Archivio del Tag ‘Libia’
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Paragone: Trump, una dura lezione per Merkel e Juncker
Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta. Quel Mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito. Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo.Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.Ma da qui a definirci trumpiani no.(Gianluigi Paragone, “Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 novembre 2016).Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
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Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Milioni di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi. Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary. E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato». L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero». Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani. «Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”. «Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo? E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”? C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio». La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani. Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento. Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla. I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti». Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone». Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia». Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia». Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro. «Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda. Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento. Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti». Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni». Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa». Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più. Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia. Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda. Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario. Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli. Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa». Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary». E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare. Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania». In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia. Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia». Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma». Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui. E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa». Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte». Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile». I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno». In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks. «A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico». Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato. Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione». Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti. Donald Trump? «E’ un uomo d’affari. L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale». Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo. Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts. «La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo. Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo». E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo». Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Decine di migliaia di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
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Media bugiardi, rottamati dal voto degli americani
Puoi imbrogliare qualcuno una volta, ma non puoi fregare sempre tutti. Un vecchio adagio, su cui ora sorride, imperscrutabile e beffarda, la parrucca dell’impresentabile Donald Trump, incidentalmente eletto presidente degli Stati Uniti d’America proprio il 9 novembre, anniversario del crollo del Muro di Berlino. L’uomo che tra stracciato la terribile Hillary, che ha reso patetica l’ultima recita di Obama, e che – soprattutto – ha smascherato la cialtroneria universale dei media mainstream, dalla “Cnn” al “New York Times”, tutti schierati – in modo plumbeo, come in un regime totalitario – con la signora Clinton. E’ uno smacco che getta nel ridicolo giornalisti, anchorman, editori, analisti, inviati, reporter, celebrati esperti. Tutti fuori strada, disastrosamente. E quasi tutti in palese malafede: hanno finto di non vedere cosa covava nel ventre profondo dell’America. Hanno ignorato le notizie principali: come i sondaggi pro-Hillary ampiamente truccati, secondo le email intercettate da Wikileaks. E le rilevazioni decisive, secondo cui il 70% del campione, sette americani su dieci, non si fida più della narrazione ufficiale, delle grandi testate. Bingo.Anche gli americani, nel loro piccolo, s’incazzano – se continui a raccontare frottole, mentre l’economia va a rotoli e la middle class scivola sempre più in basso. In attesa di vedere come se la caverà Trump, che ha promesso una svolta estremamente impegnativa, ai limiti della fantascienza (nuovo miracolo economico, fine della globalizzazione imperiale), gli elettori non vedevano l’ora, intanto, di punire i super-bugiardi al potere da troppo tempo, da Barack Obama (che nel 2011 raccontò alla nazione e al mondo, senza uno straccio di prova, di aver ucciso Osama Bin Laden) a Hillary Rodham, che voleva insediarsi alla Casa Bianca dopo aver definito il presidente russo “il nuovo Hitler” e aver accumulato, col marito Bill, qualcosa come 230 milioni di dollari in conferenze pagate dai colossi di Wall Street, Goldman Sachs in testa. L’elenco degli sconfitti è sterminato: da George W. Bush, che si è vantato di non appoggiare