Archivio del Tag ‘manager’
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Banche fallite, Ghizzoni e Draghi siedono su Chernobyl
Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl, il giorno prima del meltdown. E lo sanno. Guardate che ci vuole un sangue freddo indicibile per essere nei loro panni. Ma mentre il primo è uno sfigato, il secondo no. Unicredit, e io l’avevo detto mesi fa, ha un’esposizione da Austria verso est Europa immensa, e questo significa che hanno prestato oceani di euro che non riavranno più. Sono buchi bancari sparsi nei duemila miliardi di euro di buchi bancari di cui soffrono le maggiori banche europee. Oggi arriva la notizia che la terza maggior banca dell’Europa orientale, la Erste Group, austriaca, è di fatto saltata in aria. E indovinate chi sono le altre due? Unicredit e Raiffeisen (svizzera). Non so come stia dormendo Ghizzoni stanotte. Non scherziamo. Le banche europee, e soprattutto quelle maggiori come Bnp, Deutsche e Unicredit, sono fallite: ma non fallite, sono stra-stra-fallite.Draghi, come ho spiegato in precedenza, ha appena annunciato misure camuffate da aiuti all’economia terminale dell’Eurozona che altro non sono se non aiuti alle banche e basta. La ricapitalizzazione di Banca d’Italia altro non è che un trucco per ricapitalizzare le banche italiane anno su anno. Ma credetemi, sono cerotti applicati a uno che ha perso gambe, bacino e intestini su una mina. Il fatto è che ’sti mega-manager neofeudali che siedono a Francoforte, come Draghi, non sanno più come nascondere alla Ue che faranno esplodere le banche DI PROPOSITO di proposito, e con esse i paesi e noi tutti, per poi riportarci alla plebe di 900 anni fa. Progetto neofeudale. Ma lo faranno piano piano, così nessuno se ne accorge. Draghi, poi, siccome deve dimostrare di essere serio e non un criminale (se no come fa quell’ignorante di Travaglio a dire che è “uno serio”?), farà gli esami alle banche a ottobre, i cosiddetti stress-tests.Draghi, come Ghizzoni e tutti gli altri banchieri, sa perfettamente che se questi esami fossero fatti in modo serio rivelerebbero i famosi duemila miliardi di buchi bancari di cui sopra, e soprattutto delle sotto-capitalizzazioni delle banche da far spavento a Godzilla – Deutsche Bank, che è a un effettivo 2,5% invece che essere al 10% come vi sembra?, mentre si è messa in pancia derivati per 20 volte il valore di tutta la ricchezza della Germania? ) – e la corsa sempre delle banche a comprare titoli di Stato italiani e spagnoli a prezzi di molto superiori al loro reale valore rapportato alle reali economie? Lo fanno perché Draghi li sta ingannando con promesse di surplus favolosi fra poco (il famoso Qe che non farà mai), ma sono balle! Quando esploderanno quelli? Vi siete chiesti perché con un’economia italiana ormai a livello del Ghana il nostro Renzi vende dei Btp a prezzi stratosferici e interessi microscopici come fossimo il Giappone?Chiedete sempre a Mario, quel criminale. Credete che una roba del genere possa reggere? I mercati rischiano, ma poi quando la bolla salta, mica ci perdono loro, ci perdi tu sfigato. E allora gli stress-test saranno truccati, patetici teatrini di nessun valore. Così le banche salteranno per aria lentamente una a una e lentamente ci sarà LA SCUSA, DETTATA DAI SOLITI NOTI, PER MASSACRARE LE AZIENDE, I LAVORATORI, I PICCOLI RISPARMIATORI, E LE FAMIGLIE la scusa, dettata dai soliti noti, per massacrare le aziende, i lavoratori, i piccoli risparmiatori e le famiglie bla bla bla bla, velo diciamo da annnnnnniiiiiiiiiiiiiiiii. E sarà giusto così. Perché a quel punto, voi miserabili cazzoni, chiederete aiuto a Renzi, a Grillo e ai suoi puffi in Parlamento, a Celentano, a Benigni, a Balotelli e al SuperEnalotto. Ciao.(Paolo Barnard, “Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl”, dal blog di Barnard del 5 luglio 2014).http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=883Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl, il giorno prima del meltdown. E lo sanno. Guardate che ci vuole un sangue freddo indicibile per essere nei loro panni. Ma mentre il primo è uno sfigato, il secondo no. Unicredit, e io l’avevo detto mesi fa, ha un’esposizione da Austria verso est Europa immensa, e questo significa che hanno prestato oceani di euro che non riavranno più. Sono buchi bancari sparsi nei duemila miliardi di euro di buchi bancari di cui soffrono le maggiori banche europee. Oggi arriva la notizia che la terza maggior banca dell’Europa orientale, la Erste Group, austriaca, è di fatto saltata in aria. E indovinate chi sono le altre due? Unicredit e Raiffeisen (svizzera). Non so come stia dormendo Ghizzoni stanotte. Non scherziamo. Le banche europee, e soprattutto quelle maggiori come Bnp, Deutsche e Unicredit, sono fallite: ma non fallite, sono stra-stra-fallite.
