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Fuga in Svizzera, lontano dal crollo del made in Italy
Aumento del costo del lavoro, bassa competitività del made in Italy e prezzi alle stelle per l’energia, i più alti dell’Unione Europea insieme a Cipro. Si salvi chi può: è il motto degli imprenditori italiani travolti dalla deinstrustrializzazione, dall’eccessiva burocrazia e dal basso livello d’investimenti in ricerca e sviluppo. A monte, il terremoto finanziario aggravato dall’Eurozona. Dal 2007 a oggi, osserva Loretta Napoleoni, la produzione industriale italiana è crollata del 20%. «Di fronte alla nave che affonda, chi sa nuotare si getta in acqua per raggiungere la terraferma: è quello che hanno cercato di fare le 682 imprese che hanno risposto all’invito del sindaco di Chiasso, per partecipare a un incontro sulla possibilità di trasferirsi in Svizzera». Tutto ciò succede mentre due colossi italiani come Telecom e Alitalia (e presto anche sezioni di Finmeccanica) vengono svenduti sul mercato internazionale ai partner-concorrenti stranieri, rispettivamente Telefonica ed Air France-Klm. Sono le ultime firme di una lunga lista – dalla Ducati alla Plasmon fino alla Fiat, ormai in rotta verso gli Usa – a diventare di proprietà straniera.«Con la pressione fiscale più alta in Europa, costi di produzione astronomici ed una burocrazia da terzo mondo, lavorare bene in Italia ed essere competitivi non è più possibile», scrive la Napoleoni in un post ripreso da “Megachip”. In Svizzera invece la situazione è diametralmente opposta: l’Iva è ancora ferma all’8%, la pressione fiscale media sulle imprese è del 17,1%, quella complessiva è meno della metà del 68,3% imposto alle aziende italiane. Chi investe a Chiasso, come in tutto il Ticino, e assume lavoratori locali, ha la possibilità di ottenere rimborsi sugli oneri sociali. Infine, chi punta in settori innovativi come quelli tecnologici, ha la possibilità di ottenere aiuti sugli investimenti. «La deindustrializzazione colpisce tutte le imprese ed è frutto, per le piccole, della pessima gestione dell’economia». Sulle grandi aziende pesa anche la pessima conduzione manageriale, «da parte di individui scelti dai politici egualmente incompetenti».E’ il caso di Alitalia: nel 2008 i francesi offrirono 6,5 miliardi di euro per gli investimenti necessari a far ripartire l’impresa in cambio del pacchetto di maggioranza dell’azienda, ma Berlusconi – allora in campagna elettorale – disse di no e guidò l’Operazione Fenice, alla quale parteciparono alcuni suoi “accoliti”, industriali e manager, con lo scopo di far rimanere italiana la storica compagnia di bandiera. «Risultato: oggi l’Alitalia trasporta circa 25 milioni di passeggeri, meno di un quarto di quelli di Lufthansa e meno di un terzo di quelli della compagnia low cost Ryanair e del gruppo franco-olandese Air France-Klm. Un disastro!». Lo Stato italiano, continua Napoleoni, ha buttato quattro miliardi di euro per sanare il fallimento dell’Alitalia, e la cordata di imprenditori capitanata da Roberto Colaninno e Intesa Sanpaolo ha perso un altro milione. Le leggi ad hoc varate dal governo Berlusconi sulla chiusura del mercato, col divieto d’intervento per l’Antitrust sulle tratte monopolistiche detenute dalla nuova Alitalia, non hanno funzionato. «Il destino triste dell’industria italiana è segnato dall’inettitudine della sua classe politica». Così, per molti, «trasferirsi in Svizzera è l’unica alternativa al declino».Nel 1992, dopo la storica svalutazione competitiva della lira, Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – ha guidato i primi “saldi all’italiana” sul mercato internazionale: multinazionali angloamericane, ma anche francesi e svizzere, sono piombate in Italia per “fare shopping”, in cerca di società da comprare a poco prezzo, specie nel settore agroalimentare e in quello della meccanica di precisione. La Nestlé, per esempio, ha comprato l’Italgel per 680 miliardi di lire, contro una valutazione di 750. Anche i giganti italiani, però, hanno guadagnano dallo smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton, ricorda Loretta Napoleoni, si è aggiudicato per 470 miliardi Gs autogrill, che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour per 10 volte tanto. Cedute anche le grandi compagnie di servizi: privatizzata totalmente la Telecom, oggi fagocitata dalla Telefonica spagnola, e parzialmente l’Enel e l’Eni. Ma la svendita del made in Italy non ha portato, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Al contrario: ha contribuito al processo di deindustrializzazione che oggi preoccupa la Commissione Europea. Lo provano le cifre, conclude l’analista: «Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, mentre il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5%».Aumento del costo del lavoro, bassa competitività del made in Italy e prezzi alle stelle per l’energia, i più alti dell’Unione Europea insieme a Cipro. Si salvi chi può: è il motto degli imprenditori italiani travolti dalla deinstrustrializzazione, dall’eccessiva burocrazia e dal basso livello d’investimenti in ricerca e sviluppo. A monte, il terremoto finanziario aggravato dall’Eurozona. Dal 2007 a oggi, osserva Loretta Napoleoni, la produzione industriale italiana è crollata del 20%. «Di fronte alla nave che affonda, chi sa nuotare si getta in acqua per raggiungere la terraferma: è quello che hanno cercato di fare le 682 imprese che hanno risposto all’invito del sindaco di Chiasso, per partecipare a un incontro sulla possibilità di trasferirsi in Svizzera». Tutto ciò succede mentre due colossi italiani come Telecom e Alitalia (e presto anche sezioni di Finmeccanica) vengono svenduti sul mercato internazionale ai partner-concorrenti stranieri, rispettivamente Telefonica ed Air France-Klm. Sono le ultime firme di una lunga lista – dalla Ducati alla Plasmon fino alla Fiat, ormai in rotta verso gli Usa – a diventare di proprietà straniera.
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Ansaldo Energia, solita privatizzazione a nostre spese
L’operazione Ansaldo Energia va studiata da vicino, perché se ci si fermasse agli astrusi comunicati di Finmeccanica e del Fsi, il Fondo Strategico Italiano, la cosa resterebbe avvolta nel più fitto mistero. Società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’economia, il Fsi ha comprato il 100% di Ansaldo Energia, di cui da tempo Finmeccanica (pubblica) voleva sbarazzarsi per fare un po’ di cassa e ridurre l’indebitamento. In questa strana ri-nazionalizzazione, rivela Giorgio Meletti, non un solo euro verrà utilizzato per lo sviluppo di Ansaldo Energia, destinata ad essere al più presto rivenduta. Ma il punto più doloroso è un altro: già in passato, Finmeccanica ha svenduto alla finanza parti della holding, strategica per l’Italia. Due anni fa, sotto la guida di Pier Francesco Guarguaglini e Giuseppe Orsi, per pagare a primavera 2011 agli azionisti un dividendo di 237 milioni di euro, a dispetto delle condizioni già critiche del gruppo, Finmeccanica decise di svendere al fondo americano First Reserve il 45% di Ansaldo Energia, per la cifra di 225 milioni.