Archivio del Tag ‘legge elettorale’
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Crosetto: Mes, rischio-catastrofe. Savona: ve l’avevo detto
Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli Affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero”: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo Salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.«Temo che vogliano chiudere sul trattato – spiega il fondatore di Fratelli d’Italia, oggi ex parlamentare – perché la situazione delle banche tedesche e olandesi, a rischio crac, sia molto grave». Il riferimento è soprattutto a DeutscheBank e KommerzBank, i due colossi tedeschi a rischio collasso. «E guardate bene», avverte Crosetto: «Se saltano le banche avremo uno tsunami in confronto al quale la crisi del 2008 sarà nulla. E a pagare, come sempre, saranno i paesi più deboli, come l’Italia». Nel testo del rinnovato Mes, aggiunge “Libero”, è rimasta la valutazione della sostenibilità dei debiti e della capacità dello Stato che chiede un prestito di poterlo restituire. Ed è un punto che difficilmente sarà oggetto di negoziazione ulteriore. Al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’economia Roberto Gualtieri, spiega il “Messaggero”, rimane la carta della modifica degli allegati, per correggere parzialmente un tiro destinato a fare malissimo all’Italia. Perché la ristrutturazione del debito (che renderebbe carta straccia i titoli di Stato, in mano soprattutto ai risparmiatori italiani) è ancora in piedi. E anzi, resta un caposaldo del Meccanismo Europeo di Stabilità.Nel frattempo, lo scandalo-Mes sta facendo franare il governo giallorosso: secondo Augusto Minzolini, autore di un report dietro le quinte pubblicato dal “Giornale”, Renzi avrebbe promesso a Salvini di staccare la spina al Conte-bis, in cambio di un eventuale accordo con la Lega per il varo di una legge elettorale proporzionale. Dal canto suo, il “Corriere della Sera” parla di imminenti diserzioni tra i 5 Stelle. E scrive: «Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere». Voci che fanno il paio con chi, nel Movimento, parla insistentemente di scissione. Nei guai Conte, accusato di aver ceduto (in segreto) alle pressioni europee sul Mes. Lui smentisce, ovviamente. «Peccato che poi, implicitamente, riconosca come sia stato costretto a una brusca frenata sul negoziato che, diversamente – scrive “Libero” – sarebbe già andato in porto come suggerito maldestramente dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri in commissione, parlando di “trattato già firmato e inemendabile”». Conte, infatti, ora parla di “rinvio possibile” e di un ok al Mes “vincolato” alla riforma dell’unione bancaria a marzo.Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero“: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.
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Grillo e 5 Stelle, da finti outsider a vero pericolo per l’Italia
Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.Confidando nel terrore dei suoi parlamentari di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate, è stato Grillo a impartire l’ordine di mettere fine al governo gialloverde, divorziando da Salvini per abbracciare il partito di Renzi, oggi impersonato dalla controfigura Zingaretti. Nell’ipocrita caserma dove circolava la barzelletta “uno vale uno”, è stato sempre Grillo a dettare la linea: anziché far nascere una democrazia interna ha imposto Di Maio come prestanome, e dopo aver straparlato di un referendum consultivo sull’euro ha tentato di traslocare il gruppo europarlamentare grillino tra gli ultra-euristi dell’Alde, in compagnia di Monti. Sempre Grillo (tramite il ventriloquo Di Maio) ha ordinato ai 5 Stelle di sostenere Ursula von der Leyen a Bruxelles, rompendo così in modo plateale l’alleanza con la Lega. Gran sacerdote dell’operazione il premier Conte, altro “signor nessuno” uscito misteriosamente dal cilindro del fondatore-monarca travestito da giustiziere. Non si contano i gesti pubblici con cui Grillo tenta di accreditarsi ancora come libero pensatore, magari eccentrico: la scorsa primavera, insieme all’amico Renzi, ha firmato il vergognoso “Patto per Scienza” promosso dal propagandista pro-vax Claudio Burioni per tagliare i fondi alla ricerca medica sui danni da vaccino.Non pago, Beppe Grillo ora si è anche soavemente permesso di proporre ai giovani italiani di sbarazzarsi dei loro nonni, escludendo brutalmente gli anziani dal diritto al voto. Se il delirio contro i vecchi richiama sgradevoli dissonanze di sapore vagamente hitleriano, ricorda gli ingloriosi trascorsi della P2 di Gelli il piccolo capolavoro post-democratico rappresentato dallo sgangherato taglio dei parlamentari. Una crociata cavalcata con surreale trionfalismo, come se si trattasse di sgominare una cosca mafiosa. Di fatto: una manomissione costituzionale gaglioffa, non inserita in un preciso riordino istituzionale (e senza neppure un’idea di legge elettorale: quella, va da sé, sarà modellata ad personam, in base all’interesse di bottega). Eppure, nessuno chiede a gran voce le dimissioni in massa degli impresentabili parlamentari penstastellati. Si preferisce il silenzio della semplice diserzione elettorale. Gli italiani ancora faticano a capacitarsi di fronte all’idea di esser stati raggirati in modo tanto sfrontato. Matteo Salvini, che almeno aveva provato davvero a cambiare le cose (la candidatura di Savona, l’impegno di Armando Siri per la Flat Tax) è stato messo alla porta insieme a Danilo Toninelli, l’unico ministro ad aver osato istituire una commissione per verificare l’utilità (inesistente, appunto) della Torino-Lione.L’ipnosi 5 Stelle ha funzionato a meraviglia, facendo deragliare nel nulla la protesta sociale di un paese messo alla frusta dai grandi poteri eurocratici. Alternando i panni del clown a quelli del dittatore sudamericano, Grillo ha tenuto la scena per anni, mentendo innanzitutto ai suoi elettori. Per conto di chi? Secondo l’analista geopolitico Federico Dezzani, basta “seguire i soldi” e ricostruire la filiera-Casaleggio per scoprire la mano sinistra dello Zio Sam dietro la colossale presa in giro della “democrazia diretta” evocata dall’autocrate genovese, sempre spietato verso qualsiasi voce dissidente fino a pretenderne l’immediata espulsione. Se l’illusione ottica chiamata Movimento 5 Stelle era solo uno stratagemma per addormentare gli italiani nel momento di massima crisi politica del paese, il suo suicidio pazzesco – l’alleanza con Renzi e il tradimento spettacolare di ogni promessa – non lascia presagire niente di buono: prima di sparire definitivamente come increscioso incidente della storia, il grillismo potrebbe infliggere altri danni all’Italia? C’è da aspettarsi di tutto, da chi ha raccontato solo e sempre il contrario della verità, occultando il suo reale pensiero. La stessa sconcertante duttilità di Di Maio – capace di cambiare idea all’istante, su tutto – rende il Movimento 5 Stelle lo strumento perfetto per chi volesse affossare il nostro paese, a partire dalle super-nomine in arrivo nel 2020, per finire con l’elezione del prossimo capo dello Stato.Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.
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Avete mai avuto la sensazione di esser presi per i fondelli?
Avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli? Era il 1978 quando John Lydon, alias Johnny Rotten, pronunciò quella frase – non proprio da incorniciare nei libri di storia – al termine di un mediocre concerto dei suoi Sex Pistols, a San Francisco. Sono passati quarant’anni, e il punk imperversa ovunque sotto forma di trash. Ma quanti hanno la stessa onestà dell’allora giovane frontman inglese, nell’ammettere che lo show è truccato, visto che sul palco si agitano un bel po’ di cialtroni senza talento? Come verrebbe, la foto di gruppo, se Di Maio si facesse crescere una bella cresta viola e il suo ex preside-fantasma, il tuttora oscuro Giuseppe Conte, andasse in giro con canottiere strappate e giacconi borchiati? Nel paese di Pinocchio, se uno vuol farsi veramente del male, non ha che ha accendere il televisore un qualsiasi martedì sera, magari proprio il giorno in cui l’eroico Parlamento della Repubblica ha osato decespugliare senatori e deputati, quei puzzoni impresentabili. Per fare cosa, poi? Con quale costrutto e quale nuova legge elettorale? Lo saprete alla prossima puntata, sibila l’attore Di Maio, in attesa che la produzione gli passi il seguito del copione.Zapping: sul tema, Bianca Berlinguer interpella due numi pensosi, l’imperscrutabile Mieli e il sempre esecrante Cacciari, mentre l’immortale Lady Gruber si avvale del formidabile vaticinio di una leggenda del giornalismo mondiale come Beppe Severgnini. Altro giro, altro canale: il capocomico Floris scatena il suo zoo contro Matteo Salvini, obbligandolo a non-rispondere sul mitico Russiagate, lo scivolone del sciùr Savoini: la sua celebre cenetta coi petrolieri russi, con confidenze riservatissime affidate ai microfoni di non si sa esattamente quale servizio segreto. A proposito: sempre all’osteria di Floris si ciancia su come i servizi (italiani) avrebbero prima aiutato la Clinton, con Renzi, su richiesta di Obama, per ostacolare la corsa di Trump, salvo poi intervenire con Conte, in modo simmetrico e altrettanto irrituale, ancora una volta nelle lande dell’orso russo, per aiutare The Donald a inguaiare il suo avversario Biden, già braccio destro di Obama. Nel suo piccolo, l’ex rocker da strapazzo Johnny Rotten, campione di humour, non rischia forse di sembrare un gigante?Se poi – sempre per ridere – si finge di credere che esista davvero, qualcosa che assomigli all’irraggiungibile Olimpo marmoreo che i giornali continuano a chiamare L’Europa, non si può fare a meno di notare che dal bar di Bruxelles è sparito il simpatico Juncker, quello che citava Marx in segno di vicinanza politico-spirituale con le dolenti masse degli oppressi (ellenici in primis). Niente più bourbon, purtroppo, ma solo le bevande analcoliche servite dall’elegantissima barista Ursula von der Leyen, assistita da camerieri in livrea del calibro di Paolo Gentiloni, discendente dell’antica corte del Papa-Re. Nel personale di servizio figura lo stesso David Sassoli, un tempo mezzobusto del Tg1, temibile allevamento di giornalisti di razza, veri e propri “cani da guardia della democrazia”. A proposito di virtù canine: già ferocissima gregaria del mastino Angela Merkel, Frau Ursula è lì grazie all’ex comico televisivo Beppe Grillo, occasionalmente rivoluzionario (ma solo per i più piccini) prima di firmare, la scorsa primavera, il memorabile Patto per la Scienza insieme a Matteo Renzi, il suo attuale socio di governo (scopo del Patto, pietra miliare nella storia della medicina: zittire e delegittimare qualsiasi voce scientifica non allineata al nuovo affascinante dogma della Vaccinazione Universale).Come in tutti gli show, è il finale a riservare le vere sorprese. Ed è a quel punto che entrano in scena i fuoriclasse. Lui e lei, naturalmente: gran bella coppia. Mario & Christine: noti ai fan come insuperabili mattatori nei filmoni di guerra, nei thriller, nei plot più drammatici. Suspence, terrore. Severissima austerità, dolore copiosamente sparso con fermezza inflessibile. E invece adesso eccoli là, con in faccia il cerone della commedia: si scherzava, ragazzi, era tutta una burla. E’ vero, vi avevamo raccontato che non c’erano alternative: sangue, sudore e lacrime. Ci eravate cascati? Certo, siamo stati bravi. Ma adesso, sapete, cambierà tutto. E quelle maledette banconote, per le quali vi abbiamo spremuto fino al midollo, ora ve le getteremo dalla finestra: helicopter money! Che diamine, la moneta appartiene al popolo: non lo sapevate? Gli spettatori esitano, spiazzati – quasi quanto gli economisti da patibolo e il loro codazzo di coristi radiotelevisivi. Contrordine? Siamo per caso rimasti all’oscuro di decisioni epocali? Ci è sfuggito qualcosa di fatale che forse è maturato, lassù, tra le sfuggenti divinità? La produzione, caritatevole, sente che al pubblico – per il quale mostra compassione – bisogna pur concedere qualcosa di rassicurante. E allora, mentre le luci si abbassano, sul palco viene rispedito il solito usciere dall’aria dimessa, con lo storico annuncio: abbiamo tagliato i parlamentari. Tradotto in cifre, agli italiani viene offerto un caffè. Purtroppo lo steward non è Johnny Rotten, è solo Di Maio. Ma il risultato è lo stesso: avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli?(Giorgio Cattaneo, “Avete mai avuto la sensazione di esser presi per i fondelli?”, dal numero 12 de “La Voce Rooseveltiana”, 17 ottobre 2019).Avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli? Era il 1978 quando John Lydon, alias Johnny Rotten, pronunciò quella frase – non proprio da incorniciare nei libri di storia – al termine di un mediocre concerto dei suoi Sex Pistols, a San Francisco. Sono passati quarant’anni, e il punk imperversa ovunque sotto forma di trash. Ma quanti hanno la stessa onestà dell’allora giovane frontman inglese, nell’ammettere che lo show è truccato, visto che sul palco si agitano un bel po’ di cialtroni senza talento? Come verrebbe, la foto di gruppo, se Di Maio si facesse crescere una bella cresta viola e il suo ex preside-fantasma, il tuttora oscuro Giuseppe Conte, andasse in giro con canottiere strappate e giacconi borchiati? Nel paese di Pinocchio, se uno vuol farsi veramente del male, non ha che ha accendere il televisore un qualsiasi martedì sera, magari proprio il giorno in cui l’eroico Parlamento della Repubblica ha osato decespugliare senatori e deputati, quei puzzoni impresentabili. Per fare cosa, poi? Con quale costrutto e quale nuova legge elettorale? Lo saprete alla prossima puntata, sibila l’attore Di Maio, in attesa che la produzione gli passi il seguito del copione.