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Ma questa Europa non è affatto annoiata: è disperata
«Se l’Europa facesse un selfie, mostrerebbe il volto della noia», dice Renzi al Parlamento Europeo. Noia? «No, il volto di paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia non è annoiato, è disperato», protesta il “Keynes Blog”. «L’Europa attuale non è un sogno, men che meno ha un’anima. E’ un insieme di regole – quelle che Renzi non vuole cambiare – basate su una teoria economica che si è dimostrata palesemente incapace non solo di prevedere, ma anche di guarire la crisi iniziata nel 2008». Il tutto – regole e istituzioni – è «orientato a garantire i paesi creditori e bastonare quelli debitori». Aggiunge il blog: non stiamo camminando lentamente, stiamo tornando indietro. «La “generazione Erasmus” (ora ribattezzata “generazione Telemaco”) di cui Renzi si sente parte, è la più colpita, con tassi di disoccupazione oltre ogni soglia di tollerabilità: stiamo distruggendo capitale fisico e umano, ponendo le basi perché la crescita non ritorni in tempo utile affinché questa generazione possa goderne».Si è antitaliani se si afferma che il discorso di Renzi al Parlamento Europeo è «una montata di fumo a manovella», fatta solo per cercare facile consenso? Anche la confusa metafora di Telemaco, dice Giorgio Cremaschi su “Micromega”, resta sospesa a mezz’aria. La storia del figlio di Ulisse che aiuta il padre a sterminare gli usurpatori di Itaca e liberare Penelope la sanno anche gli studenti delle medie, ma chi sono i Proci per Renzi? «Non lo sapremo mai, perché tutta la sua comunicazione politica si fonda sulla allusione», lasciando le conclusioni al pubblico, per tenersi le mani «libere di continuare a fare quel che si è sempre fatto». Renzi allude a un’Europa «diversa da quella che con le politiche di austerità ha prodotto 40 milioni di disoccupati», ma quando si va sul concreto «l’unica affermazione chiara è che l’Italia rispetterà tutti i micidiali vincoli del Fiscal Compact, dei patti di stabilità, del rigore», e andrà avanti con le micidiali “riforme strutturali” raccomandate dall’oligarchia neoliberista, ovvero «flessibilità del lavoro, bassi salari, privatizzazioni e mercato, mercato, mercato».È la ricetta che è stata definita come “precarietà espansiva”, ricorda Cremaschi. Puro ossimoro: l’austerity che produce crescita, secondo Mario Monti e colleghi. «Come disse Padoan prima di diventare ministro, dal dolore nasce lo sviluppo». Tutti i dati economici italiani e anche quelli dell’Eurozona «dimostrano che il dolore cresce, ma lo sviluppo no». Tuttavia, continua l’ex leader Fiom, Renzi rivendica per l’Italia il ruolo di primo della classe nell’applicazione di queste politiche, aggiungendo assieme a tutti i socialdemocratici europei che esse dovranno essere “accompagnate dalla crescita”. «Che vuol dire? Niente. Le politiche di austerità sono un sistema compiuto», che produce solo danni. «O si abbandona l’austerità – cioè pareggio di bilancio, vincolo del debito, divieto di intervento pubblico, bassi salari – oppure si rinuncia alla crescita o almeno a quella crescita che viene promessa da “Telemaco” Renzi». Domanda: ma se queste politiche non producono veri risultati, come mai tutti i governi, e il governo europeo delle larghe intese appena varato, continuano a portarle avanti?«Per due ragioni di fondo, di cui la seconda è inconfessabile», sostiene Cremaschi. La prima è che «le politiche di rigore e austerità europee sono figlie di più di trent’anni di politiche economiche liberiste». Oggi si teme la deflazione, cioè l’assenza di inflazione come ulteriore spinta alla stagnazione economica, ma «tutta la costruzione europea fino alla Bce ha come presupposto la lotta all’inflazione». La scala mobile che tutelava i salari italiani «è stata abolita nel nome della lotta all’inflazione». Il debito pubblico «si è gonfiato dei costi degli interessi pagati alla finanza perché si è rinunciato, ben prima dell’euro, a stampare moneta». La lotta all’inflazione, insiste Cremaschi, è il nocciolo materiale e ideologico delle politiche di austerità. E tutte le istituzioni, tutti i gruppi dirigenti, politici e sindacali «sono stati selezionati nel suo nome». Altro che la contestazione a qualche casta marginale: «Per cambiare politica bisognerebbe cambiare tutta una classe dirigente che non sa produrre altro se non austerità». E poi c’è la seconda ragione per cui si va avanti così, «quella inconfessabile». E cioè: «Purtroppo non è vero che il dolore non dia risultati: gli indici di Borsa da quasi tre anni sono in crescita. Chi ha investito nel momento più basso della crisi finanziaria oggi ha fatto un bel po’ di soldi. Per una parte delle imprese i profitti sono in ripresa, così pure i super-guadagni dei manager».Banche e finanza, continua Cremaschi, hanno ripreso a fare affari come prima. E anche i derivati e tutti i titoli-spazzatura son di nuovo in campo, come prima del crack. «Il punto inconfessabile è proprio che la crescita delle disuguaglianze e della povertà non sono un danno collaterale, ma parte integrante del modello economico che si vuole affermare». La creisi era parte del piano: nel fango il 99%, per far volare i maxi-proifitti dell’1%. «La Grecia, prima cavia dell’austerità, non ha più stato sociale, ha il 20% di disoccupazione e i salari calati del 30%. Socialmente e moralmente è una catastrofe, ma oggi in Grecia si fanno buoni affari. Certo il rischio è che la brutalità delle misure adottate faccia vincere alle elezioni Tsipras e le forze anti-austerità, per questo in Italia si è aggiustato il tiro». Se in Grecia il troppo bastone rischia di provocare una rottura, «in Italia per continuare con l’austerità si è usata più carota, e la carota si chiama Renzi».Ecco perché «le politiche di austerità non possono essere abbandonate se non si rovesciano i presupposti, gli interessi, le istituzioni che le impongono», conclude Cremaschi. «Io non credo che questa Unione Europea sia riformabile, ma anche chi ci crede ha oggi il dovere di respingere il gattopardismo di Renzi, Schultz, Juncker, Merkel e dei loro finti scontri», nell’ambito delle sostanziali larghe intese con cui i politici eletti fingono di governare, limitandosi in realtà a obbedire ai tecnocrati militarizzati dall’élite finanziaria, uomini-ombra potentissimi che impongono l’agenda, le leggi, le direttive europee attraverso le lobby insediate a Bruxelles in rappresentanza delle grandi multinazionali. Secondo Cremaschi «bisogna che il semestre italiano fallisca, cioè che fallisca la mistificazione politica che copre la continuazione del rigore liberista». Giù la maschera, Renzi: «Noi sappiamo bene chi sono i Proci della finanza, delle banche, delle multinazionali che ci saccheggiano».