Archivio del Tag ‘Lazio’
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Centrodestra e Pd, lo squadrone dei candidati impresentabili
Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.Ugo Cappellacci, capolista in Sardegna, ex governatore, per lui chiesta condanna per abuso d’ufficio nel processo scaturito nell’inchiesta sulla cosiddetta P3; condannato in secondo grado a restituire alla Regione Sardegna circa 220 mila euro. Condannato a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia, società fallita nel 2010. Fresco di sentenza Michele Iorio, candidato al Senato in Molise, è stato condannato qualche giorno fa dalla corte d’appello di Campobasso a 6 mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un anno di interdizione dai pubblici uffici. In Puglia rispunta una vecchia conoscenza: Domenico Scilipoti. E’ stato condannato a versare 200 mila euro più spese legali per un vecchio debito non pagato. Ma è noto ai più per il suo triplo salto carpiato da Idv all’allora maggioranza, per salvare il governo Berlusconi nel 2010, dando addirittura vita a un neologismo: “scilipotismo”. In Sicilia continua la “dinastia Genovese”. Stavolta tocca a una donna di fiducia dell’ex deputato condannato Francantonio Genovese, Mariella Gullo. Anche lei raggiungerà quota 20mila come toccò prima al cognato e poi al nipote Luigi Genovese alle scorse regionali? Con lei, Urania Papatheu, candidata nel Catanese, con una condanna in primo grado per gli sperperi dell’ex Ente fiera di Messina.La nuove generazione delle Lega marca la sua presenza con Edoardo Rixi, assessore regionale in Liguria e imputato per le spese pazze in Regione Liguria: si sarebbe fatto rimborsare spese private con soldi pubblici. Facce nuove ma vecchi vizi. La Lega infatti candida anche tale Umberto Bossi, condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi “provenienti dalle casse dello Stato” a fini privati. Sulla stessa onda, troviamo il redivivo Roberto Formigoni, condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi: è candidato al Senato come capolista nella formazione del centrodestra ‘Noi con l’Italia’ in Lombardia. Nella stessa formazione, Raffaele Fitto alla Camera in Puglia, la Cassazione ha disposto che sarà un giudice civile a stabilire se, da presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto ha generato danno d’immagine all’ente, dopo che la corte d’appello di Bari l’aveva dichiarato prescritto ma lo condannava al risarcimento nei confronti della Regione.Il Pd, allenato da Renzi con Gentiloni pronto a sostituirlo a seconda dello scenario che si prospetterà, schiera invece in campo. Maria Elena Boschi, il capitano. Aveva promesso di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum e non l’ha fatto. Da ministro per le Riforme si è interessata della sorte di Banca Etruria, l’istituto bancario del padre. Ha sostenuto di averlo fatto per il territorio, infatti si candida a Bolzano nell’uninominale ed è stata piazzata in altri cinque collegi-paracadute: Cremona-Mantova, Lazio 3, Sicilia 1-02, Sicilia 2-03 e Sicilia 2-01. Tutto pur di non farle mollare la poltrona. In Campania c’è Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, Vincenzo, capolista alla Camera ovviamente in Campania e candidato all’uninominale di Salerno, il “feudo” del padre. È imputato di bancarotta fraudolenta per il crac della società immobiliare “Ifil”, società satellite degli appalti del ‘sistema Salerno’ quando il padre era sindaco della città. Ma De Luca raddoppia, con la candidatura del suo ex capo staff, Franco Alfieri. Il “signore delle fritture” elogiato dal governatore campano perché sa fare le “clientele come Cristo comanda”, già condannato in appello a restituire 40.000 euro al Comune di Agropoli e imputato per omissione in atti d’ufficio e sottrazione di beni alla loro destinazione: avrebbe lasciato dei beni sequestrati alla camorra, e destinati al Comune di Agropoli, nella disponibilità dei vecchi proprietari. Per i pm non per dimenticanza, ma per ingraziarsi il “clan degli zingari”.In Campania c’è anche Umberto Del Basso De Caro, già sottosegretario ai Trasporti del governo Gentiloni, è indagato per tentata concussione e voto di scambio. In alcune conversazioni intercettate si evincerebbero, per l’accusa, le sue pressioni al dirigente generale di un ospedale per la rimozione o il trasferimento di alcuni funzionari “non graditi” alla moglie, dirigente amministrativo nello stesso nosocomio. In Abruzzo corre Luciano D’Alfonso, governatore in carica, indagato dalla procura de L’Aquila per corruzione, abuso d’ufficio e turbata libertà degli incanti per interventi di manutenzione di case popolari a Pescara e Penne. E’ stato scelto per meriti sul campo da Renzi come capolista del listino al Senato in Abruzzo. Nel Lazio schierati Claudio Mancini e Bruno Astorre, premiati per il rinvio a giudizio nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo Pd alla Pisana fra il 2010 e il 2012.Stesso criterio usato per le candidature nelle Marche, con Francesco Comi e Paolo Petrini, coinvolti nello scandalo sulle spese pazze in Regione, procedimento ancora aperto dopo che la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere disposto dal gup. Anche in Calabria premiati Ferdinando Aiello, Brunello Censore e Antonio Scalzo per il processo disposto a loro carico nell’ambito dell’inchiesta “Rimborsopoli”. Scalzo, in più, ha visto di recente arrestato il suo capostruttura nell’operazione contro la ‘ndrangheta denominata “Stige”, in quanto accusato di concorso esterno alla potente cosca dei Farao-Marincola. Punta di diamante della formazione renziana, Luca Lotti, attuale ministro dello Sport, è indagato nella vicenda Consip, insieme a Renzi Senior e a gran parte del “giglio magico”, per favoreggiamento e rivelazione di segreto. E’ candidato in Toscana, nel collegio di Empoli 8.(“Lo squadrone di candidati impresentabili del centrodestra” e “Figli di e fritture di, gli impresentabili del Pd”, dal “Blog delle Stelle” del 3 febbraio 2018).Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.
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Suicidio demografico: l’Europa perderà 1/3 dei suoi abitanti
Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niail Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».Un segnale sintomatico del nuovo trend socioculturale, per esempio, secondo Spadini sta nel fatto che gli esponenti europei del grande esclusivo club globale, il G7, sono privi di figli: Angela Merkel, Theresa May, Paolo Gentiloni e Emmanuel Macron, cui aggiungiamo il primo ministro olandese Mark Rutte e il primo ministro gay del Lussemburgo, Xavier Bettel. I musulmani europei sembrano sognare di colmare questo vuoto? L’arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio, ha di recente dichiarato che i fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi chiamano “Grand Remplacement” il loro inserimento nella società europea. Quanto all’Italia, il Centro Machiavelli rileva che, se l’attuale tendenza dovesse continuare, «entro il 2065 la quota di immigrati di prima e seconda generazione supererà i 22 milioni di persone, ossia sarà più del 40% della popolazione totale». Il tasso di fertilità dell’Italia è inferiore della metà di quello che era nel 1964, spiega il centro studi, attraverso un dossier firmato da Daniele Scalea (“Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana”).L’Europa (e l’Italia in particolare) stanno affrontando un periodo di flussi migratori in entrata senza precedenti, osserva Rosanna Spadini. «Ciò dipende in primis dalla concomitanza tra declino demografico europeo (dal 22% della popolazione mondiale nel 1950 al 7% nel 2050) ed esplosione demografica africana (dal 9% al 25% della popolazione mondiale in cento anni). Il tasso di natalità è sceso da 2,7 bambini per donna a appena 1,5 bambini per donna, un tasso ben al di sotto del minimo consentito per una rigenerazione sana della popolazione». Inoltre, aggiunge l’analista di “Come Don Chisciotte” citando una recente relazione di “Zerohedge”, si assiste a una maggiore omogeneità dell’immigrazione: le prime dieci nazionalità rappresentano oggi il 64% degli immigrati totali, mentre negli anni ‘70 erano appena il 13%. Tutto ciò non si discosta da quanto sta accadendo in diversi paesi dell’Europa occidentale. «Intorno al 2065 in Gran Bretagna l’etnia britannica dovrebbe perdere la maggioranza assoluta nel proprio paese. Oggi in Germania i minori di 5 anni sono al 36% figli di immigrati, lasciando presagire un grande mutamento nella composizione etnica della prossima generazione».A partire dal 2017, l’Italia ha registrato oltre 5 milioni di stranieri che vivono come residenti: «Una crescita del 25% rispetto al 2012 e un enorme 270% rispetto al 2002. All’epoca, gli stranieri costituivano solo il 2,38% della popolazione. Quindici anni dopo la percentuale è quasi triplicata fino all’8,33% della