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Zoffi: la Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil
Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di sventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Michelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vipresesidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.
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Salvini-mania, come conquistare l’Italia con quattro tweet
Ci sarebbe molto da dire sulle immense migrazioni umane dei nostri tempi: la prima è che sono solo sotto un sottoflusso del vorticoso Flusso Globale. I salmoni abituati per milioni di anni a fare il giretto da vivi di un angolino del Pacifico, da morti invece vanno dall’Alaska in Cina e tornano negli Stati Uniti, mentre il CO2 che le navi dispensano per fare questo giro finiscono (semplifico) per riscaldare il clima da noi e bruciare i nostri boschi. Qualunque discorso sulle migrazioni deve partire da qui, o è una perdita di tempo. Ma resto affascinato dalla maniera in cui Salvini è riuscito a trasformare la questione in un meccanismo da cui lui personalmente può solo uscire vincente. Un piccolo racconto immaginario. Facciamo conto che un giorno, un ghanese uccida una ragazza italiana. Nello stesso giorno, due mariti italiani hanno ammazzato le proprie mogli, ma poco importa. Salvini fa subito un tweet, “buttiamo fuori gli stranieri che uccidono!”. Ora, noi sappiamo tutti che nel Grande Cimitero dei Tweet, miliardi e miliardi di chiacchiere inutili dormono ignorate, come è giusto. Invece, a stretto giro di clic, arriva un’ondata di protesta per il tweet di Salvini. In un crescendo che funziona più o meno così: “Salvini dice ‘buttiamo fuori gli stranieri!’”. “Il ministro degli interni sta buttando fuori gli stranieri!”. “Salvini ha buttato fuori gli stranieri dall’Italia!”.Innanzitutto, la questione delle Migrazioni (che come dicevo è solo un sottoflusso, per quanto importante) diventa la questione centrale del paese, esattamente come voleva Salvini. Posto in questi termini, l’esito dello scontro è inevitabile. La maggior parte dei ghanesi si schiererà da una parte, la maggior parte degli italiani dall’altra, con la piccola precisazione che i ghanesi in Italia non votano. Ma soprattutto, succederà un’altra cosa. In Italia, tutti pensano che i politici siano fanfaroni. Li votiamo per fare i miracoli, poi non combinano niente e ci arrabbiamo. Pensate al mago Renzi, che ancora gli ridono dietro. Ma con Salvini, è diverso. Poniamo che io abbia votato per Salvini perché mi sta antipatico il gruppetto di quattro spacciatori tunisini dal coltello facile che bighellona in piazza (e non conosco i cento tunisini che fanno i muratori e tornano stanchi morti la sera). Incredibile… leggo che Salvini è riusciti a buttare fuori gli stranieri, e non lo dice lui: lo dicono persino i suoi avversari! All’inizio diffidavo, ma adesso ci credo sul serio! Cercavo i fatti concreti e li ho avuti. Il giorno dopo, gli spacciatori tunisini stanno sempre lì, ma questo non lo fa notare nessuno, anche se per smontare Salvini e mandarlo a casa, sarebbe bastato dire, “il cretino fa il duro alla tastiera, ma gli spacciatori stanno sempre lì!”.Questo non lo dice nessuno, perché quelli che se la prendono con Salvini, hanno bisogno di avere paura di lui. Se non esistono i draghi, che gusto c’è a salvare le vergini e sentirsi San Giorgio? Tutta la retorica della parte avversa è drammatica, “mai sottovalutare, il mostro può risvegliarsi in ogni momento, siamo nell’agosto del 1939!”. Quindi l’ipotesi che Salvini sia un fanfarone, non è nemmeno contemplabile. Mentre Salvini Fa i Fatti (con tanto di certificazione avversaria), i suoi nemici si crogiolano in un brodo emotivo, che da una parte è fatto di buoni sentimenti (buoni davvero, non è ironia), dall’altra di rabbia incontrollata. E i Fatti vincono facilmente sulle Emozioni. Anche quando non esistono, ma tutt’e due le parti concordano che sono reali. Ora, qualcuno potrebbe anche sottrarsi a questo gioco, ricordando che esistono questioni molto più importanti (come il fatto che tra poco dovremo stare tutti con l’aria condizionata accesa a dicembre, solo che non essendoci più il lavoro, non avremo come pagarcela). Ma anche se lo fa, ci sarà sempre un numero sufficiente di gente che ci cascherà e manterrà in vita il meccanismo. Come conquistare l’Italia con quattro tweet.