«Se l’Europa facesse un selfie, mostrerebbe il volto della noia», dice Renzi al Parlamento Europeo. Noia? «No, il volto di paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia non è annoiato, è disperato», protesta il “Keynes Blog”. «L’Europa attuale non è un sogno, men che meno ha un’anima. E’ un insieme di regole – quelle che Renzi non vuole cambiare – basate su una teoria economica che si è dimostrata palesemente incapace non solo di prevedere, ma anche di guarire la crisi iniziata nel 2008». Il tutto – regole e istituzioni – è «orientato a garantire i paesi creditori e bastonare quelli debitori». Aggiunge il blog: non stiamo camminando lentamente, stiamo tornando indietro. «La “generazione Erasmus” (ora ribattezzata “generazione Telemaco”) di cui Renzi si sente parte, è la più colpita, con tassi di disoccupazione oltre ogni soglia di tollerabilità: stiamo distruggendo capitale fisico e umano, ponendo le basi perché la crescita non ritorni in tempo utile affinché questa generazione possa goderne».
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Retorica e privatizzazioni: com’è antico il nuovo Renzi
L’imprevisto plebiscito nazionale pro Renzi motiva i giudizi più severi da parte di Gomez e Padellaro sui toni sovreccitati della campagna grillesca, cui si aggiunge «una deleteria e autolesionistica esposizione dell’impresentabile Casaleggio», scrive Pier Franco Pellizzetti. Certo, il Beppe urlante e il Gianroberto sibilante «hanno terrorizzato non poco», ma il trionfo renziano «non può essere spiegato solo con un eccesso di decibel e un difetto di icone nella comunicazione avversaria». L’impressione di Pellizzetti è che i risultati delle europee siano “in maschera”, cioè di significato apparente, non reale. Se in Europa brillano gli euroscettici contrari all’establishment, visto come «un conglomerato colluso di imprenditori politici interessati esclusivamente al mantenimento delle proprie posizioni di potere», in Italia non ha vinto il centrosinistra col suo nuovo look anti-ideologico. C’è un equivoco: «Non ha vinto il Pd, ha vinto Renzi».Renzi, cioè «colui che è balzato sulla scena nazionale come portabandiera della rottamazione», e che da premier ha proseguito in questa retorica «facendo a cartellate con manager pubblici, statali e vertici sindacali». Tutti «abili bersagli polemici, mentre il presunto “angelo vendicatore” imbarcava sul suo carro interi spezzoni della vecchia classe dirigente politica, giornalistica e imprenditoriale: la combriccola di furboni consapevole che grazie al gattopardismo frenetico del giovanotto furbacchione era possibile rinsaldare l’antica presa del privilegio sull’intera società». Dunque, aggiunge Pellizzetti su “Micromega”, «assistiamo al successo del tradizionale trasformismo italico, che introietta nel suo presunto novismo anche altre – non propriamente gloriose – attitudini del genius loci». Nient’altro che l’apprezzamento di «un paese intimamente plebeo» per la regalia da parte del potente di turno, «si tratti del pacco contenente zucchero e pasta offerto dalla nobildonna benefattrice, la scarpa dal candidato sindaco di Napoli Achille Lauro o l’obolo di ottanta euro».«Il trasformista benefattore – continua Pellizzetti – vince perché l’intima natura del restyling renziano ancora non è venuta completamente alla luce, e anche perché presenta un profilo sfuggente che le invettive di Grillo e le frasi smozzicate di Casaleggio sono inadatte a intercettare criticamente». Cultura politica e la memoria storica? Non pervenute. «Tanto da far risultare sorprendente e originale un tipo che ripropone ricette blairiane vent’anni dopo l’originale, e da far sembrare “di sinistra” (socialdemocratica) pratiche puramente mimetiche e blandizie paternalistiche». Il tutto, «a effettivo vantaggio di un establishment che si camuffa da anti-establishment, secondo la migliore ricetta americana, da Clinton a Obama». Quanto durerà l’incantamento? «Certo più a lungo del necessario». Servirebero «letture attente e meno emotive del fenomeno Renzi», anche per «strappare la maschera dietro la quale il plebiscitato cela la sua vera natura di spregiudicato manovratore», edi cui è evidente «la forte vocazione privatistica», cioè la più pericolosa per un paese «che continua a precipitare in una crisi strutturale».L’imprevisto plebiscito nazionale pro Renzi motiva i giudizi più severi da parte di Gomez e Padellaro sui toni sovreccitati della campagna grillesca, cui si aggiunge «una deleteria e autolesionistica esposizione dell’impresentabile Casaleggio», scrive Pierfranco Pellizzetti. Certo, il Beppe urlante e il Gianroberto sibilante «hanno terrorizzato non poco», ma il trionfo renziano «non può essere spiegato solo con un eccesso di decibel e un difetto di icone nella comunicazione avversaria». L’impressione di Pellizzetti è che i risultati delle europee siano “in maschera”, cioè di significato apparente, non reale. Se in Europa brillano gli euroscettici contrari all’establishment, visto come «un conglomerato colluso di imprenditori politici interessati esclusivamente al mantenimento delle proprie posizioni di potere», in Italia non ha vinto il centrosinistra col suo nuovo look anti-ideologico. C’è un equivoco: «Non ha vinto il Pd, ha vinto Renzi».
