensionabile, peggioramento delle condizioni di lavoro e abbassamento degli standard sanitari, indubbiamente puntano a ridurre quelle aspettative di vita cresciute nell’ultimo secolo ma oggi ritenute un “costo inaccettabile” (vedi i recenti documenti del Fmi). Su scala mondiale, dove nonostante le disuguaglianze l’aspettativa di vita era riuscita a crescere anche nei paesi meno sviluppati, non mancano i tentativi di intervento per ridurre la popolazione ritenuta in eccesso. Il caso storico è quello della Russia dove l’instaurazione del capitalismo, dopo la dissoluzione dell’Urss, ha portato ad una brusca riduzione della popolazione, un caso unico in un paese non investito da una guerra.Il problema è serio, estremamente serio, come hanno dimostrato alcuni interventi al recente forum di Bologna dedicato al “piano inclinato” su cui gli imperialismi hanno collocato il mondo in cui viviamo. Fabbriche completamente automatizzate, in cui la presenza del lavoro umano è ridotta a poche unità, rendono infatti eccedente molta forza lavoro, quel capitale umano – decisivo comunque per l’estrazione del plusvalore – che il capitalismo vorrebbe rendere variabile irrilevante e totalmente subalterna. Ma una umanità piena di capitale umano in eccesso sarebbe piena di uomini e donne ingombranti, non più funzionali al sistema produttivo e all’estrazione di valore, gente che oggi vive più a lungo di quanto sia utile al sistema dominante e che, ovviamente , avanza richieste ed esigenze per mantenersi in vita nel modo migliore possibile in società che hanno prodotto sistemi di cura e prevenzione adeguati allo scopo.Dunque per prima cosa le classi dominanti stanno dichiarando che non esiste più un diritto universale ed egualitario alla salute. La privatizzazione de facto dei sistemi sanitari (anche in Italia ed anche nelle ex regioni “rosse”, come sottolinea Ivan Cavicchi su “Il Manifesto”) attua questo primo step verso una società brutalmente gerarchizzata. Si cura chi può e chi può di più si cura meglio.Talmente meglio che, potendoselo permettere, può alimentare l’illusione di poter vivere più a lungo degli altri. Anzi, per molti aspetti a scapito degli altri, visto che la concentrazione della ricchezza in poche mani non può che avvenire in sottrazione della ricchezza collettiva. Fino a qualche decennio fa “il sistema” aveva fatto sì che lo sviluppo allargasse e distribuisse in qualche modo la ricchezza prodotta, anche sotto forma di servizi sociali universali. Ma oggi che allo sviluppo si è sostituito solo il “demone della crescita”, questo allargamento si è sempre più ridotto, così come le risorse disponibili dentro un globo che, per sua definizione è uno spazio limitato.Da questa consapevolezza del limite e dei limiti, le classi dominanti si guardano bene dal ricavarne una logica redistributiva delle risorse e della ricchezza disponibile, al contrario accentuano la centralizzazione, a tutti i livelli. E se tra queste risorse c’è anche il vivente e il capitale umano, viene applicata la medesima logica. “Mors vostra, vita nostra”, ci dicono. Fino ad alimentare l’idea che per alcuni si possa allungare la vita media oltre il limite fisiologico finora consentito. Ma, detto fra noi, dieci, quindici anni più si potranno anche rimediare, ma non evitano l’alzheimer. Ci troviamo così di fronte ad un cambio di passo anche sul terreno del conflitto sociale e di classe. Se negli anni del “modello sociale europeo” le classi subalterne entravano in campo rivendicando ed anche ottenendo quote di redistribuzione della ricchezza, oggi che questa possibilità viene negata sul lavoro come sulla salute da misure concrete. Come ci si approccia ad una lotta di clase che per molti aspetti somiglia a quella per la sopravvivenza? Qualcuno diceva che la “rivoluzione non è un pranzo di gala”. Sarà dunque il caso di cominciare a pensare, collettivamente e non invidualmente, al come sedersi a tavola senza complessi di inferiorità e liberi dalla sensazione di dover essere ancora la cena per il Mondo di sopra. Insomma: “Mors vostra, vita nostra?”.(Sergio Cararo, “La vita e la morte al supermercato”, da “Contropiano” dell’11 marzo 2015).Confondere il corpo umano con la merce, oltre che un orrore, può rivelarsi una dolorosa illusione. Eppure non può passare inosservata la notizia diffusa da alcuni media statunitensi come “Newsweek” o “Bloomberg”, secondo cui i miliardari stanno mettendo fretta e milioni di dollari alla ricerca della vita semi-eterna. Per loro, ovviamente. Bill Maris, manager di Google Ventures, ha ricevuto l’incarico di investire ben 425 milioni di dollari per finanziare studi contro l’invecchiamento, mentre Larry Ellison, big boss di Oracle, considera “incomprensibile” la nozione della propria fine. Peter Thiel, patron del sistema di pagamenti PayPal, ha stanziato 3,5 milioni di dollari ad una fondazione privata per un progetto di riparazione e rigenerazione delle cellule. Dalle nostre parti il pensiero corre alle note incursioni di Berlusconi sul terreno dell’intervento sulle cellule per rallentarne l’invecchiamento. Gli scopi e i contorni di questa vicenda, come noto, corrono al confine tra la politica e il pecoreccio.