Trump, all’attore Robert De Niro, che l’ha definito “un cane, un maiale”, candidandosi a “prenderlo a pugni in faccia”.Lo spettacolo è finito, cala il sipario sulla campagna elettorale più “cattiva” della storia americana. Ha vinto Trump, hanno perso i media. Gli stessi che in Francia lavorano per oscurare Marine Le Pen, che in Gran Bretagna hanno presentato la Brexit come l’apocalisse. Gli stessi media che, nel 2013, in Italia davano Grillo al 12%, fino a poche prima che il Movimento 5 Stelle, col 25% del voi, diventasse il primo partito alla Camera. La sensazione è che stia davvero finendo un’epoca, nel cui ultimo frangente il sistema mainstream ha fatto da grancassa anche alla guerra, in tutto il mondo. La catastrofe in Libia, le menzogne sul golpe in Ucraina, le fiabe nere sulla Siria, la vera origine dell’Isis. Zero verità, sui grandi media. Ma i cittadini si sono informati lo stesso, racconta Marcello Foa, grazie a media indipendenti come “InfoWars”. E hanno misurato la distanza tra le breaking news e la verità vera, quella che l’establishment si è rifiutato di raccontare: per questo ora subisce una rottamazione storica, epocale.Fine dalla guerra fredda con la Russia? E’ quello che tutti si augurano, tranne i businessman del Pentagono e della Nato, e che lo stesso Trump lascia intravedere, già dal suo primo discorso da vincitore. Ma, ammesso che sia davvero solido il suo programma geopolitico, bisogna capire se e quanto potrà attuarlo: nel suo staff si è insinuato un super-falco come Michael Ledeen, uno specialista della strategia della tensione, come anche il neo-vicepresidente, Mike Pence, l’uomo che gestì la montatura dell’antrace come falso alibi per poter invadere l’Iraq di Saddam. All’inizio delle primarie, “The Donald” era dato al 6%. «In realtà – svela Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni” – è stato segretamente appoggiato dalla super-massoneria progressista per sbarrare la strada al candidato repubblicano più pericoloso, Jeb Bush, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha”, implicata negli attentati dell’11 Settembre e nella “fabbricazione” dell’Isis». Trump però è andato molto oltre, sbaragliando anche la Clinton. «Comunque sia – sottolineava lo stesso Magaldi, alla vigilia dell’election-day – l’esito del voto americano non potrà che “svegliare” chi ha dormito per così tanto tempo, gettando finalmente le basi per la rinascita di una autorevole leadership progressista per gli Stati Uniti, assente dalla scena dai tempi dei Kennedy e di Martin Luther King».Puoi imbrogliare qualcuno una volta, ma non puoi fregare sempre tutti. Un vecchio adagio, su cui ora sorride, imperscrutabile e beffarda, la parrucca dell’impresentabile Donald Trump, incidentalmente eletto presidente degli Stati Uniti d’America proprio il 9 novembre, anniversario del crollo del Muro di Berlino. L’uomo che ha stracciato la terribile Hillary, che ha reso patetica l’ultima recita di Obama, e che – soprattutto – ha smascherato la cialtroneria universale dei media mainstream, dalla “Cnn” al “New York Times”, tutti schierati – in modo plumbeo, come in un regime totalitario – con la signora Clinton. E’ uno smacco che getta nel ridicolo giornalisti, anchorman, editori, analisti, inviati, reporter, celebrati esperti. Tutti fuori strada, disastrosamente. E quasi tutti in palese malafede: hanno finto di non vedere cosa covava nel ventre profondo dell’America. Hanno ignorato le notizie principali: come i sondaggi pro-Hillary ampiamente truccati, secondo le email intercettate da Wikileaks. E le rilevazioni decisive, secondo cui il 70% del campione, sette americani su dieci, non si fida più della narrazione ufficiale, delle grandi testate. Bingo.
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Tsunami Trump, nel panico l’élite del globalismo armato
«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».E lo stesso, continua il blog, era avvenuto per molti “farmers”, agricoltori e allevatori, «buzzurri quanto si vuole, ma rovinati progressivamente e irreversibilmente dalla concorrenza globale, fondata su salari da fame incomparabili con quelli Usa». Un’analisi squisitamente socio-economica: «Il lavorio della crisi, che suscita paure, insofferenza, paura del futuro, ha alla fine generato un gigantesco “vaffa” che ora minaccia di attraversare il pianeta come uno tsunami che non conosce ostacoli». Per il newsmagazine, che si definisce “giornale comunista online”, Trump è «il sintomo, il collettore, il terminale inconsapevole e inadeguato di una miriade di contraddizioni persino difficili da elencare». Così, «chi aveva spinto per la “riduzione del danno” – l’establishment di tutti i paesi – ha perso tutto». L’explot di Trump, «se non verrà in qualche modo imbrigliato e depotenziato dagli apparati del potere (statale e finanziario, nazionale e multinazionale), mette in discussione i pilastri della governance globale degli ultimi 70 anni».In altre parole, insiste “Contropiano”, lo storico pronunciamento popolare dei cittadini statnitensi «mette in discussione “l’ordine mondiale” centrato sulla capacità degli Stati Uniti di esercitare egemonia (culturale, politica, economica e soprattutto militare) sul resto del mondo». Un’avvisaglia dello sconvolgimento globale che questo risultato annuncia la si ricava dalle piazze finanziarie asiatiche, le prime ad aprire: yen e euro si rafforzano sul dollaro, il peso messicano precipita (Trump ha condotto una campagna fortemente anti-immigrati dal paese confinante) mentre vola l’oro, bene-rifiugio per eccellenza. L’indice giapponese Nikkei perde il 4,8%, Hong Kong il 2,8 (dopo essere arrivata al -3,4%), Taiwan il 2,7%. Catastrofe annunciata per Wall Street, cioè il vero “fortino” di Hillary Clinton. La cittadella finanziaria di Manhattan, per “Contropiano”, è «la vera sconfitta in queste elezioni».«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».