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I grandi ladri dell’élite mondiale: uno scandalo al giorno
Siamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.Ebbene, lunedì scopriamo che la medesima banca avrebbe allungato circa 400 milioni di commissioni a un suo azionista per evitare il fallimento. Le autorità inglesi indagano. Ma non finisce qui. Questa volta è il procuratore generale di New York a prendere di mira Barclays (con Goldman Sachs e Credit Suisse). È un’inchiesta delicatissima sugli scambi ad alta frequenza e su piattaforme (su cui si scambiano titoli) piuttosto oscure. Per darvi un’idea, sul mercato italiano (nonostante la Tobin tax, inutile anche su questo) circa il 22 per cento degli scambi si svolge in queste forme. Manipolare tassi di interesse e scambi sul mercato, per un’istituzione finanziaria, è il peccato peggiore che si possa immaginare. Non è un caso, la notizia è di ieri, che il mercato dell’argento nato a Londra 117 anni fa, il prossimo 14 agosto chiude battenti: chi si fida di questi trader?Martedì scopriamo che Bnp Paribas, una delle principali banche francesi, e il solito Credit Suisse, sono nuovamente nei guai con gli americani. I francesi rischiano una multarella da 3,5 miliardi (praticamente l’Imu sulla prima casa). Mica un fulmine a ciel sereno: a Parigi si aspettavano una sanzione da un miliardino. Triplicata. I banchieri avrebbero fatto affari con paesi sotto embargo, e avrebbero continuato a farlo anche quando pizzicati dalle autorità americane. Si tratterebbe della multa più alta mai pagata da una banca in America. Il record, di due anni fa, era di Hsbc che versò 1,2 miliardi per aver riciclato i dollari dei narcotrafficanti. Il quel caso, visto che si raggiunse un accordo con il dipartimento di giustizia, venne coniato il termine (solo per le tangenti bancarie anglosassoni): “too big to jail”, troppo grandi per la galera. Il ministro delle finanze francese si è presentato in America per fare lobby, ma il procuratore generale lo ha spaventato e in un video ha detto che nessuna banca è più “too big to jail”. Si è dimenticato del passato.Mercoledì c’è poco da segnalare. Non vorrete commentare Bernie Ecclestone. Il boss della F1 si presenta al tribunale di Monaco con aereo privato, limo, traduttrice privata, stuolo di avvocati e parcheggia nel sotterraneo riservato ai giudici. Con questa pattuglia di assistenti ascolta il suo accusatore che la spara: Bernie mi ha offerto una mazzetta di 80 milioni di dollari per cedere la sua quota della F1. E mi ha anche spiegato che conveniva farlo a Singapore, perché si tratta di un porto sicuro: non paghi le tasse e non ti beccano. Peanuts. Bernie prende il suo jet e se ne va: altro che Maltauro. Giovedì ci si diverte. I giudici cinesi mettono sotto accusa l’inglese Gsk. Il colosso farmaceutico avrebbe pagato stecche a non finire su tutto il territorio cinese, per vendere i suoi medicinali al prezzo otto volte superiore al resto del mondo. Già sentita questa storia. L’indagine va avanti da 10 mesi. Il gruppo licenzia alcuni manager di vertice. Nell’ultimo trimestre del 2013 Gsk, vede crollare le vendite in Cina quasi del 30%. Le autorità parlano di «corruzione su larga scala».Ma torniamo alle nostre banchette. Proprio nel giorno delle indagini su Bazoli & Pesenti, scopriamo che una delle più grandi istituzioni americane, Citi, licenzia 11 dirigenti chiave in Messico. Avrebbero prestato 400 milioni di dollari, grazie all’emissione di fatture false e senza vedere indietro il becco di un quattrino. Poca roba rispetto all’indagine aperta contemporaneamente in Massachusetts, sulla medesima controllata di Citi in Messico, per un’ipotesi di riciclaggio del narcotraffico. Venerdì scopriamo, sempre sulla prima pagina del “Ft”, che il capo di Deutsche Bank se la prende con i propri trader. Invia loro una mail dicendo di non dire più parolacce. «È tutto registrato e al prossimo scandalo (del genere manipolazione tassi di interesse) farebbe molto male alla reputazione della banca, vedere il linguaggio scurrile con cui parlate» è più o meno il senso della richiesta.Venerdì è un giorno buono per la stampa specializzata in corruzione, cioè quella finanziaria. Ci sono i broker americani che pagano prostitute per i propri clienti, c’è la casa automobilistica che non cambia elettronica difettosa e potenzialmente mortale, c’è il tycoon brasiliano che vende le sue azioni il giorno prima del fallimento e nessuno lo può toccare. Insomma c’è, come sempre, di tutto. Resta il fatto che siamo dei dilettanti. Ma dei professionisti nel pensare presuntuosamente di essere peggio di tutti al mondo.(Nicola Porro, “Stecche e tangenti? All’estero sì che ci sanno fare”, dal blog di Porro su “Il Giornale” del 19 maggio 2014).http://www.ilgiornale.it/news/interni/stecche-e-tangenti-allestero-s-che-ci-sanno-fare-zuppa-porro-1020294.htmlSiamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.