«Bastava non pagare il dividendo e tenersi l’Ansaldo Energia, direbbe l’anima semplice. Ma se si fosse fatto ciò che il buonsenso comanda – scrive Meletti sul “Fatto Quotidiano – non ci sarebbero state le parcelle per gli studi legali, le consulenze per le banche d’affari, e non si sarebbero fatte le acrobazie grazie alle quali, incassando solo 225 milioni, si attribuì all’Ansaldo Energia un valore d’impresa di 1,2 miliardi di euro, con gli ovvi vantaggi di imbellettamento del bilancio». Dopo poco più di due anni, il capo di First Reserve, «che nonostante il nome esotico è l’italianissimo Francesco Giuliani, ex manager di Finmeccanica e di General Electric», torna a Roma e rivende il suo 45% al Fondo strategico per 387 milioni, con una plusvalenza del 72% in due anni. Un affarone clamoroso per il fondo First Reserve, «un disastro per gli interessi generali degli italiani, che attraverso lo Stato possiedono solo il 30% di Finmeccanica». Parlano le cifre: «Due anni fa, quando si vendette la quota di Ansaldo Energia per pagare il dividendo di 237 milioni, lo Stato prese solo una settantina di milioni; adesso che c’è da ricomprarsi Ansaldo Energia per salvare l’italianità dell’azienda, sono pubblici tutti i 387 milioni finiti nelle tasche del fondo First Reserve».Desta una certa curiosità, aggiunge Meletti, anche il fatto che il Fondo strategico italiano paghi 387 milioni per il 45% del fondo First Reserve e la stessa cifra a Finmeccanica per il 55%. In realtà Finmeccanica prenderà un po’ meno, visto che adesso cede solo il 39% delle azioni, mentre il restante 15% passerà di mano nei prossimi anni, quindi con pagamento differito che in termini finanziari comporta un costo per il venditore. «Poi c’è un altro meccanismo, chiamato in inglese “earn out”», che secondo Finmeccanica e Fondo strategico «gli italiani (che ci stanno mettendo i soldi) non hanno diritto di sapere che cos’è». In pratica, spiega il “Fatto”, Finmeccanica si vedrà riconosciuto un premio fino a 130 milioni di euro relativo ai risultati economici di Ansaldo Energia dei prossimi tre anni: «Se andrà tutto molto bene, Finmeccanica incasserà tutti i 130 milioni, ma se le cose andassero male potrebbe anche non incassare un solo euro, e si troverebbe ad aver venduto il suo 55% a meno di quanto il fondo americano ha incassato per il 45%».Mistero presto svelato, conclude Meletti: «Due anni fa gli americani rappresentati da un italiano hanno ottenuto un diritto di co-vendita: Finmeccanica non poteva vendere il suo 55% senza cedere anche il 45% del fondo First Reserve». Alla fine dell’anno scorso, infatti, ci fu già un’offerta italiana coordinata dal Fondo strategico per il 55% di Ansaldo Energia, e Finmeccanica dovette rispondere “no, grazie ” perché sennò il fondo First Reserve si sarebbe arrabbiato. «Insomma, per 225 milioni First Reserve si comprò anche il diritto di incassare il premio di maggioranza nella futura vendita». Come si è puntualmente verificato ora. Niente da dire: «Un grande affare all’italiana».L’operazione Ansaldo Energia va studiata da vicino, perché se ci si fermasse agli astrusi comunicati di Finmeccanica e del Fsi, il Fondo Strategico Italiano, la cosa resterebbe avvolta nel più fitto mistero. Società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’economia, il Fsi ha comprato il 100% di Ansaldo Energia, di cui da tempo Finmeccanica (pubblica) voleva sbarazzarsi per fare un po’ di cassa e ridurre l’indebitamento. In questa strana ri-nazionalizzazione, rivela Giorgio Meletti, non un solo euro verrà utilizzato per lo sviluppo di Ansaldo Energia, destinata ad essere al più presto rivenduta. Ma il punto più doloroso è un altro: già in passato, Finmeccanica ha svenduto alla finanza parti della holding, strategica per l’Italia. Due anni fa, sotto la guida di Pier Francesco Guarguaglini e Giuseppe Orsi, per pagare a primavera 2011 agli azionisti un dividendo di 237 milioni di euro, a dispetto delle condizioni già critiche del gruppo, Finmeccanica decise di svendere al fondo americano First Reserve il 45% di Ansaldo Energia, per la cifra di 225 milioni.