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La Cina ricostruirà la Libia: colossali investimenti a Tobruk
“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.Il primo ministro del governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, in un’intervista all’emittente televisiva “Al-Hadath” riportata dal “Libya Herald”, ha dichiarato che l’ingente investimento, frutto di una cordata di investitori cinesi, dovrebbe portare al compimento delle opere in un periodo di soli tre anni, con un effettivo impatto sull’economia locale già nel breve periodo. Il progetto «potrebbe avere una significativa rilevanza anche per le relazioni commerciali libiche», scrive Francesca La Bella su “Nena News”, ricordando che dopo la caduta di Muhammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, sia le imprese sia i lavoratori cinesi impegnati in Libia lasciarono il paese e, negli anni successivi, il capitale cinese non riuscì a trovare canali d’accesso per il paese nordafricano. «Oggi, invece, in linea con un programma di penetrazione imponente in tutto il territorio africano, Pechino potrebbe dare nuova linfa alle relazioni commerciali sino-libiche». Di riflesso, questo rinnovato slancio economico della Cirenaica, unito al programma di esportazione del greggio dai porti della mezzaluna petrolifera, «renderebbe Tobruk sempre più centro nevralgico dell’economia del paese, con inevitabili ricadute dal punto di vista politico».La debolezza del governo Sarraj, aggiunge Francesca La Bella, si contrappone alla solidità e al radicamento delle forze di Tobruk. E i numerosi attori coinvolti nella contesa libica sembrano schierarsi sempre più a favore di una riconciliazione tra Tripoli e Tobruk per garantire la stabilità politica ed economica della Libia. Riflessi geopolitici: «A fronte di una produzione del petrolio in continua ascesa e di uno Stato Islamico in lento arretramento, la possibilità di una ripresa libica sembra essere ora plausibile». E se la Cina entra in campo gocando pesante, l’Occidente – che la Libia l’ha rasa al suolo – vede ora complicarsi le sue mire di rapina su quello che, con Gheddafi, per l’Onu era il primo paese, in Africa, per indice di sviluppo umano. «La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio», scrive Alberto Negri sul “Sole 24 Ore”. Il sottosuolo libico contiene il 38% del petrolio africano, pari all’11% dei consumi europei. «È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra».In questo momento, scrive Negri, a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione «conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare». L’Italia ha già perso in Libia 5 miliardi di commesse, aggiunge il “Sole”. «La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi». Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della banca centrale e del Fondo sovrano libico, che sta a Londra, «dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City». Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica – dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi – gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari. «Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica».E dire che i libici «hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela». Gli interessi occidentali, «mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio», quando cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy «attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata», scrive ancora Neri. «Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total». Finti amici, gli occidentali, in realtà concorrenti-rivali. Su cui ora irrompe la Cina, con il suo piano – gigantesco, storico – per lo sviluppo del paese, a comiciare da Tobruk.“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.
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Putin: chi terremota il mondo vi sta portando via il futuro
«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».Putin si scaglia contro l’Occidente, contro le sue guerre umanitarie e i suoi tentativi di esportare la democrazia fuori da una cornice multipolare: le guerre in Serbia, in Iraq, in Afghanistan e in Libia «spesso condotte senza le relative decisioni del Consiglio di Sicurezza Onu»; e poi ancora hanno deciso «di spostare l’equilibrio strategico a proprio favore distaccandosi dal quadro giuridico internazionale che proibisce l’implementazione di nuovi sistemi di difesa missilistica»; hanno «creato gruppi terroristici le cui azioni hanno generato milioni di profughi, e gettato intere regioni nel caos». Putin definisce la “minaccia militare russa” con cui l’Occidente sta costruendo la nuova Guerra Fredda, un «business redditizio da utilizzare per pompare denaro fresco nei bilanci della difesa, espandere la Nato fino ai nostri confini». Il leader russo è categorico: Mosca «non ha intenzione di attaccare nessuno»; pensarlo è «sciocco e irrealistico. I paesi membri della Nato insieme con gli Stati Uniti hanno una popolazione totale di 600 milioni circa; la Russia solo 146. E’ semplicemente assurdo concepire anche tali pensieri».Poi Putin ironizza sulla «isteria degli Stati Uniti circa una presunta ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane»; e rivolgendosi alla platea, «lo chiedo a voi: qualcuno seriamente pensa che la Russia possa in qualche modo influenzare la scelta del popolo americano? Cos’è l’America? Una Repubblica delle Banane o un grande potenza?». Ma la denuncia più violenta di Putin è contro l’élite tecnocratica che sta scippando il valore della sovranità. Nelle democrazie più avanzate «la maggioranza dei cittadini non ha alcuna reale influenza sul processo politico e sul potere». Le persone avvertono «un divario sempre crescente tra i loro interessi e quelli dell’élite che governa i processi». E quando, attraverso le elezioni o i referendum, i cittadini scelgono in maniera diversa rispetto a quello che l’élite vorrebbe, ecco che essa trasforma la volontà popolare in “anomalia” o immaturità o incapacità di scegliere. E ciò che in maniera sprezzante viene definito populismo, per Putin è «gente comune, cittadini che stanno perdendo fiducia nella classe dirigente».Sembra che le élite non vedano il dissesto profondo nella società e «l‘erosione della classe media, mentre allo stesso tempo, esse impiantano ideologie distruttive per l’identità culturale e nazionale». Putin avverte: «E’ la sovranità la nozione centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il rispetto per essa e il suo consolidamento contribuirà a sottoscrivere la pace e la stabilità sia a livello nazionale e internazionale». Quello di Putin è un monito a chi si diverte a disegnare un nuovi ordini mondiali sulla pelle di nazioni e popoli; un avvertimento agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici. Quella di Putin è l’analisi realista della deriva dell’Occidente ed una prospettiva anche per l’Europa: disegnare un sistema multipolare che metta «fine alla divisione del mondo in vincitori e vinti permanenti». L’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno.(Giampaolo Rossi, “Putin il realista”, dal blog “L’Anarca” su “Il Giornale” del 2 novembre 2016).«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».
