Archivio del Tag ‘Lega’
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Giannuli: accordi sottobanco nel dopo-voto senza vincitori
Renzi il grande sconfitto, il redivivo Berlusconi in netto vantaggio, i 5 Stelle sotto il 30%. Con ancora un 35% di indecisi alla vigilia del voto può succedere di tutto, premette Aldo Giannuli: ogni previsione non può che essere assai aleatoria. Ma intanto, al netto di sorprese e oscillazioni fisiologiche, la tendenza elettorale sembra delinearsi: all’affermazione numerica del centrodestra, con l’incognita politica della Lega di Salvini (che ha in lista Borghi e Bagnai, frontalmente critici verso l’Ue) corrisponderebbe il crollo annunciato del Pd renziano, senza peraltro che i grillini guidati da Di Maio riescano a sfondare, imponendosi come forza di governo. Poi ci sarebbero risultati meno scontati: «Sbaglierò, ma mi sento di scommettere sul fatto che Bonino e “Potere al Popolo” faranno entrambi il 3%, con la prospettiva di superare il 4%», a spese del Pd e di “Liberi e Uguali”, probabilmente costretti sotto il 5%. Giannuli accredita CasaPound di almeno un 1%, senza contare gli altri gruppi minori, i fuori-coalizione, «nessuno dei quali, ragionevolmente, farà il 3%». Messe insieme, però, le tante liste-contro «potrebbero sfiorare l’8-9%: il che sarebbe un segnale molto interessante», specie se sommato all’ipotetica valanga degli astensionisti, dati attorno al 37% secondo le ultime rilevazioni circolate prima del silenzio pre-elettorale.
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Se Mattarella incarica Di Maio, l’ex antisistema in cravatta
Un “governo di scopo”, della durata di sei mesi o al massimo un anno, dopo che le elezioni avranno “asfaltato” Renzi, mettendo fine alla faida con gli ex-Pd. Esecutivo presieduto da Luigi Di Maio? Perfettamente possibile, secondo uno storico esponente della sinistra moderata italiana, Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”. «A differenza di Napolitano, Mattarella non farebbe una battaglia frontale contro i 5 Stelle. E’ un presidente molto politico, ma non interventista sulla realtà; da buon democristiano, preferisce l’inclusione allo scontro». Includere, ovvero: «Ricondurre al buon senso politico un leader giovane, così antisistema da essere già incravattato e pronto per l’incarico. Una strategia che potrebbe indurre anche altre forze a dare l’appoggio». E’ un’ipotesi da day-after, che Caldarola disegna per “Il Sussidiario”. Renzi? Non farà nessun “passo indietro” se il Pd dovesse perdere: dirlo ora «sarebbe dichiararsi sconfitto prima della partita». Ma stavolta il suo destino sembra segnato: «Se perdesse in modo grave, con un consenso lontano dal 25% e vicino al 20, a quel punto il tema del ritiro glielo porrebbero i suoi amici di partito». Tradotto: «Con il Pd al 20%, persino il più codardo porrebbe il problema della sostituzione».«Se il risultato fosse tragico – aggiunge Caldarola – molti andrebbero da Veltroni a dirgli: Walter, salvaci tu, e magari torna dai fratelli separati». In altre parole, «Renzi non avrà una seconda chance». Tutti i sondaggi concordano: il Movimento 5 Stelle sarà il primo partito. «E non sarà un voto di protesta», dichiara Caldarola a Federico Ferraù. «L’elettorato investe sul Movimento 5 stelle perché lo vuole al governo. Vale anche per il Mezzogiorno, dove il M5S otterrà la maggioranza dei voti; quei voti, volenti o no, daranno a Di Maio un mandato preciso. Il mandato potrebbe essere eseguito bene o male, ma questo è un altro discorso». E Berlusconi? Oggi è più forte o più debole rispetto al passato? «E’ più debole», secondo Caldarola. «La sua forza in passato è stata di riuscire a istituzionalizzare due forze politiche escluse dal sistema, prima il vecchio Msi e poi la Lega di Bossi. Ma oggi Berlusconi non è più in grado di trasformare la Lega di Salvini in qualcosa d’altro». Per ora il derby sembra destinato a vincerlo il Cavaliere: «Ho l’impressione che Salvini abbia già rastrellato tutto il consenso possibile», sostiene Caldarola. «La maggioranza degli italiani sta con il centrodestra, ma non sono sicuro che voglia essere portata dove vuole Salvini».Infatti Berlusconi è in coalizione con Meloni e Salvini, ma confida in Renzi. «Sì, perché il sogno di entrambi è di essere autosufficienti nella relazione comune. Solo che, se lo dichiarassero, perderebbero voti. Da qui l’ostinazione sfacciata con cui respingono a parole ogni tipo di accordo post-voto». Quale potrebbe essere l’auspicio di Mattarella? «Quello di una situazione parlamentare che possa consentirgli di fare un governo con tutti, ma con un premier di sua assoluta fiducia», immagina Caldarola. L’uomo abbastanza “mattarelliano” da guidare il prossimo “governo di scopo” potrebbe essere «uno della vecchia guardia, come Giuliano Amato», o magari lo stesso Gentiloni, nel caso il partito di Renzi non finisse demolito dal voto. «Certo, se il Pd fosse sconfitto, Gentiloni avrebbe un handicap politico non da poco». In ogni caso, sarebbe un esecutivo di corto respiro. «Non credo a un governo di lunga durata nemmeno nell’ipotesi di una vittoria della coalizione di centrodestra: sorgerebbero conflitti tali da portarlo subito alla crisi». Nemmeno un “Renzusconi” durerebbe oltre i 12 mesi. In altre parole: nessuna delle opzioni elettorali sul tavolo è in grado dare all’Italia le risposte strategiche di cui il paese, vessato dall’austerity europea, ha un disperato bisogno.Un “governo di scopo”, della durata di sei mesi o al massimo un anno, dopo che le elezioni avranno “asfaltato” Renzi, mettendo fine alla faida con gli ex-Pd. Esecutivo presieduto da Luigi Di Maio? Perfettamente possibile, secondo uno storico esponente della sinistra moderata italiana, Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”. «A differenza di Napolitano, Mattarella non farebbe una battaglia frontale contro i 5 Stelle. E’ un presidente molto politico, ma non interventista sulla realtà; da buon democristiano, preferisce l’inclusione allo scontro». Includere, ovvero: «Ricondurre al buon senso politico un leader giovane, così antisistema da essere già incravattato e pronto per l’incarico. Una strategia che potrebbe indurre anche altre forze a dare l’appoggio». E’ un’ipotesi da day-after, che Caldarola disegna per “Il Sussidiario”. Renzi? Non farà nessun “passo indietro” se il Pd dovesse perdere: dirlo ora «sarebbe dichiararsi sconfitto prima della partita». Ma stavolta il suo destino sembra segnato: «Se perdesse in modo grave, con un consenso lontano dal 25% e vicino al 20, a quel punto il tema del ritiro glielo porrebbero i suoi amici di partito». Tradotto: «Con il Pd al 20%, persino il più codardo porrebbe il problema della sostituzione».