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Voltagabbana non-eletto, è Grillo a tagliare la democrazia
Dopo il taglio dei parlamentari ci sarà la loro vivisezione? Per anni ho sostenuto la necessità di dimezzare il numero dei parlamentari a livello nazionale e regionale, dimezzando contestualmente le costose e inutili authority con i rispettivi impiegati e commessi annessi alle Camere e agli uffici, che ricevono stipendi spropositati pur essendo commessi e impiegati come gli altri dipendenti pubblici. La riduzione del numero dei parlamentari fu un cavallo di battaglia della destra che lo propose tanti anni fa e che fu poi bocciato nel referendum del 2006. Ma ora che si sta convertendo in legge la proposta grillina di portare a 600 i parlamentari, sento puzza d’inganno e d’imbroglio. A cosa doveva servire il taglio? A rendere più agili e spediti i lavori parlamentari, a diminuire i rischi di corruzione e trasmigrazione, ad avere candidati più selezionati e dunque migliori, circoscrizioni più ampie in cui contava di più il prestigio dei candidati e contava di meno il potere clientelare. Era un modo per elevare la qualità della rappresentanza, la responsabilità dei parlamentari e per diminuire le possibilità del voto di scambio. Il taglio che si promuove ora spunta da tutt’altro contesto. La preoccupazione principale non è qualificare il Parlamento, innalzare il livello qualitativo diminuendo la quantità, scegliere parlamentari più prestigiosi, ma esattamente il contrario.
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Della Luna: anche senza tagli, il Parlamento non è sovrano
La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.Al Parlamento italiano, precisa Della Luna, rimangono da prendere «solo decisioni secondarie, perlopiù spartitorie, da quando quelle importanti (a cominciare dal modello generale di Stato, ossia quello liberista-capitalista) sono prese da organismi extranazionali, indipendenti dall’elettorato, i quali anche producono il grosso della legislazione». Inoltre, nella cultura e nella prassi consolidata, i parlamentari, agiscono comunque «come rappresentanti non del popolo, ma degli interessi loro propri e di chi li fa eleggere, ossia di segreterie di partito e sponsor economici». E sul piano della logica costituzionale? «Il taglio dei parlamentari sarebbe di per sé indifferente, se non fosse presentato come un taglio di spese per poltronisti». E invece, a questo siamo arrivati: «Insegnare al popolo che i suoi rappresentanti sono parassiti poltronisti implica insegnargli che votare è tempo perso». Questo “insegnamento”, aggiunge Della Luna, «concorre al processo generale di decostruzione del Parlamento ed è contrario alla Costituzione vigente, basata com’è sul principio della democrazia rappresentativa, e sul principio che la politica regola l’economia e non viceversa».Per Della Luna, si tratta di un “insegnamento” in realtà «commissionato dalla grande finanza ai suoi portatori d’acqua, agli operai analfabeti nella vigna del signor Banchiere, che è il vero parassita delle nazioni, che promuove l’insegnamento che i parassiti siano invece i parlamentari, celando così il parassitismo proprio». Sempre sul piano della logica costituzionale, «è evidente che la Costituzione italiana ammette soltanto una legge elettorale proporzionale, per la semplice ragione che il Parlamento ha funzioni non soltanto di votare la fiducia al governo e le leggi ordinarie, ma anche di garanzia, ossia di eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, membri della Consulta, del Csm, delle commissioni di controllo) e di votare le regole fondamentali, come le leggi e le riforme costituzionali, la stessa legge elettorale, le leggi sulla cittadinanza, i trattati in cui si dispone della sovranità nazionale». La stessa prescrizione costituzionale di maggioranze qualificate per l’elezione del capo dello Stato e per le riforme costituzionali «perderebbe senso, se il 60% dei parlamentari andasse a chi rappresenta solo il 40% dei votanti». Avendo il Parlamento queste funzioni di garanzia, «è costituzionale solo una legge elettorale proporzionale».Ma proprio questa distinzione tra funzioni ordinarie e funzioni di garanzia. Aggiunfe Della Luna, indica la soluzione al dilemma di come avere insieme governabilità e rappresentanza, ossia di come avere maggioranze parlamentari più chiare e stabili, e insieme un Parlamento capace di svolgere le funzioni di garanzia. Per Della Luna basterebbe «assegnare a una Camera, eletta con un sistema maggioritario, le funzioni ordinarie», mentre «all’altra Camera, eletta con sistema proporzionale, le funzioni di garanzia». Avremmo così «una Camera della governabilità e un Senato delle garanzie». La prima Camera potrebbe essere sciolta anticipatamente dal capo del governo, salvo che sia votata una fiducia costruttiva; la seconda Camera invece si scioglierebbe soltanto alla sua scadenza. «Ulteriormente, per aumentare la stabilità e la coesione dei governi, scoraggiando i ricatti», sarebbe bene che il capo del governo fosse «un cancelliere che nomina e revoca i ministri, i viceministri e i sottosegretari».La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.
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Il cinismo della disperazione: Di Maio svuota la democrazia
Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?Ci rimette anche la Lega, rimasta «imbottigliata per una anno e mezzo sullo scambio tra autonomia differenziata e riduzione del numero dei parlamentari». Già, l’autonomia per il Nord-Est: «Per mesi è stata avvolta da una nebbia fittissima», e oggi «non se ne vede nemmeno l’ombra». Innanzitutto, osserva Mangia nella sua analisi offerta a Ferraù sul “Sussidiario”, si dovrebbe aver capito che il taglio dei parlamentari «è un modo per bloccare il funzionamento del sistema elettorale, rendere impossibili elezioni a breve e creare le premesse per un dialogo infinito sulla legge elettorale prossima ventura». Che dovrà essere infinito, «perché altrimenti questa situazione di democrazia sospesa, che permette di evitare le elezioni, finisce». E se Lega e Pd assecondano il populismo di Di Maio, a “vincere” è il Movimento 5 Stelle: «Il dato veramente incredibile è che i 5 Stelle siano riusciti, in momenti diversi, e per una serie di casi fortunati, a portare prima la Lega e poi il Pd su un progetto tanto inutile e pretestuoso rispetto agli obiettivi dichiarati». Di Maio parla di un risparmio di 100 milioni all’anno. «Appunto: roba che uno Stato con un bilancio di 800 miliardi nemmeno se ne accorge», sottolinea Mangia. L’Osservatorio di Cottarelli, poi, parla di un risparmio reale