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Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton
Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è così strano, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia. Dietro le quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare? Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro immenso potere. Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che Carpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorenza reclutano kamikaze jihadisti.Il vertice della piramide è diviso? Lo dimostra il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». E Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta avvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è poi così sorprendente, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
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Questo è un golpe di fatto, e va fermato con il nostro No
Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni. Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.L’endorsement di Obama al sì di Renzi è infatti direttamente condizionato all’impegno militare italiano in Libia e in Lettonia. Il no alla truffaldina riforma renziana è quindi anche un indispensabile no alla dissennata deriva neocoloniale. Un no alla guerra. Non a caso una delle modifiche, della quale il governo non parla, riguarda proprio l’articolo 78, che cambierebbe così: «Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». Con l’Italicum, il partito che vince il ballottaggio ottiene automaticamente la maggioranza assoluta alla Camera, quindi sia il governo, che il potere esclusivo di dichiarare guerra indisturbato come un monarca assoluto. Questo è un golpe di fatto, e deve essere fermato.Per la prima volta da anni un nostro voto potrà davvero fare la differenza. E non certo per merito dell’attuale classe dirigente, è la Costituzione che vuole rottamare a prevedere questo obbligatorio passaggio referendario, un fail safe che Renzi non è riuscito ad aggirare, benché ci abbia provato col Patto del Nazareno. Per la prima, e probabilmente ultima volta abbiamo l’occasione di scaraventare la Boschituzione – Costituzione Boschi – nel cassonetto dell’indifferenziata al quale appartiene, e liberarci d’un governo di cazzari arroganti, incapaci, guerrafondai, completamente asserviti alla finanza internazionale e all’industria bellica, che è diventato anche fisicamente pericoloso. Perdere questa occasione per noi sarebbe il vero suicidio.(Alessandra Daniele, “Sbarack Oboomerang”, da “Megachip” del 23 ottobre 2016)Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni. Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.
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Foa: Hillary ci trascina in guerra con Putin. Renzi? Esegue
Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso. Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia. E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche. E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary.I soldati italiani che saranno inviati al confine con la Russia? E’ gravissimo, ma purtroppo non è sorprendente. Renzi, che fa le sue sparate pubbliche contro l’Unione Europea e qualche tempo fa, anche con un certo coraggio, si era schierato con posizioni favorevoli o simpatizzanti nei confronti della Russia, poi quando l’America ti dice (tramite la Nato) che bisogna mandare soldati in Lituania, Estonia, al confine con la Russia, non ha il coraggio di opporsi, perché alla fine chi comanda sono gli Stati Uniti – e nessun leader europeo, tranne poche eccezioni, ha il coraggio di dire no, di anteporre gli interessi nazionali. Questo è un altro aspetto che non viene dibattuto, e invece è molto significativo: per me questa decisione è scandalosa, perché ci espone al rischio di una rappresaglia diretta da parte della Russia, rischio che non possiamo permetteci di correre, e soprattutto lancia un messaggio sbagliatissimo: l’Italia è amica della Russia e deve evitare queste forme di provocazione. Purtroppo, invece, l’evidenzia dimostra che, se Washington dice “bisogna che voi mandiate i soldati”, l’Italia poi china la testa e manda i soldati. Dovremmo veramente chiederci se tutto questo è davvero nel nostro interesse.La Russia non ha fatto nulla per provocare gli Stati Uniti. Ma gli americani, nei loro disegni strategici, sono convinti che la Russia debba essere controllata. Sono convinti che, controllando lo spazio eurasiatico, possano mantenere la leadership nel mondo e mettere in un angolo la Cina. Putin non è un leader allineato. Inizialmente lo era; ma poi, quando l’America ha iniziato a occuparsi dell’Ucraina, si è reso conto che non poteva fidarsi degli americani ed è cominciata questa schermaglia, inizialmente verbale, e poi sfociata nelle sanzioni. Il vero obiettivo degli Stati Uniti è