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Elezioni-farsa in un paese invaso, dal Piano Marshall all’Ue
«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».Il mito della “liberazione” già imperversava in un paese bombardato, «di straccioni in ginocchio con il piattino dell’elemosina in bocca», scrive Mazzuoli dell’Italia dell’immediato dopoguerra: un paese «indebitato con la carta straccia delle Am-lire, e comprato a saldo stralcio con i soldi del Piano Marshall: come non avere davanti agli occhi lo squallido spettacolo di De Gasperi, ritornato dal viaggio in Usa sventolando il nostro nuovo vessillo, l’assegno con il quale era stata appena comprata la fedeltà italiana?». Basterebbe dare un’occhiata al libro che Cossiga licenziò nei suoi ultimi anni, dal titolo emblematico, “Fotti il potere”, per comprendere che in Italia non si è mai mossa foglia che lo Zio Sam non volesse, «a partire dal condizionamento delle elezioni del 1948, operazione che costituisce uno dei primi grandi successi della Cia, creata soltanto un anno prima». Venne poi il “miracolo italiano”, all’interno della più generale prosperità dell’Europa occidentale: «Benessere – si badi bene – voluto dai padroni americani per disporre di nuovi mercati e allontanare le sirene della propaganda social-comunista». Finita l’onda lunga del consumismo industriale, mentre negli Stati Uniti la componente finanziaria «acquisiva sempre più rilevanza e spingeva per un diverso modello di sfruttamento economico dei paesi occupati», anche attorno all’Italia «cominciò a stringersi il cappio insaponato dell’europeismo».Non fu il parto spontaneo di pacifisti ispirati da alti valori umani di collaborazione tra i popoli: come mostrato dallo storico Joshua Paul, il disegno europeista «altro non è che un progetto americano, teso a tenere sotto il proprio tallone l’Europa occidentale e impedire che una potenza antagonista possa mai ergersi a minacciare la supremazia americana in quest’area geopolitica cruciale». Secondo Mazzuoli, lo dimostra anche lo sforzo prodotto dal cinema: con il famoso film “Vacanze Romane”, «Hollywood riuscì a trasformare una commediola sentimentale in un pretesto per parlare della bontà e necessità della cooperazione tra i popoli europei». La pellicola è degli anni ‘50, e proprio nel 1957 Roma fu scelta come sede dello storico accordo fondativo della Cee. Poi, a fine anni ‘80, il crollo dell’Urss «fornì l’occasione per dare una vertiginosa accelerazione al progetto europeista, con la riunificazione tedesca», inutilmente osteggiata da Andreotti («Amo così tanto la Germania preferisco averne due»). Pietra tombale: il famigerato Trattato di Maastricht «che ci avviava, nel silenzio dei media, verso le nostre magnifiche sorti e regressive».Il progetto, continua Mazzuoli, è stato costruito dagli strateghi americani attorno alla Germania, conferendole «un esorbitante vantaggio al fine di tenerla saldamente legata al carro atlantico e di distoglierla da tentazioni di liaisons con la Russia, esiziali per gli interessi geopolitici a stelle e strisce». In questo quadro, «l’euro nasce appositamente per conferire alla Germania uno straordinario vantaggio economico: ed è per questa ragione che non può essere smantellato». Ecco perché l’appello No-Euro «è soltanto un argomento demagogico per raccogliere consenso». Coincidenze? Avvicinandosi alle elezioni, l’uscita dalla moneta unica è «sparita magicamente, e all’unisono, da tutti i programmi partitici». Salvini? Ha dichiarato che «la Nato non si discute». Di Maio? E’ volato a Washington «a giurare fedeltà al padrone». Dopo anni di propaganda, convegni e pubblicazioni come il libriccino “Basta euro”, «al momento di fare sul serio e di proporsi come potenziale forza di governo, la Lega ci presenta come soluzione alla morte del paese, l’emissione dei “mini bot”, perché – udite – non violano i trattati. Ci rendiamo conto di quale dichiarazione di sudditanza, di impotenza, di servilismo e di mancanza di coraggio è contenuta in questa proposta da piattino in bocca?».Nessuno di questi “statisti” che oggi chiedono il voto degli italiani oserà mai svelare come stanno davvero le cose: «C’è infatti una tragica verità, che nessun politico vi dirà mai». Ovvero: «L’unificazione europea prevede il sacrificio dell’Italia, la colonia più servile, la più indifesa, per motivi storici e antropologici», scrive Mazzuoli. «Chi si opponeva a questo progetto di marginalizzazione del paese (Moro, Craxi, parte della Dc) è stato eliminato con Tangentopoli e il paese è stato immolato agli interessi americani e dei loro alleati privilegiati», cioè «in primis la Germania e subito dopo la Francia». Finti alleati, che il nostro paese «lo divorano a brani, grazie allo zelante collaborazionismo della nostra classe dirigente, che quando non è venduta è perché non trova acquirenti». Siamo ancora in piedi, conclude Mazzuoli, solo grazie alla ricchezza reale che ci è rimasta. E adesso «attendiamo fiduciosi l’ultima aggressione al succulento boccone del nostro risparmio», che ancora regge il sistema-Italia, «assieme alle pensioni e alle case di proprietà (i soprammobili sono già al Monte dei pegni)». Il Belpaese? «Un territorio». L’Italia «non è mai stata una nazione e non è più nemmeno uno Stato». La minaccia più grave e immediata? «Oltre il 30% di disoccupazione effettiva». Questa è la storia, «il resto è propaganda».«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».
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Calise: morti i partiti, solo promesse-bufala e leader zombie
«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.Per Calise, resta solo uno scontro di messaggi finti-forti ma non convincenti: «Le false promesse e le bufale non sono credute, non perché sono tali, ma perché non sono credibili i leader». L’idea di governabilità è stata sconfitta, aggiunge il politologo, e al suo posto non se n’è trovata un’altra. Che cosa vedremo? «Un governo di risulta, appoggiato in buona parte da parlamentari in libera uscita». Intanto si moltiplicano gli appelli al “voto utile”, lanciati da partiti allarmati dall’astensionismo. «Siamo in una fase storica in cui si sono definitivamente destrutturati i grandi partiti», un guaio con risvolti antropologici: agli italiani con basso livello di istruzione e socializzazione «sanno probabilmente tutto di Higuain o di “Amici”, ma poco o nulla di come si vota o della Flat Tax». L’interesse e la passione politica, continua Calise, «non nascono dalla testa dei politici di professione, ma dalle viscere della società». I partiti? «Sono stati i canali che hanno portato le masse nella politica e nello Stato». Attenzione: «La democratizzazione del potere, che non nasce democratico ma verticale e di parte, è avvenuta grazie ai partiti. Ma i tempi sono cambiati e la forza delle fratture sociali che hanno alimentato le battaglie dei partiti si è esaurita. La politica si è liquefatta, e la rappresentanza anche».Che democrazia avremo? Diversa e più fragile. Ma non saremo i soli: «Basta guardarsi intorno per capire che si trema un po’ dappertutto. La Francia si è inventata Macron, che è andato al potere con il 23% dei consensi; oggi forse sono ancora meno, ma nessuno per quattro anni gli toglierà l’Eliseo. La Germania ha la “sfiducia costruttiva”. Noi abbiamo un assetto istituzionale e di governo molto più debole che nelle altre democrazie avanzate». Cosa ci manca? «Un governo che abbia una qualche autonomia costituzionale degna di questo nome», afferma Calise. Un deserto di urla. «Cosa mi preoccupa di più? L’invasivo ricorso all’etica: il grido all’onestà, la caccia allo scontrino, l’epurazione di chi non è conforme», sostiene il politologo. «Quando l’etica diventa un’arma di governo, fa più paura di tutto il resto. Perché l’imperativo etico dell’onestà riscuote tanto consenso? Perché è rimasta la cosa più semplice da dire».«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.