di appena 57 milioni all’anno, cioè la metà di quanto propagandato.Ma il vero pericolo è più serio: «Se il parlamentare oggi si concepisce come uno schiacciabottoni, tanto da dirlo apertamente – osserva il professore – significa che il problema non è il taglio dei parlamentari, ma l’involuzione della classe politica nel suo complesso, tanto da arrivare per prima a concepirsi come inutile. Tanto da credere di potersi rigenerare attraverso un’automutilazione». È un atteggiamento che ricorda da vicino la riforma delle immunità del 1993 votata in piena Tangentopoli, sotto la pressione di Mani Pulite. «Anche allora si pensava che spogliando il parlamentare dell’immunità, e denudandolo di fronte alla magistratura, la classe politica si sarebbe rigenerata». E invece, «quell’automutilazione non solo ha cambiato gli equilibri tra i poteri dello Stato, ma ha spianato la strada alla dissoluzione di una classe politica, dopo la quale non ce ne è mai stata un’altra». Ma a quel punto, allora, «perché non risolvere tutto in un vertice tra segretari di partito, dove ciascuno pesa in ragione del pacchetto di azioni che rappresenta, come in un’assemblea degli azionisti?».Qualcuno potrebbe dire: sapete quanti soldi continuano a costare 400 deputati e 200 senatori? «Se si sfonda una linea, trovare poi un limite davanti al quale fermarsi diventa difficile», avverte Mangia. «Tant’è vero che da allora, e cioè da Tangentopoli, si è sempre andati avanti nella stessa direzione in un gioco di delegittimazioni reciproche». Una classe politica «ha coscienza di sé e del suo ruolo, e la coscienza del ruolo ha un implicito effetto di legittimazione». Non a caso, in altri tempi, «i re non tagliavano la testa agli altri re, perché se no passava l’idea che ai re si poteva tagliare la testa e il sistema crollava». Se manca la consapevolezza di un ruolo – dice il costituzionalista – alla fine di quel ruolo manca anche la percezione tra chi lo deve rispettare. Dunque: parlamentari tagliati «non perché siano troppi, ma perché, tutti assieme, non fanno una classe politica». Fermare lo scempio con un referendum? Il professor Mangia è scettico: «Dopo 25 anni di delegittimazione della classe politica, chi andrebbe oggi a dire ai cittadini che lasciare il Parlamento così com’è non sarebbe affatto un male? Ci si esporrebbe alla solita obiezione del voler salvare le poltrone».Secondo il professore «si congelerà la situazione per un po’ e ci si sposterà sulla legge elettorale». Su quella non c’è accordo, perché i leader «si sono accorti che il proporzionale enfatizzerebbe a dismisura quanto sta accadendo: l’imperversare di Renzi e forse, un domani, dell’amico-nemico Di Maio». Cosa fare? «Non lo sa nessuno. Qualcuno vuole un proporzionale puro; altri lo vogliono con lo sbarramento “alto” per mettere in difficoltà Renzi; altri lo sbarramento alto con la sfiducia costruttiva; qualcuno parla di doppio turno da vent’anni e continua a farlo oggi». Per prendere tempo «si allargherà il campo e si giocherà sull’abbassamento dell’età per votare, sulla base regionale per l’elezione del Senato, sui regolamenti parlamentari». Secondo Mangia, «è il solito armamentario delle riforme che gira da vent’anni senza però riuscire a cambiare granché, se non in peggio». Perché quell’armamentario «è il figlio dell’illusione che basti cambiare le regole per cambiare la politica: un’illusione che ha guidato la fase dello sperimentalismo costituzionale». Adesso è solo «materiale per una tattica parlamentare che usa spregiudicatamente la Costituzione per comprare tempo. È il cinismo della disperazione», sintetizza il professore.Alessandro Mangia inquadra con precisione il disegno politico dei 5 Stelle: «Ridurre il peso politico del Parlamento, spostare quel peso sulle consultazioni dirette – e cioè Twitter, referendum e Rousseau: tanto nella loro ottica è tutto uguale». In questo modo, si finisce per cambiare il funzionamento delle istituzioni. «Non a caso le due riforme, taglio dei parlamentari e riforma del referendum, sono sempre andate di pari passo». Tant’è vero che ora se n’è ricominciato a parlare: «Sarà la prossima frontiera». Altra mina, i cambi di casacca: il vincolo di mandato. Limitazioni che i 5 Stelle erano già riusciti a inserire nel “contratto di governo” con la Lega, e che hanno cercato di introdurre con le sanzioni ai dissidenti che abbandonano il gruppo. Il tribunale di Roma le ha già dichiarate nulle, «come è nullo ogni contratto contrario a norme imperative». Ma il rischio è dietro l’angolo: «Credete che sarebbe difficile, volendo, far partire una campagna contro i parlamentari voltagabbana che si staccano e fanno un loro gruppo o che passano da una maggioranza all’altra? È la stessa tecnica usata per il taglio ai parlamentari». Fatto quello, a che serviranno deputati e senatori? «Più a nulla. Nemmeno a schiacciare il bottone. Basterà il palmare o il telecomando». Del resto, chiosa Mangia, se è vero che se “uno vale uno”, allora “uno vale l’altro”, a prescindere dalla volontà degli elettori.Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?
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Di Maio ci offre un caffè: tanto vale il taglio delle Camere
Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.«Cosa bolle in pentola nello Stivale?», si domanda Giannini. «Questioni di una pericolosità senza precedenti, ma il governo – afferma – reagisce cercando di distrarre l’opinione pubblica con un provvedimento forse condivisibile ma economicamente ridicolo». Secondo Giannini, si tratta di una strategia «comprensibile dal punto di vista mediatico, ma che fallirà». C’è ben altro, sulla bilancia: «I dazi Usa contro il nostro paese sono un monito terrificante: gli americani ci lasciano al nostro destino, cioè soli di fronte alle arroganti violenze economico-finanziarie e geopolitiche francesi e tedesche». Visione impietosa: «Più che una penisola siamo una barchetta, o meglio un barcone in attesa di un… ciclone». E non è per niente casuale, secondo Giannini, che tutto ciò «coincida con l’emergere di questioni oscure riguardanti servizi segreti e spionaggio internazionale (vedasi il premier Conte), perché queste questioni le hanno volute rendere pubbliche proprio gli Usa». Esplicito e brutale, per Giannini, il messaggio dello Zio Sam: cari italiani, non siete più il nostro partner privilegiato in Ue.