Archivio del Tag ‘libertà’
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La non-Europa lascia l’Ucraina in pasto a Usa e Russia
In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché “abitate da filorussi”. Non sono filo-russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino). È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%). Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è “nostra” vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica – non ancora tentata – che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un “occidente” senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi. Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi.Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni. «Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su “Pagina 99”. Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze (balance of power) che regnava in Europa fino al ‘45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il “nemico esistenziale”. Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo. L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente.Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà. Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (…) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima. Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la “liberazione” criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì.Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europea che superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono eurofili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo. Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ‘700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ‘90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi. Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttive come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà “filo- europei” neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.
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Volete la verità? Ve la offre Pandora, col vostro aiuto
Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi offre un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.«Ci stanno portando in guerra», avverte Giulietto Chiesa, che da anni vigila sulla grande crisi del capitalismo imperiale, globalizzato e finanziarizzato. Tesi ben riassunta dal suo ultimo saggio, “Invece della catastrofe”, che parte dallo storico allarme lanciato dal Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo: l’élite mondiale non tollera più di dover spartire le risorse vitali del pianeta con una popolazione di 7 miliardi di esseri umani. E se i Brics alzano la testa – crescita accelerata e fame di consumi – è ovvio che sulla “coperta troppo corta” si accende una disputa strategica e geopolitica che i meno ottimisti chiamano “terza guerra mondiale”. Tradotto: mettere le mani su quel che resta del pianeta, battendo sul tempo i cinesi, prima che esploda in modo apocalittico una qualsiasi delle grandi crisi innescate: quella economico-finanziaria, quella energetica, quella climatica, quella dell’acqua o quella del cibo. Unico strumento di autodifesa: la democrazia. Che però è accecata da un filtro prodigioso: la disinformazione.«La verità è che non sappiamo quello che sta davvero succedendo», sostiene Giulietto Chiesa, che punta il dito contro le omissioni e i depistaggi del mainstream, colonizzato dall’élite esattamente come i maggiori partiti politici, tutti infiltrati dai poteri forti che – da Wall Street a Bruxelles – impongono la “loro” agenda, a colpi di diktat e recessioni pilotate. Ultimo scenario offerto dall’attualità: la dirompente crisi scatenata in Ucraina per indebolire la Russia e “intrappolare” l’Europa, pensando già, ovviamente, soprattutto alla Cina. Dai servizi di “Russia Today” proposti da “Pandora”, la tempestiva denuncia della strategia della tensione organizzata a Kiev per rovesciare il (pessimo) regime di Yanukovich, grazie a milizie-fantasma addestrate in segreto e appoggiate da potenti frange neonaziste. “Pandora” si candida a rappresentarla, “un’altra visione del mondo”, dando spazio all’analisi anche italiana della grande crisi, ospitando le voci dei nostri territori. Un canale sociale, aperto a tutti, che – per affermarsi – ha bisogno del contributo di tutti.Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi propone un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.
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Spararono sulla folla a Kiev, erano cecchini della Cia
Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini della Cia coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante a Kiev dell’Unione Europea ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.Le drammatiche “rivelazioni” di Yakimenko, rilasciate alle televisioni russe? «Probabilmente non tutte innocenti, ma certo molto credibili», scrive Chiesa sil “Manifesto”. Tanto più che combaciano perfettamente con la famosa telefonata del ministro degli esteri estone Urmas Paet alla signora Catherine Ashton, capo della diplomazia europea: il ministro dell’Estonia disse che a sparare «anche» contro i dimostranti non fu la polizia ucraina, bensì i cecchini «assoldati dalle opposizioni». Le accuse, osserva Giulietto Chuiesa, «sono una più grave dell’altra, una più infamante dell’altra». E se le televisioni russe le riproducono con tanta ampiezza, «ciò vuol dire soltanto una cosa: che Vladimir Putin non solo non intende retrocedere di un millimetro, ma intende contrattaccare politicamente, diplomaticamente e anche dal punto di vista della comunicazione».Yakimenko ha chiamato in causa l’ex presidente ucraino Viktor Yushenko, il vincitore – con Julia Tymoshenko – della ormai sfiorita rivoluzione arancione. Sarebbe stato lui a «lasciar moltiplicare i campi paramilitari in cui si sono allenati al golpe i nazisti e gli estremisti nazionalisti seguaci di Stepan Bandera», l’uomo che nella Seconda Guerra Mondiale collaborò con Hitler, e la cui effigie è tornata – dopo tanti anni – sulla piazza Maidan. Quando arrivò Yanukovic, sempre secondo Yakimenko, i “campi paramilitari” non furono chiusi, ma spostati – in Polonia, Lettonia e Lituania. Neppure Yanukovic decise di chiuderli, osserva Chiesa: «Continuava il doppio gioco di un colpo al cerchio e di uno alla botte, per tenere buoni russi e americani», perché evidentemente «l’influenza degli Stati Uniti e dell’Europa erano già troppo forti per poter essere contrastate».Insomma, l’ex capo della polizia politica ucraina sostiene che l’eversione in Ucraina abbia origini lontane: non è stata né spontanea, né improvvisata. «Ha fatto parte di un piano strategico nato negli Stati Uniti e che ha avuto come esecutori materiali un gruppo di paesi dell’Unione Europea». Certo, continua Chiesa, «in piazza c’erano migliaia e migliaia di persone. Ma a guidarle e a imprimere una svolta eversiva sono stati uomini armati e bene addestrati da tempo, scatenati da una serie di comandi molto precisi. Fino alla tremenda sceneggiata, costata quasi un centinaio di morti e oltre 800 feriti, che servì a coprire di infamia il presidente Yanukovic, lordato di un sangue che non aveva voluto e saputo provocare, ma la cui fuga fu applaudita da tutto il “mondo libero”, indignato per la sua ferocia».Yakimenko sostiene che quei cecchini furono individuati: sparavano dal palazzo della Filarmonica, erano una ventina, «bene armati, bene equipaggiati, con fucili di precisione dotati di cannocchiale». Gli uomini della sicurezza ucraina erano nella piazza, mescolati alla folla e – dice Yakimenko – videro tutto e riferirono. Ma «non furono gli unici a vedere»: anche i leader di alcuni gruppi estremisti videro che quei cecchini sparavano sulla folla, e si allarmarono al punto da contattare lo stesso Yakimenko, «chiedendogli di porre fine alla mattanza facendo intervenire la sue “teste di cuoio”, il famoso o famigerato “Gruppo Alfa”». Yakimenko, continua Giulietto Chiesa, parla dunque di una trattativa che si svolse tra lui e i rappresentanti di “Svoboda” e di “Settore Destro”. Forse – dice – lo fecero per «crearsi un alibi». O forse perché non erano loro, ma altri, ad avere organizzato la mostruosa operazione diversiva. E nel frattempo un gruppo di persone, tutte decisive nel controllo delle forze di sicurezza, visitavano l’ambasciata Usa «tutti i santi giorni». Sono gli uomini che oggi incarnano il nuovo potere di Kiev.Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante dell’Unione Europea nella capitale ucraina ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.
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Il regno della Tv è finito, ora tocca al web dei giovani
Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment democristiano. Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora manifestata al suo peggio.Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai. Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi. Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà definito il “sistema misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché. Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità. L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio, ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes, London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il bottino).Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv, Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti. Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge. Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione. La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero. Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione. La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets, etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa. In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre: resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente ventilata – che nel prossimo rinnovo di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai ovviamente nell’Olimpo dei grandi media insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai goduto nel secolo scorso.(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.