popolazione». Inoltre, la natalità degli immigrati è notevolmente superiore a quella degli italiani nativi: «Non è quindi sorprendente che le regioni italiane con i tassi di fertilità più alti non siano più nel sud, come è sempre accaduto, ma nel nord italiano e nella regione del Lazio, dove c’è una concentrazione maggiore di immigrati». In confronto, solo nel 2001 la percentuale degli stranieri che vivevano in Italia aveva attraversato la soglia dell’1%, cosa che rivela la velocità e l’entità delle trasformazioni demografiche che si stanno verificando in Italia, un fenomeno senza precedenti. Un’ulteriore preoccupazione avanzata dalla relazione di Scalea è «l’elevata concentrazione delle popolazioni immigrate da pochi paesi d’origine, che spesso produce fenomeni di ghettizzazione».Lo scorso anno, in 13 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, il saldo tra nascite e decessi è stato negativo: senza i flussi migratori, le popolazioni di Germania e Italia dovrebbero diminuire rispettivamente del 18% e del 16%. «L’impatto della situazione demografica in caduta libera è più visibile nei paesi dell’ex blocco sovietico, come Polonia, Ungheria e Slovacchia, per distinguerli da quelli della cosiddetta “vecchia Europa”, come Francia e Germania». Questi paesi dell’Est, continua Spadini, sono ora quelli più esposti al fenomeno dello spopolamento e al «devastante crollo del tasso di natalità» che il giornalista e scrittore Mark Steym ha definito «il principale problema del nostro tempo». Alla fine del secolo, «l’Europa potrebbe ritrovarsi come colpita da una bomba al neutrone: gli edifici in piedi, ma senza bambini», si legge in “America Alone”, un pamphlet su crollo demografico, islamismo, sindrome di Stoccolma, solitudine americana e disastri del multiculturalismo. «Se gli occidentali vogliono godere delle benedizioni della vita in una società libera devono capire che la vita che abbiamo vissuto dal 1945 è stato un momento rarissimo nella storia dell’umanità».La distanza fra Usa ed Europa sta crescendo: «L’America è l’ultima nazione a sostenere un tasso di crescita riproduttivo, l’ultima grande società religiosa in Occidente, l’ultima a mantenere un esercito in grado di difenderla in qualunque parte del mondo e l’ultima a conservare una tradizione attiva di libertà individuale, incluso il diritto di portare armi». Per una popolazione stabile, si calcola che serva un tasso di crescita del 2,1%, cioè il tasso dell’America, contro l’1,38 dell’Europa, l’1,32 del Giappone e l’1,14 del Canada. A preoccupare sono, ancora, i giapponesi: «Non c’è precedente nella storia per questa crescita economica e crollo del capitale umano: per la prima volta, nel 2005 in Giappone ci sono state più morti che nascite». E’ un paese «di geriatri, senza immigrazione, né minoranze e senza desiderio di niente: solo invecchiare e affievolirsi». Per Steym, anche l’Europa alla fine del secolo sarà come un continente dopo lo scoppio di una bomba al neutrone: «Ci saranno ancora edifici in piedi, ma la popolazione sarà scomparsa. Il tedesco sarà parlato giusto da Hitler, Himmler e Göring durante la seratina di poker all’inferno».«Una parte del pianeta sta optando per il suicidio di fronte al surriscaldamento», aggiunge Steym. «L’Europa sarà semi-islamica nel carattere politico e culturale entro due generazioni, forse una. Nel XV secolo la Morte Nera fece fuori un terzo della popolazione. Nel XXI scomparirà per scelta. Stiamo assistendo alla lenta estinzione della civiltà in cui viviamo». Il “New York Times” si è chiesto perché «nonostante la popolazione diminuisca, i paesi dell’Europa orientale non vogliono accettare i migranti». Inoltre, gran parte dell’Europa orientale ha già vissuto l’esperienza dell’occupazione musulmana per centinaia di anni sotto l’Impero Ottomano, «e questi paesi sono tutti consapevoli che ciò potrebbe accadere di nuovo». Ma anche l’Africa sta esercitando pressioni sull’Europa, «come una bomba demografica a tempo». Per il nazionalista olandese Geert Wilders, «nei prossimi trent’anni l’Africa avrà un miliardo di persone in più, cioè il doppio della popolazione dell’intera Unione Europea». Al che, la pressione demografica sarà enorme: «Un terzo degli africani vuole spostarsi all’estero e molti vogliono venire in Europa. Lo scorso anno più di 180.000 persone sono partite dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti. E questo è solo l’inizio».Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, solo al 2,65% dei migranti arrivati in Italia (4.808) è stato riconosciuto il diritto di asilo, «mentre 90.334 migranti non hanno chiesto l’asilo ma sono scomparsi nell’economia del mercato nero». Secondo il greco Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni in seno alla Commissione Europea, «in questo periodo tre milioni di africani pianificano di entrare in Europa». Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, avverte che il processo di migrazione «sta accelerando». I giovani hanno tutti i cellulari e possono vedere sul web che cosa sta succedendo in altre parti del mondo. «Infatti – annota Rosanna Spadini – possono vedere sui loro telefoni che, mentre meno del 3% degli immigrati dello scorso anno erano legittimi richiedenti asilo, quasi nessuno viene rispedito indietro», dal momento che i migranti «sono accolti con generosi benefici sociali, alloggi sovvenzionati e sistemi sanitari pubblici».Anche l’Europa orientale si sta assottigliando sempre più, e la demografia è diventata un problema per la sicurezza, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Diminuisce il numero delle persone che prestano servizio nell’esercito e operano nell’assistenza sociale: un tempo i paesi dell’Europa orientale temevano i carri armati sovietici, ora temono le culle vuote». Le Nazioni Unite stimano che nel 2016 l’Est Europa fosse abitata da circa 292 milioni di persone, 18 milioni in meno rispetto agli inizi degli anni Novanta. «Questa cifra equivale alla scomparsa dell’intera popolazione dei Paesi Bassi». Il “Financial Times” definisce la situazione est-europea come «la perdita più importante di popolazione della storia moderna». Neppure la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi massacri, le deportazioni e i suoi esodi di massa, era giunta a tanto. Entro il 2050, la Romania perderà il 22% della sua popolazione, seguita da Moldavia (20%), Lettonia (19%), Lituania (17%), Croazia (16%) e Ungheria (16%). «Romania, Bulgaria e Ucraina sono i paesi in cui il calo demografico sarà più drastico. Si stima che nel 2050 la popolazione della Polonia conterà 32 milioni di abitanti rispetto ai 38 milioni attuali. Circa 200 scuole sono state chiuse».In Europa centrale, la proporzione della popolazione “over 65” è aumentata di un terzo tra il 1990 e il 2010, continua Spadini. La popolazione ungherese ha toccato il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Il numero degli abitanti è sceso dai 10 milioni e 709.000 del 1980 agli attuali 9 milioni e 986.000. «Nel 2050, in Ungheria, ci saranno 8 milioni di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. L’Ungheria oggi ha un tasso di fecondità di 1,5 figli per donna. Se si esclude la popolazione Rom, questa cifra scende a 0,8, la più bassa del mondo, il motivo per il quale il premier Orbán ha annunciato nuove misure per risolvere la crisi demografica». In Bulgaria, addirittura, «tra il 2015 e il 2050 si registrerà il più veloce calo demografico del mondo». La popolazione bulgara è tra quelle che dovrebbero diminuire di oltre il 15%, insieme a Bosnia Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia e Lituania, imsieme a Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. «Si stima che la popolazione bulgara, che ammonta a circa 7,15 milioni di abitanti, scenderà a 5,15 milioni entro 30 anni – un calo del 27,9% per cento».Secondo dati ufficiali, in Romania sono nati 178.000 bambini. «A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno dopo la caduta del regime comunista, ci furono 315.000 nascite. Lo scorso anno in Croazia si sono registrate 32.000 nascite, un calo del 20% rispetto al 2015. Lo spopolamento della Croazia potrebbe portare alla perdita di 50.000 abitanti l’anno». Quando la Repubblica Ceca faceva ancora parte del blocco sovietico (come Cecoslovacchia), il suo tasso di fecondità era opportunamente prossimo al tasso di sostituzione (2,1%). «Oggi è il quinto paese più sterile del mondo». Analoga la situazione della Slovenia: ha il Pil pro capite più alto dell’Europa orientale, ma un tasso di fecondità molto basso. «Alla fine – conclude Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’immigrazione di massa probabilmente riempirà le culle vuote, ma poi anche l’Europa diventerà una “civiltà fantasma”». Sembra sia solo questione di tempo: «Uno strano tipo di suicidio programmato».Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niall Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».
