Archivio del Tag ‘M5S’
-
Grillini, ragionate: sono ben altri i ladri del nostro futuro
Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.Per queste ragioni, pur non sfuggendomi alcuni evidenti limiti ontologici, avevo in passato più volte invitato ai miei lettori a votare per i pentastellati. Non accordare consenso ai partiti che hanno sostenuto governi come quello di Mario Monti è il primo, insufficiente, passo per raggiungere una libertà che cammini sulla ali della consapevolezza. Limitarsi però ad evidenziare le aberrazioni altrui senza contestualmente costruire una alternativa politica credibile, coerente e ideologicamente orientata è prassi sterile e in prospettiva perdente. Renzi, ennesimo curatore fallimentare nominato premier dal presidente Napolitano (quest’ultimo in forza alla Ur-Lodge “Three Eyes” fin dal 1978), è riuscito a “svuotare” in parte il bacino elettorale del Movimento di Grillo e Casaleggio, sfidandoli proprio sul loro terreno: quello delle retorica contro la Casta, gli sprechi, i corrotti e altre simili amenità, non a caso alimentate e fomentate dai giornali di regime fin dai tempi di Mani Pulite.La Rottamazione di Renzi rappresenta nulla di più che l’evoluzione, perfezionata e politicamente corretta, del già rodato “tutti a casa” di grillina memoria. Al sistema schiavista dominante, quello che parla per bocca di ectoplasmi con la penna che creano ad arte finti mostri come lo spread e il debito pubblico, interessa poco della sorte personale dei diversi burattini che si alternano al governo del paese; ai padroni veri, quelli che operano all’interno dei templi più esclusivi ed occulti, interessa soltanto che non vengano messi in discussione i paradigmi concettuali che legittimano la prosecuzione di politiche antisociali e disumane. Per queste ragioni, tempo fa, rimasi inorridito nel leggere una intervista rilasciata da Casaleggio al “Fatto Quotidiano” contenente un indiscriminato attacco alla spesa pubblica degno di un Enrico Letta qualsiasi. Perché mai, mi chiesi allora, il “Movimento 5 Stelle” sceglie una narrazione dei fatti terribilmente simile a quella recitata dai vari Napolitano, Renzi e Merkel? E’ possibile si tratti di una opposizione di comodo, nata cioè con lo specifico intento di fornire agli altri una buona scusa per formare all’infinito governi consociativi ed etero-diretti dall’esterno?Questo rovello mi ha inseguito fino al 5 gennaio scorso, giorno in cui il blog di Grillo ha deciso coraggiosamente di pubblicare una riflessione di Gioele Magaldi, leader del movimento massonico di opinione Grande Oriente Democratico nonché autore del fortunato libro “Massoni” (Chiarelettere editore). Solo degli uomini liberi, infatti, possono permettersi di rilanciare le tesi di Magaldi senza dover chiedere il preventivo consenso del “maestro venerabile” di turno. E Grillo e Casaleggio, evidentemente, appartengono alla categoria degli uomini e non a quella, nutritissima, dei quaquaraquà. Certo, dopo anni passati a dispensare letture delle realtà molto semplificate, non sarà agevole spingere i militanti e i simpatizzanti del “Movimento 5 Stelle” ad abbracciare immediatamente una dimensione politica più articolata. Sono comunque certo del fatto che le tante sottili intelligenze che animano il Movimento di Grillo colgono l’impellente necessità di uno scatto in avanti.Non a caso, anche oggi, dimostrando una lodevole apertura mentale, Grillo ha pubblicato sul suo blog un articolo chiaramente e positivamente influenzato dalla fruttuosa lettura del libro “Massoni”. Nelle more del summenzionato pezzo, infatti, Grillo scrive: «Il miglioramento rispetto ai picchi dello spread di novembre 2011 pilotato per cacciare Berlusconi e imporre Monti e la sua “Three Eyes” in grembiulino…», dando perciò prova di avere già indossato le pregiate lenti offerte da Magaldi. Giusto per essere precisi, è bene sottolineare come Mario Monti risulti organico tanto alla superloggia “Babel Tower”, quanto alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Alla Ur-Lodge “Three Eyes”, invece, fondata da Kissinger, Brzezinski e David Rockefeller nel 1967, è affiliato fin dall’aprile del 1978 il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma non Mario Monti). Ma questi sono dettagli. Il dato davvero importante è quello che testimonia come oggi, in Italia, esista una forza politica importante che conserva la libertà di chiedere conto al sistema dominante di fatti e dinamiche decisive, graniticamente silenziate da un circuito mediatico omertoso che invoca implicitamente un oblio che mai otterrà.(Francesco Maria Toscano, “Il Movimento 5 Stelle è perfezionabile, ma è guidato da uomini liberi”, da “Il Moralista” del 9 gennaio 2015).Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.