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Huxley, il profeta: ci fanno amare la nostra schiavitù
Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.Eppure ci sono buone ragioni per considerarlo il più utopista tra i due. Infatti una delle ironie della storia è che le previsioni sul nostro futuro ingabbiato dai network si possono trovare tutte negli incubi dell’immaginazione di Huxley e del suo collega di Eton George Orwell. Orwell temeva che saremmo stati distrutti dalle cose di cui abbiamo paura – l’apparato di controllo statale così suggestivamente evocato in 1984. L’incubo di Huxley, rappresentato ne “Il Mondo Nuovo”, il suo grande racconto distopico, era che noi saremmo stati annientati dalle cose che tanto amiamo. Huxley era un rampollo dell’aristocrazia intellettuale inglese. Suo nonno era Thomas Henry Huxley, il biologo vittoriano che fu il più efficace divulgatore della teoria dell’evoluzione di Darwin (era soprannominato “il bulldog di Darwin”). Sua madre era nipote di Matthew Arnold. Suo fratello Julian e il fratellastro Andrew furono entrambi eminenti biologi.Alla luce di queste circostanze non stupisce che Aldous divenne uno scrittore che si spinse ben oltre i normali interessi degli ambienti letterari – si occupò di storia, filosofia, scienza, politica, misticismo e psicologia. Il suo biografo scrisse: «Scelse come suo motto personale l’iscrizione appesa al collo di un logoro straccione in un dipinto di Goya: Aún aprendo, Continuo ad imparare». Era, in un certo senso, un moderno Voltaire. “Il Mondo Nuovo” fu pubblicato nel 1932. Il titolo deriva dalle parole di Miranda nella Tempesta di Shakespeare: “Oh meraviglia! / Quante buone creature vi sono qui! / Come è bella l’umanità! Oh splendido mondo nuovo, / fatto di tali genti”. E’ ambientato nella Londra d’un lontanissimo futuro – il 2540 – e descrive una società immaginaria ispirata da due fattori: l’estrapolazione effettuata da Huxley delle tendenze scientifiche e sociali ed il suo primo viaggio negli Usa, durante il quale fu colpito da come la popolazione potesse essere palesemente soggiogata dalla pubblicità e dal consumismo.In quanto intellettuale affascinato dalla scienza, intuì (correttamente, come si è poi visto) che i progressi scientifici avrebbero finito per dare agli uomini dei poteri fino allora considerati di esclusiva appartenenza degli dèi. I suoi incontri con uomini dell’industria come Alfred Mond lo indussero a pensare che le società sarebbero state gestite con criteri ispirati al razionalismo manageriale della produzione di massa (fordismo) – ed è per questo che l’anno 2540 diventa nel racconto “l’anno 632 del Nostro Ford”. Huxley descrive la produzione di massa di figli attraverso ciò che oggi chiamiamo fecondazione in vitro; la manipolazione del processo dello sviluppo dei bambini per produrre diverse “caste” con livelli di capacità attentamente modulati, in grado di renderli adeguati ai vari ruoli sociali e industriali ad essi assegnati; e infine il condizionamento pavloviano dei bambini fin dalla nascita.In questo mondo nessuno si ammala, tutti hanno la stessa durata della vita, non esistono guerre, e le istituzioni, il matrimonio e la fedeltà sessuale sono superflue. La distopia di Huxley è una società totalitaria, gestita da una dittatura apparentemente benevola, i cui soggetti sono stati programmati per godere della propria sottomissione attraverso il condizionamento e l’uso di un narcotico – il Soma – che è meno dannoso e più gradevole di qualunque droga conosciuta. I governanti del Mondo Nuovo hanno risolto il problema di far amare alle persone la propria schiavitù. Questo ci riporta ai due scrittori di Eton, cardini del nostro futuro. Sul fronte orwelliano, stiamo andando abbastanza bene – come hanno recentemente dimostrato le rivelazioni di Edward Snowden. Abbiamo costruito un’architettura di controllo statale che lascerebbe Orwell senza fiato. E sicuramente, per chi di noi è preoccupato da tutto questo, si è rivelata durevole la capacità di Internet di agevolare tale controllo totalizzante che ha catturato la massima attenzione.In qualche modo comunque ci siamo dimenticati dell’intuizione di Huxley. Non ci siamo accorti che la nostra vertiginosa infatuazione per i giochi prodotti da Apple e Samsung – insieme alla nostra insaziabile fame di Facebook, Google e altre compagnie che ci forniscono servizi “gratuiti” in cambio degli intimi dettagli sulle nostre vite private – potrebbe rivelarsi essere una droga così potente come lo era il Soma per gli abitanti del Mondo Nuovo. Quindi anche se non ci scordiamo di CS Lewis, dedichiamo un pensiero allo scrittore che intuì un futuro in cui saremmo arrivati ad amare la nostra schiavitù digitale.(John Naughton, “Aldous Huxley, il profeta della nostra nuova distopia digitale”, dal “Guardian” del 21 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.