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Ecco perché le banche non hanno più soldi da prestarci
Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.Il Fmi (non sarà il Vangelo, però i numeri li sanno leggere) ci dice che la causa di ciò è la sottocapitalizzazione delle nostre banche. In parole povere, vuol dire che se non hanno soldi non li possono prestare. Una banca che si trova in questa situazione ha una sola soluzione se vuole continuare a operare: chiedere ai suoi azionisti nuovi soldi. In Italia questo non è possibile. Non lo è perché, per quanto formalmente “privati”, tutti i maggiori istituti italiani sono propaggini del sistema politico. Quando 20 anni orsono il Tesoro decise di vendere la maggioranza delle azioni, per mantenere il controllo i politici italiani inventarono il trucco delle fondazioni bancarie, che mantennero la quota di controllo (sufficiente a nominare i manager). Fu una finta privatizzazione, perché a decidere chi comandava restava sempre la politica. E’ questo il motivo per cui le banche sono rimaste senza soldi; perché li hanno prestati non a chi li meritava, ma a chi il politico di riferimento ordinava.L’unica soluzione sarebbe, appunto, di chiedere ai soci di tirare fuori il grano. Ma se ciò avvenisse, le fondazioni perderebbero il controllo degli istituti perché non avrebbero il denaro sufficiente per coprire la loro parte, e la perdita del controllo significherebbe che i partiti non potrebbero più nominare i manager e questo il sistema non lo potrebbe accettare. Quindi preferiscono tirare a campare continuando a evitare di dirci che i soldi che hanno prestato non esistono più perché li hanno prestati agli amici degli amici, che se li sono pappati. Se si facesse pulizia nei conti, la quasi totalità delle nostre banche sarebbe fallita. Allora si preferisce prendere i soldi dei cittadini e “prestarli” alle banche; ma un prestito è un prestito quando esiste la possibilità che venga rimborsato, altrimenti si chiama regalo. I cosiddetti “Monti bond” che hanno salvato l’Mps appartengono a questa categoria. Non è questione di essere di destra o di sinistra per rendersi conto che ciò è assurdo.Esistono solo due soluzioni possibili a questa situazione. Se è il mercato a decidere, allora i soldi li devono tirare fuori i privati, guadagnandoci se son bravi e perdendoci se cattivi. Se invece siamo noi (lo Stato) a metterci il grano, è giusto che siamo noi a possedere le banche, quindi una sorta di ri-nazionalizzazione del sistema. A prima vista la soluzione più ragionevole è un mix delle due precedenti; lasciare ai privati quello che i privati possono salvare e fare intervenire lo Stato laddove ciò non è possibile. Per parare l’obiezione che già sento arrivare (ai privati il salvabile, al pubblico le carrette) ricordo che lo Stato è già garante del sistema bancario e che, in caso di fallimento, dovrebbe comunque intervenire a coprire il buco. All’obiezione di chi invece dice che riportare al Tesoro la proprietà non significa certo eliminare l’influenza della politica, rispondo che è vero ma almeno esiste la speranza che a nominarne i vertici non sia il solito capobanda locale.(Marco Di Gregorio, “Perché le banche non hanno più soldi da prestare”, dall’“Huffington Post” del 7 ottobre 2013).Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.
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Scalea: soldi facili, così la finanza ha rovinato l’economia
Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.«La deregulation, parola d’ordine lanciata negli anni ‘70, ha rappresentato un mantra del neoliberalismo, almeno finché non è divenuto evidente il ruolo da essa avuto nel provocare la crisi finanziaria del 2008», scrive su “Huffington Post” lo stesso Scalea, condirettore della rivista “Geopolitica” e direttore dell’Isag di Roma, istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie. «L’episodio più importante fu rappresentato, negli Usa, dal Gramm-Leach-Bliley Act, proposto dai tre parlamentari repubblicani eponimi ma approvato nel 1999 con un’ampia maggioranza bipartisan». Fine delle regole: «La legge era nata per rispondere all’esigenza creatasi con la nascita di Citigroup, l’anno precedente, e abolì una parte del Glass-Steagall Act del 1933», la famosa legge varata dopo la Grande Depressione del ’29, che aveva separato le banche d’investimento dalle banche commerciali, impedendo alle prime – impegnate nelle speculazioni più rischiose – di raccogliere depositi dai risparmiatori.Dal fatidico ’99, dunque, anche i risparmi