«Se si esclude il periodo della Seconda Guerra Mondiale – aggiunge Giannini – ho la vaga (e fondata) sensazione che i rapporti del governo italiano con gli americani non siano di buon sangue». Nel frattempo, purtroppo, «si riacutizza il problema delle tragedie nel Mediterraneo, causate dalla ingannevole attrattiva dei porti di nuovo aperti». Ingannevole, certo, «perché attraversare il mare in mano a degli scafisti per giungere in un paese privo di lavoro è una trappola», piaccia o no al pelosissimo buonismo nazionale, caro ai sacerdoti del politically correct. Comunque la si veda, siamo in un oceano di guai. «E proprio in questo contesto si inserisce il dimezzamento dei parlamentari». Ebbene: «Quanto fa risparmiare a ogni italiano? Il costo di un caffè all’anno». Solo fuffa, dunque, e senza neppure un disegno istituzionale alle spalle: si teme infatti che la nuova legge elettorale (ridisegno dei collegi, per adeguarli alla riduzione della rappresentanza) verrebbe improvvisata in extremis, in base alla convenienza del momento dettata dai sondaggi. Per ora i partiti hanno votato compatti, sfilando a Di Maio il monopolio dell’eroica riforma, che poi non è ancora detto che diventi davvero legge. Intanto, Giannini osserva: «Stiamo ballando sul Titanic, e i pentastellati stanno elargendo “generosamente” dilettantismo: un dilettantismo che non ha i tratti del solo Luigi Di Maio».Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Giannuli: Renzi (e Cairo) per creare un’alternativa a Salvini
Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.«Gli hanno promesso di farlo entrare finalmente nel salotto che conta, se fosse riuscito a fermare i gialloverdi», sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista, legato a importanti ambienti massonici europei. Stando a Carpeoro – progressista, da sempre socialista – oggi Renzi può vantare una grande vittoria da esibire sui tavoli dei suoi veri mandanti: e potrebbe quindi anche alzare la posta, per chiedere per sé qualcosa di importante, con la minaccia di far cadere il Conte-bis. Semplici indiscrezioni, ma preziose: perché concorrono a delineare un quadro coerente, ben ancorato allo scenario internazionale da cui – come tutti hanno capito – dipendono le crisi italiane, compresa quella in corso. Giannuli invece preferisce attenersi al panorama di casa, articolando un’analisi ravvicinata sulle possibili mosse dei vari attori sul terreno. Renzi? Per ora è accreditato di pochi voti: dal 3 al 5% al massimo. «Ma sono convinto che si tratti solo di una base di partenza che, se il fiorentino ci saprà fare, è destinata a crescere, e non di poco», scrive Giannuli sul suo blog. Inutile negarlo: «Il sistema dei partiti esistente è tutto in crisi e c’è un diffuso malcontento dei cittadini per l’offerta politica: Forza Italia si sta liquefacendo, il M5S ha avuto una batosta alle europee dalla quale è difficile che si rimetta».Quanto al Pd, «la batosta l’ha presa alle politiche, e alle europee ha recuperato percentualmente solo per l’altissimo numero di astenuti, ma ha perso altri 100.000 voti reali)». Sinistra, +Europa e Fratelli d’Italia «non riescono a sfondare» e, di fatto, «galleggiano». Solo la Lega era esplosa: al 34% delle europee erano seguiti sondaggi che la davano prossima al 40%. «Ma la gestione scellerata della crisi di governo ha fatto crollare la credibilità di Salvini», sostiene Giannuli. «E se ancora questo non si riflette pienamente nei sondaggi, è lecito aspettarsi un calo lento ma costante, a meno che i giallorossi non ne facciano talmente tante da resuscitare la Lega e andare al voto in primavera». Dunque Renzi non sbaglia, quando dice che “c’è spazio”. La sua formazione, in primo luogo, «ha ancora da risucchiare al Pd: ci sono ancora renziani che non sono usciti, parecchi indecisi, e poi Zingaretti praticamente non esiste: Renzi non avrà difficoltà ad oscurarlo». Poi, se dovessse ingranare, «avrebbe da beccare molto nel pollaio di centro (da +Europa a Calenda, fino ai rimasugli di Dc»).Ma è soprattutto Forza Italia, col suo striminzito 6% residuo, che può dare un po’ di sangue alla neonata creatura renziana: anzi, non è neppure da escludere che i berlusconiani possano confluire nel nuovo soggetto renziano. «Insomma, un traguardo dell’11-12% potrebbe essere a portata di mano». E a quel punto, continua Giannuli, «potrebbe funzionare la sirena del fiorentino sia sul fianco della Lega che su quello dell’astensionismo». In concreto: «Non sono immaginabili particolari sfracelli, ma l’elettorato potenziale del nuovo partito potrebbe crescere sino al 15-18%», addirittura. Tornando alla realtà: «Bisognerà vedere molte cose: che farà il governo, che mosse farà Renzi, quali Salvini». Soprattutto, occorrerà valutare «se la mossa renziana di oggi sarà imitata da altri». In quel caso, alla fine ci sarebbe «un gran rimescolamento di carte che cambierà il volto del sistema dei partiti». Prima tappa, scontata, il pallido Pd: potrebbero rientrare quelli di Leu (Bersani e compagni), inducendo le ultime “sentinelle” renziane ad uscirne. Poi c’è il caso particolare di Conte: i sondaggi danno un modestissimo recupero al M5S dopo la soluzione della crisi di governo, ma un altissimo indice di consenso personale per il presidente del Consiglio. E c’è chi si spinge a ipotizzare che un suo partito possa raccogliere sino al 21%.«Certo i sondaggi vanno presi con le molle», premette Giannuli, però vanno monitorati con attenzione. «E qui la domanda sorge spontanea: che farà “Giuseppi” alle elezioni? Potrebbe ritirarsi a vita privata, come ha ripetutamente assicurato (e questo è una conferma che non si ritirerà affatto: tutti quelli che vogliono restare in campo dicono di star facendo le valide per ritirarsi). Oppure potrebbe presentarsi con il M5S, magari come candidato presidente del Consiglio». O ancora – terza opzione – potrebbe fare una sua lista, «più o meno apparentata coi 5 Stelle: dipenderà dal sistema elettorale». Secondo Giannuli, una “lista Conte” potrebbe attingere voti tanto al M5S quanto al Pd e persino all’area di centro (e quindi sottrarre voti a Renzi), ma potrebbe anche dare credibilità al partito di Renzi come possibile alleato. Altri sconvolgimenti, sempre secondo Giannuli, potrebbero investire la Lega: se si votasse tra un anno, il monte voti del Carroccio «potrebbe precipitare anche verso il 20%, e a quel punto non è detto che il partito resti integro». Ad esempio, Maroni «potrebbe uscire per fare altro». Oppure i maggiorenti della Lega (Giorgetti in testa) potrebbero «pensare a una qualche congiura per cacciare il “rais”».Se questo è lo scenario dell’attuale palazzo, poi ci sono quelli che premono da fuori: in primo luogo i Verdi, che «senza aver attaccato un solo manifesto, con pochissime apparizioni televisive e con una manciata di euro per la campagna elettorale, hanno preso il 2%», ovvero «un po’ di più della “Sinistra”, che pure aveva parlamentari, più