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La libertà ai tempi del morbillo, i diktat di un’élite screditata
Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.Una volta, il camice bianco, lo scienziato, il “dottore” (figura archetipale della Conoscenza oscura e salvifica), con il solo carisma della funzione e del titolo di studio, esercitavano un’indiscussa egemonia sul popolino, che ne riconosceva acriticamente l’autorità specialistica. Idem per le altre figure preposte alla direzione della società: il politico-amministratore, il banchiere, il dirigente di polizia, il giudice. Mettere in discussione ruoli e competenze delle élite era possibile solo per ristrettissime minoranze critiche, perché la stragrande maggioranza della popolazione non aveva gli strumenti culturali per dissentire dai “gruppi dirigenti”, dai loro linguaggi specialistici, dalle loro ingiunzioni spesso inspiegabili. Chi stava “in basso” era più o meno rassegnato a delegare ai piani superiori la gestione delle grandi questioni che oggi collochiamo nella dimensione etica e bio-politica. Oggi non è più così. Una larga fetta di popolazione, generalmente i settori un po’ più dinamici e informati, nutre un sospetto e uno scetticismo critico “a priori” sulle competenze e sui moventi di ogni gruppo dirigente. È un fenomeno trasversale e secondo alcuni questa sorda e ostile sfiducia di massa, che corre lungo l’asse verticale “basso-alto” della società, è l’essenza di quello che viene definito “populismo”.Una recente inchiesta statistica lamenta il fatto che molti genitori sono andati in questi anni a cercarsi sul web informazioni sui vaccini, finendo vittime di quelle che, i curatori delle inchieste, definiscono costernati come le “solite bufale”. Senza entrare nel merito di una faccenda medico-scientifica assai complessa, pare un atteggiamento saggio quello di muoversi autonomamente e acquisire informazioni. Perché si dovrebbero delegare acriticamente la salute propria o dei figli ad un medico di base o, peggio, alle burocrazie sanitarie? Perché ci si dovrebbe rassegnare all’idea che sia il presidente della Regione – non di rado mediocrissimo funzionario di partito – a decidere le delicatissime strategie di salute pubblica? Non è forse più saggio esercitare un giudizio critico “a priori” rispetto all’affidarsi (sempre “a priori”) a quella classe medica che ogni tanto – in autorevoli suoi segmenti – viene investita da inchieste giudiziarie (non bufale, ma atti delle Procure) mentre esercita sperimentazioni di massa sui pazienti del Servizio Sanitario pubblico per conto di Big Pharma? È a costoro che si dovrebbe consegnare integralmente il delicato tema politico della salute?Tra l’altro l’impressione è che spesso i medici, massa proletarizzata di lavoratori della sanità pubblica, non facciano che ribadire i contenuti delle circolari ministeriali che gli arrivano sulla scrivania. Non hanno le competenze proprie dell’immunologo o dell’epidemiologo, non adottano nemmeno il protocollo minimo richiesto da qualsiasi somministrazione medica: conoscenza preventiva della storia del paziente e osservazione successiva e prolungata nel tempo degli effetti del farmaco somministrato (tutte pratiche incompatibili con il “vaccinificio industriale”). È in tale quadro che il cittadino cerca autonomamente informazioni dove e come può, essendo sostanzialmente vietato da un clima isterico (decisamente antiscientifico) ogni serio e rigoroso dibattito pubblico in materia. E qui si apre l’altro grande nodo di questi tempi: l’uso del web e la questione di chi gestisce l’infosfera ingovernabile della “pubblica opinione”, che tanto inquieta le élite globali. Esisteva un tempo una verità ufficiale capace di imporsi nel discorso pubblico, a cui tutti gli operatori del settore umilmente concorrevano. Tale monopolio del discorso pubblico (di cosa si parla e come se ne parla) pare ormai decisamente incrinato. Si mettano l’anima in pace scienziati, politicanti e giornalisti. I buoi sono usciti e sempre meno gente aderirà ciecamente al pastone mainstream che viene propinato ogni sera nei telegiornali o nei compunti editoriali antipopulisti.E l’Alitalia? Cosa ha a che fare l’Alitalia con la questione vaccini? Il nesso tra i due contesti – vaccini e vertenze – va cercato sul medesimo terreno minato, quello del consenso e della fiducia nei “dirigenti-specialisti”. Nell’ultimo referendum in cui i lavoratori del gruppo hanno votato in massa contro l’ipotesi di accordo, in ballo c’era proprio un “pacchetto” di misure confezionato ad arte da tutti i “professionisti” della gestione delle crisi, convocati attorno a un tavolo in cui, come in una sceneggiatura, tutti i ruoli erano noti e definiti: gli amministratori del gruppo, gli investitori internazionali, i consulenti delle banche creditrici, i saggi politici intervenuti con sollecitudine per la salvezza della ex compagnia di bandiera, i sindacalisti buoni e responsabili. Oltre alla supposta autorevolezza di queste figure, incombeva anche qui il clima terroristico che era alimentato abilmente dai mezzi di comunicazione: «O votate Sì o domattina siete disoccupati». Un ben curioso esercizio di dialettica democratica. Si è detto ai dipendenti di Alitalia: «Ci dispiace, ragazzi; dobbiamo sforbiciare salari, tutele e occupazione, ma che volete mai, dovete conservare pazienza e fiducia, gli specialisti siamo noi, vorreste forse rivendicare il diritto alla gestione di una compagnia aerea? Dateci il vostro consenso, perché è attraverso quello che vi salveremo».Il no di massa dei lavoratori è stato definitivo e fulminante: un’epidemia di dissenso. Qual è il segno politico di tale pronunciamento? Uno solo: «Non ci fidiamo più. Vogliamo vedere il gioco. Non ci fate più paura. Vediamo di cosa siete capaci». Una sfida lanciata dal basso che ha sparigliato i soliti vecchi giochi, generando un panico confuso tra consiglieri di amministrazione, sottogoverno, sindacalismo di Stato, editorialisti: una manica di cialtroni che alla prova dei fatti, sbugiardati e sfiduciati, mostrano tutta la loro pochezza, l’assenza di strategie e di ogni visione che non sia spolpare, spezzettare e svendere la memoria industriale di questo paese. Torniamo ai vaccini. Se dovesse passare una legge sulle vaccinazioni coatte, che succederà di fronte a migliaia di genitori che rivendicheranno il diritto di decidere, comunque, della salute dei propri figli?Che succederà se sfideranno le autorità scolastiche, portando i loro ragazzi a scuola per adempiere a quello che, almeno fino ad oggi, in Italia, è un obbligo di legge? Finirà che deciderà il Tar del Lazio. Come è “normale” che sia in un paese patetico come questo, in cui ai piani alti della società, mentre si esibisce la protervia modernizzatrice, serpeggia una ottocentesca paura del “popolo” – sempre evocato, omaggiato, blandito, ma sotto sotto temuto per le sue imprevedibili reazioni. Le élite italiane sono oggi così deboli, prive di autorità e di egemonia, che ormai l’azione di governo si esercita solo attraverso il comando amministrativo, la decretazione d’urgenza a cui segue, di solito, l’ammucchiata bi-partisan. Sul piano sociale, questa debolezza si manifesta in tante vertenze sindacali o territoriali: tra i Palazzi del potere e le comunità (critiche o rancorose) spesso c’è solo una sfilza di celerini. Niente altro in mezzo. Nessun potere può reggere a lungo su una base di consenso così fragile: un po’ di truppe in camice bianco (i chierici delle varie corporazioni di regime), un po’ di truppe in divisa blu, e in mezzo uno sparuto drappello in giacca e cravatta che twitta moniti e minacce, isolato e intimorito.Una nota finale sulla questione delle libertà. Il sistema tardo-liberale fa di questa parola la sua fonte di legittimazione e la sua bandiera: si va in Afghanistan a liberare le donne in burqa, si svende il patrimonio pubblico per liberalizzare l’economia, si ridisegna tutto il quadro dei diritti individuali per allargare la libertà della persona. Ma se c’è un opzione o un diritto collettivo che cozza con gli imperativi del mercato (vedi la libertà di scelta terapeutica) la reazione del sistema è feroce come un missile Hellfire che piomba su una festa di matrimonio a Kandahar: la retorica pubblica sulle libertà, viene sostituita dalla riemersione delle vecchie care parole d’ordine della società disciplinare – proibire, censurare, espellere, ingabbiare, controllare. Le retoriche del politicamente corretto, del contrasto al populismo, delle isterie securitarie, si sostituiscono in un battibaleno alle ciance sulla libertà e i diritti. Se hai abbastanza soldi puoi farti fare un figlio con maternità surrogata da una disgraziata in Romania: ma se il pupo si vaccina o no (ciò che attiene alle grandi scelte di salute pubblica e business) questo lo decideranno loro.(Giovanni Iozzoli, “La libertà ai tempi del morbillo”, da “Carmilla Online” del 20 maggio 2017).Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.