-
Borghi: referendum-burla, Grillo vuole sabotare i no-euro
La campagna di Beppe Grillo per un referendum sull’uscita dall’euro? «E’ la tattica più efficace per bloccare qualsiasi possibilità di abbandono della moneta unica». Parola del professor Claudio Borghi Aquilini dell’Università Cattolica di Milano, l’uomo più ascoltato da Matteo Salvini su questi temi e con il quale il leader del Carroccio ha scritto il manuale “Basta Euro”. Non appena Grillo ha annunciato via blog la mobilitazione dei banchetti per raccogliere le firme, scrive Giovanni Bucchi su “Italia Oggi”, Borghi ha lanciato su Twitter la controffensiva per smontare punto per punto le tesi dell’ex comico genovese. Ma Lega e M5S non vogliono entrambi l’uscita dall’euro? «Come Forza Italia, il “Movimento 5 Stelle” è un partito che ha avuto il privilegio di poter ascoltare per primo le spiegazioni sul perché oggi sia quanto mai urgente e necessario uscire dall’euro», dice Borghi, che cita un’intervista con Claudio Messora, già portavoce grillino. «Ne parlai addirittura con Berlusconi». E come andò? «È finita che Forza Italia alle ultime europee non ha fatto una campagna elettorale contro l’euro, probabilmente a seguito del famigerato Patto del Nazareno con Renzi».«La grande colpa dei “5 Stelle”, insieme a quella di Forza Italia – continua Borghi – è stata di non aver costruito alle elezioni europee un fronte anti-euro che avrebbe potuto arginare Renzi e che, insieme alle affermazioni dei partiti contro la moneta unica sia in Francia che in Inghilterra, avrebbe creato seri problemi agli euroburocrati di Bruxelles». Secondo l’economista, ora schierato con la Lega Nord, «Grillo e Forza Italia sono stati complici in questo salvataggio di Renzi e delle politiche europee». Adesso però, rileva Bucchi, è pur vero che Grillo lancia la mobilitazione e chiede un referendum. «Questa campagna – replica Borghi – è l’esatta continuazione dell’attività a favore di Renzi e dei pro-euro, già iniziata mesi fa quando i grillini decisero di non schierarsi contro la moneta unica in campagna elettorale». Secondo Borghi, letteralmente, «chi chiede un referendum sull’euro, come fa Grillo, prende in giro gli italiani». E spiega: «Se io sono a Milano e devo andare a Torino, salgo sul primo treno che mi porta in quella città. Ma se invece prendo il treno per Padova, poi una volta in carrozza dico a tutti di fare un referendum per decidere se andare a Torino mentre il treno va a Padova, sto prendendo in giro le persone».In Italia, continua il professore, non si possono fare referendum sui trattati: è incostituzionale. «Grillo propone allora una legge costituzionale per indire un referendum, sulla base di quanto fatto nel 1989 per il conferimento di mandato al Parlamento Europeo. Peccato però che il leader dei “5 Stelle” si dimentichi di dire che per approvare una tale legge servono i voti dei due terzi del Parlamento, cosa assolutamente impossibile in questo momento dove il Pd ha saldamente in mano la maggioranza almeno alla Camera». Non solo: «Grillo dimentica anche di specificare che questo referendum sarebbe soltanto consultivo, quindi una sorta di sondaggione sull’euro, con una campagna referendaria quasi sicuramente influenzata dai poteri economici e finanziari di Bruxelles». Un’ipotesi dunque «non percorribile e irrealizzabile». Spiegazione: «Quando uno non conosce le cose, può agire per ignoranza, come ho fatto anche io per un certo periodo. Ma dopo che ti è stato spiegato cosa significa uscire dall’euro e come andrebbe fatto, se continui a muoverti in un’altra direzione sei in malafede».Aggiunge Borghi: «Mi dà un dolore pazzesco doverlo dire, perché sarebbe importantissimo creare un fronte no-euro, ma i “5 Stelle” in questo seguono le tesi di Casaleggio, contrario all’uscita dalla moneta unica. Anzi, adesso i grillini si sono messi in testa di sabotare il movimento di uscita dall’euro, e non riuscirei a immaginare una tattica più efficace di questa: portare su un binario morto tante persone sinceramente convinte di fare questa battaglia». Cosa andrebbe fatto, dunque? «Occorrerebbe unire le forze veramente contro l’euro, sedersi a un tavolo e preparare l’uscita in maniera professionale. Poi bisogna fare cadere il governo e andare alle elezioni alleati con una sola priorità: fuori dalla moneta unica, tutto il resto viene dopo». Le acque si stanno intorbidendo: nel Pd, segnala Bucchi, ci sono state aperture sul superamento dell’euro, soprattutto da Cuperlo e Fassina. «Non mi stupisce che qualcuno si stia svegliando anche a sinistra, perché le posizioni del Pd sono sempre più insostenibili alla prova dei fatti», conclude Borghi. «Sono convinto che una volta usciti dall’euro, tutti sosterranno di avere sempre detto che si sarebbe dovuto fare così; un po’ come quando in Italia è caduto il fascismo e s’è scoperto che tutti erano sempre stati antifascisti. Già, ma solo dal giorno dopo la caduta».La campagna di Beppe Grillo per un referendum sull’uscita dall’euro? «E’ la tattica più efficace per bloccare qualsiasi possibilità di abbandono della moneta unica». Parola del professor Claudio Borghi Aquilini dell’Università Cattolica di Milano, l’uomo più ascoltato da Matteo Salvini su questi temi e con il quale il leader del Carroccio ha scritto il manuale “Basta Euro”. Non appena Grillo ha annunciato via blog la mobilitazione dei banchetti per raccogliere le firme, scrive Giovanni Bucchi su “Italia Oggi”, Borghi ha lanciato su Twitter la controffensiva per smontare punto per punto le tesi dell’ex comico genovese. Ma Lega e M5S non vogliono entrambi l’uscita dall’euro? «Come Forza Italia, il “Movimento 5 Stelle” è un partito che ha avuto il privilegio di poter ascoltare per primo le spiegazioni sul perché oggi sia quanto mai urgente e necessario uscire dall’euro», dice Borghi, che cita un’intervista con Claudio Messora, già portavoce grillino. «Ne parlai addirittura con Berlusconi». E come andò? «È finita che Forza Italia alle ultime europee non ha fatto una campagna elettorale contro l’euro, probabilmente a seguito del famigerato Patto del Nazareno con Renzi».
