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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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Giorno: Val Susa e finti terroristi, tragico film già visto
Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.«I No Tav – scrive Giorno nel suo blog – sono cittadini normali, che hanno dato vita a un movimento che si è messo di traverso alla spartizione di un malloppo che oggi è stimato, a preventivo, poco meno di 30 miliardi di euro». Una lotta che, «nonostante tutto e tutti», dura da un quarto di secolo: 25 anni, «nei quali è finita, dicono, una repubblica (la prima), si sono estinti la democrazia cristiana, i socialisti e tutti i vassalli del pentapartito, anche se gli sono sopravvissuti tutti i ladri, trovando ospitalità nei “non-partiti” che nel frattempo sono stati inventati». Anni di frustrazioni, continua Giorno, in cui «sono stati vanificati gli esiti di quasi tutti i referendum popolari e si sono spenti gli occupy di mezzo mondo», mentre le “rivoluzioni” del Nord Africa «sono servite all’avvicendamento di regimi più o meno teocratici, direttamente o indirettamente sostenuti manu militari». Nel loro piccolo, i militanti della valle di Susa – che hanno appena raccolto la solidarietà degli italiani per fronteggiare una causa civile da 220.000 euro – sentono di costituire «una speranza, un orizzonte di resistenza in un panorama di rese incondizionate».«L’irrigidimento dello Stato – continua Giorno – ci ha posto “nostro malgrado” in condizione di rappresentare un livello di antagonismo che non avremmo neanche lontanamente immaginato possibile, alla fine degli anni ‘80 quando alcuni “reduci della lotta all’autostrada del Frejus” cominciammo a intravedere un nuovo pericolo – quello definitivo, il Tav – affacciarsi all’orizzonte affollato del nostro esiguo e fragile territorio». Soprattutto, aggiunge l’esponente No-Tav, «non avremmo mai immaginato che avremmo potuto mantenere così a lungo la posizione senza arretrare di un millimetro». Pertanto, in una condizione così “estrema”, «sarebbe molto stravagante se non fossimo stati “debitamente” infiltrati». Nonostante la disinformazione dilagante, secondo Giorno non manca «qualche coraggiosa iniziativa editoriale» che documenta «i primi tentativi di inquinare la lotta in difesa della nostra terra». Ne parla Luca Rastello, in un capitolo del libro-denuncia “Binario morto”, scritto con Andrea De Benedetti per “Chiarelettere”.Il libro rievoca la tragedia di due giovani anarchici, “Sole e Baleno”, morti in stato di detenzione prima di poter essere scagionati, in tribunale, dalle accuse per la strana serie di attentati dinamitardi che colpirono la valle di Susa negli anni ‘90, coperti da sigle fantomatiche come quella dei “Lupi Grigi”. Già allora, i giornali si affrettarono a parlare di “ecoterrorismo” e “pista anarco-insurrezionalista” in relazione alla nascente opposizione No-Tav, trascurando un’altra indagine, sempre della Procura di Torino, che aveva appena individuato il ruolo dei servizi segreti “deviati” in un traffico di armi tra un’armeria di Susa e una cosca della ‘ndrangheta. «Le “prove “granitiche” raccolte attraverso indagini svolte anche da inquirenti che si riveleranno attivamente coinvolti nella fabbricazione delle medesime – scrive Giorno – non reggeranno oltre l’istruttoria», ma nel frattempo Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas non giungeranno vivi alla fine del processo. «Un errore che dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza di chi indagò in un’unica direzione ma che – a quanto pare – non ha insegnato nulla», conclude Claudio Giorno, pensando a chi oggi criminalizza il movimento No-Tav addebitandogli anche attentati incendiari, sulla cui parternità non è finora emersa alcuna prova. Sabotaggi «attribuiti sempre e comunque al movimento, sino ai processi e agli arresti preventivi per reati di terrorismo».E ora irrompono sulla scena i “Noa” – i nuovi “Lupi Grigi”? – che «decretano condanne a nome del popolo e indicano la strada al movimento No-Tav, romanticamente affezionato a criteri nonviolenti pur nella radicalità dello scontro». Rivendicazione «rispedita al mittente», anche perché «sa di déja vu». Uno, dieci, cento “mittenti”, sostiene Giorno, che in questi anni «non solo non hanno fatto quanto in loro potere (e soprattutto dovere) per disinnescare gli “ordigni esplosivi”», ma in alcuni casi «li hanno “messi a dimora” – qualcuno manualmente sotto un viadotto, altri virtualmente in conferenze dei servizi-burla, confronti truccati, procedure umilianti prima ancora che scorrette». In altre parole: «Chi doveva risolvere ha complicato, chi doveva indagare non pare aver sempre finito il lavoro».In sostanza, è come se anche la periferica valle di Susa concorresse e delineare i retroscena delle strane connessioni tra servizi “deviati” e mafia («l’onorata società sta agli appalti come le api al miele») sui cui indagano «i coraggiosi magistrati di Palermo», perché probabilmente la “trattativa” «ha tanti fautori e a tutte le latitudini». Tutto questo, mentre è in fiamme una città come Kiev, fino a ieri capolinea Ue dell’ipotetico “corridoio 5 Kiev-Lisbona” di cui la Torino-Lione avrebbe dovuto essere lo snodo alpino. «Oggi – chiosa Giorno – c’è davvero qualcosa di inquietante all’orizzonte-est non solo della val di Susa, ma dell’Europa SpA dei finanzieri e dei lobbysti». Come dire: di fronte a certi appetiti, da noi come in Ucraina, si può arrivare senza problemi anche alla macelleria. Con debito corredo di disinformazione.Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.