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Ma Cantone sarà solo contro la lobby dei partiti ladri
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».«Non so se si tratta di un fallimento politico. Di certo in questi anni si è sbagliato a non lavorare abbastanza sulla prevenzione. Si è clamorosamente abbassato il livello di guardia di fronte a certi fenomeni». Un atteggiamento che, secondo l’ex magistrato, «è anche il frutto di un’opinione pubblica spesso distratta», che «su alcuni temi si è rivelata eccessivamente ondeggiante». Perché, se a fronte di alcuni episodi «c’è stata grandissima attenzione, finanche con rigurgiti di moralismo, in altri si è stati del tutto incapaci di indignazione». Il virgolettato è copiato integralmente dall’intervista e, in assenza di smentite, va preso per buono. E non finisce qui: pur avendo smesso la toga, quel che segue sembrerebbe quasi l’istruttoria di una indagine in cui si analizzano analogie e differenze col passato, remoto o prossimo che sia: «Tangentopoli non ci ha insegnato nulla. Tornano alla ribalta personaggi già condannati: il peggio poteva essere scongiurato e i partiti hanno grandi responsabilità perché non hanno saputo attrezzarsi con delle regole chiare di finanziamento trasparente. La trasparenza – sottolinea – è l’anticorpo più potente nei confronti del malaffare».E quasi a voler tirare le orecchie al governo per la sua proposta (poi precipitosamente ritirata) con cui proprio alla vigilia degli arresti si proclamava di voler “slegare la crescita” dai lacci e laccioli della burocrazia, Cantone aggiunge che il controllo pubblico non è sinonimo di ritardi e inefficienze, anzi: «Si può tranquillamente mettere in campo una rete di controlli efficace, intelligente, agile e non burocratica, purché ci sia davvero trasparenza». Per cancellare ogni possibilità di equivoco circa la severità del suo giudizio, l’ex magistrato sottolinea poi che «personaggi già condannati per corruzione sono arrivati a ritagliarsi un ruolo, non di diritto ma di fatto, per incidere nuovamente nell’assegnazione e nella gestione degli appalti», arrivando senza nessun ostacolo a ricandidarsi e farsi eleggere (come nel caso di Gianstefano Frigerio, Pdl), nonostante la precedente condanna per corruzione. Cosa avvenuta sfacciatamente e nel disinteresse generale, il che rappresenta la sostanza della anomalia italiana.Una anomalia peggiorata, se possibile rispetto al 1992 (l’anno della prima tangentopoli) perché «lo scenario è indubbiamente cambiato: oggi esistono gruppi di potere o di pressione del tutto autonomi dalla politica, ovvero che rispondono ai partiti ma piuttosto ne influenzano l’attività politica». Cosa aggiungere dalla mia comoda poltroncina seduto davanti al monitor? Che Milano ha già avuto un eroe, come ebbi modo di ricordare in uno dei miei primi interventi su queste pagine virtuali: si chiamava Giorgio Ambrosoli, ebbe il “torto” di voler andare fino in fondo nell’incarico che gli era stato assegnato di liquidatore del Banco Ambrosiano del banchiere di Cosa Nostra Michele Sindona, sodale dei partiti e delle lobby finanziarie dell’epoca… Se Cantone è scaramantico farà bene a svolgere i riti propiziatori del caso, ma mi (e soprattutto gli) auguro che i riflettori accesi sulla vicenda odierna siano tali da illuminare a giorno la scena che fu lasciata all’epoca completamente al buio dai responsabili della tutela della incolumità di chi si assume incarichi così delicati. Al punto che addirittura i funerali della vittima avvennero nel “disinteresse generale” che il neo commissario denuncia in un altro brano della sua intervista…Oltre agli auguri di buon lavoro che ogni cittadino gli deve, anche nel proprio interesse di contribuente, voglio tuttavia e un po’ a malincuore concludere con una nota di sincero scetticismo: Cantone, come molti suoi colleghi, ha studiato migliaia di pagine, dal diritto romano a quello internazionale e commerciale, per poter svolgere al meglio la sua professione e meritarsi la riconoscenza di tutte le persone oneste e di buona volontà (quelle cui sembra alludere quando fa riferimento alla necessità di indignazione). Ma, avendo come tutti una sola vita a disposizione, non può aver avuto una esperienza di trentatsei anni nel mondo delle grandi opere come è capitato in sorte al sottoscritto… Che riteneva (come ritiene) eroica l’azione di moralizzazione della vita pubblica che pochi coraggiosi magistrati svolgono in una paese che spesso sembra più una infida palude che un’oasi bucolica. E per questo ci si è anche provato – nel limite delle proprie capacità e conoscenze – di inviar loro degli esposti su quel che pareva fosse una caratteristica costante di questo particolare mondo: le tangenti.Inutile dire che la cosa servì, temo, solo ma farmi considerare, “nell’ambiente”, come “uno che sputava nel piatto dove mangiava” (espressione molto in uso in ogni corporazione “che si rispetti”). E proprio perché ho questo passato “certificabile” alle spalle mi permetto di sostenere con convinzione – pur sperando vivamente di sbagliarmi – che le grandi opere, alle lobby che le promuovono, le progettano, le appaltano e poi le gestiscono (generalmente attraverso il famigerato istituto della concessione) servono soprattutto per rubare denaro pubblico. A volte (non sempre, ma solo quando non sono inutili) servono anche ai cittadini. Ma facendogli pagare più volte il conto: con il lievitare spropositato dei costi (sempre a carico pubblico e “a debito”, checché si prometta), con gli interessi bancari, col pedaggio permanente (a fronte dei trent’anni di durata massima generalmente stabilita); e infine con i costi folli delle manutenzioni straordinarie, dovute quasi sempre alla scarsa qualità dei materiali impiegati, che però vengono fatturati per buoni.Un meccanismo che rende la “forbice” tra costi reali e soldi pubblici erogati talmente ampia che si possono accontentare tutti: dai partiti, alle banche, alla ‘ndrangheta al “cartello delle imprese”. Per questo ritroviamo tesserato al Pd di Renzi (e tardivamente sospeso) Primo Greganti, il compagno-G della prima tangentopoli che tanti meriti guadagnò, in quel partito che si chiamava ancora Pds, nel tacere sulla famosa valigia piena di soldi del Gruppo Gavio. Un pesante fardello di quasi un miliardo – c’era ancora la lira – che doveva tornare al mittente per il tramite di un altro compagno, che vive e marcia assieme a noi e proprio a Milano: quel Filippo Penati che consentì ai manager di Tortona l’affare delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle, in cambio di un aiutino nel tentativo di scalata all’Antonveneta della Unipol di un altro “compagno”, Giovanni Consorte, quello a cui ancora un “compagno”, quel Piero Fassino che De Benedetti vorrebbe presidente della nostra (ma non della sua) Repubblica, chiese: «Abbiamo una banca?».Difficile pensare che un uomo solo – per quanto coraggioso e determinato – possa venire a capo di un sistema. Difficile credere che possa farlo senza l’aiuto, se non di tutti i cittadini, di quella parte di opinione pubblica che non intende smettere di indignarsi. Buon lavoro, Cantone. E se vuole, conti su di noi. Ma soprattutto, non conti sulla collaborazione che non potrà che essere di facciata di chi crede (o vuol far credere) che a governare partiti e un intero paese siano quelli che vengono eletti nelle primarie – o, per ben che vada, alle politiche – e non quelli che ne costituiscono, da sempre, le cupole.(Claudio Giorno, “Alla Scala-Expo di Milano va in scena l’Eroica di… Cantone”, dal blog di Giorno del 12 maggio 2014).Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».