-
Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà
Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
-
Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?
Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.(Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
-
Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
-
Global warning, Roma: Craig Roberts e lo stratega di Putin
Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.La formula del meeting, aperto al pubblico, è quella del panel internazionale: dopo l’introduzione di Pino Cabras (“Megachip”) e l’intervento di Giulietto Chiesa, il 12 dicembre a Roma (Palazzo Marini, Sala delle Colonne), prendono la parola grandi giornalisti come Marcello Foa (“Il Giornale”) e Pepe Escobar (“Asia Times”), il libanese Talat Khrais (Al Manar Tv”) e Piero Pagliani, analista geopolitico. Ospiti internazionali presenti a Roma o in collegamento video: da Mikhail Leontyev, vicepresidente del colosso energetico russo Rosneft, alla lettone Tatiana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del gruppo “Per i diritti umani in Lettonia”. Tra i politici italiani due “grilline” come le parlamentari Paola De Pin (Senato, commissione diritti umani) e Marta Grande (Camera, commissione esteri). E naturalmente, il punto di vista – incrociato e convergente – di due personaggi internazionali di primissima grandezza, l’americano Craig Roberts e il russo Glazyev, indicato come il super-tecnocrate che sta guidando il Cremlino verso la Cina, per resistere all’offensiva economica occidentale.«Il panel – spiegano gli organizzatori – include intellettuali provenienti da diverse parti del mondo, che condividono preoccupazioni simili riguardo lo scenario internazionale, nonostante background ed esperienze politiche e intellettuali differenti». L’incontro di Roma può diventare «fonte d’ispirazione per nuove connessioni tra personalità e networks, al fine di condividere idee e soluzioni alla crisi globale, in particolare alle situazioni che stanno ora vivendo Ucraina e Medio Oriente». Le voci che hanno accettato di confrontarsi con la platea di “Global warning” rivelano «visioni comuni in riguardo al declino del mondo unipolare, gravato dall’enorme debito, dal decadimento della democrazia e da una feroce competizione internazionale». La partecipazione è libera, con obbligo di accredito attraverso l’invio dei dati anagrafici, entro l’8 dicembre, all’indirizzo contatti@pandoratv.it.Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.
-
Fine dei giornali? Solo se lo vorranno i Padroni dell’Occidente
Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.L’ipotesi c), per esempio, è attualmente in vigore nel caso di giornali che, barattando la loro visione “politica” ottengono, da parte di inserzionisti pubblicitari particolari, un occhio di riguardo. A tutt’oggi infatti il consenso politico su grandi temi strategici quali la guerra e la pace, il valore flottante delle monete di riserva planetaria, le questioni energetiche e farmaceutiche, gli investimenti nelle borse, viene ancora organizzato da “Big Press” e “Big Tv”, che stanno sopravvivendo alla crisi della pubblicità e anzi l’hanno usata come alibi per “asciugare” costi ritenuti superflui e dismettere giornalisti. Ciò non toglie che, all’interno del vasto mosaico dei media, il declino di gran parte della stampa classica e dei giornali online sia in corso. È sul suo decesso “inevitabile” però che si possono e devono esprimere dubbi, come quando all’avvento della Rivoluzione Industriale si espressero leciti dubbi sulla morte dell’artigianato. Esiste infatti un’ipotesi di sopravvivenza alla crisi della pubblicità, che tenterò di formulare in seguito.Casaleggio descrive poi una pratica pubblicitaria molto perversa che si svolge in rete: quella dell’uso dei “cookies”. E descrive i suoi effetti nefasti: monitoraggio degli accessi, dei comportamenti e del profilo dell’utente. Non possiamo che essere d’accordo. La questione è molto presente, nel dibattito internazionale, sulle linee guida che dovrebbero condurre a una futura governance di Internet, meno anarco-liberista di quanto non sia ora. Però c’è da dire che proprio in quelle sedi internazionali, dove la società civile riesce a manifestare un minimo la propria visione, la definizione “utente” è in via di superamento, per diverse ragioni: a) perché “utente” si impasta e si intreccia con “prosumer”, con “consumatore”, con “cliente finale” e con “utente inserzionista”, e ciò crea confusione; b) perché “utente” presuppone che la Rete sia “un servizio agli utenti”, e ciò contrasta con le più recenti visioni della “net neutrality”, per le quali la Rete è un’infrastruttura indispensabile alla Cittadinanza Digitale che, al dunque, è costituita da “persone”.Casaleggio afferma ancora: «In sostanza il rapporto tra consumatore e pubblicità non risiederà più nei siti editoriali, che ne perdono il controllo, ma negli inserzionisti digitali come Google o Facebook. Di fatto questo rovescia il rapporto economico attuale, in quanto la tracciabilità dell’utenza e l’uso dei dati personali sarà alla base di ogni futuro processo pubblicitario. La pubblicità sarà prevalentemente digitale e la proprietà del cliente verrà