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L’Italia domani: il sovranista Salvini e l’europeista Di Maio
Il Movimento 5 Stelle finirà sopra il 28%? Il Pd chiuderà sotto il 20%? Il centrodestra otterrà la maggioranza assoluta o solo quella relativa? E chi finirà in testa, la Lega o Forza Italia? Difficile fare previsioni, ma alcune tendenze mi sembrano chiare: mentre nel 2013 l’unico partito che riusciva a portare in piazza migliaia di italiani era il Movimento 5 Stelle, oggi a mostrare questa capacità è stata anche la Lega di Salvini, che in queste settimane ha tenuto comizi affollatissimi dappertutto. La folla in piazza Duomo a Milano dimostra che Salvini gode di un consenso senza precedenti: nessun partito storico oggi può vantare questa capacità di mobilitazione, sostiene Marcello Foa sul “Giornale”. Il Movimento 5 Stelle? E’ in piena metamorfosi: dai “vaffa” di Grillo agli abiti grigi di Di Maio, «da movimento di rottura a partito che vuole accreditarsi con le istituzioni italiane, europee e persino con gli un tempo disprezzati banchieri di Londra». La retorica della protesta contro la casta è la stessa, ma la realtà dei programmi e delle finalità è un’altra: «Verosimilmente la maggior parte degli attivisti non si è resa conto dell’evoluzione; gli ultimi scandali non hanno scalfito l’immagine del movimento e questo dimostra che la loro fede è salda e impermeabile a tutto. I 5 Stelle sono in corsa grazie alla fiducia dei “vecchi” simpatizzanti, domani lo saranno soprattutto grazie a quella dei nuovi sostenitori di area progressista».Allungando lo sguardo, secondo Foa, non è difficile immaginare un’Italia “post Forza Italia” e “post Pd”. «Diciamolo: Forza Italia al 15-17% rappresenta un successo inspettato ma di brevissimo periodo, perché il partito si regge sul richiamo del leader storico, che, però, ha 81 anni, e dietro di lui c’è il vuoto. Come vuoto è anche il futuro del Pd: le devastazioni di Renzi lasceranno tracce profonde e il Partito democratico rischia di fare la (brutta) fine di tutti i socialisti europei, ridotto a una forza di circostanza, complementare», scrive Foa. Renzi sostituito dal Movimento 5 Stelle in versione “macroniana”? «Sopresi? Non dovreste. Leggendo in controluce le mosse di Di Maio, è evidente come egli punti, dissimulando abilmente le intenzioni, a un partito sempre meno populista e sempre più progressista e trasversale, inevitabilmente gradito all’establishment. Molto diverso da quello delle origini (e forse per questo Beppe Grillo si è allontanato) ma altrettanto forte elettoralmente, perché capace di intercettare il pubblico disilluso della sinistra moderata». Altrettanto chiaro il disegno di Salvini, «che evolve verso un partito sovranista e davvero nazionale, autorevole, teso ad occupare tutto il centrodestra e dunque ad assorbire gran parte del pubblico di Forza Italia post-Berlusconi. Un’altra svolta storica a cui nessuno, pochi anni fa, avrebbe creduto».Secondo Foa si profila insomma «un’altra Italia, polarizzata non più fra Forza Italia e Pd, ma tra la Lega e il Movimento 5 Stelle, dunque fra una nuova destra sovranista moderata e una nuova sorprendente sinistra europeista». Con buona pace di Berlusconi e di Renzi, «ma anche di chi crede ancora nella vecchia Lega Nord e in un movimento che fino a ieri era davvero grillino e ora è un’altra cosa». Certo, Foa sa benissimo che «da qualche anno le elezioni si decidono allo sprint finale, nell’ultima settimana, confidando negli umori del cosiddetto “elettore liquido”, ovvero quella parte dell’elettorato che è decisa ad andare alle urne ma non è motivata da convinzioni profonde». Molti comunque ormai hanno deciso: «E’ significativo che i sondaggi da settimane registrino oscillazioni minime». In ogni caso, «saranno proprio gli elettori “liquidi” a determinare le grandi svolte di queste elezioni». Un elettorato distratto, che vota «in maniera istintiva e subliminale», convinto «dalla personalità del leader politico, più che dalle sue idee». In fondo, però, Foa scommette su uno scenario basato su attori e ruoli nuovi, o comunque aggiornati: il sovranismo di Salvini, ostile all’attuale gestione Ue, e il moderatismo “politicamente corretto” di Di Maio, in linea con Bruxelles e con l’establishment, adatto ad assorbire gradualmente i delusi del centrosinistra.Il Movimento 5 Stelle finirà sopra il 28%? Il Pd chiuderà sotto il 20%? Il centrodestra otterrà la maggioranza assoluta o solo quella relativa? E chi finirà in testa, la Lega o Forza Italia? «Difficile fare previsioni, ma alcune tendenze mi sembrano chiare: mentre nel 2013 l’unico partito che riusciva a portare in piazza migliaia di italiani era il Movimento 5 Stelle, oggi a mostrare questa capacità è stata anche la Lega di Salvini, che in queste settimane ha tenuto comizi affollatissimi dappertutto». La folla in piazza Duomo a Milano dimostra che Salvini gode di un consenso senza precedenti: nessun partito storico oggi può vantare questa capacità di mobilitazione, sostiene Marcello Foa sul “Giornale”. Il Movimento 5 Stelle? E’ in piena metamorfosi: dai “vaffa” di Grillo agli abiti grigi di Di Maio, «da movimento di rottura a partito che vuole accreditarsi con le istituzioni italiane, europee e persino con gli un tempo disprezzati banchieri di Londra». La retorica della protesta contro la casta è la stessa, ma la realtà dei programmi e delle finalità è un’altra: «Verosimilmente la maggior parte degli attivisti non si è resa conto dell’evoluzione; gli ultimi scandali non hanno scalfito l’immagine del movimento e questo dimostra che la loro fede è salda e impermeabile a tutto. I 5 Stelle sono in corsa grazie alla fiducia dei “vecchi” simpatizzanti, domani lo saranno soprattutto grazie a quella dei nuovi sostenitori di area progressista».