provocare l’uscita di scena di Putin: sostituirlo con un leader russo che sia in realtà molto amico degli Usa, come peraltro era Eltsin. E per far questo sono disposti a tutto: l’arma delle sanzioni, l’arma delle minacce.Ma attenzione: i russi non sono un piccolo paese come l’Iraq, o un paese che può essere facilmente messo sotto pressione come qualunque piccolo paese occidentale. La Russia resta una grande potenza, dotata di una certa intelligenza e di un servizio di intelligence raffinato. E infatti le risposte che vediamo sono veramente fuori dagli schemi. Il problema è che questo disegno degli americani rischia di portare il mondo a una nuova guerra mondiale, a una guerra nucleare. Il rischio, purtroppo, è molto concreto. E io sono davvero preoccupato: se fino a oggi non ci siamo arrivati è perché la Russia è riuscita a mantenere i nervi molto saldi. Ma, mi chiedo: c’è davvero bisogno di spingerci fino a questo punto? La risposta, ovviamente, potere immaginarla.(Marcello Foa, dichiarazioni rilasciate alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 ottobre 2016, condotta da Fabio Frabetti in collaborazione con Stefania Nicoletti – un lungo colloquio radiofonico, in cui Foa si è espresso in modo approfondito e circostanziato sulla scandalosa reticenza dei media mainstream soprattutto in relazione ai gravissimi abusi commessi da Hillary Clinton).Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso. Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia. E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche. E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary, che attraverso la Fondazione Clinton si è fatta finanziare dall’Arabia Saudita e dal Qatar, i due paesi arabi accusati di sostenere l’Isis.
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Carpeoro: a colpire Palermo non sarà la mafia, ma l’Isis-P1
Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.Tempo fa, Carpeoro aveva avvertito del possibile pericolo per il nostro paese, legato a una data particolare, il 10 agosto: «Dovete sapere che Federico II ebbe un ruolo di protettore dell’Islam, visto che fu protagonista dell’unica crociata che finì con degli accordi riguardanti la restituzione pacifica di Gerusalemme ai cristiani», racconta Carpeoro a Marcus Mason, che l’ha intervistato per il blog “Lo Sciacallo”. L’imperatore-esoterista, però, subito dopo la pace per Gersusalemme avviò una persecuzione violentissima contro gli islamici siciliani, sterminandoli: «Questa persecuzione culminò il 10 agosto del 1222, quando catturò i capi, lo sceicco e i due figli, decapitandoli in piazza a Palermo». L’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” conferma i suoi timori: «Prima o poi, qualcosa combineranno». Lo dice la logica, se si interpreta in chiave simbolica il corredo di informazioni attorno agli attentati in Francia e in Belgio, a partire dal massacro di Nizza il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista, vero “bersaglio” (tra gli altri) degli organizzatori dell’attentato. Poi la strage del Bataclan attuata il 13 novembre, giorno in cui i Templari messi al bando nel 1308 riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia, dove contribuirono a fondare la massoneria moderna. E il doppio attacco a Bruxelles contro aeroporto e metropolitana, come a sottolineare il motto “così in cielo, come in terra”.Quanto a Charlie Hebdo, parla la cronaca: indagini “seppellite” dal governo Hollande con l’imposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura, della strana triangolazione che collegava il commando “jihadista” ai servizi segreti parigini, attraverso il trafficante belga che fornì loro le armi. Meccanismo che Carpeoro, nel suo libro, chiama “sovragestione”: esponenti del massimo potere utilizzano settori dell’intelligence per reclutare, all’occorrenza, anche dei kamikaze, a volte completamente all’oscuro del piano, a differenza di quanto avviene nella mafia, dove almeno è possibile risalire ai mandanti, una volta catturati i killer. «E’ Cosa Nostra che ha copiato il metodo. Se uno si va a studiare come agiva Cosa Nostra, può notare che gli anelli superiori li conoscevano. La caratteristica di questo protocollo dell’intelligence, invece, è quella che gli anelli bassi non conoscono nemmeno l’esistenza degli anelli superiori. Questi bombaroli si fanno esplodere senza conoscere i vertici che dirigono questo tipo di operazioni. Molti sono convinti di agire come autonomi».