Archivio del Tag ‘Lega Nord’
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L’Europa dei nuovi fascismi, il piano dell’élite tecnocratica
«I nazisti tecnocratici ora al potere in Europa hanno dato ufficialmente il via al “piano B”». Ovvero: nuovi fascismi, innescati dall’esasperazione contro l’euro-regime, in apparenza “fallimentare” sul piano economico, ma in realtà perfettamente funzionale al disegno: una inaudita restaurazione del potere reazionario, aristocratico, verticistico, neo-feudale. Secondo Francesco Maria Toscano, co-fondatore con Gioele Magaldi del “Movimento Roosevelt”, la drammatica oppressione del popolo greco usato come cavia e l’inflessibile persistenza delle politiche di rigore mirano a distruggere l’unità sociale europea, facendo esplodere nazionalismi aggressivi e pericolosi. Sul “banco degli imputati” siedono Draghi, Schaeuble, la Merkel. «Qual è l’obiettivo teleologico perseguito in maniera dissimulata e scientifica dai masnadieri testé citati? E’ quello di aumentare a dismisura le diseguaglianze, distruggere il ceto medio e imporre in Europa un modello di tipo cinese in grado di conciliare economia di mercato e autoritarismo politico».Toscano li definisce “contro-iniziati”, alludendo all’interpretazione distorta della loro militanza massonica, denunciata da Magaldi nel libro “Massoni”, edito da “Chiarelettere”: anche la Merkel farebbe parte del circuito esclusivo delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali segrete, mentre il suo ministro delle finanze e lo stesso presidente della Bce ne sarebbero “venerabili maestri”. Quale artifizio retorico, si domanda Toscano, hanno finora utilizzato «per incoraggiare lo svuotamento della democrazia sostanziale e diffondere miseria e disperazione?». Ovvio: «Quello concernente la presunta intangibilità dell’unione monetaria, naturalmente prodromica e necessitata in previsione della futuribile costruzione degli Stati Uniti d’Europa». Abbracciando una simile premessa, conclude Toscano, «dobbiamo riconoscere come il primo obiettivo inseguito dai padroni risulti essere fondamentalmente quello di riuscire ad alimentare l’equivoco il più a lungo possibile, brandendo cioè un europeismo di maniera per realizzare in realtà una occulta torsione di tipo oligarchico in grado di riportare i cittadini nella meschina condizione di meri sudditi».Come nel poker, «il bluff funziona solo fino a quando nessuno dei giocatori trovi il coraggio di rischiare la posta pur di guardare le carte», scrive Toscano sul blog “Il Moralista”. A quel punto, la recita non serve più: vince chi ha in mano il punto migliore. Vale anche per la pubblica contesa tra la Grecia di Tsipras e l’Eurogruppo a trazione tedesca: «Da un lato abbiamo un premier democraticamente eletto, dichiaratamente europeista e nemico delle politiche dell’austerity; dall’altro scorgiamo un gruppo di burocrati, selezionati all’interno delle Ur-Lodges più reazionarie del pianeta, che tirano la corda di continuo nella speranza che si spezzi». Contestualmente, «Mario Draghi, ovvero il capo dei nuovi barbari in versione tecnocratica, punta una pistola alla tempia del popolo greco al fine di sfiancarlo sotto la continua minaccia dell’interruzione della liquidità». Domanda: «Secondo voi, chi desidera per davvero l’estromissione della Grecia dal consesso europeo? L’accoppiata Tsipras-Varoufakis o quella composta da Draghi-Schaeuble?». Evidente: mister Bce e il super-falco della Merkel.«E perché mai due finti campioni dell’europeismo pret à porter come Schaeuble e Draghi dovrebbero desiderare così ardentemente la rottura del “sogno europeo”? Forse perché a lor signori del “sogno europeo” non gliene è mai importato un fico secco?». Secondo Toscano, «l’élite europea si trova oggi di fronte a un bivio: o proseguire sul percorso di integrazione politica rivedendo radicalmente le politiche economiche, o gettare nel cestino paesi ormai spremuti come un limone e perciò inservibili». Attenzione: «I nazisti tecnocratici, come era ovvio e scontato, hanno scelto di percorrere la seconda strada». Sul tappeto resta però un problema: come faranno i vari Merkel e Draghi a invitare i greci ad andarsene dopo aver predicato per anni il mito della indissolubilità dell’Eurozona? «Così facendo, i nostri europeisti d’accatto finirebbero per perdere definitivamente la faccia». E allora, «pur di salvare capra e cavoli, al “maestro venerabile” Mario Draghi non resta che alzare il livello dello scontro sperando in un passo falso dell’avversario». Ovvero: se il governo greco decidesse di uscire unilateralmente dall’euro, leverebbe tutti d’ impaccio.Toscano richiama l’attenzione sull’atteggiamento dei media mainstream. Per esempio, l’ultima iintervista di Danilo Taino a Varoufakis sul “Corriere della Sera”. Toscano definisce Taino «menestrello di regime degno dei vari Eugenio Scalfari, Tonia Mastrobuoni, Stefano Feltri e Federico Fubini». L’intervista? «Manipolata al fine di attribuire falsamente a Varoufakis l’idea di indire un referendum sulla permanenza o meno della Grecia nell’euro». Curiosamente, “Der Spiegel” ha appena invitato anche l’Italia ad uscire dall’euro. «Le stesse ragioni – aggiunge Toscano – consigliano ai nostri giornalisti di punta di garantire a Matteo Salvini una continua sovraesposizione mediatica». Il co-fondatore del “Movimento Roosevelt” propone la seguente spiegazione: «I massoni reazionari al potere hanno deciso: sulle ceneri dell’Europa proveranno ad implementare nuovi fascismi. Uomini senza memoria sono pronti a ripercorrere temerariamente una strada già battuta nella prima metà del Novecento, quando un manipolo di apprendisti stregoni progettò in vitro la nascita del fascismo e del nazismo. Tranquilli, finirà esattamente come l’altra volta».«I nazisti tecnocratici ora al potere in Europa hanno dato ufficialmente il via al “piano B”». Ovvero: nuovi fascismi, innescati dall’esasperazione contro l’euro-regime, in apparenza “fallimentare” sul piano economico, ma in realtà perfettamente funzionale al disegno: una inaudita restaurazione del potere reazionario, aristocratico, verticistico, neo-feudale. Secondo Francesco Maria Toscano, co-fondatore con Gioele Magaldi del “Movimento Roosevelt”, la drammatica oppressione del popolo greco usato come cavia e l’inflessibile persistenza delle politiche di rigore mirano a distruggere l’unità sociale europea, facendo esplodere nazionalismi aggressivi e pericolosi. Sul “banco degli imputati” siedono Draghi, Schaeuble, la Merkel. «Qual è l’obiettivo teleologico perseguito in maniera dissimulata e scientifica dai masnadieri testé citati? E’ quello di aumentare a dismisura le diseguaglianze, distruggere il ceto medio e imporre in Europa un modello di tipo cinese in grado di conciliare economia di mercato e autoritarismo politico».