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Marmaglia grillista, manganello antifascista: e il potere ride
Marmaglia: quantità di gente rumorosa e turbolenta, tale da suscitare fastidio e disprezzo. Non c’è bisogno di consultare il vocabolario Treccani per scoprire cosa intendesse dire, Massimo Giannini, quando ha usato l’espressione “marmaglia grillista” (“Repubblica”, 18 febbraio) per qualificare gli italiani che guardano ai 5 Stelle. Fastidio e disprezzo per la “marmaglia” – cioè l’avversario, il nemico, il negro, l’ebreo, il comunista, il fascista – sono il pane quotidiano del neo-squadrismo dilagante. Un militante di “Potere al Popolo” accoltellato a Perugia, un attivista di Forza Nuova aggredito a Palermo. “Staniamo Di Stefano”, annuncia il fantomatico collettivo “Torino Antifascista”, annunciando un agguato dimostrativo al leader di CasaPound. Sulle barricate anche la fake-giustiziera Boldrini, che propone addirittura di abolirla per legge, la “marmaglia”, disciogliendo i gruppetti che inneggiano al ventennio che fu. Fermi tutti, per favore: «No ad antifascismi di maniera che adottino metodologie bastonatorie tipiche proprio della cultura fascio-comunista: violenta, illiberale e antidemocratica», scrive Gioele Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt. E se proprio qualcuno vuole andare a caccia di “fascisti”, avverte un comunista doc come Marco Rizzo, lasci perdere i ragazzini dell’estrema destra: l’unico vero fascismo che conti, oggi, è quello dell’oligarchia finanziaria, il super-potere che nessun Giannini e nessuna Boldrini oseranno mai impensierire.«L’escalation di violenza va fermata», afferma il cossuttiano Rizzo, ora segretario del Partito Comunista. «Il potere è in crisi e quindi ha bisogno di riproporre una stagione simile a quella degli anni ’70, dove un’intera generazione di giovani è stata sacrificata. Da militante del ’77 – racconta – conosco molto bene le dinamiche che si possono scatenare e che il potere ha tutto l’interesse a incentivare, strumentalizzandole a proprio favore». In quegli anni, aggiunge Rizzo, le provocazioni e la logica degli “opposti estremismi” «servirono a fare il gioco del potere e a invocare la repressione: i giovani si scontravano, e alla fine vincevano i padroni». Oggi, dice, «il fascismo si combatte riprendendo le lotte tra i lavoratori, portando le parole d’ordine della solidarietà e dell’uguaglianza nei quartieri e nelle periferie, rifiutando la guerra tra poveri e dando una reale alternativa di lotta alle classi popolari, e non certo con l’antifascismo di facciata di chi ha scelto le banche e l’Unione Europea». Già dalla fine degli anni ’60, ricorda Magaldi, la “strategia della tensione” (lotta politica violenta, fino al terrorismo rosso e nero) «fu eterodiretta da quei “padroni del vapore sovranazionali” i quali avevano interesse ad alimentare un clima politico violento in Italia per propri scopi subdoli e inconfessabili». Scopi «del tutto lontani da quei pretesti pseudo-ideologici con cui veniva sobillata la lotta armata “neo-fascista” o delle cosiddette Brigate Rosse».In tempi come questi, «in cui la democrazia viene ridotta a mero formalismo rituale e svuotata di sostanza per interesse di élites oligarchiche», secondo Magaldi «l’eventuale ritorno della lotta politica violenta non può che giovare ai propugnatori degli “inciuci permanenti” e dei “governi di neo-solidarietà nazionale”, i quali servono soltanto ad anestetizzare proposte politiche alternative a quelle determinate dalla teologia dogmatica neoliberista e neoaristocratica». Dunque: rispetto e tolleranza, innanzitutto. «Non si fa antifascismo con la bastonatura di presunti fascisti. Ed è anche ora che chi si proclami antifascista si dichiari anche anticomunista, se vuole essere credibile in quanto autentico democratico e libertario: infatti, i regimi comunisti storicamente realizzatisi nel tempo sono stati altrettanto dispotici, totalitari, autoritari e liberticidi di quelli fascisti o fascistoidi». Violenza chiama violenza, avverte Magaldi: il che è tanto comodo, a chi vuole impedirci di riconquistare «democrazia sostanziale, libertà, giustizia, mobilità sociale e prosperità diffusa». Infatti: l’Italia è a pezzi, senza più una politica e con il bilancio appaltato a Bruxelles, ma per la Boldrini il pericolo sono le “fake news”. Oppure, citando Giannini, “l’accozzaglia forzaleghista”, che minaccia il paese al pari della “marmaglia grillista”. Il manganello è solo cartaceo, ma sprezzante. Un’idea infernale, come l’inferiorità biologica del nemico, nel ‘900 riempì fosse comuni e forni crematori.Marmaglia: quantità di gente rumorosa e turbolenta, tale da suscitare fastidio e disprezzo. Non c’è bisogno di consultare il vocabolario Treccani per scoprire cosa intendesse dire, Massimo Giannini, quando ha usato l’espressione “marmaglia grillista” (“Repubblica”, 18 febbraio) per qualificare gli italiani che guardano ai 5 Stelle. Fastidio e disprezzo per la “marmaglia” – cioè l’avversario, il nemico, il negro, l’ebreo, il comunista, il fascista – sono il pane quotidiano del neo-squadrismo dilagante. Un militante di “Potere al Popolo” accoltellato a Perugia, un attivista di Forza Nuova aggredito a Palermo. “Staniamo Di Stefano”, annuncia il fantomatico collettivo “Torino Antifascista”, annunciando un agguato dimostrativo al leader di CasaPound. Sulle barricate anche la fake-giustiziera Boldrini, che propone addirittura di abolirla per legge, la “marmaglia”, disciogliendo i gruppetti che inneggiano al ventennio che fu. Fermi tutti, per favore: «No ad antifascismi di maniera che adottino metodologie bastonatorie tipiche proprio della cultura fascio-comunista: violenta, illiberale e antidemocratica», scrive Gioele Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt. E se proprio qualcuno vuole andare a caccia di “fascisti”, avverte un comunista doc come Marco Rizzo, lasci perdere i ragazzini dell’estrema destra: l’unico vero fascismo che conti, oggi, è quello dell’oligarchia finanziaria, il super-potere che nessun Giannini e nessuna Boldrini oseranno mai impensierire.