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Io, il greco e la spagnola. Felici al macello, senza saperlo
Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.Io a lei le ho detto, mentre lui era in bagno: «Marx diceva che non è la coscienza degli uomini a creare il loro essere sociale; al contrario, è il loro essere sociale che crea la loro coscienza». Per lei non era giusto. Lui mi dice: «Se il figlio del padrone della Nike fosse un mio amico, io parlando con lui riuscirei a cambiarlo. E poi quano prenderà il posto del padre non sarà una merda come lui». E io gli rispondo: «Ma lui ha interessi diversi dai tuoi, dai miei. Davvero speri di cambiarlo?». Lui mi risponde deciso: «Sì». Lei: «Non credo nei muri e nelle frontiere». Lui: «Il cambiamento deve partire da noi stessi», e poi sparecchia al posto della cameriera. Perché dei valori buoni finiscono ad asservire gli interessi del grande capitale internazionale?Lei ha una fotocamera Canon, lui una macchina giapponese credo, non so la marca. Mi dicono che i soldi non sono niente. Io gli dico: «Allora la birra che ci stiamo bevendo é niente?». Sguardo in un altra direzione. Nel frattempo i manager dell’Hitachi stavano brindando per l’acquisto dell’Ansaldo. I soldi che faranno non saranno redistribuiti fra i lavoratori, verranno investiti in borsa in qualche titolo ad alto rendimento. La discussione é iniziata perché lui nota al mio polso un braccialetto comprato dai giamaicani in piazza Monastiraki. Loro dicono che i giamaicani sono invandenti, non rispettano il volere degli altri e assillano la gene finché non comprano un braccialetto. Io provo a dire loro che per i giamaicani immigrati è questo il lavoro che possono fare, perché la comunità giamaicana qui fa così. Poi si é passati ai pakistani che lapidano le donne. Da lì gli ho detto che dobbiamo lasciare in pace quei popoli e dare loro la possibilità di autodeterminarsi. Da lì i lavoratori sfruttati della Nike, ecc.Persone che viaggiano molto, vedono diverse culture, diverse storie poi non capiscono un cazzo di come funziona la società. Perché l’individuo sta al centro, le genti si mischiano, ecc. Ma in un mondo di genti mischiate, se noi viaggiamo, in realtà sarà come viaggiare sempre nello stesso posto. E gli individui saranno tutti così uguali che parlare diventerà come pensare fra noi stessi. Della politica non gliene frega un cazzo. Non conta, dicono. A lui gli ho detto io l’ultima proposta di legge di Varoufakis. Lei fa video girando il mondo, prendendo due soldi di qua e di là. E li spende tutti viggiando. Lui non so che lavoro fa. Ma a 36 anni se esci la sera a bere è perché non guadagni abbastanza. Quando provo a dirgli che i nostri genitori alla nostra età guadagnavano più di noi il discorso si blocca. La politica, l’economia, non contano un cazzo. Siamo tutti cittadini del mondo. Dobbiamo avere rispetto gli uni degli altri e tutte le cose andranno bene. Il mondo cambierà. Elites neoliberiste brindate. Un esercito di schiavi consapevoli della loro libertà vi sta dinnanzi. La spagnola me la sono giocata. E ci stava. Ma non riesco a fare sì con la testa.(“Il cosmopolitismo individualista”, dal blog “Vox Populi” del 6 marzo 2015).Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.