delle famiglie sono finiti nelle speculazioni a più alto rischio, in particolare quelle legate alle cartolarizzazioni, fattesi sempre più sofisticate dagli anni ‘80 in poi. «La cartolarizzazione – spiega Scalea – altro non è che la cessione di crediti o attività di una società tramite l’emissione di titoli obbligazionari». Nei primi anni ‘90 divennero popolari i famigerati derivati: titoli il cui prezzo è legato al valore di mercato di uno o più beni, e la cui ratio è la copertura da un rischio finanziario connesso a quei beni stessi. Proprio i derivati «sono divenuti lo strumento prediletto della speculazione, in particolare tramite le vendite allo scoperto», cioè l’impegno a vendere, in una certa data, un determinato bene che ancora non si possiede nel momento in cui si sigla il contratto. Tuttavia, aggiunge Scalea, la deregolamentazione e i “fantasiosi” nuovi strumenti finanziari (creati non da economisti, ma da matematici) rappresentano «solo il corso finale d’una più grande problematica che scorre a monte: quella della finanziarizzazione dell’economia».Quando la finanza prende il sopravvento, sottolinea il condirettore di “Geopolitica”, l’economia reale finisce sempre per risentirne. Accadde così anche nel ’29: «Nel primo dopoguerra, l’economia mondiale era ripartita grazie a uno schema triangolare tra Usa, Germania e altri paesi dell’Europa Occidentale. Washington garantiva alla Germania gl’investimenti per ricostruirne l’economia (non a caso, la tensione postbellica tra Parigi e Berlino fu risolta dal Piano Dawes, che deve il suo nome non a un abile diplomatico bensì a un ricco banchiere); la Germania poteva così pagare le riparazioni di guerra ai paesi europei vincitori del conflitto, e quest’ultimi acquistavano grosse quantità di beni di consumo dagli Usa». La macchina, continua Scalea, s’inceppò proprio quando i profitti a Wall Street divennero così elevati che risparmiatori, imprenditori e banchieri americani cominciarono a trovare più profittevole speculare tutto in Borsa, piuttosto che investire qualcosa nell’economia reale europea. «Quest’ultima rallentò, facendo calare bruscamente gli ordinativi di beni dagli Usa, con conseguente crisi di sovrapproduzione e successivo crollo della Borsa».Analogamente, anche la crisi del 2008 trova la sua genesi nella supremazia della finanza sull’economia reale. Dopo la “stagflazione” degli anni ‘70, ricorda Scalea, la ripresa della crescita economica ha visto quest’ultima concentrarsi sempre più nel segmento finanziario, con parallelo esplodere però anche dei debiti pubblici e il fabbisogno statale crescentemente affidato ai mercati per la sua copertura. Crescita che è stata alimentata da una serie di bolle: prima quella dell’information technology (2000-2001), poi quella dei mutui immobiliari Usa (2007). «L’esigenza di immettere sul mercato titoli da negoziare ha spinto a trascurare la solidità dei sottostanti (vedi mutui subprime): il derivato finanziario è divenuto la ragion d’essere, l’economia reale un semplice strumento». Idem la Borsa: era «il luogo ideale in cui far incontrare i risparmiatori desiderosi d’investire i loro capitali e gl’imprenditori capaci di farli fruttare», quindi in un orizzonte fatto di economia reale, e invece è divenuta una realtà a sé stante: «Le azioni non si comprano più per partecipare dell’impresa e dei suoi utili, ma per speculare sulle variazioni del prezzo di mercato dei titoli stessi».La Borsa, scrive Scalea, ha preso a pullulare di strumenti finanziari, come i derivati, solo debolmente connessi alla realtà economica: «Gli azionisti non guardano più al bene a lungo termine dell’azienda, ma alla possibilità a breve termine di realizzare plusvalenze uscendo dall’azionariato». Complici di questo gioco, i manager: «Per compiacere gli azionisti, hanno indugiato nella pratica di distribuire generosi dividendi anche quando i conti della società non erano positivi, col semplice fine di rendere le azioni più appetibili e dunque farne crescere il valore di mercato a breve, anche se questo minava la solidità aziendale sul lungo periodo». Fenomeno aggravato dall’abitudine di concedere ai manager bonus in azioni della società. Pratiche state denunciate anche dai media all’indomani del crollo borsistico del 2008, eppure continuano ad essere messe in atto. Se fino a ieri la finanza era un mezzo per supportare l’economia, ora è l’unico vero fine a cui mira chi dovrebbe occuparsi del benessere generale, a cominciare dai posti di lavoro.Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.