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2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
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Via il cash, così la finanza ci controllerà al centesimo
Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».Per anni, aggiunge il blog in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, i governi hanno cercato tagliare le operazioni in contanti. Negli Usa, qualsiasi azienda o persona che incassi 10.000 dollari “cash” per una vendita, deve presentare un “Form 8300”. Le banche inoltre devono segnalare tutte le operazioni di cassa che superino questo limite. Stesse procedure valgono anche in Europa, dove le parti sono tenute a spiegare da dove proviene il denaro. Nel 2013, il governo francese ha reso queste norme ancora più restrittive, con nuovi controlli sulle transazioni in contanti abbassando il limite 3.000 a soli 1.000 euro, come del resto anche in Italia. Le ragioni di queste misure sono evidenti: «In un momento in cui la maggior parte dei paesi sta lottando per tenere a freno la spesa pubblica – per non parlare degli interessi sempre più insostenibili sul debito pubblico – i governi si stanno freneticamente guardando intorno per cercare qualsiasi cosa di valore che si possa rubare o depredare. E quando si tratta di avidità i governi, soprattutto durante un momento di acuta crisi fiscale, come quello attuale, non conoscono limiti».Come dice Patrick Henningsen, del Center for Research on Globalization, «il sogno di sempre di tutte le élite di tecnocrati e collettivisti, sarebbe riuscire ad eliminare dall’economia sia il “denaro in contanti semi-irregolare” che il mercato nero, per massimizzare e controllare completamente i mercati. Se riuscissero a farci arrivare a una società senza contanti, sarebbero molto vicini ad aver raggiunto il completo controllo sulla vita di ogni singolo individuo». Protesta un cliente londinese della Hsbc: «Ho un conto in questa banca da 28 anni, mi conoscono tutti. Non dovrebbero chiedermi spiegazioni sul perché io voglia ritirare il mio denaro. Non è denaro loro, è denaro mio». Per tanti versi, aggiunge “Raging Bullshit”, il denaro in contanti offre ai cittadini l’ultimo rifugio rimasto alla propria privacy e serve a mantenere l’anonimato in un mercato sempre più invischiato in una rete di controllo mondiale. «Se si comincia con i collegamenti incrociati globali su tutto quello che si muove nel mondo finanziario, i governi saranno in grado di tener traccia di ogni centesimo che si guadagna, che si spende e che si risparmia».Gli stessi governi che hanno varato misure per limitare l’uso del contante sono gli stessi che spingono per far utilizzare forme alternative di denaro, come il “mobile money” (denaro digitale) che può essere completamente tracciato. Finora, la crescita della moneta che “viaggia per telefono” è avvenuta soprattutto nell’Africa sub-sahariana, dove alcuni dei settori finanziari più sottosviluppati hanno fornito il banco di prova ideale per la sperimentazione di progetti sul denaro telefonico. Secondo il “Mobile Africa Report 2011”, gli utenti africani della telefonia mobile sono oltre 500 milioni. Un sondaggio citato dall’“Economist” e condotto da tre colossi mondiali – la Fondazione Gates, la Banca Mondiale e la Gallup World Poll – rivela che esistono 20 paesi nel mondo dove più del 10% degli adulti afferma di aver fatto transazioni con il “mobile-money” durante il 2011 – e tra questi, 15 sono in Africa. In Kenya, Sudan e Gabon almeno metà degli adulti ha mosso denaro per telefono.Il principale operatore di telefonia mobile in Kenya, Safaricom (società ora controllata da Vodafone), vanta oltre 14,7 milioni di utenti che usano M-Pesa, la piattaforma di “mobile-money”. «Questo significa che oltre il 36,75% della popolazione del Kenya ha un conto di deposito in M-Pesa – senza considerare gli utenti che hanno conti dello stesso genere su altre reti telefoniche. I movimenti di fondi trasferiti da M-Pesa ormai arrivano ad uno sconcertante 25% del Pil del paese». Da quando è stato introdotto questo sistema per trasferire denaro, in Africa si è assistito ad un cambiamento paradigmatico nei metodi delle transazioni finanziarie. Non mancano gli aspetti postivi: «Il denaro movimentato per telefono ha permesso a molte persone, con una istruzione elementare o senza nessuna istruzione, di avere accesso per la prima volta ai servizi finanziari. Ha anche contribuito a colmare il divario tra il settore bancario e non bancario, consentendo a molte persone di ricevere rimesse bancarie dai familiari all’estero, cosa essenziale per far crescere una nuova generazione di africani».C’è però anche il lato oscuro del “mobile money”, come riporta il sito africano di tecnologia “Humanipo.com”: «Più viene utilizzato, più i clienti si espongono a nuove generazioni di truffatori». Esempio: «Ci sono stati recenti casi di raggiro condotti con sms fasulli, che sembravano essere inviati automaticamente da fornitori di telefonia mobile, banche o altre istituzioni finanziarie». Vittime del raggiro: gli abbonati che usano il “mobile money”. La stessa Safaricom ha dimostrato che il 65% dei casi collegati a frodi telefoniche provenivano dalle