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Neo-analfabeti: 3 italiani su 10 non sanno cavarsela
Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome. Ma sbaglio. Un analfabeta, ci ha ricordato l’Ocse pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa. Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico. Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere. Tre italiani su 10, ci dice l’Ocse, si informano (o non si informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo. Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anch’io, ma leggendo i dati dell’Ocse ho subito pensato a un dialogo di qualche anno fa, tra me e una collega. All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. A un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: «Grazie, ma io non leggo libri». «Mai?», chiesi. «Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio».Davanti ai dati dell’Ocse, l’ex ministro Carrozza si è affrettata a sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di tendenza. Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe? Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici. La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a criticare, a soppesare, a riassumere.Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: «Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!». Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate. I parametri Invalsi – lo strumento europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)? Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità. Per rispondere all’allarme dell’Ocse, questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza. Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare. Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive. E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.(Vanessa Niri, “I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà”, intervento pubblicato da “Wired” e ripreso da “Contropiano” il 14 aprile 2014).Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome. Ma sbaglio. Un analfabeta, ci ha ricordato l’Ocse pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa. Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
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Chiesa: divisi non si vince, spiegatelo a Grillo (e Tsipras)
«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».Il commento di Chiesa, pubblicato sulla sua pagina Facebook, ha suscitato «una vera bufera di reazioni, opposte». Da una parte i sostenitori del Movimento 5 Stelle, secondo i quali ovviamente «la nuova forza politica già c’è e non bisogna cercarne altre», e dall’altra «quelli di sinistra, che continuano a negare ogni credibilità al M5S». A questi ultimi, Giulietto Chiesa risponde con le cifre: «Una alternativa di sinistra all’attuale regime non esiste e – io ne sono certo – non esisterà più in un futuro prevedibile». I motivi? «Moltissimi, tutti convergenti», più volte enunciati: la sinistra (elettorato) non ha “visto” la natura e le dimensioni epocali della grande crisi – economia, energia, clima, fine della crescita illimitata – mentre la nomenklatura del centrosinistra ha di fatto “eseguito” i diktat dell’élite oligarchica oggi alla guida del capitalismo finanziario globalizzato.Un’illusione, però, anche quella di chi (come molti grillini) coltiva la speranza di cambiare l’Italia col 25% dei voti. «Enrico Berlinguer – che si rivolgeva, si badi bene, al più forte partito comunista dell’Occidente – dopo i fatti del Cile del 1973, quando Salvador Allende fu rovesciato e ucciso da un colpo di Stato organizzato dalla Cia, disse che non si poteva cambiare il paese nemmeno con il 51%. Perché lo disse? Perché sapeva che il nemico sarebbe uscito dal terreno democratico e avrebbe rovesciato il tavolo e la legalità. Aveva ragione. Infatti avvenne proprio così. Adesso è la stessa, identica situazione». In ogni caso, è sbagliato sottovalutare il potenziale democratico espresso dal movimento di Grillo: «Il M5S è una realtà nuova, di grande importanza», sottolinea Chiesa. «Per quanto mi riguarda l’ho sostenuta in tre consultazioni elettorali (in Sicilia nel 2012, alle elezioni politiche del 2013, ora nel 2014)». Una forza “amica”, dunque, che però «da sola, non potrà cambiare il paese».Ennesima occasione perduta, la campagna elettorale per le europee: «Il non avere tentato una convergenza sulla candidatura di Tsipras è stato un errore grave». Errore che peraltro la stessa Lista Tsipras «ha commesso, alla rovescia, rifiutando pregiudizialmente ogni contatto con il M5S». Chi ci rimette? «Milioni di italiani», cioè quelli che «vogliono cambiare radicalmente il paese, e che non sono né di sinistra, né del M5S». E’ a loro che Giulietto Chiesa pensa, quando parla di «una grande alleanza democratica e di pace e di pulizia, un’alleanza per la salvezza nazionale». Che fare? «Bisogna che tutti, sia il M5S, sia le sinistre (non parlo del Pd, che sinistra non è più), siano capaci di mettersi assieme per formulare un programma di governo, e una lista di governo». Una grande riforma intellettuale e morale «richiede molte forze ideali e componenti che non sono racchiudibili dentro gli attuali schieramenti». C’è bisogno di tutti, purché fuori dalla “casta”, quella dei partiti “maggiordomi” dei poteri forti: prima lo si capisce, e prima avremo concrete possibilità di fermare i diktat dell’oligarchia.«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».
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Halevi: liquidare il Pd e l’euro-regime che taglia i salari