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Contro l’arte del brutto, schiava del sistema delle merci
Cos’è che consente di accrescere la produzione annua di merci e, di conseguenza, incrementa i consumi di risorse naturali e di energia, le emissioni inquinanti, le emissioni climalteranti e i rifiuti? Le innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività. I macchinari innovativi che in un dato intervallo di tempo consentono di produrre sempre di più, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Cos’è che riduce progressivamente gli intervalli di tempo in cui le risorse naturali transitano nello stato di merci prima di diventare rifiuti? Le innovazioni tecnologiche ed estetiche finalizzate a rendere obsoleti i prodotti in commercio, al fine di accelerare i processi di sostituzione.Cos’è che induce a progettare in continuazione prodotti tecnologicamente ed esteticamente innovativi, al fine di rendere obsoleti e trasformare in rifiuti in tempi sempre più brevi i prodotti in commercio? La necessità di tenere alta la domanda di merci, in modo da assorbire l’offerta crescente di merci attivata dalle innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività. Le innovazioni di processo e di prodotto costituiscono la fisiologia dei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci.Senza innovazioni di processo non potrebbe aumentare l’offerta di merci. Senza innovazioni di prodotto non potrebbe aumentare la domanda di merci. Le innovazioni di processo e di prodotto stanno esaurendo gli stock delle risorse non rinnovabili, hanno fatto crescere il consumo di risorse rinnovabili fino a superare le loro capacità di rigenerazione annua, sono la causa di fondo dell’effetto serra, stanno svuotando gli oceani di molte specie ittiche e li stanno riempiendo di ammassi di rifiuti di plastica grandi come continenti, hanno saturato la biosfera di sostanze tossiche, distrutto in pochi anni la bellezza di paesaggi lentamente antropizzati nel corso di secoli, ridotto la biodiversità e mineralizzato i terreni agricoli, esteso la fame nel mondo e causato le guerre sempre più atroci che da più di un secolo lo insanguinano. Le innovazioni finalizzate alla crescita della produzione e del consumo di merci stanno minacciando la sopravvivenza stessa dell’umanità. Poiché hanno bisogno delle innovazioni, i sistemi economici e produttivi finalizzati alla crescita della produzione di merci hanno anche bisogno di valorizzare culturalmente l’innovazione in quanto tale. La pietra angolare della cultura su cui modellano l’immaginario collettivo è l’identificazione tra i concetti di innovazione e di miglioramento.Nel loro paradigma culturale ogni innovazione è un miglioramento, senza innovazioni non ci sono miglioramenti; la storia è un costante progresso verso il meglio, le tappe di questo progresso sono scandite dalla successione delle innovazioni e la sua velocità dalla velocità con cui le innovazioni successive sostituiscono le precedenti. La valorizzazione culturale dell’innovazione in sé induce a immaginare il futuro come uno scrigno di inesauribili potenzialità di miglioramento su cui concentrare tutta l’attenzione, a pensare il passato come un deposito di materiali definitivamente inutilizzabili da dimenticare al più presto, a guardare sempre in avanti, come i marinai di vedetta in cima all’albero maestro dei galeoni, per riuscire a vedere prima degli altri le novità che si delineano all’orizzonte, a non girare mai indietro la testa perché se ci si attarda a osservare ciò che è stato non solo non si ricava niente di utile, ma si rischia di perdere posizioni nella corsa verso il nuovo e si finisce per fare la fine di Orfeo che, per essersi girato a vedere se Euridice continuava a seguirlo nella difficile anabasi dall’al di là, la perse definitivamente.Nella valorizzazione culturale dell’innovazione, all’arte è stato assegnato il compito di esplorare i confini più avanzati della modernità, cioè di rincorrere senza sosta il nuovo che, come l’orizzonte, si allontana passo dopo passo da chi cerca di avvicinarlo, perché c’è sempre un più nuovo in agguato del nuovo, un più nuovo che al suo apparire trasforma il nuovo in vecchio, in attesa di essere trasformato anch’esso in vecchio dal più nuovo che scalpita alle sue spalle. Nei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci, l’arte, in tutte le forme in cui si manifesta (pittura, scultura, musica, poesia, architettura), è stata scacciata di forza dalla sua dimensione universale ed eterna e ha finito per trovarsi rinchiusa nella dimensione dell’effimero. Le