“Sovragestione” non è sempre sinonimo di terrorismo: si tratta di una modalità di potere che collega elementi in apparenza lontani. Come Enrico Cuccia, ad esempio, a torto ritenuto «portabandiera della finanza laica», quando invece era di fede templarista: «Mediobanca era organizzata in capitoli templari e il Consiglio d’amministrazione era composto da 13 membri», racconta Carpeoro allo “Sciacallo”. Il gran capo «presenziava alle riunioni secondo una ritualità templare. Io sono in possesso della lettera che Cuccia scrisse a Romiti quando quest’ultimo fu inquisito, e vi posso assicurare che è una lettera templare al 100%». Il suo braccio destro, Raffaele Mattioli, contribuì alla ricostruzione dell’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, e chiese di esservi sepolto, «unico laico in un cimitero di frati». Nella lapide «è sdraiato con le mani incrociate, vestito da templare, con tanto di squadra e compasso». Templari, come quelli a cui ammiccherebbero gli “architetti” della strage del Bataclan? Cristiani “eretici”, nella doppia veste di monaci e guerrieri – allora, certo. Ma oggi?«La gente dà poco peso ai simboli e ai miti», premette Carpeoro nell’intervista. «Nel medioevo spesso venivano raffigurati dei draghi: ciò non significa che bisogna credere ai draghi, ma ai dinosauri sì. Questo significa che le leggende e i miti hanno le loro radici da un archetipo, e l’archetipo è una storia vera, reale. Il ricercatore saggio sa decifrare questi simboli fino a coglierne il vero significato, senza fermarsi a un’analisi superficiale». Il suo libro parte dalla spiegazione di questi simboli, dei riti, e poi si snoda indagando la parabola di potere del network massonico, di cui Carpeoro non fa più parte. «La massoneria e la Chiesa cattolica raggiungono insieme l’apogeo: l’apogeo della Chiesa viene raggiunto nel medioevo con la costruzione delle grandi cattedrali, tramite la manovalanza dei massoni». Poi, le due entità parallele si ritrovano su fronti opposti, perché «la Chiesa diventa potere: cessa di essere conoscenza e potere, abbracciando unicamente il secondo». Lo dimostra la stessa soppressione dell’ordine dei Templari. «D’altro canto, la massoneria comincia a mettere in discussione i dogmi, rendendo per questo fragile la costruzione della Chiesa cattolica, che in quegli anni si fondava sul dogma».Quello che ai più sfugge spesso – ma ora, libri come quello di Carpeoro contribuiscono a recuperare il gap di informazione – è il nesso profondissimo che lega il vertice del massimo potere ai simulacri della simbologia esoterica medievale. Dinamiche sempre parallele, che coinvolgono sia il mondo massonico che quello cattolico, ad esempio attraverso l’Opus Dei. «Lo scontro nacque perché la massoneria decise di prendere le difese dello gnosticismo: da quel momento la Chiesa comincia a scomunicare. E la massoneria diventa anticlericale, sbagliando, nella stessa misura in cui la Chiesa si proclamava antimassonica». Poi, però, ci fu una storica saldatura, a cominciare dal livello finanziario, come dimostrano le vicende di Calvi, Sindona e Gelli – su quest’ultimo, Carpeoro si sofferma a lungo, rivelando il ruolo della P2 nei tentativi di golpe di Italia, “sovragestiti” da una struttura-ombra che l’autore chiama P1. Grande burattinaio, un super-massone come il politologo statunitense Michael Ledeen, prima legato a Craxi e poi al suo demolitore, Di Pietro (oggi, si dice, a Matteo Renzi ma anche al grillino Luigi Di Maio). Già ai tempi di Craxi, ricorda Carpeoro, la “sovragestione” affondò le mani nella strategia della tensione, fino al caso Moro, nel quale Ledeen fu direttamente coinvolto, introdotto al Viminale come super-consulente di Cossiga.Terrorismo e mondo arabo, già allora. Nel mirino, Craxi: amico dei palestinesi (che cercò di finanziare, anche attraverso Gelli) e poi di Moro, che tentò di salvare. Tutto inutile, la “sovragestione” aveva deciso altrimenti: Bettino in esilio ad Hammamet, Moro ucciso. E oggi? L’Italia gode ancora di una «protezione speciale da parte dell’Islam», dice Carpeoro. C’è chi ricorda del Conto Protezione, istituito in Svizzera da Craxi per sostenere Arafat. «Perciò l’Italia ha un po’ di benemerenza nei confronti degli islamici. E’ vero che esiste la sovragestione, ma anche questa non può non tener conto che gli italiani non sono odiati dagli arabi. Non come i francesi». Certo, «abbiamo la macchia della Libia, ma è pur vero che è una macchia sbiadita, a differenza del colonialismo francese e di quello che hanno fatto poi gli americani: pensate che Sarkozy ha voluto la morte di Gheddafi perché erano soci e aveva paura che questi potesse parlare». Quindi, «escluso il Vaticano, dove l’Isis ha minacciato di colpire, a meno di clamorosi scenari politici, se l’Italia non parteciperà ai giochi francesi e americani difficilmente verrà colpita». Se invece gli strateghi della “sovragestione” sceglieranno di devastare il nostro paese, Carpeoro scommette che gli stragisti vorranno «invocare una motivazione strumentalmente forte, come i fatti di Palermo del 1222», il fatidico 10 agosto.(Il libro: Gianfranco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Uno Editori, 189 pagine, 13 euro).Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.