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Larghe intese e larghi affari, a cominciare dal magico Tav
Si fingono avversari in televisione, ma dietro le quinte sono amici. Anzi: soci. Negli ambienti giudiziari la chiamano «larga intesa degli affari». Destra e sinistra: «Tutti insieme appassionatamente, in un gioco abilissimo e sotterraneo di nomi e prestanome», rivela Lirio Abbate in un reportage su “L’Espresso”. Professionisti e tecnici, segretari di partito e ministri, capi-corrente, deputati e senatori. «I pupari e le marionette. Per muovere affari di milioni, velocizzare pratiche di appalti pubblici, approvare decreti per favorire imprese amiche, cambiare componenti di commissioni di vigilanza e authority». Di fatto, questo significa «svuotare le istituzioni e piegare le regole democratiche in uno spoil system che genera un sistema viziato», che diventa «un magma rovente che fonde gli appetiti meno nobili, una suburra in cui tutti si scambiano favori e dialogano per concretizzare interessi senza badare a casacche e stemmi di partito», a cominciare dalla madre di tutti i subappalti, la famigerata Tav.
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Cremaschi: quelli che svendono il paese a loro insaputa
Ora governanti e manager dicono che non lo sapevano, preferiscono fare la figura dei cretini piuttosto che quella dei complici. Ma la svendita di Telecom è solo un altro atto di un percorso annunciato e realizzato da decenni, da parte di una classe politica e imprenditoriale che ha cercato di salvare se stessa e i suoi fallimenti con la vendita all’incanto dei beni del paese. E che ha usato il liberismo, l’euro e il Fiscal Compact, la Merkel come scusa e protezione del proprio potere. Ora dopo la svendita di Telecom alla principale concorrente, la Telefonica spagnola, assisteremo a qualche giorno di lacrime di coccodrillo e di compunte dissertazioni sulle politiche industriali e le riforme. Poi tutto continuerà come prima perché tutta l’Italia è in svendita. La Grecia dopo qualche anno di politiche di austerità europea ha conservato di suo il debito pubblico e la polizia che bastona chi protesta. Tutto il resto è venduto, appaltato, posto sotto controllo estero. Noi, più lentamente ma altrettanto inesorabilmente, stiamo percorrendo la stessa strada. Perché abbiamo la stessa classe dirigente.
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Susan George: è il golpe dei super-ricchi, ribellatevi all’Ue
L’establishment economico e finanziario non ha sensi di colpa per quello che è accaduto nel mondo negli ultimi sei-sette anni, nemmeno un dubbio. È uno dei paradossi di quest’epoca: i neoliberisti hanno capito il significato del concetto di egemonia culturale di Antonio Gramsci e l’hanno applicato benissimo. La loro ideologia è penetrata negli Stati Uniti, poi si è diffusa in tutte le organizzazioni internazionali e vanta un supporto intellettuale mai visto. Prendiamo l’Ue. Sono riusciti a ottenere consenso e supporto proponendo misure di austerità per uscire dalla crisi convincendo tutti che il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia sono la stessa cosa, per cui si può spendere solo in base alle entrate. Non è così: il debito pubblico storicamente finanzia la crescita, è altra cosa dagli sprechi. Per fare un esempio, due economisti della Bocconi di Milano, Alesina e Ardagna, a mio avviso hanno fornito una errata base teorica alla Banca centrale europea, ai governi e alle istituzioni europee, proponendo l’austerità per fronteggiare la depressione. E la gente è stata convinta dell’ineluttabilità delle scelte. La prova? In Grecia non hanno fatto la rivoluzione.
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Ioppolo: macché neoliberisti, sono una cricca di ladroni
Quando a fronte del peggioramento drastico del nostro Pil e dei nostri conti pubblici in soli 16 mesi di sacrifici bocconiani, in Confindustria e in ogni riunione possibile e immaginabile di categoria, locale come nazionale, vengono fischiati tutti i ministri, i politici e gli economisti che propongono altri sacrifici popolari per fare quadrare i conti pubblici sulla base dei suggerimenti/imposizioni che vengono dagli “esperti” finanziari, anche se questo accade senza che ancora venga proposta una alternativa credibile, vuol dire che siamo ormai alla resa finale dei conti tra il mondo del lavoro e quello degli strati parassitari e possidenti. Non lasciamo che ciò assuma forme mostruose. Abbiamo il dovere intellettuale, politico, morale e spirituale di rendere dolce la transizione verso il mondo migliore che emergerà dalla ormai improcrastinabile riforma post-keynesiana delle fondamentali strutture economiche interne e internazionali. Uniamoci e diffondiamo questa conoscenza. Facciamolo con volantinaggi, spamming web, manifestazioni pacifiche, passa-parola, ma facciamolo subito!