trasferita ai big del web. Questo comporterà una riattribuzione, già in atto, dei ricavi dai vecchi operatori (gli editori) a nuovi operatori, con un restringimento della filiera pubblicitaria». Anche qui ci sono da fare alcune considerazioni. Probabilmente Casaleggio allude alla “readership” che costituisce il parco lettori di una testata giornalistica e che viene “venduta” alle agenzie, o direttamente agli inserzionisti, dalla concessionaria della testata. La concessionaria dell’editore (e qui crediamo che parli di editori online) ne perde il controllo, che finisce nelle mani di soggetti quali Google e Facebook (i quali comunque, precisiamo: tutto sono meno che “inserzionisti digitali”). Allora: sì. È vero che le concessionarie e le sezioni marketing degli editori contano sempre meno, ma non è vero che la facoltà di vendita del parco lettori viene loro sottratta. Ciò che viene sottratto agli editori è la capacità di negoziare il prezzo del loro parco lettori. E quindi, in progress, pagandoli sempre meno, gli inserzionisti costringono gli editori a chiudere. Ma perché?Perché gli editori di giornali (e qui intendiamo tutti) non hanno capito il profondo valore della contrattazione del Costo Contatto e in dettaglio del Cost per Thousand, cioè il valore – negoziabile e non derivato – che l’inserzionista paga per raggiungere con il suo messaggio 1000 persone, e che regola la compravendita di spazi in tutti i media (incluso il web). Se gli editori sono l’offerta (di lettori/readership) e gli inserzionisti (non Google e Facebook) rappresentati dalle agenzie di pubblicità che comprano spazi, sono la domanda (di lettori/readership)… in un mercato vero ci dovrebbe essere contrattazione per fare il prezzo. Così invece non è! Il soggetto che genera l’offerta (gli editori) è frantumato, rissoso e ignorante, e invece di fare il cartello degli editori off-line e online, tende la mano e si accontenta di un Cost per Thousand che viene deciso dalla domanda, cioè dai compratori di spazi. In questo teatrino da accattoni, in cui si muovono gli editori privi di dignità, identità e capacità di marketing, si sono inseriti alla grande altri soggetti, quali Google e Facebook, che hanno assunto il ruolo di intermediatori e super-concessionarie del web perché “fanno il prezzo”, offrendo quantità illimitate di spazi a basso costo agli inserzionisti.Solo in alcuni tribunali nordeuropei la vicenda è stata affrontata (in parte) per ciò che è, ma poi, alla fine, impastata maldestramente insieme alla difesa dei diritti d’autore. È così che il dumping ai danni degli editori e anche dei “prosumers” e dei bloggers, si è sanato con un’elemosina (vedi caso francese). Allora: in questa vasta e complessa scena, Casaleggio, che è magna pars nella difesa dei diritti dei cittadini digitali e dei (mi auguro) piccoli e medi editori digitali, perché non riflette meglio su come avviene la contrattazione sul Cost per Thousand? Ci sembra infatti che dia per scontato che questo sia un valore da misurare “a monte” della compravendita e delle pratiche di inserimento pubblicitario tra soggetti Over the Top. Invece il Cost per Thousand è un valore da fissare “a valle”, cioè prima della compravendita, in quanto rappresenta la capacità potenziale di acquisto di 1000 componenti del parco lettori. Al dunque la pubblicità è soprattutto compravendita di “persone”, non solo di spazi promozionali. Ricordiamolo.Casaleggio menziona poi la torta pubblicitaria. Bene! La sua consistenza – che attualmente dipende dagli interessi del Consiglio di Amministrazione della Iaa – International Advertising Agency di Madison Avenue – NON DEVE ESSERE non deve essere quella offerta agli editori; ma DEVE ESSERE deve essere quella negoziata e richiesta dal cartello degli editori per la loro dignitosa sopravvivenza. Così fa il cartello dei grandi tv-broadcasters statunitensi. Se ne frega dei budget offerti e CHIEDE e OTTIENE chiede e ottiene annualmente ciò che serve a loro per vivere. Cioè sono i media che devono fare e difendere il prezzo della loro audience, non gli intermediari. Per capirci: gli inserzionisti consegnano alle agenzie di pubblicità circa 3 trilioni di dollari l’anno. Il 60% di queste risorse viene dato ai media dei Brics e dei paesi emergenti perché sono considerati mercati in crescita. Il rimanente 40% viene dato ai media dei paesi del vecchio Occidente allargato. Ma nel 2009 era il contrario e l’inversione venne decisa in un Cda dell’Iaa. Ciò dà un’idea dello strapotere degli inserzionisti pubblicitari sui media tutti e dimostra come la crisi dei media sia solo imputabile a decisioni non contrastabili per assenza di facoltà di negoziazione.In difetto di contrattazione, però, un soggetto come Casaleggio – e per estensione, mi auguro, il “Movimento 5 Stelle” – dovrebbe lanciare parole d’ordine al morente mondo degli editori per incitarli a negoziare al meglio ciò che hanno (i loro lettori) e per convincerli a non accontentarsi della semplice raccolta di ciò che viene loro offerto, e in continuazione rattrappito, dalle aziende inserzioniste. Casaleggio poi se la prende con Google. Benissimo Recentemente abbiamo tentato di spiegare che Google, Facebook e gli altri soggetti simili, non sono alla