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Padroni di tutto, anche dei giornali: chi crede alle loro news?
Industria, energia, finanza, cemento, sanità. E poi, anche, informazione. Editori puri? Non pervenuti. Chi stampa giornali, in Italia, ha soprattutto altri interessi. Qualcuno può stupirsi se poi “la verità” fatica a imporsi, sui media mainstream? «Ecco chi controlla i giornali in Italia: praticamente sono 9 entità, ma in realtà sono molte di meno se si considerano i legami, le infiltrazioni, le affiliazioni, le “amicizie”», scrive “Coscienze in Rete”, citando l’ultimo report del Cnms, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una Onlus che monitora lo stato dell’informazione partendo dalla lettura dell’assetto proprietario dei media. «I nomi? Li conosciamo tutti, ma non tutti hanno avuto modo di apprezzare come questo dominio sia pervasivo», sostiene il blog di Fausto Carotenuto, sottolineando come venga spesso dato «enorme risalto» a fonti «autorevoli», internazionali: il gioco si svela scoprendo, ad esempio, il legame tra “La Stampa” e l’“Economist”. In altre parole, gli uomini del quarto potere: «Sono loro che, tramite sottoposti, ci dicono quotidianamente qual’è la realtà».E sono «indispettiti», oggi, per il fatto che «un numero sempre crescente di persone ha cominciato a capire che la realtà che gli raccontano questi signori non coincide con quello che si vede», e quindi «cercano informazioni in rete, da fonti alternative». Eccoli qui, i proprietari del pensiero mainstream, in ordine alfabetico: Agnelli, Angelucci, Berlusconi, Cairo, Caltagirone, Conferenza Episcopale Italiana, Confindustria, De Benedetti, Maria Luisa Monti. «Ovviamente a loro va aggiunto Rupert Murdoch, proprietario di Sky, e chiunque gestisca la Rai in qualunque momento (tanto è sempre qualcuno che prende ordini dal governo, che a sua volta è stato messo lì anche tramite l’informazione mainstream)». Niente di strano, quindi, se oggi sono nati «tormentoni come “fake news” o “post-verità”, forieri di leggi sulla censura del web». Tormentoni «proposti ed amplificati da questi signori», che ormai «passano da una tv all’altra, da un giornale all’altro». Il problema? «Le testate sono tante. I padroni, però, sono molto pochi. E fanno i finanzieri, i costruttori, gli industriali e i religiosi».Imprenditori impeccabili? Non esattamente: «I loro nomi saltano spesso fuori, una volta uno, una volta l’altro, in storie di magagne, truffe, magna-magna, inquinamento, guerre, malasanità: proprio quelle storie che cercano di comprendere le persone che si svegliano, andando a cercare informazioni on-line». Dal punto di vista dei “padroni della notizia”, aggiunge “Coscienze in Rete”, «è sacrosanto che le uniche informazioni che debbano avere il “bollino blu” siano le loro. Come ci permettiamo, noi, di volerci fare gli affari loro?». Molto utile, quindi, dare un’occhiata allo studio del Cnms, dove si scopre che l’unico giornale italiano auto-prodotto dai giornalisti, in cooperativa, è “Il Manifesto”, che però distribuisce appena 11.000 copie al giorno. Largamente indipendente è il “Fatto Quotidiano”, nono in graduatoria con 45.000 copie in edicola: accanto ad Antonio Padellaro e Cinzia Monteverdi, titolari del 16% delle azioni, figurano – con analoga partecipazione azionaria – la società Edima Srl, «società di vari industriali marchigiani, fra cui il calzaturiero Enrico Paniccià», e l’editrice Chiarelettere, partecipata al 49% dal grande Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Tra i soci minori, alla fondazione, comparivano: Francesco Aliberti (12%), Bruno Tinti (8%), Marco Travaglio (5%), Peter Gomez (3,2%) e Marco Lillo (2,5%).Ma i grandi numeri, ovviamente, li fanno i super-quotidiani: il podio è composto, nell’ordine, dal “Corriere della Sera” (322.000 copie diffuse al giorno), da “Repubblica” (249.000 copie) e dal “Sole 24 Ore” (197.000). Il “Corriere” appartiene a Rcs Group, al 60% nelle mani di Urbano Cairo, patron de “La7” e già collaboratore di Berlusconi in Fininvest, coinvolto nell’inchiesta Mani Pulite. Rcs Media Group è una corazzata: gestisce “Gazzetta dello Sport” e “Corriere del Mezzogiorno”, nonché “Corriere di Bologna”, “Corriere del Veneto”, “Corriere Fiorentino”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, e poi riviste a larghissima diffusione come “Oggi”, “Amica”, testate come “Abitare”, “Sw”, “Living”, “Dove”, “Io”, “Style”, “Sette”. E all’estero, partecipa alla gestione di giornali come “El Mundo”, “Expansiòn” e “Marca”. Cairo non è solo al comando: gli sono accanto, tra gli altri, Mediobanca (con il 10% delle azioni) e l’industriale Diego Della Valle (con il 7,3%). A ruota, il quotidiano milanese è seguito dalla storica rivale romana, fondata da Eugenio Scalfari: oltre a “Repubblica”, il gruppo guidato da Carlo De Benedetti controlla importanti periodici (“L’Espresso”, “National Geographic”), storici quotidiani a diffusione regionale come “Il Mattino” di Napoli, “Il Piccolo” di Trieste, “Il Tirreno”, insieme a quotidiani di Mantova, Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Pavia. Senza contare le radio (“Radio Capital”, “Radio Deejay”) e l’informazione solo su web (“Huffington Post”, di Lucia Annunziata).«Oltre che nell’editoria – scrive il Cnms – la famiglia De Benedetti opera nei settori industriale e sanitario. L’insieme delle tre attività formano un unico impero economico, al cui vertice si trova Cir Spa, detenuta al 46% da F.lii De Bendetti Spa e al 15% da Cir stessa», secondo dati Consob aggiornati al 2017. «Il gruppo operativo nel settore industriale è Sogefi, che produce componenti per auto. Nel settore sanitario è Kos, che gestisce varie cliniche private. Fino al marzo 2015, Cir comprendeva anche la società energetica Sorgenia, poi ceduta alle banche con le quali era indebitata, fra cui Monte dei Paschi. Nel 2015 l’insieme delle attività controllate da Cir ha prodotto un giro d’affari di 2,5 miliardi di euro. La famiglia De Benedetti opera anche nel settore finanziario tramite vari fondi d’investimento che fanno capo a Cofide». La “Repubblica” è gestita dal Gruppo editoriale L’Espresso, che raccoglie pubblicità tramite la controllata A.Manzoni & C. Altro azionista di rilievo, aggiunge il Cnms, è Giacaranda Maria Caracciolo, col 6%. «Va segnalato che il 30 luglio 2016 il Gruppo L’Espresso ha concluso un accordo con Fca (Fiat Chrysler Automobiles, guidata da Sergio Marchionne), per condividere la proprietà del quotidiano “La Stampa”. Secondo l’accordo, “La Stampa” verrà trasferita al Gruppo L’Espresso, ma nel contempo verrà ampliato il capitale del gruppo per permettere ai vecchi proprietari della testata torinese di entrare nella compagine azionaria del Gruppo L’Espresso».Al terzo posto in Italia tra i quotidiani più venduti, con 197.000 copie distribuite, figura il “Sole 24 Ore” , di proprietà di Confindustria al 67,5% (il resto è azionariato diffuso). Il “Sole” è tallonato dalla “Stampa” di Torino, della famiglia Agnelli guidata da John Elkann (auto, immobiliare e finanza), che detiene anche il 43% del settimanale inglese “The Economist”. Il quotidiano – 176.000 copie diffuse al giorno – è gestito da Itedi, una società di comunicazione e raccolta pubblicitaria e (in attesa dell’esecuzione dell’accordo col Gruppo L’Espresso) appartiene ancora per il 77% a Fca (Fiat-Chrysler), a sua volta posseduta per il 30% da Exor, cassaforte della famiglia Agnelli. Il restante 23% è in quota a Ital Press Holding, società del genovese Carlo Perrone. Al gruppo Agnelli fa anche capo “Il Secolo