carceri. Ma il problema non è solo africano: «Nel Regno Unito le autorità di controllo finanziario hanno avvertito che si verificano frodi prodotte da un software dannoso, come se si avesse un “dito grosso” che causa errori di stile e blocchi del sistema, e che può mettere sotto minaccia chi utilizza i servizi di mobile banking». Il rischio maggiore «resta il sistema stesso di alternativa digitale ai soldi in contanti». A oscurare i vantaggi del “mobile-money” è «il suo enorme potenziale di concentrazione del potere finanziario», consuderati «gli abusi e i conflitti di interesse che sta provocando».Il vero problema, aggiunge “Raging Bullshit”, è che a dominare il mercato del denaro digitale saranno «le stesse istituzioni – come la Hsbc, ad esempio – che hanno già infranto praticamente ogni regola», in materia di servizi finanziari. «Saranno gli stessi che hanno già manipolato le regole di ogni mercato esistente, che hanno mercificato e finanziarizzato praticamente qualsiasi risorsa naturale di valore su questo pianeta». Gli stessi che, sulla scia della crisi finanziaria da loro provocata, «hanno estorto miliardi di dollari dalle tasche dei propri clienti e miliardi di dollari da quelle dei contribuenti». Come fidarsi, d’altra parte, dei nostri governi? Scott Shay, presidente della Signature Bank, su “Cnbc” scrive che il governo Usa sta «diventando molto esperto nel togliere denaro ai cittadini», per poi “spiegare” loro che è in atto una “decadenza civile”. «A peggiorare ancora le cose, c’è un drammatico consolidamento che è avvenuto in tutto il sistema bancario, che ha reso più facile al governo l’acquisizione delle informazioni, dovendo controllare un minor numero di punti di accesso».Ad esempio, Jp Morgan, una delle più grandi e potenti banche d’America, ha raggiunto la stessa dimensione che hanno, tutte insieme, oltre 3.000 banche più piccole. Motivo per cui le prime quattro banche americane controllano circa il 60% di tutti i depositi bancari Usa. «Grazie soprattutto alle rivelazioni di Edward Snowden, siamo riusciti a sapere che il governo americano sta approfittando delle prodezze compiute dai servizi della Nsa e della manipolazione dei big-data in un modo spaventosamente pericoloso». Eppure, aggiunge “Raging Bullshit”, noi «continuiamo ad camminare come dei sonnambuli, quasi come degli zombie, e ci stiamo pericolosamente avvicinando ad una società che potrà vivere senza contanti». In cambio di qualche piccola convenienza immediata, «siamo disposti a concedere ai nostri governi e alle grandi banche “too-big-to fail” (ma anche “tanto-grasse-da-scoppiare”) la possibilità di controllare completamente ogni nostra singola transazione quotidiana. E mentre ci sembra di vedere nelle valute virtuali, come il Bitcoin, qualcosa di vicino ad un antidoto contro questo scenario, anche queste possibili alternative – come dice Shay – sono soggette a continuo monitoraggio e possono essere regolamentate in modo che si limiti o addirittura si metta fine alla loro possibile utilità».Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.
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Renzi? Bugiardo e pericoloso: ha troppi padroni potenti
«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italianiQuando negli anni ‘80 Michael Ledeen varcava l’ingresso del dipartimento di Stato, ricorda Franco Fracassi su “Popoff”, chiunque avesse dimestichezza con il potere di Washington sapeva che si trattava di una finta: quello, per lo storico di Los Angeles, rappresentava solo un impiego di facciata, per nascondere il suo reale lavoro. E cioè: consulente strategico per la Cia e per la Casa Bianca. «Ledeen è stato la mente della strategia aggressiva nella Guerra Fredda di Ronald Reagan, è stato la mente degli squadroni della morte in Nicaragua, è stato consulente del Sismi negli anni della Strategia della tensione, è stato una delle menti della guerra al terrore promossa dall’amministrazione Bush, oltre che teorico della guerra all’Iraq e della potenziale guerra all’Iran, è stato uno dei consulenti del ministero degli Esteri israeliano. Oggi – aggiunge Fracassi – Michael Ledeen è una delle menti della politica estera del segretario del Partito democratico Matteo Renzi».Forse è stato anche per garantirsi la futura collaborazione di Ledeen che l’allora presidente della Provincia di Firenze si recò nel 2007 al dipartimento di Stato Usa «per un inspiegabile tour». Non è un caso, continua Fracassi, che il segretario di Stato Usa John Kerry abbia più volte espresso giudizi favorevoli nei confronti di Renzi. Ma sono principalmente i neocon ad appoggiare Renzi dagli Stati Uniti. Secondo il “New York Post”, ammiratori del sindaco di Firenze sarebbero gli ambienti della destra repubblicana, legati alle lobby che lavorano per Israele e per l’Arabia Saudita. «In questa direzione vanno anche il guru economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il suo principale consulente politico, Marco Carrai, entrambi molti vicini a Israele». Carrai, scrive Fracassi, ha addirittura propri interessi in Israele, dove si occupa di venture capital e nuove tecnologie. «Infine, anche il suppoter renziano Marco Bernabè ha forti legami con Tel Aviv, attraverso il fondo