sommità della piramide, ma lavorano, a loro volta, per qualcun altro. Per CHI chi? Ma è ovvio: per gli inserzionisti, per le corporations che poi pagano le campagne politiche dei futuri leader (e anche per i servizi segreti, nel caso di cessione di Big Data). Allora? Se i giornali muoiono è perché gli inserzionisti non pagano un equo prezzo per fare la pubblicità delle loro merci e servizi. Ma chi deve contrattare il prezzo? È ovvio: i produttori di contenuti (“contents”) in grado di ospitare inserzioni, cioè gli editori di giornali on line tutti, i bloggers e i “prosumers”.Il “Movimento 5 Stelle” dovrebbe lanciare un appello a tutti questi soggetti per costruire una syndication – auspicabilmente su scala europea – che assuma il ruolo di soggetto collettivo in grado di negoziare autorevolmente il prezzo della pubblicità sui territori sia fisici che digitali. Se non piace la definizione “syndication” si può parlare di ConfEditori on line, di Content Providers Association, o altro. Attenti!… Berlusconi, De Benedetti e Rizzoli-“Corsera” recentemente hanno annunciato la nascita di una superconcessionaria del web italiano. Ciò vuol dire che il prezzo della pubblicità sul territorio (web) italiano lo faranno loro, solo loro e nient’altro che loro. Signor Casaleggio, la vicenda è passata nel silenzio dell’opposizione. Come mai? Se il gettito di risorse pubblicitarie nel web, che dovrebbe remunerare il lavoro svolto in Rete dalla cittadinanza digitale, viene deciso senza alcun dibattito, l’opposizione ancorata al mondo digitale che ci sta a fare?Per concludere: Google, è vero, è un bel puzzone, ma approfitta dell’ignoranza e dell’ignavia dei politici e dei “content providers” e della loro frantumazione. Non è (solo) Google il carnefice dei “giornali”. Il mandante è sempre e solo il Cartello delle Corporations/Inserzionisti, gli utenti pubblicitari associati globalizzati, lo stesso del resto con il quale Beppe Grillo mirabilmente se la prendeva tanti anni fa quando accendeva i riflettori su Giulio Malgara, a quel tempo presidente dell’Upa, e in quanto tale grande finanziatore di Berlusconi e Dell’Utri. Quell’intuizione era quella giusta, talmente giusta che gli costò il rapporto con la Tv. Rilanciamo quel dibattito, signor Casaleggio, magari anche a costo di perdere qualche inserzionista. Tanto, la stragrande maggioranza di loro persegue un modello di sviluppo che non è quello del suo Movimento.(Glauco Benigni, “Casaleggio, non hai capito chi fa il prezzo”, da “Megachip” del 27 novembre 2014).Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.
-
Grillo, Ingroia e Salvini? Non facciano la fine di tutti gli altri
Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.Grillo ha appena nominato uno staff politico, una sorta di segreteria. Era ora, dice Santini, a patto che questo team rappresenti davvero il movimento e quindi si trasformi rapidamente «da nominato in elettivo, altrimenti non cambierebbe nulla». Lo staff politico «non dovrà essere un organo direttivo classico», il suo compito «non sarà quello di “decidere”, ma di facilitare e coordinare i processi decisionali collettivi». Finora, le decisioni stratetgiche «sono state semplicemente enunciate». Esempio: chi ha scelto, e con quali criteri, il programma delle europee e poi la raccolta firme per il referendum consultivo sull’euro? «Al di là che il programma elettorale o il referendum possano essere stati condivisi, a posteriori, dalla maggioranza dei militanti, non dovrà più accadere che tali decisioni di fondamentale importanza vengano calate dall’alto». Altrimenti, continua Santini, «quale sarebbe la differenza tra un Grillo (o uno staff che operasse allo stesso modo) e un Renzi, che almeno deve far finta di confrontarsi con la direzione del Pd?». Quanto alle nuove aperture per possibili alleanze, va bene «un accordo transitorio per eleggere un presidente della Repubblica più decente di un altro». Ma il dialogo, più che coi partiti, va impostato con «spezzoni di società (anche organizzati in movimenti o partiti veri e propri)», che possano «almeno potenzialmente rappresentare una reale alternativa al sistema di potere e al modello socio-economico attualmente imperante».Quanto a Ingroia, “reclutato” da Di Pietro e dai rottami dell’ex “sinistra radicale” per guidare la lista “Rivoluzione Civile” alle politiche 2013, secondo Santini il suo prestigio di magistrato coraggioso sarebbe degno di miglior causa, visto anche che le sue inchieste sono stati «di grande importanza per la crescita morale della nostra nazione». In politica, però, prestazioni meno brillanti: già la prima aggregazione, “Cambiare si può”, prima tappa del percorso fondativo di “Rivoluzione Civile”, era viziato dalla presenza-fantasma «dei partiti tradizionali della sinistra, dietro la patina di alcuni rappresentanti della società civile», cosa che «ne vanificò il potenziale di novità e reale cambiamento». Poi la nascita di “Azione Civile”, senza più partiti “clandestini”, ma senza presa sul pubblico: «Credo che lo spazio politico per quel progetto si sia quasi definitivamente consumato», scrive Santini. «La speranza tra i più fiduciosi che aveva destato la lista “L’Altra Europa con Tsipras” sta partorendo ciò che i