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.Per poter permettere l’uscita soltanto dall’Ume sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e Ue – cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’unione monetaria. In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo “economic outlook” dell’Ocse – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità, e quindi per via del connesso calo degli investimenti. Non si può tornare a Keynes, perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “keynesismo militare” del periodo 1947-71 o forse ‘47-74. Infine, con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva, finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza Usa non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani.Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del mercato. Invece, per molti versi organismi statuali insindacabili (come quelli dell’Ue) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici, intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti.Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari, negli Usa prima e progressivamente anche in Europa, che ha spinto le famiglie a indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali – prima verso il Messico e poi massicciamente verso la Cina – sono andate di pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale, che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda, tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli Usa è stata sostenuta la domanda effettiva mondiale: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti importazioni dal resto del mondo.A ben guardare, i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, Usa e pochi altri. Negli Usa il tasso di crescita pro capite è stato moderato, ma quello aggregato – che include l’aumento di popolazione – è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti, al punto che è impossibile fare delle distinzioni. A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana “The New Republic” nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato, ma grazie al pilastro rappresentato dal keynesismo miltare.Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci, dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più, a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli Usa che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali; mentre il lavoro dipendente, il precariato e i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia. Ritorno ai cambi flessibili? L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro, sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero.Precaria la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti e imboscati nei meandri della politica. Però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù. Comunque, se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa. Cioè la socializzazione pianificata degli investimenti e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della Cgil e per la dissoluzione del Pd. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.(Joseph Halevi, estratti dall’intervista realizzata da “EuroTruffa” e ripresa da “Megachip”. Economista dell’università di Sydney, Halevi è autore con Riccardo Bellofiore del saggio “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”).Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.
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Giannini: capitalismo italiano, piccola oligarchia cialtrona
Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.Fuggono dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. E il plenipotenziario Paolo Scaroni all’Eni «riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile». Fa impressione, scrive Lerner in un intervento ripreso nel suo blog, la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: «Quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione percepibile non solo nella grande industria ma anche nella finanza». Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto, dove vengono meno anche i polmoni del credito, se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione, mentre Intesa Sanpaolo, «concepita con l’ambigua e non meglio precisata funzione pseudopolitica di “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita».L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti, «perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili, in tale consesso, non possono essere liquidati come corpi estranei da cui prendere le distanze». Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. «Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, di cui solo ora tutti pronunciano a voce alta il soprannome “coppoletta”, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?».Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. E’ l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani, con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma già nel 2011 «era saltato un perno decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostenevano a vicenda», scrive Lerner, alludendo alla presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, «e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro». Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio?Secondo Giannini, è stata «una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizzava i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagirone e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano». Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante: «Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche. Se altrove, cioè, si pone un problema di “tosatura” del sovrappiù di un’economia cartacea che rischia di soffocare l’economia reale, in Italia l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri».(Il libro: Massimo Giannini, “L’anno zero del capitalismo italiano”, Editori Laterza / La Repubblica, 136 pagine, euro 5,90).Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.
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Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio
Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».(Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
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Sorvegliati e felici: è il capolavoro del Sesto Potere
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra, ai quali contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo post-panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo del controllore, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film “Minority Report”) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini. Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta.Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile.La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad). In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (“Felici e sfruttati”, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti: «La guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia», si legge in un passaggio del libro, «ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare».Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.(Carlo Formenti, “Felici e sorvegliati”, da “Micromega” del 5 marzo 2014. Il libro: Sygmunt Bauman e David Lion, “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida”, Laterza, 159 pagine, 16 euro).Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.