speculativo Wadi Ventures». Suo padre, Franco Bernabè, fino a pochi anni fa è stato «arcigno custode delle dorsali telefoniche mediterranee che collegano l’Italia a Israele».Forse aveva ragione l’ultimo cassiere dei Ds, Ugo Sposetti, quando disse: «Dietro i finanziamenti milionari a Renzi c’è Israele e la destra americana». O perfino Massimo D’Alema, che definì Renzi il terminale di «quei poteri forti che vogliono liquidare la sinistra». Dietro Renzi, continua Fracassi, ci sono anche i poteri forti economici, a partire dalla Morgan Stanley, una delle banche d’affari responsabile della crisi mondiale. «Davide Serra entrò in Morgan Stanley nel 2001, e fece subito carriera, scalando posizioni su posizioni, in un quinquennio che lo condusse a diventare direttore generale e capo degli analisti bancari». Una carriera, quella del giovane broker italiano, punteggiata di premi e riconoscimenti per le sue abilità di valutazione dei mercati. «In quegli anni trascorsi dentro il gruppo statunitense, Serra iniziò a frequentare anche i grandi nomi del mondo bancario italiano, da Matteo Arpe (che ancora era in Capitalia) ad Alessandro Profumo (Unicredit), passando per l’allora gran capo di Intesa-San Paolo Corrado Passera».Nel 2006 Serra decise tuttavia che era il momento di spiccare il volo. E con il francese Eric Halet lanciò Algebris Investments. Già nel primo anno Algebris passò da circa 700 milioni a quasi due miliardi di dollari gestiti. L’anno successivo Serra, con il suo hedge fund, lanciò l’attacco al colosso bancario olandese Abn Amro, compiendo la più importante scalata bancaria d’ogni tempo. Poi fu il turno del banchiere francese Antoine Bernheim a essere fatto fuori da Serra dalla presidenza di Generali, permettendo al rampante finanziere di mettere un piede in Mediobanca. Definito dall’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani «il bandito delle Cayman», Serra oggi ha quarantatré anni, vive nel più lussuoso quartiere di Londra (Mayfair), fa miliardi a palate scommettendo sui ribassi in Borsa (ovvero sulla crisi) ed è «il principale consulente finanziario di Renzi, nonché suo grande raccoglietore di denaro, attraverso cene organizzate da Algebris e dalla sua fondazione Metropolis».E così, nell’ultimo anno il gotha dell’industria e della finanza italiane si è schierato dalla parte di Renzi. A cominciare da Fedele Confalonieri che, riferendosi al sindaco di Firenze, disse: «Non saranno i Fini, i Casini e gli altri leader già presenti sulla scena politica a succedere a Berlusconi, sarà un giovane». Poi venne Carlo De Benedetti, con il suo potentissimo gruppo editoriale Espresso-Repubblica («I partiti hanno perduto il contatto con la gente, lui invece quel contatto ce l’ha»). E ancora, Diego Della Valle, il numero uno di Vodafone Vittorio Colao, il fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e l’amministratore delegato Andrea Guerra, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera con la moglie Afef, l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, il patron di Eataly Oscar Farinetti, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Romiti, Martina Mondadori, Barbara Berlusconi, il banchiere Claudio Costamagna, il numero uno di Assolombarda Gianfelice Rocca, il patron di Lega Coop Giuliano Poletti, Patrizio Bertelli di Prada e Fabrizio Palenzona di Unicredit.Fracassi cita anche il Monte dei Paschi di Siena, collegato al leader del Pd attraverso il controllo della Fondazione Montepaschi gestita dal renziano sindaco di Siena Bruno Valentini. Con Renzi anche l’amministratore delegato di Mediobanca, Albert Nagel, erede di Cuccia nell’istituto di credito. «Proprio sul giornale controllato da Mediobanca, il “Corriere della Sera”, da sempre schierato dalla parte dei poteri forti, è arrivato lo scoop su Monti e Napolitano, sui governi tecnici. Il “Corriere” ha ripreso alcuni passaggi dell’ultimo libro di Alan Friedman, altro uomo Rcs. Lo scoop ha colpito a fondo il governo Letta e aperto la strada di Palazzo Chigi a Renzi». Fracassi conclude citando il defunto segretario del Psi, Bettino Craxi, che diceva: «Guarda come si muove il “Corriere” e capirai dove si va a parare nella politica».Gad Lerner, recentemente, ha detto: «Non troverete alla Leopolda i portavoce del movimento degli sfrattati, né le mille voci del Quinto Stato dei precari all’italiana. Lui (Renzi) vuole impersonare una storia di successo. Gli sfigati non fanno audience». Ormai è tardi per tutto: il Pd – già in coma, da anni – si è completamente arreso all’ex Rottamatore. «Dove mai andrà il “voto utile” in mano a Renzi? In quale manovra di palazzo, in quale strategia dell’alta finanza verrebbe bruciato? In quale menzogna da Piano di rinascita democratica?», si domanda Pino Cabras. «Ogni complicità con il nuovo Sovversore dall’alto diventa intollerabile ogni minuto di più». Fine della cosiddetta sinistra italiana. Fuori tempo massimo, ora, «in tanti saranno costretti ad aprire gli occhi, e a comprendere la differenza fra militanti e militonti. Ma hanno riflessi troppo lenti. La riscossa – a trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer – passerà da altre parti».«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italiani.