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Navi e missili, e se questa guerra ora ci esplode addosso?
Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una a massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».E’ come se si stesse rapidamente scivolando verso il baratro: lo si capisce dalla successione degli eventi che affollano la stampa mainstream, e meglio ancora dal preciso monitoraggio offerto dal blog “Come Don Chisciotte”, che presenta lo stesso reportage di Fisk insieme a molti altri retroscena. Su “Zero Hedge”, Tyler Durden rivela che, secondo un diplomatico Nato, la Russia sta schierando nel Mediterraneo orientale la più grande forza navale dalla fine della guerra fredda, capitanata dalla portaerei Admiral Kuznetsov: oltre ai caccia Mig-29 e Sukhoi Su-33, secondo l’agenzia Tass l’ammiraglia imbarca midiciali elicotteri d’attacco come i Ka-52 Alligator, cioè la massima dotazione dell’armamento convenzionale russo, con il quale Putin proverà a chiudere la partita con l’Isis in Siria: «Vedremo un crescendo di attacchi aerei su Aleppo come parte di una strategia della Russia che vuol dichiarare vittoria», secondo la Nato. «Intensificare una campagna aerea su Aleppo orientale, dove sono intrappolate 275 mila persone, potrebbe ulteriormente peggiorare i legami tra Mosca e l’Occidente», secondo la fonte diplomatica. «Questo assalto dovrebbe essere sufficiente per consentire una strategia di uscita della Russia, se Mosca dovesse ritenere che Assad sia ormai abbastanza stabile per sopravvivere da solo».Proprio l’andamento della guerra in Siria, paese largamente riconquistato dalle forze governative dopo la discesa in campo di Mosca, sembra preoccupare i protettori occulti dell’Isis, cioè gli Stati Uniti, che hanno appoggiato sottobanco le milizie “islamiste” soprattutto attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar e, fino a ieri, la Turchia. La Russia è sotto pressione, a partire dal golpe in Ucraina con la destabilizzazione dei confini e la rivolta del Donbass. Quello che Obama non perdona a Putin – da qui le sanzioni autolesionistiche che l’Ue è stata costretta ad adottare – è il fatto di aver osato reagire al colpo di Stato a Kiev riappropriandosi della Crimea, strategica per il controllo del Mar Nero. Una partita a scacchi: persa la Crimea, l’Occidente ha puntato tutto sull’Isis in Siria fino a minacciare la sopravvivenza di Assad. E il nuovo intervento difensivo russo, a sostegno di Damasco, è stato ancora una volta coronato dal successo. Nei piani del Cremlino, l’attacco finale su Aleppo dovrebbe disarticolare definitivamente le milizie dell’Isis, mandando all’aria i piani dei “signori della guerra” che, a partire dalla demolizione dell’Iraq, hanno continuamente gettato benzina sul fuoco in tutta la regione, sfruttando il conflitto tra sciiti e sunniti.Il pericolo cresce, quanto più si avvicina la possibile vittoria di Putin – inaccettabile, per Obama, specie alla vigilia delle elezioni, su cui incombe la “minaccia” di Trump, l’outsider che promette di porre fine alla “guerra permanente” in Medio Oriente. Così, “Nbc News” avverte che «la Cia si prepara a un possibile attacco cibernetico contro la Russia». Interrogato in proposito da Chuck Todd a “Meet the press”, il vicepresidente Joe Biden conferma: gli Usa colpiranno. «Ne abbiamo le capacità», ha detto. E l’attacco «avverrà nel momento che riteniamo opportuno e sotto le circostanze che giudichiamo garantire il maggiore impatto», come riferisce Michael Snyder su “The Economic Collapse”. In più, la “Reuters” afferma che Obama sta contemplando l’ipotesi di «un intervento militare americano diretto» contro obiettivi militari siriani, ben sapendo che i russi hanno già messo in chiaro che reagiranno coi loro missili a qualunque aggressione diretta contro le forze di Assad. Nelle televisioni moscovite, intanto, si ricomincia a parlare apertamente di rifugi antiatomici. E il Mediterrano si va riempiendo di navi da guerra, armate con testate di ogni tipo.Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».