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Lavoratori spacciati, grazie alla Cgil che si è arresa a Renzi
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».
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Morte ai palestinesi, questa Italia fa rimpiangere Craxi
Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – i berlusconiani, Renzi, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».Anche per fare questo, però, «serve un briciolo di dignità e di spessore», scrive Marchi su “L’Interferenza”. Qualità elementari, che purtroppo «questo ceto politico non possiede». Perlomeno, la classe politica della Prima Repubblica «cercava di assolvere alla funzione che all’interno dell’alleanza politico-militare occidentale le era stata affidata, con un relativo margine di autonomia politica, di equilibrio e di capacità di mediazione reale in quella che era la sua area geopolitica di pertinenza, cioè il bacino del Mediterraneo». Partiti come Dc, Psi e Pci credevano nel ruolo politico dell’Italia nell’area mediterranea e mediorientale. Di sicuro si sarebbero comportati «con maggiore dignità e senso dello Stato». Marchi ricorda il celebre discorso alla Camera del 6 novembre del 1985 con cui l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, difese il legittimo diritto dei palestinesi alla lotta armata per liberare la propria terra dalla potenza occupante, «azzardando addirittura un paragone storico fa il movimento di liberazione nazionale palestinese e quello risorgimentale e mazziniano». Per non parlare del famoso episodio di Sigonella dell’ottobre dello stesso anno, dove lo stesso Craxi impedì ai marines Usa di catturare un commando palestinese del Fplp che aveva sequestrato una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro.Il commando palestinese aveva ucciso un passeggero americano di religione ebraica, Leon Klinghoffer, costretto sulla sedia a rotelle. Tra parentesi, la vittima «non era un anziano qualsiasi», spiega oggi uno studioso come Gianfranco Carpeoro: Klinghoffer era il capo del “B’Nai Brit”, la superloggia massonica segreta ebraica, che corrisponde alla sezione più impenetrabile del Mossad, l’intelligence israeliana. «L’aereo su cui viaggiavano i membri del commando palestinese – ricorda Marchi – fu fatto circondare dai carabinieri», che impedirono armi in pugno ai marines americani di catturare i palestinesi, per poi far ripartire l’aereo verso il porto sicuro della Jugoslavia comunista di Tito. «Un episodio che provocò un momento di grave tensione nei rapporti fra il governo italiano e quello americano», e che oggi appare lunare, incredibile. La crisi di Sigonella «rilanciava il ruolo dell’Italia nello scacchiere mediorientale come paese non ostile ai popoli arabi, in continuità con una politica di cooperazione e collaborazione con i paesi maghrebini e mediterranei già iniziata a suo tempo dal presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che per questo fu assassinato dalle multinazionali del petrolio Usa».C’è chi sostiene che Usa e Israele non avessero dimenticato quell’affronto, aggiunge Marchi. Si ritiene infatti che la successiva caduta in disgrazia di Craxi avesse in qualche modo a che vedere con la sua politica di apertura nei confronti dell’Olp e in generale dei governi nazionalisti laici arabi, ben oltre le vicende di Tangentopoli. «Questo ovviamente non fa di Craxi, così come di Andreotti e in generale di quel ceto politico da loro rappresentato, degli eroi della lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo, però ci offre una testimonianza reale di quale sia il livello dell’attuale classe politica». Un panorama desolante, che comprende a pieno titolo anche la Lega Nord di Salvini, che «ha votato contro lo Stato di Palestina con una dichiarazione esplicitamente filoisraeliana». La Lega si rivela così «una forza di finta opposizione al “sistema”, schierata in realtà su posizioni filo-atlantiste». Le simpatie per Putin e la Corea del Nord? «Nero seppia da buttare in faccia alla parte culturalmente più debole del suo elettorato». Morte ai palestinesi, dunque, ora e sempre, anche da parte del Salvini che spande odio verso i migranti più disperati. «E’ bene non farsi ingannare da questa gente, molto abile in queste operazioni di maquillage dalle quali purtroppo molte persone in buona fede tendono a farsi condizionare – conclude Marchi – soprattutto in assenza di un’alternativa politica solida».Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – berlusconiani e renziani, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».
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La vera storia della fine di Craxi e l’euro-rovina dell’Italia
L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.Tutto questo costo dove viene trasferito? Nel finanziamento illecito. Che invece di essere un fenomeno sopportabile perché residuale al grosso del finanziamento della politica, diventa un dramma, perché tutto costa il triplo. E come reagisce il sistema italiano a tutto questo? Non reagendo. Cioè, invece di capire che deve correre ai ripari, si fa cogliere di sorpresa. Da che cosa? Da una casta, che era stata toccata nei suoi interessi, e reagiva: era la casta dei magistrati. Dopo il caso Tortora, e dopo aver cercato più volte di prendere il sopravvento sulla politica – ma non ci riusciva, perché allora c’erano delle garanzie come l’immuità parlamentare, dei limiti al suo potere – i magistrati sferrano l’attacco di Tangentopoli avendo diversi obiettivi. Il primo, la reazione di casta al referendum che Craxi gli aveva fatto, sulla responsabilità dei magistrati – referendum vinto ma non eseguito, perché in quel rederendum si aboliva il fatto che i magistrati non rispondessero nei loro errori. E i magistrati allora hanno preteso, tramite i due maggiori partiti e mettendo in minoranza Craxi, che invece, pur riconosciuti responsabili dei loro errori, non li pagassero – né sul piano della carriera, né sul piano economico.L’attacco sferrato con Tangentopoli aveva un primo obiettivo: far cadere l’immunità parlamentare, che aveva sempre frenato l’attacco della magistratura. Bisognava poterli arrestare, i politici. Bisognava poter adoperare la carcerazione preventiva, in quella maniera, per poi stabilire il predominio, l’abuso. La carcerazione preventiva (obbligatoria per reati come omicidio e rapina) è prevista se c’è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Viceversa, la carcerazione preventiva non si può applicare, perché “nulla pena sine condanna”, niente pena senza prima una condanna, non del pubblico ministero ma del giudice. Pensate che nel 1994 la Cassazione, per salvare tre mandati di cattura assolutamente illegittimi di Di Pietro, fece una sentenza di questo tipo, a sezioni unite: la custodia cautelare è sempre giustificata se l’imputato non confessa. E’ come il famoso comma 22 del codice militare tedesco nazista, che diceva: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dal servizio militare, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo. E’ la legge perfetta, perché il cerchio si deve chiudere.La custodia cautelare sempre giustificata se l’imputato non confessa? Di fronte a una sentenza di questo tipo, uno si deve chiedere qual è l’utilità del processo. In Italia, la custodia cautelare viene adoperata per scopi istruttori o per anticipare la pena. Ormai, il reato del politico che ruba è diventato odioso, agli italiani. Tant’è vero che gli italiani, da decenni, accettano dei politici incapaci, purché non rubino. Pensate a quanto stareste meglio se aveste dei politici capaci, che rubano. Il problema di uno che fa un lavoro è che sia bravo, non che sia onesto. Onesto è una conseguenza dell’essere bravo. Scipione l’Africano fu condannato per corruzione. In ogni posto del mondo vedo politici che vanno sotto processo: è giusto che vengano condannati, è giusto che vadano in galera. Quello che non è giusto è che vengano utilizzati dalla comunicazione per far passare sotto silenzio delle altre cose. Il problema di uno Stato che non funziona non è la corruzione. Non è il politico disonesto: è l’incapacità. Perché una persona anche onesta, ma incapace, lo Stato lo fa andare a rotoli lo stesso. Oggi pretendono che non ci siano pregiudicati. Io la metterei in altri termini: non devono esserci persone condannate che non hanno scontato la pena.In uno Stato laico, una volta che hai scontato la pena, tu il debito con la società l’hai pagato. Devi scindere il piano etico, pure importante, dal piano pratico: la giustizia deve funzionare. E la giustizia non va avanti sulla verità, va avanti su un fatto convenzionale che si chiama verità processuale, che non è necessariamente la verità. Ma l’azione di Mani Pulite aveva un bersaglio principale, che era Craxi, perché Craxi aveva detto di voler fare parecchie cose. Per esempio, nazionalizzare la Banca d’Italia. E di chi è la Banca d’Italia? E’ delle banche. E le banche di chi sono? Finanza massonica e finanza cattolica. Ma c’è un altro problema: la Banca d’Italia, all’epoca, era il controllore delle porcate che facevano questi, che erano controllati e controllori: erano i proprietari della Banca d’Italia, che avrebbe dovuto controllarli. Quindi, Craxi si mette contro un bel po’ di nemici. Si mette contro il potere bancario, forse il potere tout-court. Si mette contro i preti, perché vuole riformare pure i Patti Lateranensi – sapete come sono i preti: finché uno gli bestemmia davanti, gli danno 25.000 pater noster, ma gli vuoi far pagare le tasse s’incazzano.Dopodiché si scopre, tramite il caso Gelli, che Craxi finanziava Arafat. Perché i famosi 2 miliardi che Craxi dice a Martelli di prendere da Gelli e di versare sul “Conto Protezione”, cosa che non vi dicono, un minuto dopo sono stati presi da Craxi per darli ad Arafat, cioè ai palestinesi. E’ sottile il confine tra terrorismo e insurrezione: Pietro Micca che fa saltare mezza Torino mettendo le bombe nei sotterranei per noi è un patriota, mentre un terrorista palestinese è un terrorista. Pietro Micca lottava per la sua terra, perché l’Italia fosse unita; i palestinesi perché esista una Palestina: uno ha messo le bombe ed è un eroe, quegli altri mettono le bombe e per noi sono dei mascalzoni. Ricordiamoci dell’Achille Lauro, e qui c’è un’altra cosa che non vi dicono: l’operazione Achille Lauro era mirata a colpire il Mossad decapitando il “B’nai Brit”, la massoneria ebraica, che ha le caratteristiche di tutte le massonerie: come la massoneria americana funziona in stretta alleanza con la Cia, il “B’nai Brit” è la parte segreta dei servizi israeliani, cioè del Mossad. Il capo dei “B’nai Brit” – e questo è quello che non vi dicono – era quel signore sulla sedia a rotelle che i palestinesi buttarono giù dalla nave. Si chiamava Leon Klinghoffer. I giornali scrissero che la vittima era un povero paralitico, ma non dissero chi era veramente.Tornando a Craxi: fin qui si è inimicato le banche, i cattolici, gli ebrei; poi dà parere negativo al riconoscimento dei comunisti nell’Internazionale Socialista; poi Reagan gliela giura, perché a Sigonella ha mandato i carabinieri a puntare le armi sui marines (per proteggere il commando palestinese dell’Achille Lauro), quindi ha contro anche gli americani, e parte della massoneria: perché Spadolini, che era uno dei capi della massoneria italiana, era dell’opinione che bisognasse aiutare Reagan, e quando chiese alla massoneria ufficiale di prendere posizione, e la massoneria non lo fece, Spadolini si mise “in sonno”, e trasformò Craxi in un problema anche per la massoneria. A quel punto, Craxi era uno che non poteva attraversare la strada neanche sulle strisce pedonali. Per cui, nel momento in cui la magistratura fa sapere che sta per fottere Craxi – e qui trovate traccia di quei famosi incontri dei servizi segreti con Di Pietro e gli americani – ognuno ci mette del suo per darle una mano. Così, Craxi finisce ad Hammamet.Ad Hammamet, Craxi ci finisce anche per un uleriore motivo: era antipatico. La sua principale sconfitta? Non essere riuscito a superare il 15%. Alla gente stava sulle palle. Qui non c’erano complotti: Craxi non sfondava sul piano del consenso popolare – poi bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un popolo che vota Berlusconi e non Craxi. In ogni caso, visto che più del 12-13% non otteneva, Craxi ha perso anche per colpa sua: se fosse stato più forte, questa facilità nel farlo fuori non ci sarebbe stata. Resta però un fatto: c’era stata una riunione su una bellissima barca inglese parcheggiata vicino a Roma, ad Anzio, in cui si erano incontrate dieci, quindici, venti persone, e avevano deciso che l’Italia stava diventando troppo forte, con Craxi. L’Italia era arrivata tra i primi 5 soggetti economici del mondo. Aveva fatto la richiesta ufficiale per fare il G5; esisteva il G7 e adesso c’è il G4, fatto apposta per escludere l’Italia che voleva il G5. Soprattutto, siccome era stata decisa dalla finanza internazionale l’operazione euro, in Italia serviva una persona che avesse un’ampia disponibilità a “mettersi a 90 gradi”, e questa persona non era Craxi.Un minuto dopo che hanno fatto l’euro, Craxi ha dichiarato alle telecamere che l’euro sarebbe stato una sciagura. Lo sapeva anche prima. Ma lo sapevano anche loro, che se andava Craxi – e non Prodi – a rappresentare l’Italia, non sarebbe mai passato quel tasso di cambio euro-lira. Non ce l’avrebbero mai fatta, a imporcelo. Mai. Dunque il problema era questo, e l’operazione è andata a buon fine. E, facendo l’operazione Craxi, sono stati regolati anche altri conti: i vecchi conti Sindona, Gelli, Calvi. Soprattutto, tutti quei paraculi della Dc che pensavano che facessero fuori solo Craxi e non anche loro, hanno dovuto pagare dazio. Chi non ha pagato? I comunisti, che hanno fatto passare la teoria che Greganti fosse un ladro, e loro non c’entrassero niente. Sapete chi l’ha fatta, quell’operazione? Un magistrato che è morto, Gerardo D’Ambrosio, che poi è diventato senatore dell’ex Pci. Siccome un altro giudice, Tiziana Parenti, voleva mettere in galera mezzo Partito Comunista, come vice-procuratore generale D’Ambrosio ha avocato a sé l’indagine e l’ha chiusa così, con Greganti unico colpevole. Poi è diventato senatore del Pd.Perché Craxi si è lasciato distruggere senza difendersi, cioè senza svelare all’opinione pubblica italiana tutti questi retroscena? All’inizio a dire il vero ha provato a difendersi, in Parlamento. Disse: «Chi di voi può dire di non aver fatto tutto quello che ho fatto io, si alzi in piedi». E non si è alzato nessuno, neanche i leghisti. Poi, però, a Craxi sono stati minacciati i figli. Craxi aveva già deciso di andare in televisione e di tirar fuori tutta una serie di carte. Tra queste c’era un famoso “Dossier Di Pietro”, che riteneva la carta vincente finale, perché dimostrava che Di Pietro era il prodotto di quel tipo di organizzazione. Per fare questa operazione chiamò Mentana, al Tg5, ma lo chiamò direttamente, senza passare per Berlusconi, perché Mentana tempo prima era stato collocato a Rai2 da Craxi. Poi chiamò Paolo Mieli per fare un’intervista di due pagine sul “Corriere della Sera”. Dopodiché chiamò la Rai per un’intervista che avrebbe dovuto fare prima con Giancarlo Santalmassi, poi con Minoli, e che poi invece non fece. Perché quella notte successero tre cose.A casa della figlia Stefania si introdussero delle persone che bruciarono tutti i suoi vestiti. A casa di suo figlio Bobo si recarono delle persone che razziarono tutto quello che c’era. E nella sua casella della posta trovò un messaggio con scritto che, se avesse fatto quelle interviste, avrebbero pagato i suoi figli. Una delle cose che nessuno vi dice, che non sono mai state pubblicate e che vi dico io, è che era lo stesso messaggio che avevano ricevuto altri personaggi di Tangentopoli, che avevano deciso di parlare e si sono suicidati. A quel punto, Craxi decise di telefonare a Cossiga, il quale aveva un grosso complesso di colpa nei suoi confronti, perché sapeva cosa stava accadendo, tant’è vero che si era precipitato a fare senatori a vita Giulio Andreotti e Gianni Agnelli, per evitare che in Tangentopoli ci finissero dentro anche loro, ma non si era premurato di avvisare Craxi. Cossiga a sua volta contattò il capo della polizia dell’epoca, che si chiamava Vincenzo Parisi, il quale fece un’abile opera di mediazione tra Di Pietro, il pool di Mani Pulite e Craxi, per concordare la latitanza: Craxi se ne sarebbe andato ad Hammamet normalmente, non avrebbe parlato, e solo tre mesi dopo ci sarebbe stato l’ordine di carcerazione.I magistrati sapevano benissimo che Craxi sarebbe andato ad Hammamet col suo passaporto, e il ministero degli esteri concordò con Ben Alì – che era il dittatore della Tunisia – che l’Italia non avrebbe mai avviato una richiestra di estradizione. Craxi si tenne la libertà di parlare una volta ad Hammamet, ma in Italia no: la minaccia verso i figli l’aveva ritenuta concreta. Molta gente si era ammazzata, attorno a Mani Pulite. O forse era stata ammazzata. Io ero coinvolto nel processo a Raul Gardini e, come avvocato, avevo accesso a documenti non pubblicati. Era la prima volta che vedevo qualcuno che si suicida sparandosi due proiettili mortali alla tempia. Due, capite? Non possono essere entrambi mortali. Se uno si spara un colpo in testa, come può spararsi anche un secondo colpo? Forse Gardini stava per rivelare il nome di chi portò il famoso miliardo a Botteghe Oscure? Chi lo sa.Il potere è astratto, è automatico. Ci sono meccanismi nei quali entri e magari ti ammazza il nemico che meno ti aspetti: tu non sai che calli stai pestando, di chi sono, perché, da dove vengono quei soldi, chi è in affari con chi. Magari pensi di fare uno sgarbo a Tizio, e s’incazza Caio, che non sapevi fosse in affari con quello. I meccanismi del potere sono di una complessità inaudita. Non è una vita facile, quella di chi sceglie di stare nel potere. Certo, sai sempre come pagare le bollette, però non sai mai da dove ti arrivano le coltellate. Quando Craxi ha accettato di deporre al processo Cusani, quando già l’accordo l’avevano fatto, Di Pietro è stato criticato perché l’interrogatorio era mite, era troppo rispettoso. In realtà era il segnale che aveva chiesto Craxi a Parisi per non fare le interviste. Disse: «Io le interviste non le faccio. Ma, a parte il fatto che lasciate in pace i miei figli, non voglio finire in galera. Perché se finisco in galera, e so come sono fatto, poi m’incazzo, parlo, e m’ammazzano i figli. O ammazzano me». Una tazzina di caffè: com’è morto Sindona? Com’è morto Papa Giovanni Paolo I? Ti portano una camomilla le monache: è perfetto.Con Craxi, è stato eliminato chi era capace. La disonestà? Bettino Craxi non era ricco. Il famoso tesoro di Craxi non l’hanno trovato perché non è mai esistito. I 13 miliardi che gli hanno trovato sul famoso conto svizzero erano i soldi del partito. Mentre i grandi partiti i conti del finanziamento illecito li intestavano ai segretari amministrativi, i piccoli partiti li intestavano ai segretari politici – il conto del Pri era intestato a Giorgio La Malfa, che ha avuto i suoi guai, come Renato Altissimo del Pli. Craxi, quando passò le consegne a Del Turco, cercò di passargli anche i conti; ma Del Turco, che era un po’ fifone, disse “no, non li voglio”, non scordandosi che un conto simile l’aveva quand’era segretario generale della Uil, perché anche i sindacati facevano i finanziamenti illeciti.Siamo un paese strano: ci colpevolizzano col debito pubblico, senza tenere conto del fatto che abbiamo il massimo risparmio privato europeo e il più alto numero di proprietari di case. Questo dovrebbe contare, per la solidità del sistema, e invece quando vanno a trattare in sede Ue si calano le brache, compreso l’ultimo, Renzi, che sembra un pretino, un seminarista di trent’anni fa. Un leader forte, l’Italia non se lo può permettere, perché una delle caste italiane se lo sbrana. Questi pretini spretati hanno paura di fare la fine dei Craxi. Meglio calarsi le brache e tirare a campare, poi si vedrà. C’è questo cortocircuito, in cui il nostro sistema non difende più l’istituzione. Quando hanno scoperto un sacco di magagne su Kohl, i tedeschi l’hanno mandato a casa, non in galera: perché era Kohl. E quando sono state scoperte un sacco di magagne su Mitterrand, i francesi – compresa l’opposizione – non l’hanno mandato in galera, l’hanno mandato a casa.Da noi, Craxi è stato mandato ad Hammamet, senza tener conto che aveva rappresentato un’istituzione. E lo stesso sta succedendo a Berlusconi – che a me non è simpatico, non l’ho mai votato, però non posso immaginare che uno, quando fa il presidente del Consiglio, abbia i carabinieri appostati alla porta per vedere con chi scopa, perché non c’è rispetto – non verso ciò che uno è, che sono fatti suoi – ma ciò che uno rappresenta, che sono anche fatti miei. E se uno mi rappresenta indegnamente io lo mando a casa, non in galera, perché mandandolo in galera sputtano anche me, indebolisco la mia economia, il mio sistema. Invece qui, pur di prenderne il posto e farsi la guerra (non vale solo per Berlusconi, l’ha fatto anche lui agli altri) vige questa mentalità, per cui oggi magari l’idea è quella di fottere Renzi per mettersi al posto suo, e per fottere Renzi o Berlusconi o D’Alema ci si allea con i nemici dell’Italia, con la stampa estera per sputtanarli, con i parlamentari europei per attaccarli. Ma che logica è? Che popolo siamo?(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.
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Ida Magli: governati da servi ignoranti che ci disprezzano
C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.Unificare è stato un errore. Non era possibile farlo se non perdendo tutte le ricchezze europee. Quale lingua parleremo negli Stati Uniti d’Europa? Nella testa dei politici sarà l’inglese, cioè l’americano. E allora perderemo la ricchezza delle letterature nelle varie lingue del Vecchio continente, da Voltaire a Cervantes, da Kafka a Pirandello. Si pensa di poter fare l’unità così. Così come si è pensato di fare lo stesso con la moneta unica, dimenticando che la moneta è lo strumento di un popolo e non la si può imporre fuori dall’economia dei singoli Stati. Lo dicevo da antropologa ma l’hanno detto anche molti economisti. L’obiezione è che questo processo lo hanno fatto gli americani, certo con meno storia sulle spalle? Gli americani non avevano storia letteralmente, erano tutti immigrati e gli indigeni sono stati annientati quasi subito. Annientati con la violenza di chi conquista. E poi avevano un territorio immenso. Ho spesso detto che quello dell’unificazione è un progetto massonico. E ora c’è un libro di un massone, Gioele Magaldi, che lo conferma (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, Chiarelettere). L’ho letto e riletto.E’ anche un’operazione intrigante. La tesi è la seguente: la massoniera ha vinto, tutti i suoi progetti sono stati realizzati, ora esca allo scoperto e lavori con trasparenza. Secondo quel libro, tutti sarebbero massoni. Certo fa dei nomi: Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Monti. Che non hanno neppure sentito il bisogno di replicare. Si saranno messi d’accordo per non reagire in alcun modo. Comunque, prescindendo da questo, noto che Prodi torna in un momento in cui lo si dava per politicamente finito. E Matteo Renzi è al servizio della Commissione. Le sue riforme, come ammette Pier Carlo Padoan, sono dettate dai commissari. Un esempio, tratto dalla Legge di Stabilità: la depenalizzazione di alcuni reati. Il reato di omissione di soccorso in Congo non c’è. La coscienza individuale sta anche in un codice. Avere valori significa avere un codice. Depenalizzare i piccoli furti che opprimono le persone, rubare la borsetta dove ci sono gli affetti più cari sarebbe un limpida conquista? Se la giustizia è intasata, che si aumenti il numero dei magistrati. Depenalizzare, amnistiare non è una giustificazione delle civiltà ma mancanza dello Stato. Si vuole l’imbarbarimento degli italiani, dei belgi, degli inglesi.Uno Stato non ha l’obbligo di essere umanitario. Deve difendere i cittadini, il territorio, l’indipendenza. Sono convinta che gli Italiani siano all’ultima fase. Perché nessuno li difende. Silvio Berlusconi vuol salvare se stesso e s’è messo a praticare le larghe intese, che sono la fine della democrazia. Ha portato alla fine del suo partito, benché all’interno di Forza Italia ci fosse chi lo metteva sull’avviso. Beppe Grillo? All’inizio ci contavo, e invece… si barcamena pure lui: oggi dice una cosa, domani un’altra. Ecco, su di lui mi sono sbagliata. La selezione fatta sul web: errore clamoroso, mettendo insieme gente che non sa quello che fa, trapiantati dal nulla si trovano serviti e riveriti, con stipendi incredibili. Matteo Salvini? Forse ha delle idee, forse. Ma ha anche una presunzione tale che ralizzarle sarà difficile. Qui non si sono fatte le elezioni e, come ha dimostrato la Consulta, sono tutti illegittimi, compreso Giorgio Napolitano, che è stato eletto da quel Parlamento. E invece di preoccuparsi di legittimare, hanno tutti approfittato dello sgangheramento delle democrazia per cambiare la Costituzione a quattro mani.La riforma del Senato e del Titolo V: è fatta da un governo ignorante, nel senso che nessuno dei ministri di Renzi ha una competenze specifica per quello che è chiamato a fare. I politici di una volta venivano fuori dalle scuole della Dc e del Pci, facevano anni di commissioni interne e di governi ombra. Ora abbiamo un ministro della sanità, Beatrice Lorenzin, che non è laureata: è umiliante per medici, ricercatori, biologi. Renzi è una persona furba, non intelligente. Che butta lì ogni tanto delle battute, un po’ sbruffone. E dicono che è il suo stile. Ma nessun capo di Stato fa cose simili. Per stare nel mondo di Bruxelles devi essere stupido, nel senso di essere obbediente alla lettera. Il progetto europeo punta a tenere al guinzaglio la Germania e quei paesi che sono il serbatoio della civiltà. Anche Renzi finge di essere indipendente. E non c’è nessun complotto, è tutto alla luce del sole.(Ida Magli, dichiarazioni rilasciate a Goffredo Pistelli per l’intervista “L’Europa è un continente inventato”, pubblicata da “Italia Oggi” il 27 dicembre 2014).C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.
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Renzi conta zero, l’Eni vede sfumare anche Southstream
Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.Giannuli parla di «calcoli più accurati», effettuati dai russi, in base ai quali risulta ci sia stata «una sopravvalutazione della massa di gas che sarebbe transitata e, contemporaneamente, una sottovalutazione dei costi dell’opera, per circa 68 miliardi di dollari». L’apertura della prospettiva cinese, con il viaggio di Putin a Pechino, peraltro, aveva indebolito l’interesse sul versante europeo, continua Giannuli. Certo, «una forte difesa del progetto da parte degli alleati europei (italiani e tedeschi in primo luogo, ma anche piccoli come bulgari e greci, interessati ai diritti di transito del gasdotto) forse avrebbe potuto rilanciare l’operazione». Ma i tedeschi si sono molto raffreddati («e c’è da capire quanto pesi, in questo, la partita dei capitali russi congelati nelle banche tedesche»), mentre gli italiani «pesano poco o nulla, forse meno dei bulgari, anche se la Mogherini è “lady Pesc” e Renzi il presidente di turno (a proposito: mi pare che il “semestre italiano” stia passando senza alcun segno memorabile)».Poi, continua Giannuli, c’è stato anche «l’opportuno scandalo Nigeria», che ha messo nei guai Scaroni e Descalzi, provocando anche qualche frizione fra il secondo e il presidente del Consiglio, e anche l’Eni è scesa a più miti consigli («chi lo dice che gli scandali non servono a niente?»). Infine, «il colpo di grazia è venuto dalla caduta dei prezzi del petrolio: se davvero restassero intorno ai 60 dollari per uno o due anni, la concorrenzialità del gas sarebbe azzerata e il rientro dell’investimento si perderebbe nelle brume di un futuro lontanissimo». Ripercussioni geopolitiche: «Con la messa in crisi dell’asse Berlino-Mosca e la fine del progetto Southstream, la Russia perde gran parte del suo interesse verso la Ue e, anzi, vede l’avanzare del progetto dell’area di libero scambio Usa-Ue come rivolto contro di sé». Per cui, «diventa molto più interessante lo scenario del collasso della Ue».E questo, sostiene Giannuli, rende molto più comprensibile l’improvvisa simpatia manifestata dal capo del Cremlino per il Front National di Marine Le Pen, nonché l’invito ufficiale rivolto Matteo Salvini, leader della Lega Nord. Traduzione: «Appurato che Renzi conta in Europa quanto il due di coppe, Putin punta le sue carte sull’opposizione anti-renziana in ascesa e Renzi perde uno dei suoi pochi interlocutori a livello internazionale». Ma non è tutto. Di interlcotutori strategici, forse il presidente del Consiglio ne perde anche un altro, cioè Israele, «che constata come il suo protetto non sia in grado di sbarrare la strada alla strategia petrolifera dei sauditi e affini». In altre parole, anche la vicenda Southstrem dimostra che «Renzi è sempre più solo», precario leader di un’Italia in stato di abbandono.Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.
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Borghi: referendum-burla, Grillo vuole sabotare i no-euro
La campagna di Beppe Grillo per un referendum sull’uscita dall’euro? «E’ la tattica più efficace per bloccare qualsiasi possibilità di abbandono della moneta unica». Parola del professor Claudio Borghi Aquilini dell’Università Cattolica di Milano, l’uomo più ascoltato da Matteo Salvini su questi temi e con il quale il leader del Carroccio ha scritto il manuale “Basta Euro”. Non appena Grillo ha annunciato via blog la mobilitazione dei banchetti per raccogliere le firme, scrive Giovanni Bucchi su “Italia Oggi”, Borghi ha lanciato su Twitter la controffensiva per smontare punto per punto le tesi dell’ex comico genovese. Ma Lega e M5S non vogliono entrambi l’uscita dall’euro? «Come Forza Italia, il “Movimento 5 Stelle” è un partito che ha avuto il privilegio di poter ascoltare per primo le spiegazioni sul perché oggi sia quanto mai urgente e necessario uscire dall’euro», dice Borghi, che cita un’intervista con Claudio Messora, già portavoce grillino. «Ne parlai addirittura con Berlusconi». E come andò? «È finita che Forza Italia alle ultime europee non ha fatto una campagna elettorale contro l’euro, probabilmente a seguito del famigerato Patto del Nazareno con Renzi».«La grande colpa dei “5 Stelle”, insieme a quella di Forza Italia – continua Borghi – è stata di non aver costruito alle elezioni europee un fronte anti-euro che avrebbe potuto arginare Renzi e che, insieme alle affermazioni dei partiti contro la moneta unica sia in Francia che in Inghilterra, avrebbe creato seri problemi agli euroburocrati di Bruxelles». Secondo l’economista, ora schierato con la Lega Nord, «Grillo e Forza Italia sono stati complici in questo salvataggio di Renzi e delle politiche europee». Adesso però, rileva Bucchi, è pur vero che Grillo lancia la mobilitazione e chiede un referendum. «Questa campagna – replica Borghi – è l’esatta continuazione dell’attività a favore di Renzi e dei pro-euro, già iniziata mesi fa quando i grillini decisero di non schierarsi contro la moneta unica in campagna elettorale». Secondo Borghi, letteralmente, «chi chiede un referendum sull’euro, come fa Grillo, prende in giro gli italiani». E spiega: «Se io sono a Milano e devo andare a Torino, salgo sul primo treno che mi porta in quella città. Ma se invece prendo il treno per Padova, poi una volta in carrozza dico a tutti di fare un referendum per decidere se andare a Torino mentre il treno va a Padova, sto prendendo in giro le persone».In Italia, continua il professore, non si possono fare referendum sui trattati: è incostituzionale. «Grillo propone allora una legge costituzionale per indire un referendum, sulla base di quanto fatto nel 1989 per il conferimento di mandato al Parlamento Europeo. Peccato però che il leader dei “5 Stelle” si dimentichi di dire che per approvare una tale legge servono i voti dei due terzi del Parlamento, cosa assolutamente impossibile in questo momento dove il Pd ha saldamente in mano la maggioranza almeno alla Camera». Non solo: «Grillo dimentica anche di specificare che questo referendum sarebbe soltanto consultivo, quindi una sorta di sondaggione sull’euro, con una campagna referendaria quasi sicuramente influenzata dai poteri economici e finanziari di Bruxelles». Un’ipotesi dunque «non percorribile e irrealizzabile». Spiegazione: «Quando uno non conosce le cose, può agire per ignoranza, come ho fatto anche io per un certo periodo. Ma dopo che ti è stato spiegato cosa significa uscire dall’euro e come andrebbe fatto, se continui a muoverti in un’altra direzione sei in malafede».Aggiunge Borghi: «Mi dà un dolore pazzesco doverlo dire, perché sarebbe importantissimo creare un fronte no-euro, ma i “5 Stelle” in questo seguono le tesi di Casaleggio, contrario all’uscita dalla moneta unica. Anzi, adesso i grillini si sono messi in testa di sabotare il movimento di uscita dall’euro, e non riuscirei a immaginare una tattica più efficace di questa: portare su un binario morto tante persone sinceramente convinte di fare questa battaglia». Cosa andrebbe fatto, dunque? «Occorrerebbe unire le forze veramente contro l’euro, sedersi a un tavolo e preparare l’uscita in maniera professionale. Poi bisogna fare cadere il governo e andare alle elezioni alleati con una sola priorità: fuori dalla moneta unica, tutto il resto viene dopo». Le acque si stanno intorbidendo: nel Pd, segnala Bucchi, ci sono state aperture sul superamento dell’euro, soprattutto da Cuperlo e Fassina. «Non mi stupisce che qualcuno si stia svegliando anche a sinistra, perché le posizioni del Pd sono sempre più insostenibili alla prova dei fatti», conclude Borghi. «Sono convinto che una volta usciti dall’euro, tutti sosterranno di avere sempre detto che si sarebbe dovuto fare così; un po’ come quando in Italia è caduto il fascismo e s’è scoperto che tutti erano sempre stati antifascisti. Già, ma solo dal giorno dopo la caduta».La campagna di Beppe Grillo per un referendum sull’uscita dall’euro? «E’ la tattica più efficace per bloccare qualsiasi possibilità di abbandono della moneta unica». Parola del professor Claudio Borghi Aquilini dell’Università Cattolica di Milano, l’uomo più ascoltato da Matteo Salvini su questi temi e con il quale il leader del Carroccio ha scritto il manuale “Basta Euro”. Non appena Grillo ha annunciato via blog la mobilitazione dei banchetti per raccogliere le firme, scrive Giovanni Bucchi su “Italia Oggi”, Borghi ha lanciato su Twitter la controffensiva per smontare punto per punto le tesi dell’ex comico genovese. Ma Lega e M5S non vogliono entrambi l’uscita dall’euro? «Come Forza Italia, il “Movimento 5 Stelle” è un partito che ha avuto il privilegio di poter ascoltare per primo le spiegazioni sul perché oggi sia quanto mai urgente e necessario uscire dall’euro», dice Borghi, che cita un’intervista con Claudio Messora, già portavoce grillino. «Ne parlai addirittura con Berlusconi». E come andò? «È finita che Forza Italia alle ultime europee non ha fatto una campagna elettorale contro l’euro, probabilmente a seguito del famigerato Patto del Nazareno con Renzi».
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Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà
Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
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Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?
Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.(Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
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Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia
«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».
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La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni
A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.(Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
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Grillo, Ingroia e Salvini? Non facciano la fine di tutti gli altri
Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.Grillo ha appena nominato uno staff politico, una sorta di segreteria. Era ora, dice Santini, a patto che questo team rappresenti davvero il movimento e quindi si trasformi rapidamente «da nominato in elettivo, altrimenti non cambierebbe nulla». Lo staff politico «non dovrà essere un organo direttivo classico», il suo compito «non sarà quello di “decidere”, ma di facilitare e coordinare i processi decisionali collettivi». Finora, le decisioni stratetgiche «sono state semplicemente enunciate». Esempio: chi ha scelto, e con quali criteri, il programma delle europee e poi la raccolta firme per il referendum consultivo sull’euro? «Al di là che il programma elettorale o il referendum possano essere stati condivisi, a posteriori, dalla maggioranza dei militanti, non dovrà più accadere che tali decisioni di fondamentale importanza vengano calate dall’alto». Altrimenti, continua Santini, «quale sarebbe la differenza tra un Grillo (o uno staff che operasse allo stesso modo) e un Renzi, che almeno deve far finta di confrontarsi con la direzione del Pd?». Quanto alle nuove aperture per possibili alleanze, va bene «un accordo transitorio per eleggere un presidente della Repubblica più decente di un altro». Ma il dialogo, più che coi partiti, va impostato con «spezzoni di società (anche organizzati in movimenti o partiti veri e propri)», che possano «almeno potenzialmente rappresentare una reale alternativa al sistema di potere e al modello socio-economico attualmente imperante».Quanto a Ingroia, “reclutato” da Di Pietro e dai rottami dell’ex “sinistra radicale” per guidare la lista “Rivoluzione Civile” alle politiche 2013, secondo Santini il suo prestigio di magistrato coraggioso sarebbe degno di miglior causa, visto anche che le sue inchieste sono stati «di grande importanza per la crescita morale della nostra nazione». In politica, però, prestazioni meno brillanti: già la prima aggregazione, “Cambiare si può”, prima tappa del percorso fondativo di “Rivoluzione Civile”, era viziato dalla presenza-fantasma «dei partiti tradizionali della sinistra, dietro la patina di alcuni rappresentanti della società civile», cosa che «ne vanificò il potenziale di novità e reale cambiamento». Poi la nascita di “Azione Civile”, senza più partiti “clandestini”, ma senza presa sul pubblico: «Credo che lo spazio politico per quel progetto si sia quasi definitivamente consumato», scrive Santini. «La speranza tra i più fiduciosi che aveva destato la lista “L’Altra Europa con Tsipras” sta partorendo ciò che i meno fiduciosi avevano intravisto fin da subito: un agglomerato dei partitini della sinistra istituzionale che avrà nel suo deprimente orizzonte l’oscillazione tra l’opposizione al renzismo a livello nazionale e la collaborazione col sistema di potere del centrosinistra a livello locale (perfettamente interscambiabile con quello del centrodestra, allo stesso modo irriformabile e cancerogeno)».Qualunque progetto politico di «emancipazione dalla dittatura del presente», secondo Santini non ha alcuna possibilità di successo, in Italia, se non afferma radicalmente il principio della “legalità democratica” largamente inteso. Ovvero: «Debellare le mafie al sud come al nord, scoperchiare il verminaio del terzo e quarto livello» che trasforma il nostro in uno “Stato criminale”, per dirla con Ingroia. E poi, ovviamente, sconfiggere la corruzione. «La tua grande esperienza e credibilità su queste tematiche – scrive Santini nel suo appello a Ingroia – non deve essere messa a disposizione di una sola parte politica, ma di tutte quelle forze sane, da qualunque parte stiano, che volessero davvero intraprendere un percorso rivoluzionario». Aggiunge Santini: «Non ho bisogno di ricordarti che il tuo maestro Paolo Borsellino avesse simpatie politiche di destra, ma egli fu prima di tutto un autentico uomo dello Stato nel senso più alto del termine, un servitore del popolo, di tutto il popolo». E dunque: «Anche se non indossi più la toga, Antonio, sei ancora un uomo del vero Stato, non rinchiuderti negli spazi della sinistra ma poniti al servizio di un progetto il più largo possibile».Quanto al nuovo leader della Lega Nord, è impossibile non riconoscergli una vocazione trasversale, adatta ai tempi d’emergenza che viviamo: «A volte i percorsi politici compiono traiettorie imprevedibili», gli scrive Santini. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma sei il politico che ho seguito con più attenzione in questo ultimo periodo. Ho davvero apprezzato un paio di posizioni che tu e il tuo movimento avete assunto. La prima, pressoché solitaria per nettezza nel panorama asfittico italiano, sul tema della pace in Europa, ovvero del colpo di stato in Ucraina, della guerra civile e dell’“aggressione occidentale” alla Russia. La seconda è la raccolta firme per cancellare, tramite referendum, la cosiddetta riforma Fornero». Santini mette tra parentesi il tema controverso della lotta all’immigrazione e quello, ancora più scomodo, della crociata contro l’euro. Metafora: «Un uomo (l’Italia) si trova alla deriva su una nave (l’euro) in mezzo all’oceano (il sistema finanziario globalizzato). La nave imbarca acqua pericolosamente, una tempesta minacciosa si avvicina, l’uomo per salvarsi si butta in mare ma si trova pur sempre in mezzo all’oceano e con tempeste minacciose che incombono su di lui».Nella sua sacrosanta battaglia sovranista per ripudiare l’euro, infatti, la Lega rivela una visione fondata sul mercantilismo: vede la rottamazione dell’euro come volano per rilanciare l’export, ma trascura l’enorme potenzialità della moneta sovrana per inaugurare una politica neo-keynesiana fondata sull’investimento pubblico vocato alla piena occupazione. Ad esempio, il programma della Mmt messo a punto da Warren Mosler e Paolo Barnard prevede il taglio del debito non-sovrano e la fine dei titoli di Stato: una rivoluzione democratica, al centro della quale l’istituzione pubblica ridiventa il massimo garante del benessere della cittadinanza, neutralizzando la speculazione finanziaria privata proprio grazie alla libera emissione di moneta, orientata al sostegno della riconversione sociale ed ecologica dell’economia. La Lega di Salvini preferisce annunciare una “rivoluzione fiscale” tranciante, con un’aliquota fissa al 15%, uguale per tutti. Proposta che, per Santini, «coglie un nesso fondamentale: la riduzione delle tasse non può che nascere da uno storico patto fiscale tra istituzioni e popolo», ma in ogni caso «non può essere disgiunta da una rigorosa equità contributiva e sociale, ovvero da una ampia “legalità democratica”».Sfide in ogni caso radicali, quelle impostate da Salvini: l’unico, oggi in Italia, a dichiarare guerra all’establishment tecnocratico che da Bruxelles tiene al guinzaglio il paese, condannandolo all’asfissia. Santini lo riconosce, ma interroga il leader della Lega sul percorso politico da adottare: «Ti chiedo, caro Salvini, al di là della ricerca elettoralistica del consenso, con chi ritieni di poter affrontare queste battaglie epocali? Con il centrodestra? Vuoi fare una rivoluzione di sistema con Berlusconi? Con i Gasparri e le Santanché? Soprattutto con tutto il carrozzone delle cricche affaristico-mafiose su cui quegli ambienti prosperano?». Conclusione: «Se ritieni davvero di determinare una qualche sorta di egemonia culturale su quell’area, ti faccio i migliori auguri. Ti auguro sinceramente di non fare la fine di Bossi». Salvini – alleato di Marine Le Pen contro la gestione autoritaria dell’Ue e solidale con Putin rispetto all’aggressività della Nato – è il politico italiano che oggi si presenta disponibile a scelte di rottura. Santini gli dedica un tweet: «#Salvini, rompi con B. o cadi».Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.