spazi televisivi e decisamente più soldi». I Verdi avrebbero dalla loro «la simpatia dei giovani “gretisti”, il mutamento climatico che ormai non è più una previsione ma una realtà in atto, e di conseguenza una certa attenzione dei mass media». Gli ultimi eredi del “Sole che ride” potrebbero anche «fare liste comuni con quel che resta della sinistra o assorbirne un po’ di voti». Giannuli non prende nemmeno in considerazione il piccolo fronte rosso-bruno apertosi con “Vox Italia”, il sovranismo “socialista” capitanato da Diego Fusaro (che sembra autoemarginarsi da subito, peraltro, chiedendo l’uscita dall’euro, dall’Ue e dalla Nato). Una galassia, quella del voto-contro, che nel 2018 diede largamente fiducia ai 5 Stelle: milioni di voti che poi, di fronte al fallimento gialloverde incarnato da Di Maio, sono tornati a gonfiare l’oceano dell’astensionismo già alle europee, tornata in cui ha votato poco più di un italiano su due (un elettore su tre, invece, ha scommesso ancora su Salvini).Tornando a Renzi, Giannuli punta i riflettori sul grande centro: l’altra grande incognita esterna è l’editore Urbano Cairo, che recentemente ha concesso «un’intervista di due ettari» al “Foglio” «per spiegare che non ha intenzione di candidarsi», e che però, «se fosse costretto a farlo, avrebbe un programma fatto così e così». Tradotto: «La smentita, al solito, vale la conferma delle intenzioni di esserci». Su che seguito elettorale potrebbe contare, Cairo? «Impossibile a dirsi, allo stato attuale», che è quello di una intenzione «molto futura». E poi, candidarsi per fare che? «Un partito suo? Entrare in Forza Italia e rivitalizzarla? Fare il presidente di una qualche confederazione di centro con Renzi e lo stesso Cavaliere? Tutto possibile». Urbano Cairo possiede “La7” e il “Corriere della Sera”, «ma non sono più i tempi della discesa in campo del Cavaliere». Inoltre, «l’appporto dei suoi media è realisticamente molto più ridotto». Secondo Giannuli, poi, «un appoggio troppo sfacciato, soprattutto da parte del blasonatissimo “Corriere”, potrebbe costare molto in termini di audience e di lettori». Lo si è visto con il mitico “fate presto” con cui la grande stampa italiana accolse il finto salvatore Mario Monti nel 2011, salvo poi “scoprire” – fuori tempo massimo – che non si trattava esattamente di un benefattore della nazione.Resta virtualmente da spendere la carta del classico partito personale, a meno che Cairo non abbia già nella manica «un parterre da far paura» fatto di grandi nomi, «presidenti di associazioni», e magari la benedizione del Papa. Viceversa, avrebbe «qualche possibilità di successo in più la sua adesione a Forza Italia», che di fatto «potrebbe dare qualche goccia di sangue fresco alla moribonda creatura berlusconiama». Ma la cosa più ragionevole, per Giannuli, sarebbe «la confederazione con il fiorentino e il Cavaliere». Poi ci sono una serie di personaggi singoli molto noti (Tremonti, Sgarbi, Monti, Rutelli, magari anche Fini), che forse hanno «solo un po’ di seguito d’opinione», eppure «possono regalare visibilità a una forza politica nuova», anche perché «la parata di vecchie stelle del varietà funziona sempre», fino a un certo punto. L’unica vera notizia è che «le bocce sono in movimento, e altre – completamente nuove, che oggi neanche immaginiamo – possono entrare in campo». Molte cose cambieranno, conclude Giannuli, sempre senza tener conto del quadro internazionale, europeo e non solo, così determinante – finora – per la crisi italiana (dalla Via della Seta al decreto Golden Power contro Huawei, dal Russiagate anti-Salvini alla guerriglia con Macron e il voltafaccia dei 5 Stelle, fino all’elezione di Ursula von der Leyen).L’analisi di Giannuli, apprezzabile per i riflessi immediati sull’agenda di Palazzo Chigi e dintorni, non legge le ricadute italiane dei grandi giochi in corso, dalla Hard Brexit alla crociata contro Trump. Clamoroso il guanto di sfida lanciato dal governatore della Bank of England, uomo Rothschild: Mark Joseph Carney è stato applaudito a Wall Street, nientemeno, per aver annunciato la necessità di una valuta internazionale alternativa al dollaro. Corretto il focus di Giannuli su Cairo: ma come si schiererebbe, l’editore, rispetto allo scacchiere che conta, cioè quello dei veri poteri che telecomandano l’Italia? E poi: sicuri che Salvini sia sul viale del tramonto? Cosa c’è nella testa di quei milioni di italiani che tuttora fanno della Lega il primo partito? Salvini non è certo ostile a Putin, che peraltro non è un campione di democrazia. A sua volta, Putin non è assolutamente lontano da Trump, che pure sembra aver cessato di sostenere Salvini. Quello che si legge è un caos, nel quale sembra precipitata l’oligarchia di ieri. L’Italia gialloverde era vista – da fuori, forse a torto – come un “pericoloso” banco di prova per sperimentare un’alternativa al paradigma ordoliberista. Il pallottoliere di Giannuli, per ora, non ne fa cenno. Ma sarebbe ingenuo non cercare di mettere a fuoco la vera domanda: per chi sta lavorando, oggi, Matteo Renzi? Per se stesso, come al solito? Certo, anche. Ma si sa, le cose accadono a più livelli. I giochi sono tanti, così come i giocatori. E quelli italiani, visibili, sono solo la vetta dell’iceberg.Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.
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L’Ultima Fregatura, nuovo film di Renzi nella caverna-Italia
Sarà contento, il travaglismo nazionale, di aver tolto a Salvini le chiavi del governo per riconsegnarle a Renzi. Era il IV secolo avanti Cristo quando Platone inventò il cinema, con il Mito della Caverna: quella disegnata sulla parete non è la realtà, sono solo le ombre proiettate dal fuoco. Il mondo vero, tridimensionale, è là fuori: ad andare in scena nella grotta è un semplice spettacolo. Si può cadere in errore, certo. Dipende anche dal talento del proiezionista. Il Mago di Rignano, ad esempio, ne ha da vendere: superò il 40% dei suffragi dopo aver elargito la mancia degli 80 euro, brillando nell’arte cabarettistica in cui si sarebbe cimentato Di Maio. Poco dopo, nell’estate 2016, dal cinema si passò al teatro: uno spettacolare vertice con la Merkel e Hollande, sul ponte della portaerei Garibaldi al largo di Ventonene, per celebrare la farsa dell’unità europea evocando abusivamente il fantasma di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo del Novecento. Un pretesto altamente scenografico, con una missione illusionistica: spacciare per Europa Unita l’aborto dell’attuale Disunione Europea, di cui l’Italia – da Renzi a Conte – si candida a restare servitrice sottomessa e depredabile.