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Democrazia superflua, nel regime dei signori del Ttip
Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.Il boccone grosso del Trattato, infatti, è un altro: costringere gli Stati a farsi da parte, lasciando che a dettar legge – ufficialmente – siano i colossi dell’economia mondiale, a cominciare da quelli della finanza. Appena cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, americani ed europei sono d’accordo sul fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria hanno fatto il loro tempo: il quadro che vogliono delineare, attraverso il nuovo Trattato Transatlantico, il devastante dispositivo legale destinato a sconvolgere lo scenario europeo e la residua libertà dei nostri Stati, prevede di eliminare tutti gli ostacoli in materia di investimenti a rischio. Vogliono impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato, cancellando ogni tipo di regolamentazione. Secondo Lori Wallach, che dirige il Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington, questo «stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane» risponde ai desideri dell’associazione delle banche tedesche, inquieta per la timida riforma di Wall Street adottata dopo il 2008.La Deutsche Bank ora vuole «farla finita con la regolamentazione Volcker», chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Quello della Deutsche Bank, scrive Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, è il volto feroce della finanza europea, quella dell’euro-regime, pienamente allinenata con quella statunitense. Fa eco Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee: la compagnia auspica che il Ttip, il Trattato Transatlantico che si sta chiudendo lontano dai riflettori, «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei Servizi Europei, l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche Bank, si agita dietro le quinte affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.«Da parte degli Usa – aggiunge la Wallach – si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie». La Commissione Europea, ovviamente, darà il via libera: infatti si è già affrettata a giudicare «non conforme alle regole del Wto» la tassa sulle rendite finanziarie. E dato che lo stesso Fmi si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, ormai negli Stati Uniti la debole “Tobin tax” non preoccupa più nessuno. Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli Stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.A Washington, si crede che i dirigenti europei siano «pronti a qualunque cosa, pur di ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale». L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante statunitense al commercio. I fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue», dal momento che viene considerato “superfluo” «tutto ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia».Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali: per questo, osserva ancora Lori Wallach, «i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni». Ma i giochi non sono ancora conclusi. E, come hanno mostrato le disavventure di analoghi trattati e alcuni cicli negoziali del Wto, «l’utilizzo del “commercio” come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari, in passato ha fallito a più riprese». Nulla ci dice che non possa succedere anche stavolta, a patto però che – a partire dalle elezioni europee del prossimo maggio – la politica si svegli. Nel frattempo, anche in Italia, nessun leader di partito, in nessun telegiornale o talkshow, ha mai menzionato neppure per sbaglio il problema, cioè il nodo strategico su cui si gioca il nostro futuro.Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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L’Ucraina come la Siria. Obiettivo Nato: assediare Mosca
La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.«Non è vero che questo partito sia marginale nella rivolta e solo molto attivo e vociferante, come alcuni vogliono far credere», scrive “Piotr” in un’analisi su “Megachip”. Due anni fa, alle politiche, Svoboda ottenne il 10,45% dei voti, conquistando 38 seggi in Parlamento. Oggi proprio Svoboda «forma il nerbo delle manifestazioni, la parte più decisa, quella che conduce gli scontri, ammazza i poliziotti, li rapisce e li tortura». Da giorni, aggiunge “Piotr”, i suoi militanti ricercavano lo scontro sanguinoso con le forze di polizia. E alla fine ci sono riusciti. «Ai neonazisti si è accodato a quanto sembra Anatoli Gritsenko», già ministro della difesa dell’oligarca Julia Timoshenko, che «ha avuto la splendida idea di incitare i manifestanti ad armarsi», precisando con delinquenziale ipocrisia che l’appello era rivolto «solo a quelli che hanno il porto d’armi».Restano per ora soltanto comprimari i gruppi fondamentalisti dei Tatari della Crimea, in particolare «gruppi di soldati di ventura che hanno appena finito di combattere in Siria», e che certamente non condividono con gli ultra-nazionalisti di Svoboda le aspirazioni indipendentiste della penisola sul Mar Nero. Tutte queste componenti sono comunque coinvolte nella vertenza per chiedere l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, da cui Kiev spera di ottenere denaro: il prestito di 15-20 miliardi di dollari promesso dalla Russia all’Ucraina lo potrebbe rimborsare la Ue, sempre che le vada, aggiungendo anche il prezzo pieno (quasi dimezzato da Putin nell’accordo di pochi giorni fa) del gas russo comprato dall’Ucraina. Poi, però, «dopo un probabile periodo di attesa per stabilizzare la situazione e non disgustare subito gli ucraini», su quel paese si abbatterebbe «la scure dell’austerity europea». Ma il vero obiettivo, «il boccone grosso e proibito», è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato.«Con l’Ucraina, la Nato finirebbe a ridosso di Mosca», osserva “Megachip”, in aperta violazione dei trattati di Parigi e di Helsinki, ovvero «gli accordi di garanzia della sicurezza europea che sono seguiti alla caduta della cortina di ferro». In altre parole, «Ucraina nella Nato e riarmo sono sinonimi». Molto dipenderà ora dagli altri leader dell’opposizione: se dimostreranno buon senso, «l’Ucraina potrebbe uscire dalla crisi con un nuovo governo che potrebbe sfruttare al meglio i rapporti sia con la Ue (standosene fuori) sia con la Russia (che la premierebbe per star fuori dalla Nato)». Una scelta simile «farebbe molto bene all’Europa dei popoli», aggiunge “Piotr”, ma il guaio è che alla Nato e alla Ue non sembra interessare una soluzione pacifica. Al contrario, «stanno facendo di tutto per obbligare ad una scelta secca: o noi o la Russia». Nessuna sorpresa se un giorno si scoprirà che in Ucraina stanno già arrivando fiumi di dollari.La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.