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I candidati del Movimento Roosevelt: un ponte per il futuro
United Colors of Democray: non importa in che lista sei candidato, l’essenziale è che ti impegni per il ritorno alla sovranità popolare: «Democrazia compiutamente dispiegata e funzionante, nelle istituzioni pubbliche», per affrontare «le sfide macropolitiche e macroeconomiche in corso». Visione comune: stop alla “privatizzazione” della politica, ormai vassalla di poteri economici internazionali. La notizia? Lo statuto del Movimento Roosevelt è stato sottoscritto da tre candidati diversissimi tra loro: Simone Orlandini (Lega), Paolo Margari (5 Stelle) e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). Li ha convinti il seguitissimo dibattito organizzato a Londra da Marco Moiso, coordinatore generale del movimento meta-partitico fondato da Gioele Magaldi. «Abbiamo messo attorno a un tavolo le storie e le idee dei candidati di tutti i partiti, che saranno votati dagli italiani all’estero». La sorpresa: alcuni condividono la piattaforma politica del Movimento Roosevelt e si sono già iscritti, altri si stanno avvicinando. Charisce Magaldi: «Non ci schieriamo con nessun partito e raccomandiamo di votare scheda bianca, oppure di annullare la scheda o, ancora, di non recarsi alle urne. Ma per alcuni candidati – meritevoli – facciamo un’eccezione: li sosterremo, sperando di poterli vedere in Parlamento: sicuramente quei tre, della circoscrizione estero, ma anche altri, candidati in Italia».Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi fa altri nomi: per esempio quello di Pino Cabras, candidato in Sardegna coi 5 Stelle, o quello del giurista Felice Besostri, in lista a Savona con “Liberi e Uguali” e, peraltro, già iscritto al Movimento Roosevelt. Attenzione, premette Magaldi: «La nostra non è un’indicazione cogente: non siamo una caserma, ogni iscritto è libero di fare quello che crede». A livello nazionale, l’invito è esplicito: scheda bianca o astensione, «per protesta verso una campagna elettorale sleale», fatta di promesse “impossibili”. Una provocazione, il non-voto, per denunciare «l’inconsistenza dell’offerta politica attuale». Ovvero: nessuna delle forze in campo prefigura, in modo credibile, una via d’uscita dalla crisi, che è imposta dall’austerity europea. Di qui il boicottaggio del voto, sottolinea Magaldi, con però alcune eccezioni: «Questi candidati sottoscrivono il nostro progetto politico-culturale. Orlandini sta nella Lega, spesso xenofoba? Benissimo, darà forza agli impulsi democratici e libertari, in quel partito. Non ho nessuna stima per “Liberi e Uguali”, ma considero una “metastasi benigna” Chiara Mariotti». Altri candidati – da destra, centro e sinistra – sono in avvicinamento al Movimento Roosevelt: «Potremo essere una casa comune, dopo le elezioni, per ritrovare un orizzonte di senso in una politica italiana che è allo sbando».I candidati “roosveltiani”, dice Marco Moiso, «condividono i nostri valori di democrazia, libertà e giustizia sociale: che credono che sia la politica, e non gruppi di interesse privato, a doversi occupare del benessere della societá, su mandato dei cittadini». Tutto è dal dibattito di Londra, che ha suscitato molta curiosità: «E’ stata una soddisfazione ricevere cosi tanti messaggi di interessamento», racconta Moiso. «Molti elettori sono ormai aperti ad abbracciare l’approccio meta-partitico, volto a riunire persone di spiccata identità progressista e pronte ad abbracciare valori, principi e obiettivi a noi cari, nonostante evidenti differenze strategiche. Molte persone ci hanno addirittura ringraziato per le indicazioni di voto». Non c’è da stupirsi, aggiunge, se altri candidati «si sono arrabbiati dell’endorsement del Movimento Roosevelt: infatti ha un peso, visto che – seguendo un principio di massima equidistanza – siamo pronti a supportare tutti i candidati che si riconoscono in principi radicalmente progressisti e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. E i candidati cui abbiamo dato appoggio sono degni della massima stima: abbracciano idee, valori e principi progressisti. Per questo hanno deciso di aderire a un meta-partito che se ne fa portavoce, ben sapendo che nel Movimento Roosevelt ci sono iscritti provenienti da tutti i partiti e movimenti».Certo, a volte c’è diffidenza tra candidati concorrenti che provengono da percorsi politici diversi. «Eppure, in nome delle idee che li animano, hanno deciso di aderire al Movimento Roosevelt», che secondo Moiso svolge un doppio ruolo: intanto formula precise indicazioni di voto, e domani «consentirà ai futuri parlamentari “rooseveltiani” di trovare un luogo di confronto e dialogo, al di là degli schieramenti e della narrativa politica mediatica». E’ una sorta di diplomazia strategica, avverte Moiso: «Grandi gruppi di interesse privato hanno intenzione di tenere divise le forze progressiste attorno a simboli e definizioni irrilevanti». Europeisti e anti-europeisti? Parole vuote, ormai, che servono solo al “divide et impera”. Una scommessa: unire forze distanti tra loro, attorno a un comune obiettivo nazionale. «Continueremo a combattere per la democrazia», promette Moiso, «affinché la politica sia sovraordinata all’economia e se ne serva per creare una società democratica, libera e socialmente giusta». Le elezioni del 4 marzo? Completamente inutili, sostiene Magaldi: meglio quindi boicottare il voto. Salvo che, appunto, per i candidati “rooseveltiani”: disponibili a costruire un dialogo sincero sulla grande crisi italiana, al di là delle rispettive casacche.United Colors of Democray: non importa in che lista sei candidato, l’essenziale è che ti impegni per il ritorno alla sovranità popolare: «Democrazia compiutamente dispiegata e funzionante, nelle istituzioni pubbliche», per affrontare «le sfide macropolitiche e macroeconomiche in corso». Visione comune: stop alla “privatizzazione” della politica, ormai vassalla di poteri economici internazionali. La notizia? Lo statuto del Movimento Roosevelt è stato sottoscritto da tre candidati diversissimi tra loro: Simone Orlandini (Lega), Paolo Margari (5 Stelle) e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). Li ha convinti il seguitissimo dibattito organizzato a Londra da Marco Moiso, coordinatore generale del movimento meta-partitico fondato da Gioele Magaldi. «Abbiamo messo attorno a un tavolo le storie e le idee dei candidati di tutti i partiti, che saranno votati dagli italiani all’estero». La sorpresa: alcuni condividono la piattaforma politica del Movimento Roosevelt e si sono già iscritti, altri si stanno avvicinando. Charisce Magaldi: «Non ci schieriamo con nessun partito e raccomandiamo di votare scheda bianca, oppure di annullare la scheda o, ancora, di non recarsi alle urne. Ma per alcuni candidati – meritevoli – facciamo un’eccezione: li sosterremo, sperando di poterli vedere in Parlamento: sicuramente quei tre, della circoscrizione estero, ma anche altri, candidati in Italia».