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Giulietto Chiesa: finito il consenso, useranno il terrore
Democrazia e libertà civili furono gli strumenti culturali e istituzionali indispensabili per la costruzione del consenso. Il loro esercizio soddisfacente permise di controllare e conquistare non solo i ceti intermedi che venivano consolidandosi, ma anche settori decisivi delle classi lavoratrici. Il “welfare state” fu l’arma economica con cui le classi dominanti dell’Occidente si assicurarono il superamento indolore del “turning point” previsto da Karl Marx. Il risultato fu raggiunto. A fatica, certo, e attraverso lotte durissime, poiché le forze lavoratrici si erano nel frattempo dotate di strumenti di difesa: partiti, sindacati, società civile organizzata. La storia del XX secolo è stata, in Occidente, un continuo alternarsi di offensive e controffensive delle due classi principali. Quando la bilancia delle forze si spostò dalla parte dei subordinati, e per il Potere il pericolo divenne concreto, esso ricorse senza esitazione alla forza, al sangue, alla violenza.
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Auto, declino e debiti: Torino come Detroit, ma guai a dirlo
Detroit chiama Torino. La capitale americana dell’auto dichiara bancarotta, travolta non tanto dal disavanzo di bilancio, ma dal mostruoso indebitamento consolidato: 20 miliardi verso 100 mila creditori. L’annuncio del fallimento è stato dato dal commissario straordinario Kevyn Orr, nominato pochi mesi fa dallo Stato del Michigan con il compito di salvare in extremis la città da una situazione finanziaria catastrofica. Ma dopo alcuni tentativi di ristrutturazione finanziaria, da un lato persuadendo i creditori a pazientare, dall’altro intavolando con i sindacati una trattativa sul taglio degli stipendi e delle pensioni del pubblico impiego, giovedì scorso ha gettato la spugna. E il governatore Rick Snyder, repubblicano, ha accettato la richiesta di Orr di ammettere Detroit all’articolo 9 della legge fallimentare americana. Secondo Snyder, questa sarebbe l’unica soluzione a un problema che si trascina da 60 anni.
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Cremaschi: i cinguettii di Letta, bugie sul disastro italiano
Se ad un malato si somministra una aspirina appena segnala malessere e febbre, il medicamento può anche funzionare. Ma se si aspetta senza dargli nulla sostenendo che basta una dieta rigorosa, e la febbre cresce e la malattia si complica e si cronicizza ad alti livelli, allora una aspirina non serve più a niente e all’organismo indebolito può fare persino male. Le flessibilità di bilancio per investimenti pubblici su cui cinguetta felice su Twitter Enrico Letta è solo un poco di aspirina somministrata troppo tardi ad un malato grave. Se si diraderanno il fumo delle chiacchiere e della propaganda vedremo che nella migliore delle ipotesi la Ue, che da settembre scriverà i nostri bilanci pubblici in ossequio a Fiscal Compact e patti annessi, ci può solo concedere di venir meno temporaneamente al vincolo del pareggio di bilancio. Naturalmente a condizione che sia già definito il percorso, cioè i nuovi tagli di spesa pubblica, per il rientro.
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Siamo già in guerra, ma speriamo tocchi prima a loro
C’è una guerra in atto. Terroristi in giacca e cravatta fanno annunci, programmano azioni di carta e mietono vittime. Barclays, Deutsche Bank e Jp Morgan hanno investito massicciamente nel settore delle commodities agricole, negli ultimi anni, per sfidare Goldamn Sachs e Morgan Stanley: queste cinque banche controllano il 70% degli scambi sui prodotti agricoli in tutto il mondo. Dall’oggi al domani, questi terroristi da 800.000 dollari l’anno possono decidere di mandare a puttane 40 milioni di persone in un botto solo, e l’hanno già fatto alltre volte. Milioni di persone, nei paesi poveri, vedono il prezzo dei prodotti alimentari salire alle stelle, e si trovano in crisi senza neanche sapere perché. E la loro crisi non è come la nostra – dove devi rinunciare all’iphone-8 e accontentarti dell’iphone-7 per mandare sms con scritto “viva la mona” – no, la loro crisi è diversa: è che, da un giorno all’altro, non sai se mangerai oppure no.