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Noi ex cittadini, ora sudditi del Trattato Transatlantico
C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.I nuovi “tribunali” orwelliani dotati di poteri speciali, accusa Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique” in un intervento ripreso da “Micromega”, riconosceranno anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, e senza alcuna contropartita: le multinazionali non avranno alcun obbligo verso gli Stati e potranno avviare delle cause dove e quando vorranno. Per capire quello che succederà basta sfogliare i giornali: società europee hanno già avviato contenziosi legali contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, grazie alla protezione di trattati come il Nafta. Altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla legislazione anti-tabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. E il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il Canada, “colpevole” di aver varato un sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. E ancora: il fornitore svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania per la sua “svolta energetica”, che norma più severamente le centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.«Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a beneficio di una multinazionale», continua Lori Wallach. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera. E anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie commissioni, che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino. «Calcolando ciò, i poteri pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare la propria causa davanti al tribunale». Lo ha appena fatto il Canada, «abrogando velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria petrolifera». A partire dal 2000, il numero di questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato, creando un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati d’affari. E’ il vivaio in cui sguazzano le super-lobby dei poteri forti, come il Trans-Atlantic Business Dialogue. Le stesse che dettano le loro regole – da anni – alla Commissione Europea, la quale poi le trasforma puntualmente in direttive comunitarie.Creata nel 1995 con il patrocinio della Commissione di Bruxelles e del ministero del commercio Usa, la super-lobby Tabd non è altro che «un raggruppamento di ricchi imprenditori», impegnato in un “dialogo” «altamente costruttivo» tra le élite economiche dei due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il Tabd «è un forum permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste dell’Atlantico». Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici. Di fatto, archiviati i tradizionali strumenti di pressione, le super-lobby oggi si apprestano a ricattare gli Stati con minacce estorsive, dettando direttamente le nuove leggi. La Camera di Commercio Usa e la potente lobby “Business Europe”, ovvero «due tra le più grandi organizzazioni imprenditoriali del pianeta», hanno espressamente richiesto ai negoziatori del Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati uniti e in Unione Europea.Di fatto, aggiunge Lori Wallach, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le loro intenzioni: sugli Ogm, ad esempio, la Monsanto auspica che «il baratro che si è scavato tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro accoglienza in Europa» sia presto colmato, proprio grazie al Trattato Transatlantico che imporrebbe agli europei il loro catalogo di organismi geneticamente modificati. E l’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere le barriere che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa verso gli Stati Uniti. E l’Us Council for International Business (Uscib), un gruppo di società che ha massicciamente rifornito la Nsa di dati personali, «l’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira. L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola europea che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo “Yum!”, proprietario della catena di fast food Kentucky Fried Chicken (Kfc), può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. Un gruppo di pressione come l’Istituto Americano della Carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina», un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, la ractopamina è stata bandita in 160 paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione Europea, la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, invece, il divieto di impiegare quella sostanza «costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui il Ttip deve urgentemente porre fine». Avvertono i produttori americani di suino: «Non accetteremo altro risultato che non sia la rimozione del divieto europeo della ractopamina».Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in “Business Europe”, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione “Airlines for America” (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la sua soppressione definitiva in nome del «progresso». Se nessuno fermerà il Trattato Transatlantico, il destino della nostra civiltà è praticamente segnato.C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.
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Solidarietà ai No-Tav, superata quota 100.000 euro
Per il sig. Alberto Perino: vi prego non mollate, siete l’orgoglio del popolo italiano. La Valsusa paura non ha (da Bologna). Orgogliosi di difendere la nostra terra e i beni. In gamba tutti voi. Difesa del territorio dalle lobby. Resistere. Non mollate. Forza ragazzi continuate così. Solidarietà agli eroici No Tav. Per una giusta causa. Scusate il basso importo, sono con voi. Colpevoli di difendere la nostra terra. Grazie per tutto. Solidarietà. Sostegno alla resistenza. Grazie ragazzi. Val di Susa resiste. La solidarietà non ha frontiere. Avanti No Tav. Un piccolo contributo (100) per una grande vittoria. Forza Alberto, forza tutti i no tav. Teniamo duro. Causa: mi andava. Tenete duro. Siete grandi. Siamo con voi. Stasera salto la pizza. Tenete duro.Ragazzi, non ho più 1 euro e tra un po’ sforo il fido, ma per voi volentieri, per voi proprio volentieri. Certo che vi aiutiamo a resistere, grazie. So che è per una giusta causa. Lo so è poco, ma di più non posso. Non mollate mai. Concorso spese assurde. Siamo tutti con voi. Continuate così. Piccolo aiuto a resistere. Forza no tav, resistete. La mia è una semplice goccia ma sono con voi. Davide contro Golia. Rompiamogli i marroni. Contributo per chi ha i coglioni per difendere il proprio territorio. Grazie per la tenacia. Con tutto il cuore. Non siete soli. Non tanto, ma di cuore. Forza ragazzi! Ultima speranza dell’ItaliaVi mando quello che avrei dovuto versare allo Stato per la Tares (30 euro). Per Perino e Co. Aiuto per richiesta di danni immaginari per centinaia di migliaia di Euro. Forza non mollate, state difendendo la libertà di tutti. Ne ho pochi, ma ve li meritate alla grande. Continuate, un giorno troveremo il coraggio di fare altrettanto (da Castelfranco Veneto). Per combattere i farabutti della Tav. Nessuno è solo. A l’è già dura. Per il popolo No Tav. Forsa fieuij. Magari con un bell’esposto alla Corte dei Conti per truffa ai danni dello Stato da Sitaf e Ltf ce li facciamo restituire…(Dal sito “NoTav.info” del 3 febbraio 2014, messaggi di solidarietà per i No-Tav dagli italiani che sostengono la raccolta fondi per Alberto Perino, Loredana Bellone e Giorgio Vayr, condannati in sede civile a pagare oltre 200.000 euro per un’azione dimostrativa di protesta contro la campagna di trivellazioni del 2010 per il progetto della linea Tav Torino-Lione).Per il sig. Alberto Perino: vi prego non mollate, siete l’orgoglio del popolo italiano. La Valsusa paura non ha (da Bologna). Orgogliosi di difendere la nostra terra e i beni. In gamba tutti voi. Difesa del territorio dalle lobby. Resistere. Non mollate. Forza ragazzi continuate così. Solidarietà agli eroici No Tav. Per una giusta causa. Scusate il basso importo, sono con voi. Colpevoli di difendere la nostra terra. Grazie per tutto. Solidarietà. Sostegno alla resistenza. Grazie ragazzi. Val di Susa resiste. La solidarietà non ha frontiere. Avanti No Tav. Un piccolo contributo (100) per una grande vittoria. Forza Alberto, forza tutti i no tav. Teniamo duro. Causa: mi andava. Tenete duro. Siete grandi. Siamo con voi. Stasera salto la pizza. Tenete duro.
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Ghigliottina esangue: perché la Boldrini deve dimettersi
Dev’essere tutta colpa del nipote di Magozurlì, quel tal Carloconti che imperversa la sera su Rai-uno trainando l’ascolto del Tiggì più caro agli italiani con un programma – l’eredità – in cui una ghigliottina cala sul gruzzolo dei concorrenti che si sono sudati la vincita rispondendo a domande impegnative sostenendo che Hitler salì al cancellierato di Germania nel 1970… Il ritorno di moda di una “invenzione” talmente micidiale che ne finì vittima persino il suo ideatore deve aver affascinato una predestinata ad alte cariche istituzionali come la presidente protempore della Camera dei deputati. La butto sull’ironico perché ho letto attentamente e con rispetto una lunga e profonda discussione che alcuni “amici” si sono scambiati sul mio “profilo facebook” scatenata da un post che a mia volta avevo condiviso dal social network.Dico subito che stimo molto coloro che conosco (al di la dell’“amicizia virtuale”) e che altrettanta stima ritengo si debba accordare anche a chi non conosco personalmente ma vedo che si appassiona a ragionare – (oggi!) – di democrazia a rischio! Ma francamente non immaginavo di provocare tanta rovente discussione, raccogliendo la segnalazione di un pezzo uscito su un blog dichiaratamente caustico nei confronti di tutto ciò che pretende di essere “politicamente corretto”. Qualunque commento rischia quindi di essere inadeguato, ma se non lo si fa nell’arena virtuale – potendosi sbagliare e correggere senza aver provocato danni irreparabili – non vedo come si possa auspicare che ciò possa avvenire nelle assemblee elettive di ogni ordine e grado. In tali consessi infatti tutti, anche i migliori, devono difendere la propria squadra non fosse altro in quanto strumento per lavorare al conseguimento dei più nobili obiettivi.Io non conosco la Boldrini se non attraverso la stima di persone che ci hanno avuto direttamente a che fare nella delicata esperienza legata alla sorte degli “ultimi”, dei migranti vittima di tante tragedie consumatesi nella indifferenza quando non