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Salvini santifica la Thatcher, cioè la nonna dell’Ue-horror
Due icone contrapposte e inconciliabili, Margaret Thatcher ed Enrico Berlinguer, si affacciano sul pratone leghista di Pontida. Le ha evocate Matteo Salvini, nel rituale bagno di folla in cui – edizione 2019, post-Papeete – ha cercato di farsi “perdonare” per la perdita del governo, che gli è stato sfilato di mano dagli stessi poteri che gli avevano impedito di ampliare il deficit, abbattere la tassazione, dare il via libera all’autonomia regionale del Nord-Est. Sacro e profano: è ancora una volta “Maria” a introdurre l’orazione civile del Capitano crociato, che prova a scommettere sulle imminenti regionali – Umbria ed Emilia – lanciando anche la minaccia dei referendum (in primis, legge elettorale maggioritaria) come strumento di una riscossa che evidentemente non vede alle porte. La paura è indovinabile: restare all’angolo, scaricato infine dal “popolo” leghista. Scontato l’esilio mediatico, dopo tanta sovraesposizione. Scontata anche la rabbia dei militanti verso il mainstream giornalistico e disinformatore, braccio armato dello “Stato parallelo” che governa l’Italia per conto di Bruxelles, grazie al Pd e ora anche ai grillini, caricati a forza da Grillo sul carrozzone franco-tedesco di Ursula von der Leyen.Anche se non lo sanno, i leghisti di Pontida si comportano come i NoTav degli esordi, diffidenti verso la stampa, ostili alle istituzioni centrali come qualsiasi gruppetto di antagonisti: invitano Mattarella ad “andare a quel paese”, coprono di insulti Gad Lerner, rifilano un pugno a una telecamera di “Repubblica”. A eccedere in animosità non sono i giovinastri dei centri sociali demonizzati da Salvini, ma pensionati e casalinghe (come tanti NoTav, appunto), tutti esasperati dallo sconcio in mondovisione del ripugnante Conte-bis rifilato come punizione biblica alla larghissima maggioranza degli italiani. Di Salvini alla fine i leghisti approvano tutto: l’esibizione dei bambini “strappati” (da proteggere dagli abusi del sistema-Bibbiano), l’esposizione delle donne candidate alle regionali a Perugia e Bologna, i neo-leghisti sardi e campani. Virulento l’attacco sul fisco, da campagna elettorale permanente: Flat Tax secca, aliquota unica al 15%. Toni lontanissimi dalla prudenza governativa del Salvini ministro, irridente verso le “letterine” di Juncker ma poi anche troppo silenzioso di fronte all’umiliazione rimediata di fronte alla richiesta di espansione del deficit.«Mai con la sinistra», tuona Salvini, come se ancora esistesse una sinistra italiana, schierata coi lavoratori: una bandiera comoda da sventolare, in un senso o nell’altro, solo per fare cassa. Specie se si distingue tra l’attuale Pd e “i comunisti di una volta, persone serie”, a partire dal Berlinguer santificato a Pontida (emblema di abnegazione trasparente alla causa degli ultimi, salvo poi convincere gli operai ad accettare l’austerità come destino, la piena sottomissione sociale). Suscita inquietudine il richiamo a Oriana Fallaci, eletta come maestra di pensiero “da studiare nelle scuole”, come se la grande giornalista – evocando lo “scontro di civiltà” con l’Islam – non avesse preso una madornale cantonata, non vedendo cosa c’era davvero (e chi c’era, dalle parti della Casa Bianca) dietro la strage mostruosa dell’11 Settembre. Il Salvini di Pontida prende lucciole per lanterne anche su un altro cavallo di battaglia della propaganda più stantia del tradizionalismo provinciale italiano – la droga – senza distinguere tra narcotraffico, mafia e cannabis terapeutica.Il colmo, il Salvini post-ministeriale lo raggiunge elevando la peggior governante europea del dopoguerra, Margaret Thatcher, al rango di regina della politica: il faro del sovranista Salvini è dunque la madrina del cancro neoliberista che ha sventrato le nazioni europee, demolendo dalle fondamenta la legittimità democratica e la missione civile dello Stato sociale? Frastornati dal cocente tradimento subito a Roma, i leghisti si stringono comprensibilmente attorno al loro leader: capiscono che non aveva alternative, non poteva far altro che “staccare la spina” e tornare in campo dall’esterno, come outsider, ma con alle spalle una vastissima quota di elettorato. Di fronte ai leghisti di Pontida, Salvini potrà anche magnificare la Thatcher (detestata dagli inglesi, che hanno impiegato decenni a dimenticarla). Agli altri italiani, non leghisti ma delusi dai 5 Stelle e stomacati dal Pd, Salvini farà bene a spiegare perché allora ce l’ha tanto con i Thatcher italiani, come Monti e Fornero, che si sono limitati ad applicare alla lettera le feroci ricette della Strega del Nord, la loro grande maestra. E’ sicuro, Salvini, di sapere davvero cosa vuol fare da grande?(Giorgio Cattaneo, “Salvini santifica la Thatcher, cioè il neoliberismo dell’Europa-horror”, dal blog del Movimento Roosevelt del 16 settembre 2019).Due icone contrapposte e inconciliabili, Margaret Thatcher ed Enrico Berlinguer, si affacciano sul pratone leghista di Pontida. Le ha evocate Matteo Salvini, nel rituale bagno di folla in cui – edizione 2019, post-Papeete – ha cercato di farsi “perdonare” per la perdita del governo, che gli è stato sfilato di mano dagli stessi poteri che gli avevano impedito di ampliare il deficit, abbattere la tassazione, dare il via libera all’autonomia regionale del Nord-Est. Sacro e profano: è ancora una volta “Maria” a introdurre l’orazione civile del Capitano crociato, che prova a scommettere sulle imminenti regionali – Umbria ed Emilia – lanciando anche la minaccia dei referendum (in primis, legge elettorale maggioritaria) come strumento di una riscossa che evidentemente non vede alle porte. La paura è indovinabile: restare all’angolo, scaricato infine dal “popolo” leghista. Scontato l’esilio mediatico, dopo tanta sovraesposizione. Scontata anche la rabbia dei militanti verso il mainstream giornalistico e disinformatore, braccio armato dello “Stato parallelo” che governa l’Italia per conto di Bruxelles, grazie al Pd e ora anche ai grillini, caricati a forza da Grillo sul carrozzone franco-tedesco di Ursula von der Leyen.
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Ladri di democrazia: contro il popolo, per svendere l’Italia
Costituzione alla mano, Mattarella avrebbe dovuto incaricare Salvini, come possibile primo ministro, già nel 2018: era il leader più votato della coalizione vincente, il centrodestra, e la legge elettorale imporrebbe appunto di premiare la coalizione, non il singolo partito. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, brillante saggista euroscettico, nel denunciare lo “scippo di democrazia” ora attuato con il via libera all’osceno governo giallorosso, grazie al colpo di mano di Beppe Grillo che ha prima sabotato Salvini e l’esecutivo gialloverde e poi imposto ai parlamentari grillini di allearsi con il loro nemico storico, il Pd renziano. «Da Yalta a Biarritz la mano del padrone: Trump, Macron e Merkel vogliono il Conte bis e Mattarella lo incarica in sfregio alla volontà degli italiani, che vogliono votare», scrive Della Luna nel suo blog. «La maggioranza del popolo assiste impotente al turpe gioco della partitocrazia: due partiti che si erano presentati fino a ieri dichiarandosi tra loro incompatibili, ora, dopo essere stati sconfitti molte volte nelle ultime elezioni (politiche, amministrative, europee), con l’approvazione del Quirinale si conciuciano allo scopo palese di tenersi il potere e di togliere alla gente la possibilità di essere rappresentata».Peggio: gli usurpatori «si vogliono appoggiare non al consenso degli italiani, che non hanno, ma al sostegno interessato di Francia e Germania via Ue e Bce, di cui sono fiduciari». In questo modo «è stato fatto, contro la maggioranza degli italiani e con la dichiarata pretesa di imporre una “svolta” al paese, un governo che