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Craig Roberts: Hillary tutela l’1% che lucra sulla guerra
Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».L’ideologia neo-conservatrice dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti li sta portando con i loro vassalli ad un conflitto con la Russia e la Cina, scrive Craig Roberts, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «I rischi di una guerra nucleare sono più alti che in qualsiasi altro momento nella storia». Questo sì, è «un argomento da campagna presidenziale». Invece, «i problemi sono l’uso legale delle leggi fiscali da parte di Trump e il suo atteggiamento non ostile verso il presidente russo Putin», al punto che «si potrebbe pensare che il problema sia l’atteggiamento estremamente ostile di Hillary verso Putin (“il nuovo Hitler”), che promette un conflitto con una grande potenza nucleare». Per quanto riguarda il giovarsi delle leggi fiscali, Pat Buchanan ha sottolineato che Hillary «ha utilizzato a suo vantaggio una deduzione grande quasi come quella di Trump». Durante gli anni in Arkansas, la Clinton «si è anche avvalsa di una detrazione fiscale su una lista di indumenti usati donati a un ente di beneficenza, tra cui 2 dollari per un paio di mutande usate da Bill».Il “dibattito” tra i vice-presidenti, poi, ha rivelato che il candidato del Partito Democratico «è così ignorante da pensare che Putin, che è democraticamente eletto e ha un enorme sostegno pubblico, è un dittatore». Questo, continua Craig Roberts, è quello che sappiamo sui due candidati alla presidenza. «Hillary ha una lunga lista di scandali, da Whitewater e Vince Foster a Bengasi e alla violazione dei protocolli per la sicurezza nazionale». La candidata democratica «è stata comprata e pagata dagli oligarchi di Wall Street, delle mega-banche e del complesso militare industriale, nonché da interessi stranieri». Prova ne sono «i 120 milioni di dollari del patrimonio personale dei Clinton e i 1.600 milioni di dollari della loro fondazione». In altre parole, «Goldman Sachs non ha pagato 675.000 dollari a Hillary per tre discorsi di 20 minuti per la saggezza che contenevano». Al contrario, «quello che sappiamo in merito a Trump è che l’oligarchia non lo sopporta e ha ordinato al Ministero della Propaganda, cioè i media statunitensi, di distruggerlo».Chiaramente, continua Craig Roberts, «Hillary è il candidato dell’1%, e Trump è il candidato del resto di noi». Purtroppo, però, «circa la metà del 99% è troppo stupida per conoscere tutto questo». Inoltre, «se Trump dovesse finire alla Casa Bianca, non significa che potrebbe prevalere sull’oligarchia», che infatti «è radicata a Washington e controlla cariche di politica economica ed estera, think tank e altri gruppi di lobbisti, e i media». Il popolo? «Non controlla nulla». E oggi, «cosa pensa il mondo quando vede condannare Donald Trump perché non vuole la guerra con la Russia o la delocalizzazione dell’economia americana?». E i “vassalli” di Washington – britannici, canadesi, australiani, giapponesi – dove vedono nella politica americana una leadership degna del sacrificio della loro sovranità e dell’indipendenza della loro politica estera? «Dove vedono anche solo un briciolo di intelligenza?». E ancora: «Perché il mondo guarda al governo più stupido, vigliacco, arrogante, corrotto e criminale del pianeta come una guida? La guerra è l’unica destinazione a cui Washington può condurre».Hillary è il candidato dell’1% e Trump quello del 99%, che l’oligarchia vuole distruggere attraverso i media. Se pure vincesse Trump, poco potrebbe contro questo 1% affamato di potere che controlla i posti chiave a Washington e su cui né il popolo americano né gli alleati esteri, diventati ormai vassalli, esercitano più alcun controllo. Su “Counterpunch”, Paul Craig Roberts evidenzia l’assurdità della campagna presidenziale americana, che discute delle tasse di Trump invece della minaccia sempre più inevitabile di una guerra con la Russia scatenata dall’oligarchia al potere. «Cosa deve pensare il mondo guardando la campagna presidenziale americana? Nel corso del tempo le campagne politiche americane sono diventate più irreali e meno legate alle preoccupazioni degli elettori, ma quella attuale è così irreale da essere assurda», afferma Craig Roberts, già viceministro di Reagan. «La delocalizzazione dei posti di lavoro americani da parte delle multinazionali e la deregolamentazione del sistema finanziario degli Stati Uniti hanno portato al fallimento economico dell’America. Si potrebbe pensare che questo sia un argomento da campagna presidenziale».