nell’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica. Ma a maggior ragione chi ha alle spalle quel tipo di storia non può permettersi di “dare scandalo” quando cambia mestiere: io non so e non mi permetto di dire che meglio sarebbe stato se si fosse legata una pietra al collo piuttosto che azionare – per la prima volta in Italia – la lama di una ghigliottina. E non è possibile cavarsela dicendo che non è corso sangue e nessuna testa è caduta nella cesta.Io sto ai fatti perché, mentre “la cosa” stava succedendo, quello che lei ha fatto passare stroncando l’“abominevole ostruzionismo grillino” (ma anche di alcuni suoi “ex compagni” di Sel e degli eletti di Fratellid’italia) è un provvedimento incoerente come tutti i decreti che lo hanno preceduto, un pezzo del quale poteva anche aver requisiti di “necessità e urgenza”, quello relativo alla soppressione dell’Imu, giusta o sbagliata che sia, ma l’altro – il grazioso regalo alle peggio banche italiane e non (vedi Unicredit) – oltre ad essere a dir poco discutibile era sicuramente rinviabile (e proprio con lo scopo di poterne discutere fino in fondo). E’ di queste stesse ore la notizia dell’apposizione di una sorta di segreto di Stato sulla richiesta di Bruxelles che il Monte dei Paschi di Siena restituisca 3 dei 4 miliardi di aiuti ottenuti dal Governomonti…Ora, mentre quel che arriva dalla Commissione Ue diventa sacro e immediatamente esecutivo se si tratta di tagliare pensioni, rientrare dal deficit eccessivo o rinunciare alla italianità della mozzarella, ecco che su questa “trascurabile raccomandazione” cala il più classico dei silenzi assordanti. Che le banche siano importanti (che sia fondamentale che tornino a svolgere la funzione del credito per cui si può considerare un bene da difendere anche la loro “italianità” alla faccia della globalizzazione) è fuor di dubbio. Ma quale uso sia meglio fare di sette miliardi e mezzo di riserve valutarie della Banca d’Italia deve essere materia su cui l’opposizione possa esercitare il diritto regolamentarmene disciplinato ad opporsi. Differentemente tale decisione, come quella su Mps o l’acquisto degli F-35 diventano prerogativa dell’Abi o una scelta insindacabile dell’esecutivo, o materia del Comitato per la Difesa Nazionale presieduto da un post-comunista che si è fatto monarca!Cose ognuna delle quali rappresenta un delitto contro la democrazia assai più grave di turpiloquio, sessismo, e – secondo me – persino delle più volgari e vergognose minacce. Che condanno, sia chiaro, come hanno fatto anche molti eletti a 5stelle – nonostante l’“obbligo di difesa della casamadre” cui ho fatto cenno. Ma che sono il sintomo, non la causa della malattia. Come lo è il tentativo (sin qui fallito) dei forconi che magari (come qualcuno paventava) credevano di avere dalla loro poliziotti e camionisti, ma non sapevano che i primi si sono tolti il casco per ravviarsi i capelli e i secondi erano garantiti da Palenzona & Lupi che di banche, pedaggi autostradali e rimborsi delle accise sul gasolio sono da sempre “razzapadrona”.Ora io credo che se la Boldrini non perde occasione per rincarare la dose affermando (virgolettato) che quello dei parlamentari 5stelle è stato un “attacco eversivo”, farebbe bene a dimettersi senza bisogno che glielo chieda nessuno, perché non può non sapere che sta seduta su una polveriera incomparabilmente più destabilizzante, i cui fuochisti sono quelli che hanno manovrato i pentiti per depistare i magistrati dallo scoprire chi sono stati se non i mandanti almeno i complici “istituzionali” dalle stragi di Capaci e via d’Amelio; perché è circondata da lobbysti che decidono indisturbati in che modo usare le risorse pubbliche per i loro affari privati e quali emolumenti attribuirsi.Allora delle due l’una: o ammetti di essere inadeguato per un ruolo imparziale e ne trai le conseguenze o sei complice di un disegno che è eversivo (quello sì) di quella stessa Costituzione su cui hai giurato. E siccome di spergiuri è piena la lista di attesa, meglio se a compiere (o avallare) le inevitabili nefandezze prossime venture saranno persone dal curriculum politico spregevole e riconoscibili come tali. Spiacente, ma di difensori della classe operaia che passavano da una festa all’altra della nobiltà romana ne abbiamo gia avuto uno, e non era neanche una donna, per cui chi – giustamente – lo attaccava, se non altro, non poteva essere tacciato di sessismo.(Claudio Giorno, “La ghigliottina esangue”, dal blog di Giorno del 2 febbraio 2014).Dev’essere tutta colpa del nipote di Magozurlì, quel tal Carloconti che imperversa la sera su Rai-uno trainando l’ascolto del Tiggì più caro agli italiani con un programma – l’eredità – in cui una ghigliottina cala sul gruzzolo dei concorrenti che si sono sudati la vincita rispondendo a domande impegnative sostenendo che Hitler salì al cancellierato di Germania nel 1970… Il ritorno di moda di una “invenzione” talmente micidiale che ne finì vittima persino il suo ideatore deve aver affascinato una predestinata ad alte cariche istituzionali come la presidente protempore della Camera dei deputati. La butto sull’ironico perché ho letto attentamente e con rispetto una lunga e profonda discussione che alcuni “amici” si sono scambiati sul mio “profilo facebook” scatenata da un post che a mia volta avevo condiviso dal social network.