meno fiduciosi avevano intravisto fin da subito: un agglomerato dei partitini della sinistra istituzionale che avrà nel suo deprimente orizzonte l’oscillazione tra l’opposizione al renzismo a livello nazionale e la collaborazione col sistema di potere del centrosinistra a livello locale (perfettamente interscambiabile con quello del centrodestra, allo stesso modo irriformabile e cancerogeno)».Qualunque progetto politico di «emancipazione dalla dittatura del presente», secondo Santini non ha alcuna possibilità di successo, in Italia, se non afferma radicalmente il principio della “legalità democratica” largamente inteso. Ovvero: «Debellare le mafie al sud come al nord, scoperchiare il verminaio del terzo e quarto livello» che trasforma il nostro in uno “Stato criminale”, per dirla con Ingroia. E poi, ovviamente, sconfiggere la corruzione. «La tua grande esperienza e credibilità su queste tematiche – scrive Santini nel suo appello a Ingroia – non deve essere messa a disposizione di una sola parte politica, ma di tutte quelle forze sane, da qualunque parte stiano, che volessero davvero intraprendere un percorso rivoluzionario». Aggiunge Santini: «Non ho bisogno di ricordarti che il tuo maestro Paolo Borsellino avesse simpatie politiche di destra, ma egli fu prima di tutto un autentico uomo dello Stato nel senso più alto del termine, un servitore del popolo, di tutto il popolo». E dunque: «Anche se non indossi più la toga, Antonio, sei ancora un uomo del vero Stato, non rinchiuderti negli spazi della sinistra ma poniti al servizio di un progetto il più largo possibile».Quanto al nuovo leader della Lega Nord, è impossibile non riconoscergli una vocazione trasversale, adatta ai tempi d’emergenza che viviamo: «A volte i percorsi politici compiono traiettorie imprevedibili», gli scrive Santini. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma sei il politico che ho seguito con più attenzione in questo ultimo periodo. Ho davvero apprezzato un paio di posizioni che tu e il tuo movimento avete assunto. La prima, pressoché solitaria per nettezza nel panorama asfittico italiano, sul tema della pace in Europa, ovvero del colpo di stato in Ucraina, della guerra civile e dell’“aggressione occidentale” alla Russia. La seconda è la raccolta firme per cancellare, tramite referendum, la cosiddetta riforma Fornero». Santini mette tra parentesi il tema controverso della lotta all’immigrazione e quello, ancora più scomodo, della crociata contro l’euro. Metafora: «Un uomo (l’Italia) si trova alla deriva su una nave (l’euro) in mezzo all’oceano (il sistema finanziario globalizzato). La nave imbarca acqua pericolosamente, una tempesta minacciosa si avvicina, l’uomo per salvarsi si butta in mare ma si trova pur sempre in mezzo all’oceano e con tempeste minacciose che incombono su di lui».Nella sua sacrosanta battaglia sovranista per ripudiare l’euro, infatti, la Lega rivela una visione fondata sul mercantilismo: vede la rottamazione dell’euro come volano per rilanciare l’export, ma trascura l’enorme potenzialità della moneta sovrana per inaugurare una politica neo-keynesiana fondata sull’investimento pubblico vocato alla piena occupazione. Ad esempio, il programma della Mmt messo a punto da Warren Mosler e Paolo Barnard prevede il taglio del debito non-sovrano e la fine dei titoli di Stato: una rivoluzione democratica, al centro della quale l’istituzione pubblica ridiventa il massimo garante del benessere della cittadinanza, neutralizzando la speculazione finanziaria privata proprio grazie alla libera emissione di moneta, orientata al sostegno della riconversione sociale ed ecologica dell’economia. La Lega di Salvini preferisce annunciare una “rivoluzione fiscale” tranciante, con un’aliquota fissa al 15%, uguale per tutti. Proposta che, per Santini, «coglie un nesso fondamentale: la riduzione delle tasse non può che nascere da uno storico patto fiscale tra istituzioni e popolo», ma in ogni caso «non può essere disgiunta da una rigorosa equità contributiva e sociale, ovvero da una ampia “legalità democratica”».Sfide in ogni caso radicali, quelle impostate da Salvini: l’unico, oggi in Italia, a dichiarare guerra all’establishment tecnocratico che da Bruxelles tiene al guinzaglio il paese, condannandolo all’asfissia. Santini lo riconosce, ma interroga il leader della Lega sul percorso politico da adottare: «Ti chiedo, caro Salvini, al di là della ricerca elettoralistica del consenso, con chi ritieni di poter affrontare queste battaglie epocali? Con il centrodestra? Vuoi fare una rivoluzione di sistema con Berlusconi? Con i Gasparri e le Santanché? Soprattutto con tutto il carrozzone delle cricche affaristico-mafiose su cui quegli ambienti prosperano?». Conclusione: «Se ritieni davvero di determinare una qualche sorta di egemonia culturale su quell’area, ti faccio i migliori auguri. Ti auguro sinceramente di non fare la fine di Bossi». Salvini – alleato di Marine Le Pen contro la gestione autoritaria dell’Ue e solidale con Putin rispetto all’aggressività della Nato – è il politico italiano che oggi si presenta disponibile a scelte di rottura. Santini gli dedica un tweet: «#Salvini, rompi con B. o cadi».Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.