è costituzionalmente illegittimo e illegale, secondo l’ordinamento costituzionale», sostiene Della Luna. Il ruolo del presidente della Repubblica? Nella fase di consultazioni è quello di «verificare se il candidato premier abbia una maggioranza parlamentare e se questa corrisponda sostanzialmente alla maggioranza degli elettori, affinché non vi sia contrasto tra popolo e governo». Secondo l’avvocato, invece, «Mattarella ha tradito questo suo compito, poiché ha incaricato Conte pur sapendo benissimo che quasi il 70% degli italiani vuole votare e non vuole questo governo Pd-5S». Sempre secondo Della Luna, i parlamentari grillini e piddini «hanno violato la funzione del Parlamento di rappresentare il popolo, perché la maggioranza del popolo vuol votare ed essi si sono associati per impedirlo, cioè per impedire che la maggioranza sia rappresentata, quindi per impedire la rappresentatività della democrazia».I “golpisti” sanno benissimo che il 67% degli italiani vorrebbe andare a votare. E sanno anche che, se si votasse, perderebbero: il Pd resterebbe al palo, e i 5 Stelle sarebbero letteralmente spazzati via. «La ragione per la quale tolgono al popolo questo diritto e vogliono governarlo – insiste Della Luna – è proprio la loro consapevolezza di non rappresentarlo». E quindi «lo fanno con dolo», il “golpe parlamentare”. Lo compiono «nell’interesse proprio, privato, di parte, cioè per mantenere le poltrone e per nominare loro uomini alla guida di 500 grandi aziende pubbliche». In sostanza «mirano a scegliere, pur non rappresentando il paese, il nuovo capo dello Stato, ossia l’organo che dovrebbe rappresentare il paese, in modo da assicurarsi la sua copertura». Quel che interessa, ai “golpisti”, è «continuare l’opera di svendita degli interessi e della sovranità nazionale in favore di interessi e potenze straniere, controllanti l’Unione Europea», con le «imponenti direttive di finanza pubblica recessive e in contrasto coi principi di tutela del lavoro e perequazione sociale sanciti dagli articoli 1, 3 e 36 della Costituzione».Secondo Della Luna, Mattarella sa bene che i due partiti del nuovo governo non solo hanno contro la grande maggioranza del paese, ma sono anche internamente assai divisi e stanno perdendo parte delle loro basi elettorali. Attenzione: «Mattarella stesso è stato eletto solo grazie a un premio di maggioranza incostituzionale, ossia con un vizio di rappresentatività democratica dell’allora Parlamento, ed è rimasto in carica solo per un’esigenza estrinseca di continuità istituzionale, ma con ridotta legittimazione sostanziale». Pertanto, nel momento in cui ora nomina un governo che sa esser privo di rappresentatività popolare, «Mattarella si stacca intenzionalmente e completamente dal principio della rappresentanza popolare, la quale è la fonte della legittimità del potere politico-istituzionale, anche del suo». Per Della Luna, del resto, Mattarella «aveva già omesso di tener conto della ratio della legge elettorale dopo le elezioni politiche del 2018», negando a Salvini l’incarico di formare il governo. Incarico «a cui spettava, perché la legge elettorale è con premio di maggioranza alla coalizione, e la maggioranza era andata alla coalizione di centrodestra, in cui Salvini era il segretario del più votato tra i partiti di quella coalizione».Sempre secondo Della Luna, Mattarella doveva incaricare il leader della Lega: «Se Salvini avesse trovato una maggioranza in aula, avrebbe presieduto il governo; se non l’avesse trovata, Mattarella avrebbe dovuto sciogliere le Camere e indire nuove elezioni». Invece, com’è noto, ha fatto nascere una maggioranza «intrinsecamente incoerente, interferendo anche illegittimamente sulla scelta dei ministri», come nel caso di Paolo Savona, «con l’effetto di portare a una situazione che ora consente al suo partito, il Pd, di tornare al potere, e all’asse franco-tedesco di dominare il paese senza resistenze interne». Aggiunge Della Luna: «Mattarella può permettersi di compiere tutte le suddette forzature perché tanto non ne dovrà mai rispondere ad alcuno». A monte, comunque al G7 di Biarritz sono stati Trump, Macron e Merkel, «in rappresentanza delle Tre Potenze (coi rispettivi interessi) che dominano sull’Italia», ad approvare – se non a “prescrivere” – l’inguardabile governo Conte-bis. «È alla loro volontà e alla loro fiducia che il presidente della Repubblica Italiana deve guardare, non al popolo italiano e ai suoi interessi, non alla Costituzione interna del paese».Secondo Della Luna, «si conferma che il presidente della Repubblica è un organo dell’ordinamento sovranazionale, avente il compito di assicurare l’obbedienza dell’Italia, e che l’ordinamento sovranazionale è quello che conta, mentre la Costituzione nazionale è solo un pro-forma». Mattarella? «Ha attuato e rispettato la legalità che conta, quella superiore. Il suo operato è, insomma, legittimo per motivi superiori alla legge nazionale», sostiene l’avvocato, che poi analizza inevitabilmente il sordido voltafaccia dei grillini: «I proprietari del MoVimento 5 Stelle hanno operato la conversione da movimento anti-sistema a partito spartitorio pro-sistema, apportando al sistema i voti del loro ingenuo elettorato, così come ai tempi di Veltroni il Partito Comunista (poi Pds) operò la conversione da anticapitalista a pro-bancario, e fu pertanto posto alla guida politica del paese e incaricato di sceglierne i capi di Stato, in modo che questi potessero fare ritornare il Pd al governo anche senza consenso popolare quando avrebbe perso le elezioni».La Lega, a sua volta, «ha perso per strada quasi tutta la sua carica anti-sistema». Secondo il filosofo Diego Fusaro, si è avvicinata all’altro volto del capitalismo liberista, quello dell’area di Forza Italia. Ora quindi, se vuole – chiosa Della Luna – la dirigenza della Lega può fare opposizione autentica, dura, dalle piazze, mobilitando le forze produttive tradite; oppure può fare un’opposizione europeisticamente e liberalisticamente corretta, sapendo che così potrà ritornare al governo in una coalizione di centrodestra, “verde-bluette”, «quando l’altro braccio del neoliberismo, cioè quello giallo-fucsia, sarà stanco o screditato, e si realizzerà così un’alternanza simulante la democrazia». Insomma, sfiducia assoluta nella politica nostrana: «I governanti italiani di volta in volta al potere, collaborazionisti con gli interessi stranieri, potranno partecipare al saccheggio del paese assieme ai loro patrons. Si conferma quindi la posizione asservita dell’Italia, la sua impotenza ad affrancarsi dalla dominazione e dallo sfruttamento stranieri».Costituzione alla mano, Mattarella avrebbe dovuto incaricare Salvini, come possibile primo ministro, già nel 2018: era il leader più votato della coalizione vincente, il centrodestra, e la legge elettorale imporrebbe appunto di premiare la coalizione, non il singolo partito. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, brillante saggista euroscettico, nel denunciare lo “scippo di democrazia” ora attuato con il via libera all’osceno governo giallorosso, grazie al colpo di mano di Beppe Grillo che ha prima sabotato Salvini e l’esecutivo gialloverde e poi imposto ai parlamentari grillini di allearsi con il loro nemico storico, il Pd renziano. «Da Yalta a Biarritz la mano del padrone: Trump, Macron e Merkel vogliono il Conte bis e Mattarella lo incarica in sfregio alla volontà degli italiani, che vogliono votare», scrive Della Luna nel suo blog. «La maggioranza del popolo assiste impotente al turpe gioco della partitocrazia: due partiti che si erano presentati fino a ieri dichiarandosi tra loro incompatibili, ora, dopo essere stati sconfitti molte volte nelle ultime elezioni (politiche, amministrative, europee), con l’approvazione del Quirinale si conciuciano allo scopo palese di tenersi il potere e di togliere alla gente la possibilità di essere rappresentata».