è stato imposto di essere innovativa per essere sempre contemporanea, di sganciare il nuovo dall’abbraccio troppo stretto con le funzioni economiche e produttive a cui risponde nei sistemi economici finalizzati alla crescita, di cancellare dall’immaginario collettivo la percezione del suo ruolo distruttivo e di accompagnarlo in quella dimensione spirituale, non invischiata nelle miserie quotidiane della vita, in cui nel corso della storia gli esseri umani si sono abituati a collocare le manifestazioni artistiche.Per risvegliare l’umanità da questo incantesimo che la sta perdendo, occorre liberare la cultura dal vincolo della valorizzazione dell’innovazione, che le è stato imposto dal sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione di merci. Accanto e in sintonia con chi si propone di liberare le attività economiche e produttive dal vincolo delle innovazioni finalizzate alla crescita, noi ci proponiamo di liberare tutte le forme dell’espressione artistica dal vincolo di valorizzare culturalmente l’innovazione, che ha dato un contributo essenziale alla formazione di un immaginario collettivo che considera un progresso la riduzione del lavoro a un “fare per fare sempre di più”. Per riportarlo alla sua essenza di “fare bene” finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto, occorre ridefinire un sistema di valori in cui la bellezza torni ad essere più importante del profitto: perché, come si può contemplare ciò che si è fatto se non ha aggiunto bellezza alla bellezza originaria del mondo?Per trasformare dalle fondamenta il paradigma culturale oggi dominante, è necessario ricostruire un immaginario collettivo capace non solo di smascherare, irridendoli senza soggezione, i quattro trucchi da imbonitore con cui l’arte contemporanea persegue la valorizzazione culturale dell’innovazione, ma anche di riconoscere il segno dell’arte che penetra sino alle corde profonde dell’animo umano, vincendo i limiti dello spazio e del tempo; creando, come ha sempre fatto prima di essere irretita nella tela della modernità, un collegamento ininterrotto tra le generazioni. Perché l’arte, come ha scritto Egon Schiele sul muro della prigione in cui era rinchiuso, non è moderna. L’arte è eterna.(Manifesto “Per un rinascimento possibile”, sottoscritto da Gabriella Arduino, architetto e pittore; Vincent Cheynet, caporedattore de “La Décroissance”; Pier Paolo Dal Monte, medico e filosofo; Massimo De Maio, grafico ed ecologista; Filippo Laporta, saggista e critico letterario; Giordano Mancini, maestro d’arte, green manager; Maurizio Pallante, saggista; Alessandro Pertosa, ricercatore in filosofia; Mario Pisani, architetto; Paolo Portoghesi, architetto; Giannozzo Pucci, editore; Bruno Ricca, editore; Lucilio Santoni, scrittore; Filippo Schillaci, saggista).Sui temi enunciati dal “manifesto”, i firmatari – impegnati anche sul sito www.artedecrescita.it, promuovono un seminario a Firenze il 29, 30 e 31 maggio 2015 presso il monastero delle suore benedettine di Santa Marta, tel. 055.489089, pensione completa 45-65 euro al giorno, 60 posti disponibili. E’ possibile contribuire ai lavori anche inviando testi e materiali sul tema, entro il 31 marzo. Invio materiali e prenotazioni per il seminario: Maurizio Pallante, maur.pallante@gmail.com, Alessandro Pertosa, a.pertosa@libero.it, Vincent Cheynet, vincent.cheynet@casseursdepub.org).Cos’è che consente di accrescere la produzione annua di merci e, di conseguenza, incrementa i consumi di risorse naturali e di energia, le emissioni inquinanti, le emissioni climalteranti e i rifiuti? Le innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività. I macchinari innovativi che in un dato intervallo di tempo consentono di produrre sempre di più, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Cos’è che riduce progressivamente gli intervalli di tempo in cui le risorse naturali transitano nello stato di merci prima di diventare rifiuti? Le innovazioni tecnologiche ed estetiche finalizzate a rendere obsoleti i prodotti in commercio, al fine di accelerare i processi di sostituzione. Cos’è che induce a progettare in continuazione prodotti tecnologicamente ed esteticamente innovativi, al fine di rendere obsoleti e trasformare in rifiuti in tempi sempre più brevi i prodotti in commercio? La necessità di tenere alta la domanda di merci, in modo da assorbire l’offerta crescente di merci attivata dalle innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività. Le innovazioni di processo e di prodotto costituiscono la fisiologia dei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci.