Archivio del Tag ‘Libia’
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Libia, nessuna trattativa con Gheddafi: guerra lunga
Soluzione diplomatica per metter fine alla guerra civile in Libia? A una sola condizione: che Gheddafi sparisca. Nessuna trattativa finché il Colonnello è ancora al potere: lo dicono esplicitamente gli insorti. Si potrà negoziare una riconciliazione con l’esercito, i clan e le milizie di Tripoli, ma non con il raìs. Su questo punto convergono tutte le voci dal 25 marzo, quando la Nato ha deciso di assumere il controllo delle operazioni Onu: la «via diplomatica» evocata da Sarkozy e Cameron, “imbrigliati” dall’Alleanza Atlantica, non prevede di rispondere ai messaggi che Gheddafi sta lanciando: l’ultimo “no” è arrivato da Addis Abeba, alla riunione d’emergenza dell’Unione Africana. E la guerra si prolunga: almeno 3 mesi, secondo la Nato. Sul campo, finora, quasi 10.000 morti. Col rischio di 250.000 persone in fuga.
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Tank e bombe, made in Italy l’arsenale del Colonnello
Sembra un carro armato, magari russo come i T-72 centrati dai razzi dei caccia francesi. In realtà, tecnicamente, è un semovente: un cannone di grosso calibro, montato su un mezzo cingolato. Si chiama “Palmaria” e fa parte del “made in Italy” che Roma aveva da poco venduto al Colonnello. La foto ha fatto il giro del mondo, coi ragazzi di Bengasi arrampicati sulla canna dell’obice, tra le rovine dell’armata di Gheddafi che assediava il capoluogo della Cirenaica. Artiglieria semovente corazzata, italianissima: fabbricata nei cantieri Oto Melara di La Spezia. Come tanti altri sistemi d’arma coi quali il regime di Tripoli sta ora seminando il terrore in tutta la Libia.
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Lampedusa, gli impresari della paura rimpiangono i dittatori
Turbati da una rivoluzione araba che sovverte la loro visione del mondo, alcuni ministri italiani si sono trasformati in profeti di sventura. E subito i giornali governativi hanno cominciato a suonare le campane a morto. Mentre Frattini sparava cifre a casaccio su «un’invasione di 300 mila profughi», La Russa e Maroni abusavano dei sacri testi per evocare un “Esodo biblico”, giungendo martedì scorso a fantasticare di “Tsunami umano”. Rileggere in sequenza i titoloni di prima pagina de “La Padania” aiuta a comprendere lo stato d’animo di costernazione con cui i nostri governanti vivono questi cambiamenti storici, percepiti nel resto d’Europa come rischiosi, certo, ma potenzialmente benefici.
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Se il mondo brucia, vacilla il dogma della crescita infinita
La Lega Araba, dice il falco Edward Luttwak, avrebbe avuto tutti i mezzi militari necessari per intervenire il Libia: invece ha preferito ripararsi dietro la coalizione Nato, lasciando all’Occidente la parte del cattivo. Se non altro, i governi arabi hanno confermato l’appoggio alla risoluzione Onu, con due eccezioni: Siria e Algeria. La Siria è scossa dal vento del Maghreb, la polizia ha sparato sulla folla e ora il presidente Assad tenta una tardiva retromarcia promettendo riforme; l’Algeria è da anni un cratere pronto a riesplodere: la rivolta deflagrata coi primi moti tunisini ed egiziani è stata per ora soffocata della repressione. Il mondo sta letteralmente bruciando, e non solo quello arabo.
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Libia, il razzismo ipocrita di chi diffida dei giovani ribelli
L’ultimo spettacolo di questi giorni è quello dei soci di Gheddafi – vecchi amici e alleati, clienti e fornitori – che si esercitano nel salire in cattedra per dare pagelle di democrazia agli insorti libici, generalmente chiamati “ribelli di Bengasi” e “separatisti della Cirenaica”, dimenticando che dal 17 febbraio si è sollevata tutta la Libia contro il dittatore, che oggi assedia ancora Misurata, terza città del paese vicinissima a Tripoli, dopo che le truppe del Colonnello hanno schiacciato nel sangue le rivolte esplose in tutto l’Ovest, da Zuara a Zawiya. E’ vero, ci sono anche i clan tribali, ma è una geografia ormai fluida: il fattore decisivo, sottolinea “Fortress Europe”, è il coraggio dei giovanissimi che sono scesi in piazza a mani nude contro il tiranno, prima ancora della diserzione delle prime unità territoriali delle forze armate, che ha trasformato la sollevazione popolare in guerra civile.