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Lacrime e sangue: Silvio, Renzi e Di Maio sottomessi all’Ue
Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.Nel 1700 un conservatore inglese, Johnson, affermò che il patriottismo era l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi vale per l’europeismo. Non toccare la Fornero e il Jobs Act, avanti con i tagli alla spesa pubblica, mantenere gli impegni di applicazione del Fiscal Compact che Gentiloni e Padoan hanno sottoscritto a Bruxelles e che la Ue verrà a riscuotere il 5 marzo. Missioni di guerra europee come quella sporchissima in Niger. Il centrosinistra vuole semplicemente continuare a fare ciò che ha fatto e si è impegnato a fare. La bandiera degli Stati Uniti d’Europa, che hanno minori possibilità di realizzarsi di quelli mondiali, serve a raccogliere un poco di elettorato liberaldemocratico, quello che una volta si chiamava atlantico per la sua fedeltà ai soli “Stati uniti” esistenti, quelli d’America. Ma soprattutto serve ad accreditare il Pd come solo riferimento per i padroni della Ue, Macron, Merkel, Rajoy. Cui però oggi si rivolge anche Berlusconi. Il capo del centrodestra ha lasciato a Salvini il lavoro sporco sulla xenofobia e sul razzismo, peraltro oggi perfettamente compatibile con la Ue che fa accordi coi tagliagole libici, o con Erdogan, per fermare i migranti.Così, mentre il leghista urla “padroni in casa nostra”, Berlusconi va dai padroni veri a concordare il programma. Ha bisogno di ottenere il via libera Ue alla colossale riduzione delle tasse per i ricchi e al piccolo aumento delle pensioni più basse, nonché ad una abolizione della Fornero più simbolica che effettiva. I vertici europei non sono affezionati a questa o a quella misura, dall’epoca di Monti e dei massacri greci hanno appreso che si possono avere migliori risultati, se si allunga il guinzaglio con cui si tengono legati i governi degli Stati sotto controllo. Berlusconi questo lo sa benissimo, quindi ha fatto alla Ue una proposta che non può rifiutare. L’obbedienza assoluta al Fiscal Compact e un gigantesco piano di privatizzazioni a garanzia di essa. Quindi per banche e multinazionali tedesche e francesi, e naturalmente per tutte le altre, si preparano nuove occasioni di ottimi affari. Perché la commissione Ue dovrebbe fare obiezioni a chi realizza la parte fondamentale del suo programma liberista, mettendo all’asta il proprio paese così come ha fatto per la sua squadra di calcio?Berlusconi ha promesso alla Ue che il suo governo rispetterà rigidamente il vincolo del deficit di bilancio al di sotto del 3%. Il Movimento 5 Stelle invece propone di superarlo per far crescere l’economia. Sembrerebbe che con questa e altre misure la forza politica guidata da Di Maio abbia davvero deciso di rompere con l’austerità europea. Ma non è così. Si chiama “clausola di dissolvenza” la parte di un trattato o accordo che può mettere in discussione tutto il resto. Il programma in 20 punti varato dai Cinque Stelle ha la propria “dissolvenza” al punto 16. Lì si propone di ridurre il debito pubblico di ben 40 punti in dieci anni. È la pura applicazione del peggior vincolo del Fiscal Compact, che non impone solo il pareggio di bilancio, ma la riduzione dell’ammontare del debito fino al 60 % del Pil. Con un rapporto attualmente al 130% nessuno nella Ue pensa che l’Italia possa, e neppure debba, raggiungere quell’obiettivo. Ma la riduzione del rapporto debito-Pil al 90% farebbe felice anche Schaeuble. E questo è quanto propongono Di Maio e i suoi, cioè un taglio di spesa pubblica di 40 e più miliardi all’anno, aggiuntivo a tutti gli altri.O pensano alla più ingegnosa finanza creativa del nuovo millennio, o credono ad un tasso di sviluppo del 5% all’anno, oppure i Cinque Stelle hanno programmato dieci anni di lacrime e sangue… E tutte le altre loro proposte sono aria fritta, perché solo il punto 16 conta davvero e li accredita preso la Ue. Diversi sono gli strumenti, Jobs Act e Fornero, privatizzazioni, tagli draconiani alla spesa pubblica, ma tutti i principali schieramenti elettorali hanno in comune la volontà di essere accettati dalla Ue come fedeli esecutori del suo comando e dei suoi vincoli, primo fra tutti il Fiscal Compact. Il liberismo europeo in Italia può giocare su tre tavoli, sicuro di vincere in ogni caso. “Liberi e Uguali” a sua volta non rappresenta certo un’alternativa ai tre schieramenti liberisti che si contendono il governo, non solo perché su questi temi non sono pervenuti, ma perché come massima ambizione i suoi leader si propongono di rifare il centrosinistra col Pd. La bufala degli Stati Uniti d’Europa vale anche per loro. Solo “Potere al Popolo” propone la rottura con trattati e vincoli Ue come condizione per realizzare davvero un’altra politica economica e sociale. Per questo oggi è la sola forza di alternativa, destinata a crescere nonostante tutto le si opponga.(Giorgio Cremaschi, “Tre diversi liberismi a gara per obbedire alla Ue”, da “Micromega” del 23 gennaio 2018).Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.
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Giannuli: elezioni-spazzatura. Dai partiti, una gara di rutti
La peggior campagna elettorale di sempre: la più indecente. Lo sostiene Aldo Giannuli, politologo dell’ateneo milanese. «Avevo 16 anni quando seguii consapevolmente la campagna elettorale delle politiche, era il 1968. Dunque, quest’anno ”festeggio” (si fa per dire) il cinquantesimo della mia partecipazione politica. Da allora ho visto 13 campagne elettorali politiche, 8 europee e 10 regionali. Ebbene, debbo dire che una campagna elettorale così ripugnante, sciatta, volgare, sguaiata, offensiva come questa non l’avevo ancora vista. E non abbiamo visto tutto, siamo all’inizio». Una camapgna elettorale «offensiva, soprattutto dell’intelligenza degli elettori», costretti a votare con una legge-truffa, ad ascoltare promesse grottesche, a scegliere tra candidati più che mediocri e, in ogni caso, di strettissima obbedienza: tutti devoti al capo del partito che li schiera, si chiami Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il Rosatellum? «Incostituzionale, pieno di trucchi demenziali: riesce nel mirabile intento di sacrificare la rappresentatività del Parlamento senza assicurare una maggioranza, salvo che una qualche trappola del sistema (una valanga monocolore nei collegi uninominali, una quota importante di voti dispersi sotto la quota di esclusione) non crei una maggioranza del tutto fittizia. L’unica cosa divertente è che punirà i suoi ideatori».Per non parlare dei programmi: tutti i partiti esibiscono solo il “libro dei sogni”. «Abbassare le tasse, ridurre il debito, aumentare la spesa – cioè no, ridurla ma concedendo il reddito di cittadinanza». E poi: «Investimenti per l’occupazione, le dentiere ai vecchi, il bonus alle famiglie e i lecca-lecca agli infanti. E nessuno che si sia degnato di dire dove troverebbe le risorse per tutto questo». I conti? «Numeri in libertà, a casaccio». La gara, nel settore, «l’ha vinta il M5S, che promette tutto ed il contrario di tutto». Ma anche Pd e Forza Italia hanno il loro bel piazzamento. “Liberi e Uguali”, tra mille inconsistenti vaghezze, ha «una sola proposta precisa», cioè abolire le tasse universitarie per tutti: «La traduzione in chiave universitaria della “flat tax” trumpiana». S’indigna, Giannuli: «Ma chi credete di prendere in giro? Pensate che gli elettori abbiano tutti l’anello al naso?». E le liste? «Semplicemente un orrore. La Lega candida solo gli amici di Salvini, il Pd solo quelli di Renzi, il M5S esclude almeno 1/10 dei candidati alla selezione e non comunica le motivazioni, perché deve prevenire infiltrazioni, cambia-casacca, pregiudicati, scalatori e riciclati. Poi si scopre che fra i candidati c’è una valanga di riciclati dell’ultima ora, compreso qualcuno che non si ricordava di essere ancora consigliere comunale di un altro partito, c’è anche un amico di mafiosi, qualche altro ha precedenti penali… meno male che hanno fatto una attenta selezione, perché altrimenti chissà cosa ci presentavano!».E anche dal punto di vista politico, tra i 5 Stelle, spiccano gli economisti di scuola neoliberista come Fioramonti, nonché «i giornalisti Fininvest amici di Gianni Letta». A Firenze, «contro Renzi c’è un renziano che solo 14 mesi fa ha fatto campagna elettorale per il sì al referendum (e questa non ve la perdoneremo mai)». Mancano solo «un po’ di spie, un lenone e qualche alcolizzato cronico (o ci sono e non ce lo avete detto?)». Poi “Liberi e Uguali”: «Ha delle liste che sembrano il festival della ribollita, i poveri militanti di base sono stati semplicemente ignorati». Forza Italia? «Non è cambiata: come sempre mette in lista nani, ballerine e camerieri vari». E bravi, tutti. «Ma insomma, non vi vergognate? Non esiste più la Lega ma il Pds (Partito di Salvini), non il Partito Democratico ma il Pdr (partito di Renzi), non Forza italia ma – come sempre – il Pdb (partito di Berlusconi). E, mi costa dirlo, al posto del M5S c’è il Pdd (partito di Di Maio) che ancora è quel che si oppone all’inciucio renzusconiano, ma di questo passo…».Infine il metodo d’azione, lo stile: «La Lega arriva all’orrore di cavalcare i tentati omicidi fascisti per raccogliere voti anche in quella sentina». Il Pd ha un unico chiodo fisso: il Movimento 5 Stelle, «che attacca con argomenti elegantissimi come l’attacco personale a Di Maio perché incespica sui congiuntivi (come se i suoi fossero tutti accademici della Crusca: mai sentito parlare la ministra della pubblica istruzione Fedeli?)». Dal canto suo, il M5S invita i suoi seguaci a raccogliere prove e foto sulle nefandezze dei rivali, trasformando le elezioni nello “sputtanamento show”. «Anche a me non piacciono i pregiudicati in lista, anche se una condanna in primo grado non significa che uno lo sia, ma insomma, nelle campagne elettorali si parla di politica: magari fai notare le troppe presenze di candidati con guai giudiziari, ma poi vai avanti e confrontati sulle proposte politiche». Qui invece «l’unico confronto è quello degli insulti», dice Giannuli, «e vale per tutti». Un consiglio? «Fate una cosa sfidatevi, a gara di rutti e vediamo chi vince». D’altra parte, chiosa il politologo, «dopo 26 anni di deserto della politica, massimo frutto di Mani Pulite e del populismo occhettiano di Occhetto, Segni e Pannella, cosa possiamo pretendere? Ci si era parlato di partiti-farfalla, constatiamo che il risultato sono i partiti-monnezza».La peggior campagna elettorale di sempre: la più indecente. Lo sostiene Aldo Giannuli, politologo dell’ateneo milanese. «Avevo 16 anni quando seguii consapevolmente la campagna elettorale delle politiche, era il 1968. Dunque, quest’anno ”festeggio” (si fa per dire) il cinquantesimo della mia partecipazione politica. Da allora ho visto 13 campagne elettorali politiche, 8 europee e 10 regionali. Ebbene, debbo dire che una campagna elettorale così ripugnante, sciatta, volgare, sguaiata, offensiva come questa non l’avevo ancora vista. E non abbiamo visto tutto, siamo all’inizio». Una camapgna elettorale «offensiva, soprattutto dell’intelligenza degli elettori», costretti a votare con una legge-truffa, ad ascoltare promesse grottesche, a scegliere tra candidati più che mediocri e, in ogni caso, di strettissima obbedienza: tutti devoti al capo del partito che li schiera, si chiami Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il Rosatellum? «Incostituzionale, pieno di trucchi demenziali: riesce nel mirabile intento di sacrificare la rappresentatività del Parlamento senza assicurare una maggioranza, salvo che una qualche trappola del sistema (una valanga monocolore nei collegi uninominali, una quota importante di voti dispersi sotto la quota di esclusione) non crei una maggioranza del tutto fittizia. L’unica cosa divertente è che punirà i suoi ideatori».
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Voto inutile, chiunque vinca: l’Italia non deve svegliarsi
La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni restano un fenomeno soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano informato e consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia destinata a non essere raccolta da nessuno, né aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo andare al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, imposto dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 milardi di euro in soli tre anni.Stessa musica a casa Pd, dove restano tabù i dogmi di Maastricht che sono all’origine della tragedia, la decadenza strutturale del made in Italy. Idem i 5 Stelle, che non sono corresponsabili della catastrofe ma si stanno attrezzando: propongono un taglio fantascientifico, l’amputazione del 40% del debito pubblico, cioè della spesa strategica per l’economia. Quali sono i paesi, storicamente, con il maggior debito statale? Stati Uniti e Giappone. Il problema è dunque il debito o la moneta in cui è denominato? La moneta, ovvio. Quindi i 5 Stelle cosa contestano, il debito o la moneta? Il debito, purtroppo: nulla deve cambiare. Deve restare in piedi il paradigma, falso, che vuole lo Stato in ginocchio, costretto a privatizzare per fare cassa, taglieggiando i contribuenti. Risparmi erosi, aziende senza crediti, dipendenti senza lavoro, studenti senza futuro, coppie senza figli. Ce lo chiede l’Europa: e noi all’Europa, ancora una volta, rispondiamo che va bene così. Siamo contenti di sprofondare. Felici, ancora una volta, di non poter scegliere – alle urne – nessuna opzione alternativa alla rassegnazione sistemica, alla resa di fronte a uno schema che punisce l’Italia come nazione, come società, come sistema produttivo, come partner europeo colpevole di esistere.L’Italia ha tante colpe, in effetti: è un paese ammirato, invidiato e detestato perché potenzialmente ricchissimo, creativo, ingegnoso, padrone di un giacimento culturale senza pari al mondo, proteso nel cuore strategico del Mediterraneo. Guai se dovesse svegliarsi, il paese che seppe risorgere dalle macerie della guerra per diventare la quarta potenza industriale del pianeta, nonostante i suoi tumori endemici (mafia, corruzione, evasione fiscale). Guai, se l’Italia risvegliata mandasse a stendere Bruxelles e il suo 3%, Francoforte e la sua moneta privata, Berlino e la sua cancelliera privatizzata. Per questo sono sempre così delicate, per l’oligarchia dominante, le elezioni italiane: è fondamentale che l’Italia resti in letargo, in coma farmacologico. Faccia come crede, purché voti Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il risultato, per Bruxelles, è già in cassaforte: chiunque prevalga, di quei tre, non impensierirà nessuno dei nemici dell’Italia. Il voto-contro, per chi alle fiabe non crede più? Niente paura: sarà disperso in mille rivoli, nessuno dei quali (dicono i sondaggi) raggiungerà neppure l’anticamera del Parlamento. In più, nessuno dei maggiori candidati avrà i numeri per governare. Due sole ipotesi: larghe intese o nuove elezioni. Nulla che, in ogni caso, riguardi gli italiani stanchi di dormire, e di vedere il loro paese trattato come un malato terminale ingombrante, in parte ancora ricco. Un malato da spolpare fino all’ultimo, da tenere in vita solo per evitare l’imbarazzo del funerale.La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni sembrano un fenomeno innocuo e soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia fatalmente pletorica, destinata a non essere raccolta da nessuno, né in aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo trascinarsi fino al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, cioè la camicia di forza imposta dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 miliardi di euro in soli tre anni.
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Cremaschi: neofascismo figlio del liberismo, molti i complici
«Il killer nazifascista di Macerata ha ottenuto un successo travolgente», sostiene Giorgio Cremaschi: «Il dibattito ufficiale minimizza la gravità del suo crimine, ignora le sue vittime e si concentra tutto sul “disagio sociale” provocato dai migranti». Il ministro Minniti e tutti gli esponenti del governo «non hanno mai usato la parola razzismo, né tantomeno la parola fascismo, per la tentata strage di Macerata, e lo stesso hanno fatto i mass media». Terrorismo fascista e razzista in Italia? «Quando mai. Il problema sono i migranti, dicono tutti, rinfacciandosi l’un l’altro di non saperlo affrontare. Traini ha già vinto», scrive Cremaschi su “Micromega”. Salvini e CasaPound affermano che in Italia non c’è nessun rischio fascista e che chi usa questa parola lo fa solo per ragioni strumentali? «Non è una novità, dal 1945 i fascisti si sono sempre mascherati in vario modo, spesso reagendo sdegnosamente a chi ricordava loro chi realmente fossero. Negli anni ‘70 mettevano le bombe e mai le rivendicavano. Ci pensava lo Stato a coprirli e ad indirizzare altrove l’opinione pubblica. L’uccisione nella questura di Milano dell’anarchico Pinelli, assieme a Valpreda accusato innocente della bomba fascista di Piazza Fontana, aprì la via ad una lunga trama di stragi, insabbiamenti e depistaggi di Stato».Secondo Cremaschi, candidato a Napoli per “Potere al popolo”, in Italia l’establihment «ha sempre fatto leva sui fascisti». Ovvero: «Li ha fatti crescere e usati quando voleva diventare più autoritario, li ha colpiti quando voleva mostrarsi più democratico». E i mass media, che indirizzano l’opinione pubblica verso i migranti quando invece «viene sfasciato lo Stato sociale e dilagano disoccupazione e povertà»? Raccontano che ci sono italiani che non trovano lavoro perché glielo hanno “rubato” i migranti, «mentre tanti sono in mezzo a una strada perché le multinazionali chiudono e migrano indisturbate a saccheggiare altrove». La demografia è impietosa: «La popolazione residente sta calando, perché sono più gli italiani che emigrano perché non trovano un lavoro decente, rispetto a coloro che vengono qui e che diventano schiavi sfruttati, da italiani naturalmente». Si dovrebbero combattere la disoccupazione, il degrado e lo sfruttamento del lavoro, «ma i razzisti parlano di sostituzione etnica, addossando agli schiavi la colpa della schiavitù». Il recente neofascismo strisciante? Frutto del «liberismo capitalista». E non è una novità: «Dopo la crisi del 1929 i governi democratici tedeschi adottarono la politica dell’austerità e del rigore di bilancio e un insignificante gruppuscolo fascista sbeffeggiato da tutti conquistò il potere».Dopo la guerra, continua Cremaschi, il welfare fu edificato come compromesso tra le classi e come garanzia di democrazia. La nostra Costituzione? «E’ antifascista perché promuove lo Stato sociale contro la ferocia del mercato, ed è per i diritti sociali e del lavoro perché è antifascista». E’ ancora così, nei fatti? Non più: «Decenni di politiche di smantellamento di quei diritti, nel nome dell’Europa e della globalizzazione, hanno divelto le basi materiali dell’antifascismo e fatto risorgere i mostri». È per questo, scrive Cremaschi, che il mondo Pd non usa la parola “fascismo”, ma si limita – in modo generico e ipocrita – a condannare “l’odio”. «Meglio condannare moralisticamente un sentimento, che dover riconoscere i frutti marci della propria politica». E il Movimento 5 Stelle, «che pure non è responsabile delle politiche economiche di questi anni», ora adotta lo stesso linguaggio del Pd, «evidentemente pensando che nessun partito che voglia governare, possa usare parole sconvenienti come fascismo e razzismo».Certo, ammette Cremaschi, i gruppuscoli fascisti non prenderanno mai il potere. «Quando ci provarono nel 1970 con Junio Valerio Borghese, i loro protettori della Nato li convinsero a fermarsi e ad uscire dai ministeri dove erano entrati». Secondo l’ex sindacalista Fiom, «i fascisti oggi non devono prendere il potere, ma aiutare il potere a fascistizzarsi: cosa che sta facendo benissimo, basti pensare alle leggi di polizia di Minniti». Per continuare con le politiche liberiste di devastazione sociale, il potere (italiano e Ue) deve «imporre un sistema sempre più autoritario e intollerante». Cioè: «Se gli sfrattati si organizzano, lottano, magari contrastano la polizia che li vuole sbattere fuori di casa, allora questa è inaccettabile violenza degli antagonisti e dei centri sociali. Invece se un fascista spara nel mucchio ai neri, questo è disagio sociale». Oppure: «Se i poveri si ribellano vengono repressi, perché per il palazzo i poveri devono solo odiarsi tra loro». D’altra parte, il 10% diviene sempre più ricco impoverendo il restante 90%: «Come farebbe a comandare e a distogliere da sé l’indignazione popolare, se non volgendola verso i migranti oggi, domani verso chissà chi? A questo servono i fascisti». Non facciamoci illusioni, il guasto ormai è profondo: «Anni di politiche liberiste e di diseguaglianza sociale, la resa della sinistra di governo al mercato, hanno diffuso una mentalità reazionaria di massa».«Il killer nazifascista di Macerata ha ottenuto un successo travolgente», sostiene Giorgio Cremaschi: «Il dibattito ufficiale minimizza la gravità del suo crimine, ignora le sue vittime e si concentra tutto sul “disagio sociale” provocato dai migranti». Il ministro Minniti e tutti gli esponenti del governo «non hanno mai usato la parola razzismo, né tantomeno la parola fascismo, per la tentata strage di Macerata, e lo stesso hanno fatto i mass media». Terrorismo fascista e razzista in Italia? «Quando mai. Il problema sono i migranti, dicono tutti, rinfacciandosi l’un l’altro di non saperlo affrontare. Traini ha già vinto», scrive Cremaschi su “Micromega”. Salvini e CasaPound affermano che in Italia non c’è nessun rischio fascista e che chi usa questa parola lo fa solo per ragioni strumentali? «Non è una novità, dal 1945 i fascisti si sono sempre mascherati in vario modo, spesso reagendo sdegnosamente a chi ricordava loro chi realmente fossero. Negli anni ‘70 mettevano le bombe e mai le rivendicavano. Ci pensava lo Stato a coprirli e ad indirizzare altrove l’opinione pubblica. L’uccisione nella questura di Milano dell’anarchico Pinelli, assieme a Valpreda accusato innocente della bomba fascista di Piazza Fontana, aprì la via ad una lunga trama di stragi, insabbiamenti e depistaggi di Stato».