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Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina
I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena. Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.(Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
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Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
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Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
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Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia
Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.(Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
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Cari epuratori 5 Stelle, i prossimi epurati sarete voi
A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa da una brutta voglia di unanimismo. Dalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non-statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono. Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming – sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare – non ha infatti senso. Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito, evitare, come scrive Alessandro Di Battista, che escano «sistematicamente» e per mesi dichiarazioni pronte «a coprire i messaggi del gruppo» o in contrasto con la linea stabilita. Ma anche se le cose sono andate così – tanto che i quattro senatori avrebbero dimostrato maggior dignità andandosene da soli da un movimento del quale non condividevano più gli obbiettivi – la questione non cambia di una virgola. Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida. Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti. Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranza potrebbe infatti votare la loro.Consolarsi col fatto che le espulsioni (vedi il caso degli amministratori locali del Pd in val Susa fatti fuori perché anti-Tav) sono spesso la regola in altri partiti, non serve. Il M5S dice infatti (e quasi sempre lo è) di essere diverso dagli altri movimenti politici. Per questo molti elettori, almeno a giudicare dai commenti e dalle mail che arrivano a questo giornale online, avrebbero trovato più intelligente e democratico che il Movimento, già in occasione del brutto e analogo caso di Adele Gambaro, avesse riformato il regolamento e il non-statuto stabilendo con chiarezza cristallina diritti e doveri degli eletti. Non averlo fatto lascia spazio all’arbitrio, alla legge più forte e alle espulsioni di massa. Oltretutto votate online in blocco senza che agli iscritti fosse permesso esprimere valutazioni diverse su ogni singola posizione. Pensare, come fa il Movimento 5 stelle, di rivoluzionare (con il voto) il paese è perfettamente legittimo. Credere che sia possibile farlo rinunciando a dimostrare che, sempre e in ogni caso, si è meglio di ciò che si vuole combattere e abbattere non è solo sbagliato. È stupido.(Peter Gomez, “Espulsioni M5s, stupidità e dittatura della maggioranza”, da “Il Fatto Quotidiano” del 27 febbraio 2013).A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».
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Freccero: perché i giornalisti non tollerano chi protesta
La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico?Preso atto che naturalmente l’agenda dei media influenza l’opinione pubblica, la domanda da porsi è: in base a quali principi si costruisce questa agenda, quali sono gli elementi che hanno indotto la stampa a cambiare radicalmente la sua funzione da giornalismo d’inchiesta e critica sociale a difesa del consenso? Queste sono le domande da porsi. Bene. La cosa più interessante è che pensiamo alla parola “dissenso”. E qui iniziamo un ragionamento. Negli anni delle lotte per i diritti civili, la parola dissenso era sinonimo di democrazia. Oggi invece è piuttosto sinonimo di: devianza, delinquenza, terrorismo. Il movimento No Tav esprime il dissenso delle popolazioni coinvolte rispetto al progetto approvato a livello centrale: pertanto è un caso di “insubordinazione”, è fuori dalla maggioranza. Ritengo che il caso No Tav non sia un caso singolo, ma un format, che si replica in tutti i casi di minoranze che si oppongono all’ordine del discorso quantitativo della nostra epoca.Noi viviamo attualmente le contraddizioni di vivere con una Costituzione formalmente basata sul principio illuministico di difesa delle minoranze ma cerchiamo di applicarla in modo contrario (è questo il tema della discussione politica di oggi) affinché la maggioranza possa esercitare quella che è di fatto una dittatura. Per vedere come questo format si può estendere prendiamo il caso del Parlamento. La dialettica parlamentare nasce per permettere anche alle minoranze di esporre le proprie idee e partecipare alla costruzione della legge. Piglio l’esempio della Boldrini: intervistata da Fabio Fazio sul decreto Imu-Bankitalia (scandaloso) la Boldrini ha giustificato la “ghigliottina” dicendo che era suo dovere, in veste di presidente della Camera, troncare il dibattito parlamentare per permettere alla maggioranza (sottolineo “permettere alla maggioranza”) di governo di legiferare. Interessante.Dunque il Parlamento va esautorato, le leggi sono un prodotto dell’esecutivo in quanto appoggiato dalla maggioranza, e le minoranze sono di per sé qualcosa di illegale, che dev’essere in qualche modo ricondotto al volere dei più. Ecco questo format che si ripete anche nella situazione della Boldrini. Io, guardate, è dagli anni ’80 che mi occupo di maggioranza e sono stato forse il primo a segnalare in qualche modo, partendo dall’analisi dell’audience televisiva, come l’uso continuo del sondaggio avesse a poco a poco sostituito a livello sociale la ricerca del sapere foucoltiano o della verità in generale. E se tutte le scelte – anche politiche e morali – avvengono su base quantitativa, non è più possibile esprimere dissenso, è chiaro. Abolito il concetto di verità da parte del pensiero debole (altra cosa molto importante) non esiste più alcun elemento valido per opporsi ai valori della maggioranza.Ecco che a tutto ciò si è poi aggiunto in qualche modo, dopo l’11 Settembre, un clima – come posso dire – di guerra permanente, che giustifica in qualche modo un permanente stato di eccezione. Ecco, questa qua è l’altra cosa fondamentale, e sottolineo “stato di eccezione” che a sua volta giustifica il superamento