XIX”, storico quotidiano di Genova. Se le prime quattro testate fanno capo al mondo degli affari, con 124.000 copie diffuse ogni giorno si fa largo, al quinto posto, “Avvenire”, quotidano dei vescovi italiani, gestito da Avvenire Nuova Editoriale Italiana. L’80% del capitale sociale è di proprietà della Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, espressione della Cei, Conferenza Episcopale Italiana. «Oltre a varie altre realtà ecclesiastiche risultano proprietari Italcementi di Carlo Pesenti per il 3,8% e Gold Line Spa, azienda di lavorazione di gioielli, per un altro 3,8%». Ad “Avvenire” fanno capo agenzie di stampa come Fides e Sir, la radio “inBlu” e il canale televisivo “Tv2000”.Sempre a Roma è stampato il “Messaggero”, sesto quotidano più venduto in Italia, con 113.000 copie diffuse. Il patron, Francesco Gaetano Caltagirone, opera anche nei settori finanziario, cementiero, immobiliare, dell’acqua, delle costruzioni. «L’insieme delle attività forma un unico impero economico, al cui vertice si trova Caltagirone Spa detenuta al 54% da Francesco e al 33% dal fratello Edoardo», scrive il Cnms. «Il gruppo operativo nel settore cementiero è Cementir, mentre in quello delle costruzioni è Vianini Lavori». Tramite le sue società, continua la Ong, Caltagirone è presente anche nella gestione dell’acqua con una partecipazione del 5% in Acea e del 48% in Acqua Campania Spa. «Nel 2015 l’insieme delle attività controllate da Caltagirone Spa ha prodotto un giro d’affari pari a 1,4 miliardi di euro». Il quotidiano è gestito da Caltagirone Editore, un gruppo attivo nei settori della comunicazione: stampa di quotidiani, Tv, internet e raccolta pubblicitaria. «Il gruppo editoriale appartiene per il 60% a Francesco Gaetano Caltagirone». Altri quotidani del gruppo sono “Il Mattino” di Napoli, “Il Gazzettino” di Venezia, e il “Corriere Adriatico”.A Maria Luisa Monti appartiene invece il gruppo che stampa “Il Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna (101.000 copie), e controlla anche “Il Giorno” e “Quotidiano Nazionale”, che ha accorpato “La Nazione” di Firenze. «Il quotidiano è gestito da Poligrafici Editoriale Spa, gruppo attivo nell’editoria e nella raccolta pubblicitaria». La società editoriale «appartiene per il 62% a Monrif Spa, controllata a sua volta da Maria Luisa Monti». Altri azionisti di rilievo di Poligrafici Editoriale sono Andrea Della Valle col 10% e Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste col 5%. Solo all’ottavo posto, nella graduatoria dei quotidiani più letti, si posiziona il berlusconiano “Il Giornale”, con 66.000 copie diffuse. Il quotidiano è gestito da Società Europea di Edizioni Spa (editoria e pubblicità), che appartiene per il 63% a Paolo Berlusconi tramite le società Pbf Srl (46%) e Arcus Multimedia (17%). Il restante 37% è in quota ad Arnoldo Mondadori Editore. A sua volta, l’azionista di maggioranza di Mondadori (53%) è Silvio Berlusconi (Mediaset) tramite Fininvest. Del gruppo Mondadori fanno parte 40 brand italiani a larghissima diffusione (tra cui “Chi”, “Donna Moderna”, “Focus”, “Grazia”, “Sorrisi e Canzoni Tv” nonché il settimanale “Panorama”), più svariate testate francesi.Dopo il “Fatto”, al nono posto, la classifica della stampa presenta “Italia Oggi”, con 40.000 copie quotidiane, di proprietà di Paolo Panerai. «Il quotidiano è gestito da Class Editori Spa, gruppo attivo nei quotidiani, riviste, radio e Tv», spiega il Cnms. «Class Editori appartiene per il 10% a Paolo Panerai, il 60% a Euroclass Multimedia Holding Ss, il resto è azionariato diffuso». Curiosità: Euroclass Multimedia è domiciliata in Lussemburgo, «per cui i proprietari non sono ufficialmente identificabili». Ma, secondo indiscrezioni, «oltre ad alcune società riconducibili a Panerai, figurano anche varie banche, fra cui Unicredit col 13%». Al gruppo “Italia Oggi” fa capo anche il quotidiano “Milano Finanza”, insieme al periodico “Class”, a “Radio Classica” e al canale televisivo “ClassTv”. A seguire – con 27.000 copie – è il quotidiano “Libero”, della famiglia Angelucci, gestito da Editoriale Libero Srl. Il socio di maggioranza è la Fondazione San Raffaele, che detiene il 60% del capitale, mentre il rimanente 40% è detenuto dalla finanziaria Tosinvest. «Ma è noto che dietro entrambe queste realtà si cela la famiglia Angelucci», scrive il rapporto del Cnms. Benché impegnati in attività immobiliari, finanziarie ed editoriali tramite la finanziaria Tosinvest, il vero affare di Antonio Angelucci e del figlio Gianpaolo sarebbe la sanità, gestita tramite la San Raffaele Spa, che dispone di 26 strutture private, 3.000 posti-letto, oltre 1.000 medici specialistici e 2.800 dipendenti.«Nel corso degli anni – continua il Cnms – la stampa si è occupata a più riprese delle attività degli imprenditori Angelucci a causa di indagini e processi per reati fiscali e finanziari. Nell’agosto 2016 la casa di cura San Raffaele di Cassino è stata condannata dalla Corte dei Conti a restituire al servizio sanitario nazionale 31 milioni di euro per avere erogato servizi di qualità non appropriata. Un’indagine per frode fiscale avviata nel 2014 ha messo in luce l’esistenza di almeno tre società (Th Ss, Three e Sps di Lantigos) utilizzate dagli Angelucci in Lussemburgo per le proprie attività finanziarie». Il gruppo è titolare dello storico quotidiano romano “Il Tempo”, nonché di giornali proviciali come “Corriere di Siena”, “Corriere di Viterbo”, “Corriere di Arezzo” e “Corriere dell’Umbria”. Chiudono la lista il “Manifesto”, in dodicesima posizione (con poco più di diecimila copie) e “Il Foglio”, i cui dati di diffusione non sono però disponibili. La proprietà fa riferimento a Valter Mainetti, e il quotidiano (fondato da Giuliano Ferrara) è gestito da Foglio Edizioni, posseduta al 97,5% da Sorgente Group attraverso la società Musa Comunicazione. A sua volta, Sorgente Group è partecipata per il 35% da Valter Mainetti, mentre il restante 65% è detenuto dalla Roma Fid Società Fiduciaria Spa, che agisce per conto di altri membri della famiglia Mainetti. «Sorgente Group Spa – spiega il Cnms – è parte di un complesso multinazionale con società localizzate negli Stati Uniti, Lussemburgo, Gran Bretagna, Emirati Arabi, Brasile. Svolge attività nei settori della finanza, del risparmio gestito, dell’immobiliare, delle costruzioni». In Italia opera anche nell’editoria tramite Musa Comunicazione. Ma, appunto, quella è solo una piccola parte del business.Industria, energia, finanza, cemento, sanità. E poi, anche, informazione. Editori puri? Non pervenuti. Chi stampa giornali, in Italia, ha soprattutto altri interessi. Qualcuno può stupirsi se poi “la verità” fatica a imporsi, sui media mainstream? «Ecco chi controlla i giornali in Italia: praticamente sono 9 entità, ma in realtà sono molte di meno se si considerano i legami, le infiltrazioni, le affiliazioni, le “amicizie”», scrive “Coscienze in Rete”, citando l’ultimo report del Cnms, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una Onlus che monitora lo stato dell’informazione partendo dalla lettura dell’assetto proprietario dei media. «I nomi? Li conosciamo tutti, ma non tutti hanno avuto modo di apprezzare come questo dominio sia pervasivo», sostiene il blog di Fausto Carotenuto, sottolineando come venga spesso dato «enorme risalto» a fonti «autorevoli», internazionali: il gioco si svela scoprendo, ad esempio, il legame tra “La Stampa” e l’“Economist”. In altre parole, gli uomini del quarto potere: «Sono loro che, tramite sottoposti, ci dicono quotidianamente qual’è la realtà».
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La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
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Monti fa ancora danni: 3 miliardi regalati a Morgan Stanley
Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.Simili operazioni, infatti, erano state stipulate anche con Deutsche Bank, Bnp Paribas, Dexia, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che contribuì a limitare l’esborso nel 2012 subentrando tramite Banca Imi a Morgan Stanley. A tutte sarebbe stata concessa la clausola di estinzione anticipata. «La controparte non aveva mai esercitato questa clausola, poi, arrivati alla fine del 2011, in quel periodo particolarmente turbolento, fecero presente che dovevano farla valere», spiegò il direttore del debito pubblico Maria Cannata ai magistrati di Trani che indagano sulle agenzie di rating. Mario Monti ha sempre spiegato che l’Italia, in una fase di difficoltà come quella del 2011-12, non avrebbe potuto non onorare i contratti pena la perdita di credibilità. In ogni caso, Morgan Stanley riuscì a liquidare la posizione proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s (di cui detiene una piccolissima quota tramite un fondo di investimento) declassava doppiamente il nostro paese. La tesi di Monti fu accolta anche dalla Procura di Roma con i pm Pignatone e Rossi, che archiviarono la posizione del senatore a vita in un’indagine conclusa senza esito l’anno scorso.La mossa della Corte dei Conti apre, però, uno scenario nuovo: quei contratti derivati hanno prodotto un danno erariale tanto all’apertura quanto alla chiusura. Questo vuol dire che allo stesso modo in cui le grandi banche hanno consentito a Prodi e D’Alema di portare l’Italia nell’euro così hanno avuto un ruolo determinante nella deposizione dell’ultimo premier legittimamente eletto. Basti ricordare il pessimo segnale per i mercati rappresentato nel giugno 2011 dalla vendita di tutti i Btp detenuti da Deutsche Bank. E basti ricordare che i primi due atti politici di Monti furono appunto la riforma delle pensioni chiesta dalla Germania e l’esborso verso Morgan Stanley come prova di affidabilità. Un meccanismo che aveva stritolato Silvio Berlusconi con la crisi da spread e con le pressioni di Francia e Germania al G20 di Cannes affinché l’Italia si mettesse sotto tutela della Troika. Un apparato di potere non estraneo al premier insediato a fine 2011 dall’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.(Gian Maria De Francesco, “Monti fa ancora danni: ci è costato altri 3 miliardi. Lo Stato li rivuole indietro”, da “Il Giornale” del 5 agosto 2016).Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.
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Come difendersi dall’albero marcio della finanza-truffa
C’è un piccolo paese dell’entroterra toscano, in cui un’intera comunità di trecento famiglie si è trovata in una notte con i risparmi di una vita totalmente azzerati. E con la drammatica scoperta che quel funzionario di quell’unica banca che incontravano tutti i giorni – che nella comunità locale era uno dei punti di riferimento cui affidarsi – li aveva coinvolti in un giro di investimenti ad alto rischio, finito nel peggiore dei modi. Naturalmente, quel funzionario non era diventato improvvisamente malvagio: stava solo cercando di eseguire al meglio il suo lavoro, essendo, ormai da anni, la sua efficienza contrattualmente misurata in base a quanti prodotti finanziari aveva collocato presso i propri concittadini. Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.
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Troppi dipendenti pubblici? E’ una leggenda metropolitana
I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.Pura fantascienza, in Svezia, i 135 lavoratori pubblici ogni mille abitanti. Ci batte solo la “risparmiosa” Germania: il paese europeo che più di ogni altro ha compresso i salari e danneggiato i lavoratori annovera 54 dipendenti statali ogni mille cittadini, 4 meno dell’Italia. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni il nostro paese ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri partner europei hanno assunto forza lavoro nel pubblico impiego: un incremento del 36,1% in Irlanda, del 29,6% in Spagna, del 12,8% in Belgio e del 9,5% nel Regno Unito. In Italia, gli stipendi del pubblico impiego pesano sul bilancio statale per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche qui siamo il fanalino di coda: per i dipendenti pubblici la Danimarca spende il 19,2% del suo Pil, la Svezia e la Finlandia il 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del loro prodotto interno lordo. Altra bufala storica: la concentrazione del pubblico impiego al Sud: con 409.000 addetti, la Lombardia batte persino il Lazio, nonostante la selva di uffici della capitale. Segue la Campania, ma dopo Milano e Roma.Quanto alla vita quotidiana dietro agli sportelli, sono dolori: l’età media dei dipendenti pubblici è in costante crescita, per colpa del blocco del turnover e dell’aumento dell’età pensionabile. In Francia, circa il 30% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, nel Regno Unito gli “under 35” sono il 25% (uno su quattro) mentre in Italia solo il 10%. La percentuale di addetti sotto i 25 anni, inoltre, è pari all’1,3%: una miseria, rileva “Lettera 43”, nonché il segno che il rapporto fra le università e la pubblica amministrazione è tutt’altro che lineare. Roberto Perotti, economista della Bocconi, confronta i nostri stipendi pubblici con quelli del Regno Unito: «Le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil pro capite». Nel nostro paese lo stipendio di un docente delle scuole elementari, incluse le indennità e le spese accessorie, è di 24.849 euro contro i 37.400 (in media) degli inglesi. Idem per gli insegnanti delle superiori: 28.547 euro, contro i 41.930 euro dei britannici. In compenso, nei ministeri, un nostro capo di gabinetto guadagna 275.000 euro l’anno contro i 192.000 del collega inglese, una differenza del 43%. E’ la casta, bellezza: quella che serve ad affondare il sistema, sabotando la “concorrenza” pubblica che tanto infastidisce l’élite privatizzatrice.I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.
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Il Pd che scappa in Svizzera coi soldi, scortato da poliziotti
Il caso di Marco Di Stefano sta assumendo tratti quasi comici, se non fossero drammatici perchè rivelatori di un malcostume politico diffuso e radicato. I magistrati hanno ricostruito come il deputato del Partito Democratico, accusato di aver preso tangenti per circa 2 milioni di euro quando faceva l’assessore in Lazio, abbia aperto due conti in Svizzera presso una filiale dell’Ubs. Per andare a portare nella Confederazione Elvetica i soldi, intascati in modo illecito secondo i magistrati, Di Stefano sarebbe stato accompagnato dai suoi amici poliziotti. Il deputato Pd, prima di entrare in politica, lavorava nella polizia di Stato, e avrebbe sfruttato i suoi antichi contatti per trasferire ingenti quantità di denaro non coerenti con la sua condizione reddituale e patrimoniale. Per i magistrati della procura di Roma la ricostruzione dei movimenti di Di Stefano, effettuata grazie alla collaborazione con le autorità elvetiche, sarebbe la prova della corruzione, mentre il deputato del Partito Democratico sostiene la sua innocenza. Il caso mette però ancora una volta in evidenza quanto il Pd sia spesso protagonista di vicende di malaffare legate alla politica.L’inchiesta Expo così come quella sul Mose avevano sfiorato il centrosinistra, benché in Lombardia e Veneto governino da anni partiti di centrodestra. La vicenda di Filippo Penati, collaboratore molto stretto di Pierluigi Bersani, non è mai stata affrontata dal punto di vista politico, e sostanzialmente rimossa da una classe dirigente lombarda cresciuta sotto l’ala protettrice dell’ex presidente della Provincia di Milano, punto di riferimento degli ex Ds settentrionali dal 2001 al 2011. Senza contare il rilievo nazionale avuto da Penati durante la segreteria Bersani, che gli affidò il ruolo di coordinatore della sua segreteria politica. L’intera vicenda di Marco Di Stefano interroga il Pd. L’ex assessore del Lazio ha parlato, nelle intercettazioni telefoniche, di «brogli» alle primarie 2012, minacciando di far scoppiare «un casino, coinvolgendo tutti». La nomina dell’assessore Marta Leonori che ha permesso a Di Stefano di diventare parlamentare è legata a questa vicenda? Mentre il Pd romano discute delle multe di Ignazio Marino, forse dovrebbe aprire una riflessione su un caso che lo coinvolge in modo pesante.La vicenda Di Stefano riguarda anche l’attuale classe dirigente del Pd nazionale. L’ex assessore del Lazio era uno dei tanti parlamentari che hanno coordinato un tavolo sulla Leopolda, ironicamente sulla “moneta digitale”. La prova di renzismo fatta da Marco Di Stefano indica come il rafforzamento della nuova maggioranza del Pd sia avvenuto in modo quantomeno poco cauto, visto che avrebbe coinvolto personale politico con più di un comportamento da “rottamare”. Una riflessione che può essere estesa ad altri casi giudiziari come quello del deputato messinese Francatonio Genovese, e che deve interrogare i vertici del Partito Democratico. Il Pd è diventato la formazione politica di riferimento del nostro sistema istituzionale, e non può non porsi il problema di come evitare l’arrivo di personale interessato solo ad arricchirsi con l’eventuale fetta di potere da conquistare. Iniziative legislative sui temi della corruzione e della trasparenza sarebbero davvero benvenute, oltre allo sviluppo di una riflessione più approfondita e sincera su quale sia il rapporto tra poteri economici e politica nell’Italia del 2014.(Andrea Mollica, “Perché il Pd ha accolto e candidato un faccendiere come Di Stefano, che portava i soldi in Svizzera scortato dai poliziotti?”, dal blog di Gad Lerner del 21 novembre 2014).Il caso di Marco Di Stefano sta assumendo tratti quasi comici, se non fossero drammatici perchè rivelatori di un malcostume politico diffuso e radicato. I magistrati hanno ricostruito come il deputato del Partito Democratico, accusato di aver preso tangenti per circa 2 milioni di euro quando faceva l’assessore in Lazio, abbia aperto due conti in Svizzera presso una filiale dell’Ubs. Per andare a portare nella Confederazione Elvetica i soldi, intascati in modo illecito secondo i magistrati, Di Stefano sarebbe stato accompagnato dai suoi amici poliziotti. Il deputato Pd, prima di entrare in politica, lavorava nella polizia di Stato, e avrebbe sfruttato i suoi antichi contatti per trasferire ingenti quantità di denaro non coerenti con la sua condizione reddituale e patrimoniale. Per i magistrati della procura di Roma la ricostruzione dei movimenti di Di Stefano, effettuata grazie alla collaborazione con le autorità elvetiche, sarebbe la prova della corruzione, mentre il deputato del Partito Democratico sostiene la sua innocenza. Il caso mette però ancora una volta in evidenza quanto il Pd sia spesso protagonista di vicende di malaffare legate alla politica.
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Soldi solo agli speculatori, così gli Usa ci fregano sempre
Le due maggiori banche centrali del mondo, la Fed e la Bce, Yellen e Draghi, hanno deciso di fare entrambe la più fottuta puttanata che una Bc possa fare in assoluto. Prima la Fed, che adesso dovrebbe smetterla, ora la Bce. Hanno iniettato miliardi su miliardi nelle banche a tassi ridicoli o comprandogli i titoli di Stato che avevano nelle riserve in quantità oceaniche. Risultato: zero per la gente e il lavoro, zero per le aziende, proprio un emerito cazzo, ma soldi a prezzi stracciati per gli speculatori per speculare. L’ho detto a “La Gabbia”, La7, ma lo hanno scritto milioni di analisti nel mondo. Ora che succede? Le Borse si sono gonfiate con acquisti frenetici oltre ogni realtà, stanno gonfiandosi da 64 mesi consecutivamente, e non era solo Hyman Minsky che ce lo diceva anni fa, ma la realtà di oggi ce lo dice: quando un gonfiore così accade, poi fa il botto, SEMPRE, SEMPRE E SEMPRE, perché non riflette, come detto, il mondo reale, ma solo i soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori. E tutto esplode in merda (dopo che i soliti noti hanno fatto miliardi e i solidi idioti, voi, ci hanno perso investimenti e lavoro). Ma non solo…Il mercato dei Junk Bonds aziendali si è gonfiato fino alla Luna, poi si è sgonfiato e sono cazzi ora per ’ste aziendine, che non trovano più liquidità e? e?…. LI-CEN-ZIA-NO; il valore dei titoli di Stato dei paesi europei cosiddetti Piigs è schizzato alle stelle con rendimenti sotto le scarpe, ma attenzione che nessuna di queste tre cose riflette il reale valore delle Borse, delle aziende, né dei titoli in oggetto, sempre per lo stesso motivo: sono soldi investiti grazie “ai soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori”. Cioè? Una colossale bolla speculativa come quella del 2001-2007 che poi è esplosa frantumando il pianeta. Di nuovo. Non abbiamo imparato un cazzo, NIENTE! Poi quella verruca pustolosa della Camusso, una delle più ignoranti presenze in Italia dal 1861, protesterà per i licenziamenti… Una colossale bolla speculativa su cui s’innestano alcune altre variabili alla dinamite. Ohhhhh! Che belle notizie! (tanto alle scimmie-cani italiani, al 99,99%, frega un cazzo. Scimmie-cani che siano della curva ultras Lazio, quelli che “governo ladro”, o che leggano il “Fatto Quotidiano”).Allora: in ’sto macello pronto a esplodere sotto al sedere di tuo figlio di 5 anni, s’innesta Obama che è senza ombra di dubbio il più bastardo presidente Usa da sempre, quello che ha permesso il più grande trasferimento di ricchezza dal 99% all’1% nella storia dell’umanità (e doveva essere un negro a essere così? Povero M.L. King “I have a dream”…). Obama fa la guerra di sanzioni commerciali con Putin, che significa che fra tutte le economie del mondo quella che va più in merda è proprio… LA NOSTRAAAA! Cioè l’Europa! Geniale. Come ci fottono sempre gli Usa, eh? Magistrali. Ma per chi scrivo io? Per gente che domattina sta con gli occhi da cefalo bollito incollati al “Fatto Quotidiano” o a “Repubblica” sulla Boschi o su Galan. Mentre il Vero Potere gli fotte il tratto rettale-sigmoideo over and over and over again fino alla morte. Giusto, santamente giusto. Siete idioti (ok, meno tu e quell’altro e tuo cugino)… come la Camusso, che dirà…(Paolo Barnard, “Questa finanza te la becchi dove sai. Sorry”, dal blog di Barnard del 13 agosto 2014).Le due maggiori banche centrali del mondo, la Fed e la Bce, Yellen e Draghi, hanno deciso di fare entrambe la più fottuta puttanata che una Bc possa fare in assoluto. Prima la Fed, che adesso dovrebbe smetterla, ora la Bce. Hanno iniettato miliardi su miliardi nelle banche a tassi ridicoli o comprandogli i titoli di Stato che avevano nelle riserve in quantità oceaniche. Risultato: zero per la gente e il lavoro, zero per le aziende, proprio un emerito cazzo, ma soldi a prezzi stracciati per gli speculatori per speculare. L’ho detto a “La Gabbia”, La7, ma lo hanno scritto milioni di analisti nel mondo. Ora che succede? Le Borse si sono gonfiate con acquisti frenetici oltre ogni realtà, stanno gonfiandosi da 64 mesi consecutivamente, e non era solo Hyman Minsky che ce lo diceva anni fa, ma la realtà di oggi ce lo dice: quando un gonfiore così accade, poi fa il botto, sempre, sempre e sempre, perché non riflette, come detto, il mondo reale, ma solo i soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori. E tutto esplode in merda (dopo che i soliti noti hanno fatto miliardi e i solidi idioti, voi, ci hanno perso investimenti e lavoro). Ma non solo…
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Sbanca-Italia, dal Vangelo secondo Matteo Cirino Pomicino
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista. «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».Come i vecchi tempi, col bilancino: «Un tanto all’Abruzzo e altrettanto al Veneto, una strada alla Calabria e una ferrovia al Lazio, un appalto per le coop rosse e uno per Cl, nella migliore tradizione da “assalto alla diligenza” di prassi dorotea e di craxiana memoria». Dopo la diagnosi e l’analisi della forma, Luca Giunti passa al contenuto: «Limitiamoci all’articolo 1, per evitare noia e disperazione. Riguarda la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Se ne parla da almeno 10 anni. Compare con 3,8 miliardi nel 7° Dpef del 2009 perché “opera di nuovo inserimento a causa dell’avanzato stato progettuale” (testuale, non ridete). In precedenza era stata annunciata come “in corso di progettazione” (Dpef 2004) e poi “inseribile nelle opere strategiche della Legge Obiettivo” (Dpef 2007). Da notare che quei documenti parlano anche del collegamento, normale, Salerno-Potenza-Bari, tante volte scritto e mai realizzato. Ora, perché uno Stato decide di costruire una nuova ferrovia? Perché serve. Come lo dimostra? Con uno studio chiamato Analisi Costi-Benefici (Acb)».A quanto a pare è talmente fondamentale, questo approccio, che lo propone persino il commissario dell’Osservatorio sulla Torino-Lione, Mario Virano propone, nel semisconosciuto “Quaderno 9”: tutte le fasi progettuali di un’infrastruttura, scrive Virano, dovrebbero basarsi su un’Acb. «Appare insostituibile per la sua diffusione, sinteticità nei risultati e necessità da parte dei promotori di definire molti aspetti di importanza decisiva per gli stakeholder, compresa evidentemente la collettività che finanzia parte o la totalità dell’opera». E in ogni fase, le Acb «dovrebbero essere redatte da soggetti qualificati, utilizzare metodologia consolidate e/o raccomandate da organi autorevoli e fatte oggetto di verifica da parte di organismi terzi». E’ mai stata fatta per la Napoli-Bari? No. Anzi, molti autori ne hanno denunciano l’assenza, e soprattutto l’inutilità dell’opera, osserva Giunti «Infatti, come la Torino-Lione, la Milano-Genova e la Roma-Napoli, si affiancherebbe a ferrovie esistenti, sottoutilizzate e migliorabili con costi minori e denari più immediatamente circolanti».Non è difficile verificarlo: oggi si può benissimo andare in treno da Napoli a Bari. Secondo le opzioni proposte dal sito di Trenitalia, ci vogliono dalle 4 alle 5 ore, cambiando quasi sempre a Caserta. Sono circa 270 chilometri. «E’ necessario migliorare il collegamento? Si può fare subito. Intendiamoci: non occorre rinunciare al progetto nuovo. Ma intanto uno Stato serio offre ai propri cittadini una possibilità immediata. Convince le Ferrovie, ad esempio, a incrementare gli Intercity e a eliminare i cambi, magari richiamando in servizio l’onorato e mai dimenticato Pendolino (perfetto per l’Italia: andava forte – non fortissimo – sulle tortuose linee esistenti, in attesa di costruire quelle nuove più veloci ma molto più esigenti)». Ma poi, perché stupirsi? «Lo stesso decreto impone una nuova linea ad alta velocità tra Palermo, Catania e Messina (nella prima versione del decreto si fermava a Catania, ma poi le lobbies…)». L’aspetto più grave, però, non è nemmeno questo: è l’alta velocità del premier sulle grandi opere. «Renzi ha fretta, vuole aprire i cantieri entro un anno, anche se mancano ancora tutte le approvazioni previste dalle leggi. Allora cosa fa? Innanzitutto, dichiara gli interventi indifferibili, urgenti e di pubblica utilità. Poi nomina un commissario (un altro!) e gli dà poteri terribili».Il commissario renziano approva i progetti, rielabora quelli già approvati ma non ancora appaltati, bandisce gare anche sulla base dei soli progetti preliminari e provvede alla consegna dei lavori entro 120 giorni dall’approvazione dei progetti, anche adottando provvedimenti d’urgenza. «Appaltare i lavori in base al progetto preliminare – senza valutare il definitivo e l’esecutivo – è il sogno di ogni costruttore, onesto o criminale», osserva Giunti. «Gli inconvenienti, le varianti, gli imprevisti saranno innumerevoli. E il conseguente lucro, ingentissimo. Tanto, paga lo Stato. Povero Renzi: come un Pomicino qualsiasi…». Soprattutto, il Rottamatore «ordina imperiosamente che la conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti definitivi. Qualora il rappresentante di un’amministrazione sia assente o non dotato di adeguato potere di rappresentanza, la conferenza delibera a prescindere». Il dissenso manifestato in sede di conferenza dei servizi? «Deve essere motivato. E recare, a pena di non ammissibilità, le specifiche indicazioni progettuali necessarie ai fini dell’assenso».In caso di motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la determinazione finale «è subordinata ad apposito provvedimento del commissario entro sette giorni dalla richiesta». Sicché «i pareri, i visti e i nullaosta relativi agli interventi necessari sono resi dalle amministrazioni competenti entro trenta giorni dalla richiesta». Decorso inutilmente quel termine, «si intendono acquisiti con esito positivo». Domanda: «Cosa vuol dire questo burocratese?». Facile: «Che dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dell’arte e della salute, a Renzi e ai suoi sodali non gliene frega un cazzo, con buona pace della Costituzione, dei cittadini, degli annunci fatti in ogni occasione di rilanciare la cultura e tutelare il patrimonio italiano (eccola, l’“annuncite”), l’unico che nessun’altra nazione possiede. E con un insulto alla logica, alla geografia e alla storia: qualcuno può dubitare che scavando tra Bari e Napoli si troveranno molti resti archeologici?».D’altronde, fu lo stesso Renzi, in conferenza stampa, a parlare di «Soprintendenze che creano problemi». Aggiunge Giunti: «Tralascio per carità di patria le scempiaggini che ha detto riguardo le terre e le rocce da scavo». Basti ricordare che «l’Europa ha imposto norme vincolanti, l’Italia le ha eluse fino all’inevitabile procedura d’infrazione, si è corretta senza pentirsi e da tempo cerca di ritornare all’anarchia filo-mafiosa del passato: lo dimostra proprio questo decreto». Lo Sblocca-Italia prevede infatti «una Disciplina semplificata del deposito preliminare» e la «cessazione della qualifica di rifiuto» per i materiali di scavo, facilitando evidentemente il loro smaltimento senza bonificare i siti. Chiara la “prognosi” di un naturalista come Giunti: «Questo Renzi si è cucito addosso il ruolo di rottamatore e innovatore, ma le azioni che lui stesso prima annuncia e poi firma dimostrano che è vecchio, invece, vecchissimo». Matteo 7, 15.20: “Dai loro frutti li riconoscerete”. «Uguale preciso ai suoi predecessori: sono la causa della malattia e si spacciano per la cura. Dov’è la differenza con Monti, con Amato, con D’Alema? O con un Dini o un Colombo? Stringi stringi, sotto gli slogan trovi sempre calcestruzzo, bitume, impalcature e favori ai grandi costruttori, sia legali sia criminali». Se guariremo, non sarà «con queste medicine, decrepite e tossiche come pozioni di negromanti». Etica, partecipazione. E medici veri: «I decreti vecchi e i loro annunciatori vanno gettati via».«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista). «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».
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Lista Tsipras: questo nome vi ricorda ancora qualcosa?
Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.Alla vigilia delle europee, Aldo Giannuli (già esponente di Rifondazione) fu lapidario: il voto a Tsipras è sprecato, perché quella lista non ha in sé alcun germe di futuro. Pucciarelli è stato invece “simpatizzante” della formazione promossa da Barbara Spinelli, e ad agosto ha fatto una telefonata «a chi forse poteva rispondere alla domanda iniziale: scusa, che fine ha fatto la Lista Tsipras?». La risposta, Pucciarelli la pubblica su “Micromega”. Il “personaggio” interpellato sintetizza: la lista ha centrato il 4% miracolosamente, grazie a Sel e al Prc, «e poi s’è praticamente eclissata dal dibattito politico nazionale», in cui impazza il renzismo rottamatore. Gli unici a fare opposizione, riuscendo anche a dire “qualcosa di sinistra”, sono i “grillini” e i reduci di Sel. Proprio il partito di Vendola è al centro del dibattito-fantasma in corso tra gli ex attivisti della Lista Tsipras: «La corrente più forte dice che Sel è la morte, non ci si può assolutamente mai alleare con il Pd manco sui singoli provvedimenti, neanche a livello territoriale, perché il Pd, come Sel, è la morte. Per loro, per essere brevi e schematici, allearsi con il Pd (magari sull’immigrazione) è come allearsi con la Lega Nord (sul NoTav)», scrive l’informatore di Pucciarelli.Altro capitolo depressivo, il dibattito-ombra sulla possibile candidatura della Lista Tsipras alle elezioni regionali della primavera 2015: «Non abbiamo la forza politica né mediatica per candidarci a marzo», scrive la fonte. «Se volevano candidarsi, dovevano lavorare a questo già dal 27 maggio, cosa che non è stata (scientemente?) fatta. Per ricostruire qualcosa dovevamo cominciare ieri. Per dire che siamo in ritardo, e ogni giorno che passa la lista muore di più». Il 19 luglio, gli attivisti hanno varato un coordinamento che si impegnasse almeno a promuovere qualche campagna politica in autunno (su scuola, immigrazione, reddito minimo). Problema: il coordinamento è affollato di 221 persone, «una follia». Ci sono dentro praticamente tutti: ex candidati, ex garanti, ex comitato operativo, nonché dirigenti di Sel, Prc e “Azione Civile”, e «interi comitati territoriali», che in alcune regioni hanno “cammellato” il coordinamento (per il Lazio, 35 delegati). «Tu immagina cosa può venire fuori da questo coordinamento: se ci va bene non ne viene fuori nulla, se va male – come temo – verrà fuori una guerra tra bande su ogni minima questione».Inoltre, a parte il coordinamento, la lista è ora “suddivisa” in 7 gruppi, che affrontano temi come democrazia, Costituzione, welfare, lavoro. Gruppi troppo folti, suddivisi in sotto-gruppi. Il problema? «Non si vota niente, e quindi alla fine nessuno decide nulla». E i tre europarlamentari eletti, nel nome di “Un’altra Europa”? Non pervenuti: «Sono talmente scollati dal resto della lista che ormai sono tre pianeti a sé stanti che a stento si confrontano anche tra di loro», conclude la fonte. «Purtroppo non c’è trasparenza da parte loro, né la lista riesce a imporsi in questo senso». Un report «deprimente», di cui Pucciarelli tende a fidarsi a occhi chiusi. Il giornalista di “Micromega” crede ancora nella necessità di rifondare una sinistra in Italia, nonostante questo ennesimo disastro. Per contro, nessuna delle forze che hanno promosso Tsipras – Sel, Rifondazione – ha mai neppure lontanamente accennato a criticare i fondamenti economici del regime eurocratico, la confisca della moneta sovrana per poi procedere allo smantellamento dello stato sociale col pretesto del debito pubblico. Gli eurocrati possono continuare a dormire sonni tranquilli, anche nel caso – molto improbabile – in cui la defunta Lista Tsipras dovesse un giorno resuscitare.Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.