-
Via libera al golpe dell’élite, in Italia non vota più nessuno
Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.«Riuscire a ridurre talmente tanto la percentuale dei votanti», scrive il blogger in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, all’indomani del record di astensionismo registrato alle regionali in Emilia e in Calabria, significa «avere la possibilità di poter effettuare dei veri e propri colpi di Stato senza sparare neppure un colpo, e – ciò che più conta – senza che neppure la gente se ne renda conto: e quando lo capirà, sarà ormai troppo tardi». Se l’obiettivo è riuscire ad arrivare al 65-70% di astensionismo alle politiche, continua Di Cori Modigliani, «su 14 milioni di voti validi, ne saranno sufficienti poco meno di 6 milioni per avere il potere assoluto, con il quale deliberare senza nessun ostacolo». In Emilia gli astenuti sono stati il 63%? «Neppure sanno di aver votato per Mario Monti». E’ il capolavoro della “società del Grande Fratello”, quella che ha vissuto «il più vasto genocidio culturale mai perpetrato in una società colta, evoluta, ricca, com’era un tempo quella italiana». Si affloscia la sfida del M5S? Tutto previsto: «Autostrada preferenziale per l’avanzata della Grande Destra, l’autentico populismo di bassa lega che preannuncia e avverte quale sarà il prossimo e imminente scenario politico internazionale, di qui a pochi mesi, quando esploderà la più grande crisi finanziaria mai esistita in Occidente».Quando l’Italia verrà chiamata alle urne, sarà «travolta e stravolta da nuovi arresti e nuovi scandali, sgomenta e sconcertata dinanzi alle continue denunce di nuove ruberie, di eterni sprechi, di nessuna proposta pragmatica all’orizzonte». La gente «si riverserà avvilita all’interno del proprio bozzolo esistenziale privato, nell’estremo tentativo di salvare il salvabile pur di sopravvivere». Di fatto, gli italiani «non si fideranno più di nessuno, non crederanno più a nessuno, non avranno voglia di seguire più nulla, perché ne avranno tutti le palle strapiene: si saranno arresi dichiarando “fate come vi pare, tanto non cambia mai nulla”». Meno gente va a votare, continua Di Cori Modigliani, e meglio è per «la pattuglia clientelare che gestisce i quotidiani brogli e imbrogli del sistema bancario italiano, ormai giunto al collasso imminente». In mancanza di un’alternativa credibile, «brinda la Destra festeggiando la definitiva dissoluzione della Sinistra italiana, suicidatasi con enfasi». Renzi? Può già incassare in Europa una bella cambiale in bianco: l’Italia è cotta, pronta per essere mangiata.«La fase finale della rivoluzione neo-conservatrice sta iniziando, perché la gente, oltre a non farcela più, davvero non ne può più», scrive Di Cori Modigliani. «Il nuovo presidente dell’Emilia Romagna ha ottenuto il 16,9% dei voti dei residenti nella sua regione: in una realtà come questa, non c’è più bisogno neppure di fantasticare un colpo di Stato». Gli italiani si sono arresi, sono «la carne da cannone della neo-aristocrazia imperiale della società mediatica post-moderna. Ma non lo sanno, neppure se ne accorgono», perché sono stati annientati innanzitutto sul piano della conoscenza, della consapevolezza: «A questo serve il genocidio culturale». Il “caro leader”? «Si lecca i baffi, e ha ragione a farlo. Volevate quest’Italia, quest’Italia avete oggi. Nel 2013 l’indice di lettori in Italia è diminuito del 32% rispetto all’anno precedente. E’ il paese più ignorante d’Europa. Perché mai dovrebbero andare a votare?».Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.
-
Gli italiani non votano più, disertate le urne anche in Emilia
Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».«Prima la disfatta del “modello emiliano” impersonato da Vasco Errani, poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall’alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine – prosegue Lerner nel suo blog – l’arrembaggio al carro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti». Tutto ciò, conclude il giornalista, «rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra». L’Emilia Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare, sostiene Pierluigi Battista, è il regno dei “corpi intermedi”, dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. «Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla “disintermediazione”, sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani, saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi».Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, continua l’editorialista del “Corriere”, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le elezioni. Mai la rinuncia alle urne aveva raggiunto livelli tanto allarmanti: «Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani», scrive Battista, «però in Emilia si è assistito a un crollo». Inoltre, «mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria». Per Battista, «si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro», che coinvolge «l’elettore di destra deluso da Berlusconi», che è sfiduciato e non va a votare, e pure «l’elettore di Grillo, che vede la carica del “Movimento 5 Stelle” spenta e incapace di indicare un’alternativa». Di fatto,la sfiducia si abbatte su tutto il sistema, «percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti». Un rigetto «disilluso e indiscriminato», un campanello d’allarme «per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari». Si chiede una politica radicalmente diversa, democratica, equa, che non arriva mai. Così, la rappresaglia degli elettori va avanti. E travolge persino la “rossa” Emilia.Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».
-
Contrordine, rinnegare l’euro (da Fitto al club di Bersani)
Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.«Forse, discutere apertamente della crisi dell’euro è diventato per noi un tabù proprio perché non riusciamo neppure a immaginarci in uno scenario di fallimento. Eppure il tabù va infranto», scrive Sardo. Per togliere ogni dubbio, “Idee Controluce” ha pubblicato un pezzo di Alberto Bagnai. E come se non bastasse, aggiunge “Mainstream”, scende in campo persino Alfredo D’Attorre, «colonnello bersaniano e fiero oppositore di Renzi», che ha concesso al “Foglio” la seguente intervista: «Caro Renzi, occhio, con questa Europa tornerà presto la Lira». Nientemeno: «Perché il problema dell’Italia, inutile prendersi in giro, è più complesso del gioco sui decimali, e coincide con la parola euro». D’Attorre prosegue il suo ragionamento: «Mi stupisco che un presidente del Consiglio che ha fatto del coraggio la sua cifra politica non abbia messo a tema il vero problema dell’Italia e più in generale dell’Europa. L’euro così com’è oggi non è più sostenibile e sono convinto che non possa continuare a esistere una moneta unica senza che dietro questa ci siano un governo politico e uno economico capaci di gestire il bilancio dell’Eurozona».Domanda: uscire dall’euro è una sciocchezza o è diventata una possibilità? «Non credo alla tesi dei due euro», risponde D’Attorre. «Credo ci siano due alternative concrete: o avviare un percorso federale che consenta alla nostra moneta di restare in piedi, oppure si torna indietro alle monete nazionali ripristinando quella sovranità politica che gli attuali meccanismi europei oggettivamente non ci consentono». Inutile negarlo ancora: «La situazione oggi non è sostenibile. E questo deficit democratico è ovviamente alla base delle manifestazioni di dissenso che, in varie forme, stiamo osservando tutti in molti paesi della zona euro». Tutto ciò, detto da chi fino a ieri – con Enrico Letta – si dichiarava pronto a “morire per Maastricht”. E non è tutto, continua “Mainstream”: «Beppe Grillo, il cui movimento ha ormai abbandondato qualsiasi precauzione sulla polemica contro l’euro, ha dimostrato un anno e mezzo fa che le posizioni euroscettiche potevano incontrare un consenso di massa». Oggi, persino Renzi prova a forzare – almeno in modo dimostrativo – la rigidità dell’establishment europeo. «In queste fessure del muro di gomma del sostegno ad euro e Ue – conclude il blog – stanno passando tutti gli esponenti più rilevanti del ceto politico nazionale. E’ ormai finita l’era del “ce lo chiede l’Europa”. E’ iniziata la stagione del trasformismo neo-patriottico».Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.