di qualsiasi garanzia democratica. Ricordo un programma di Santoro, “Servizio Pubblico”, che mesi fa ha intervistato due No-Tav come “terroriste” in quanto così presentate dalla stampa e dalla forza pubblica. Erano due ragazze giovanissime, simpatiche, belle, tranquille. Ma questo cosa vuol dire: che oggi che il semplice dissenso è sinonimo di terrorismo. Questa è una cosa che sta passando tranquillamente: chi si difende perché aggredito, anche se vede in parte riconosciute le sue ragioni, viene comunque presentato come dalla parte del torto perché (orrore!) ha operato in modo violento opponendosi all’ordine della maggioranza. La violenza è tollerata solo nel senso della forza pubblica.Altro elemento fondamentale: dopo l’11 Settembre, in America, sono state sdoganate la tortura, Guantanamo e tutte le forme di guerra. Apro questo inciso perché un altro elemento che ha lavorato nel nostro inconscio, quella violenza che genera orrore e in qualche modo raccapriccio se messa in opera da parte dissenziente, viene vissuta come buona e giusta qualora sia un’emanazione del potere costituito. In “24”, la serie americana, Jack Bauer combatte il terrorismo con la violenza e la tortura, e scene di punizione corporale. Bene, in Italia la polizia (già col G8 si era entrati in uno stato di eccezione che ricordo molto bene, e prima ancora che a Genova anche a Napoli) può picchiare, usare lacrimogeni pur di contenere comunque ogni e qualsiasi forma di dissenso, anche il più pacifico ed innocuo. E’ il dissenso in sé ad essere considerato criminale perché rallenta il raggiungimento degli obiettivi della maggioranza. E il pensiero critico, che è stato il mito della mia giovinezza, della nostra generazione, appare ormai come elemento di disturbo. In vent’anni di berlusconismo, la scuola è diventata una fabbrica per replicare il pensiero unico. Solo un valore ottiene riconoscimento: l’obbedienza al conformismo vigente. E questo vale in particolare per il giornalismo.(Carlo Freccero, “No Tav e media”, estratti dell’intervento pronunciato il 18 febbraio 2014 al Circolo dei Lettori di Torino, ripreso dal sito No-Tav “Controsservatorio Valsusa”).La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico? -
2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
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Primo Levi: increduli e indifferenti verso lo sterminio
La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.Di quello che stava accadendo in Germania sapevamo abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone, quando sono in pericolo, invece di provvedere ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche. Lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.Fino alla caduta del fascismo avevo vissuto abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo. La situazione peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento. Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato. Mi hanno catturato perché ero partigiano; che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto; nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: «Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli; se sei partigiano ti mettiamo al muro». Decisi di dire che ero ebreo. Sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, accampamento, luogo in cui si riposa, magazzino. Ma nella terminologia attuale, lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione. Il viaggio verso Auschwitz lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.La vita ad Auschwitz l’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto, in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo; serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito. Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro “La tregua”. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quello dei lager tedeschi. Ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo; quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.Che cosa mi ha aiutato a resistere nel campo di concentramento? Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute. E proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte. Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodicimila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica; per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517; questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere.Sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede. E’ una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa – cattolica, ebraica o protestante – o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: «Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana». Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo. Cadevano più facilmente i più robusti. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie; e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.Che cosa mancava di più? In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa. La nostalgia pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo. E quando, nei rari momenti in cui capitava che le sofferenze primarie (accadeva molto di rado) erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in second’ordine.Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera a gas. Sapeva che, per usanza, a chi stava per morire davano una seconda razione di zuppa; siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: «Ma signor capo baracca, io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra». Pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione. E’ stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi; le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano. E noi eravamo animali, intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.Quando ho saputo dell’esistenza dei forni? Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo. Ma non le ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità: le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo; abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo. Quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti. Il lager mi ha maturato – non durante ma dopo – pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.(Primo Levi, dichiarazioni rilasciate ad Enzo Biagi per l’intervista trasmessa l’8 giugno 1982 da RaiUno nel programma “Questo secolo”, riproposta da “Il Fatto Quotidiano” il 26 gennaio 2014).La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.