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Fortress Europe: fra i morti di Bengasi, ringraziando l’Onu
«I guanti di lattice di Salim sono sporchi di sangue. Non riesco a dimenticare la scena. Uno a uno sceglie i brandelli di carne tra i vetri in frantumi dell’auto, una Daewoo Nubira. Sono il cervello di Wahid Elhasi, spappolato dalla scheggia di una delle centinaia di bombe sganciate oggi dall’esercito di Gheddafi». Benvenuti a Bengasi, 15 marzo 2011. Firmato: Gabriele Del Grande. Giovane reporter indipendente, è una delle voci della capitale ribelle della Cirenaica. Per anni ha seguito l’agonia dei migranti lungo le rotte del deserto: Somalia, Eritrea, Senegal, Niger. Ha denunciato il crimine dei “respingimenti”, viaggiando coi dannati della terra. E ha visto molti di loro sparire: derubati, picchiati, violentati e uccisi nelle carceri libiche.
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Le ipocrisie sulla Libia e il crimine dell’indifferenza
Non è mai semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l’incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. «La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s’impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra». Secondo Barbara Spinelli, «il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice “addolorato per Gheddafi” senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa».
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Petrolio, dollari e potere: così Gheddafi ha perso la Libia
Buona parte della Libia si è rivoltata contro Gheddafi, cogliendo al volo il vento della Tunisia e quello dell’Egitto, quando il regime del raìs è entrato in crisi: avendo aperto la sua economia al capitalismo globalizzato, Tripoli ha accusato il colpo del crac finanziario mondiale del 2008, vedendo crollare i propri ricavi petroliferi. Ad aggiungere tensione sociale, l’enorme afflusso di lavoratori stranieri – forse due milioni – su una popolazione che raggiunge appena i sei milioni di abitanti. Questo lo scenario di crisi su cui ha avuto mano libera la rivolta, ispirata dalla Cirenaica e appoggiata dai clan tribali: l’occasione giusta per tentare di sbarazzarsi del Colonnello, protagonista di quarant’anni di feroce repressione, come del resto quasi tutti gli altri paesi petroliferi dell’area.
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Fratelli d’Italia e di Gheddafi, il nostro eroe impresentabile
L’unica cosa che sappiamo è che non sappiamo niente, non possiamo prevedere niente, non possiamo prevedere innanzitutto quanto durerà e soprattutto non possiamo prevedere cosa succederà dopo: tanto più oggi, dove siamo di fronte a una strana faccenda che non si riesce bene a distinguere tra guerra civile, rivolta per la libertà, rivoluzione, non si sa neanche come chiamarla, visto che manca una leadership, manca un’analisi seria sulla natura, sui componenti di questa ribellione che è in parte tribale, in parte sicuramente aspira a più libertà, in parte è islamica, non sappiamo quanto fondamentalista islamica e soprattutto non sappiamo quali saranno le possibili ritorsioni che ha in animo Gheddafi e che può permettersi Gheddafi nei confronti di chi lo ha attaccato.
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L’Italia sempre più incerta verso il voto sulla Libia
Come in un formicaio impazzito, i partiti di ora in ora cambiano incessantemente posizione sulla guerra libica. Smarcamenti e riposizionamenti studiati allo scopo di approdare nel modo più indolore ad un appuntamento a suo modo solenne: la discussione in Parlamento (con tanto di voto) sulla partecipazione militare italiana alla missione di guerra, un dibattito che dovrebbe svolgersi entro le prossime 48 ore e che rappresenterà uno spartiacque, uno di quegli eventi destinati ad entrare se non nei libri di storia, quantomeno nella memoria degli italiani elettori.
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Francia e Italia fanno sbandare la coalizione anti-Gheddafi
«Sono addolorato per Gheddafi», dice Berlusconi da Torino la sera del terzo giorno di “guerra umanitaria” in Libia, mentre il ministro Frattini gela l’attivismo bellico del collega La Russa, minacciosamente criticato da Bossi: l’Italia è pronta a revocare l’uso delle proprie basi se la Francia non si rassegna a sottostare al comando unificato della Nato. In mezzo al guado Barack Obama, mentre la Norvegia diserta dalla coalizione (troppo franco-inglese) e la Turchia, fino a ieri sulla linea tedesca dell’astensione, si esprime a favore della guida atlantica, che invece secondo i francesi spaventerebbe la Lega Araba già traballante nel suo appoggio. In quattro giorni, la coalizione anti-Gheddafi rischia la crisi. E il dittatore, riferiscono le agenzie, ne approfitta per massacrare Misurata.
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Libia, Cecenia, Bosnia e Ruanda: non-ingerenza e genocidio
Se c’è un posto in Italia in cui bisognerebbe portare gli studenti è il cimitero americano di Nettuno. Lì fra 7.862 lapidi è possibile leggere il nome del “private” Peter P. Di Benedetto arruolato nella 34th Infantry Division e caduto il 7/1/1944, o di Michael C. Anzalone arruolato come marinaio nella Us Navy “missing in action” o “sepolto in mare” il 11/7/1944, o di Biagio Caracciolo, arruolato nel 68mo reggimento di artiglieria costiera e morto il 5 aprile 1944, o di Michael J. Bellonio primo luogotenente dell’ 840mo squadrone di bombardieri dell’Us Air Force, ucciso il 15 luglio 1944….etc.etc.