-
Giannuli: la grazia a Berlusconi, poi Amato al Quirinale?
La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».Eppure, scrive Giannuli nel suo blog, il “dottor sottile” di Craxi potrebbe anche essere la carta coperta di Napolitano, sempre che il capo dello Stato non ceda alle pressioni di Renzi per restare al Colle fino a maggio, anziché lasciare a gennaio. Certo, la grande partita è aperta: «Gli interessati, quasi tutti, a cominciare da Prodi, smentiscono di essere interessati, il che è la conferma più sicura che sono candidati». Il toto-presidente già impazza, da Veltroni alla Finocchiaro. E Amato? Possibile che non sia nella rosa dei papabili? «In tutta la sua interminabile carriera – osserva Giannuli – l’abilità di Giuliano Amato è sempre stata quella di galleggiare a pelo d’acqua senza avere un esercito proprio. E’ stato anche presidente del Consiglio e varie volte ministro, ma non è mai stato segretario di un partito, è stato vicesegretario del Psi ma senza mai avere una propria corrente». La sua abilità? «Coltivare contatti coi più diversi settori della classe dominante: è molto amico dei francesi, come Bassanini, ma non è certo inviso a tedeschi ed americani, ha molti amici in Loggia ma non è sgradito in Curia, ha sempre operato nell’area laico-socialista ma ha sempre avuto solide amicizie tanto nella Dc quanto nel Pci», essendo anche «amico dei sindacati», ma non-nemico della Confindustria.«Riuscirebbe a essere trasversale anche tra Inferno e Paradiso, amico del Padreterno ma simpatico anche a Satana», scherza Giannuli. Amato «gode di un carisma molto particolare, dovuto alla sua fama consolidata di grande giurista e di esperto di finanza». Fine, disinvolto, raffinato e convincente. «Sarebbe capace di dimostrarti che la camicia che porti addosso, in realtà, gli appartiene, anche se tu non lo sai, e alla fine ti convincerebbe a dargliela, e poi gli pagheresti anche la parcella per la consulenza». Un uomo così, insiste Giannuli, è destinato a emergere nei momenti di crisi, quando l’impasse impone la scelta di un super-partes, un “tecnico”. Grande galleggiatore, Amato: dal Psiup di Antonio Giolitti passò al Psi di Bettino Craxi, di cui fu consigliere nei giorni del “decreto di San Valentino”, per poi diventare anticraxiano e alleato del Pds, quindi occhettiano, poi dalemiano, e così via.«Questa disinvolta prassi politica, se condotta con la necessaria abilità, può garantire una carriera lunga e carica di successi ma, anche quando non manchi la maestria, conquista molti nemici che, prima o poi, diventano troppi». Sulla carta, ragiona Giannuli, oggi Amato metterebbe insieme non più di 60-70 voti. Anche nell’ipotesi del candidato “istituzionale”, sarebbe appesantito dal suo passato: troppi incarichi politici per poter essere speso come “potere neutro” (più adatti, in qual caso, Casini e Monti). Ma i giochi sono aperti. E Amato «ha un importante sponsor in Napolitano». Intanto, il presidente uscente potrebbe presentarlo «come il suo successore nel ruolo di regista del Nazareno» e, per di più, «giocare la carte dei suoi rapporti in Europa», di cui Renzi potrebbe aver bisogno. Un ruolo, rispetto a Bruxelles, «che sicuramente non potrebbe essere assicurato da mezze scartine come la Pinotti e Franceschini, e probabilmente neppure da quel budino di Veltroni». Se il Cavaliere resta in sella e il Patto del Nazareno sopravvive, ipotizza Giannuli, sarebbe dunque avventato scartare l’ipotesi-Amato, eventualmente sostenuta da Napolitano in cambio della piena riabilitazione di Berlusconi.La grazia a Berlusconi, in cambio del “proprio” candidato alla successione al Qurinale: Giuliano Amato. Secondo Aldo Giannuli, per designare il suo “erede” sul Colle, Napolitano avrebbe in tasca «il vero asso da calare», il colpo di spugna per il Cavaliere: «Otterrebbe i voti di Fi e vicini, garantirebbe il Nazareno e caricherebbe la responsabilità della decisione sulle spalle di un presidente in uscita, togliendo le castagne dal fuoco del successore». E Renzi? Per lui, «il presidente perfetto è quello che non esiste, l’ideale sarebbe lasciare il Quirinale sede vacante: per questo pensa a candidati come la Pinotti, Franceschini, Fassino», cioè «gente che non gli farebbe ombra», candidati impalpabili. In Parlamento, Amato «conta molti più nemici che amici», sicuramente è inviso a Lega, FdI e M5S, «Berlusconi non lo odia particolarmente, ma neppure lo ama tantissimo», accoglienza tipeida nel centro, «dove però non ha neppure nemici giurati». Certo «non è simpatico né a Sel né alla sinistra Pd», forse «può contare su qualche tiepida simpatia di Bersani e D’Alema, che però a loro volta di amici ne hanno davvero pochi». Ma, soprattutto, «è Renzi che lo vede come il fumo negli occhi».