(Miguel Martinez, “Salvini, Salvini e ancora Salvini!”, da “Kelebek Blog” del 15 ottobre 2018).Ci sarebbe molto da dire sulle immense migrazioni umane dei nostri tempi: la prima è che sono solo sotto un sottoflusso del vorticoso Flusso Globale. I salmoni abituati per milioni di anni a fare il giretto da vivi di un angolino del Pacifico, da morti invece vanno dall’Alaska in Cina e tornano negli Stati Uniti, mentre il CO2 che le navi dispensano per fare questo giro finiscono (semplifico) per riscaldare il clima da noi e bruciare i nostri boschi. Qualunque discorso sulle migrazioni deve partire da qui, o è una perdita di tempo. Ma resto affascinato dalla maniera in cui Salvini è riuscito a trasformare la questione in un meccanismo da cui lui personalmente può solo uscire vincente. Un piccolo racconto immaginario. Facciamo conto che un giorno, un ghanese uccida una ragazza italiana. Nello stesso giorno, due mariti italiani hanno ammazzato le proprie mogli, ma poco importa. Salvini fa subito un tweet, “buttiamo fuori gli stranieri che uccidono!”. Ora, noi sappiamo tutti che nel Grande Cimitero dei Tweet, miliardi e miliardi di chiacchiere inutili dormono ignorate, come è giusto. Invece, a stretto giro di clic, arriva un’ondata di protesta per il tweet di Salvini. In un crescendo che funziona più o meno così: “Salvini dice ‘buttiamo fuori gli stranieri!’”. “Il ministro degli interni sta buttando fuori gli stranieri!”. “Salvini ha buttato fuori gli stranieri dall’Italia!”.
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Moncalvo: Agnelli segreti, il potere Usa dietro a Marchionne
Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.Autore di una minuziosa ricostruzione, basata essenzialmente sulle carte processuali prodotte dalla clamosa “guerra familiare” aperta da Margherita Agnelli per difendersi da quello che lei considera “il golpe del 2003”, Moncalvo ha riempito di voluminosi dossier un intero appartamento. Un lavoro di scavo giornalistico, il suo, magistralmente riproposto – a puntate – anche nelle trasmissioni “Reteconomy”, diffuse su YouTube. Focus: la controversia giudiziaria (non ancora esaurita, ma silenziata dai media) sulla vastissima eredità di Gianni Agnelli, in gran parte costituita da beni collocati all’estero: «Dal testamento emerse un ammontare che si aggirava sui 300 milioni di euro, inferiore a quelli di Pavarotti e Lucio Dalla, mentre oggi la vedova dell’Avvocato, Marella Caracciolo, è accreditata di una fortuna pari ad almeno 20 miliardi di euro, forse in parte custoditi in un bunker super-blindato all’aeroporto di Ginevra». Singolare, rileva Moncalvo, che tanto denaro sia stato parcheggiato all’estero, da un uomo a capo di un’azienda così pesantemente foraggiata dallo Stato italiano: straniera, oggi, anche la domiciliazione fiscale dell’ex Fiat, senza calcolare i conti (personali) nei vari paradisi fiscali del pianeta.Proprio la ricostruzione della reale entità patrimoniale del padre, ricorda Moncalvo, è stata il punto di partenza della clamorosa azione legale condotta da Margherita Agnelli, ex moglie di Alain Elkann e madre di Lapo e John, vistasi improvvisamente isolata: all’apertura del testamento, Margherita Agnelli scoprì che sua madre Marella e suo figlio John si erano accordati con i due plenipotenziari dell’anziano “monarca”, vale a dire Gianluigi Gabetti (amministratore dei beni di famiglia) e Franzo Grande Stevens, divenuto l’avvocato più importante, nella vita di Gianni Agnelli, dopo la perdita dello storico legale Vittorio Chiusano. L’intento di Margherita, spiega Moncalvo, era quello di riunire la famiglia – lei, la madre e il figlio – nella piena condivisione paritetica della “Dicembre”, vero e proprio forziere dell’impero Fiat, pur essendo una “società semplice” (senza neppure l’obbligo di presentare bilanci). Ma nello stesso giorno della lettura testamentaria, continua Moncalvo, Margherita Agnelli ebbe la più amara delle sorprese: sua madre Marella cedette gran parte delle sue quote della “Dicembre” all’allora giovanissimo nipote John, che a quel punto divenne formalmente l’unico vero padrone dei destini della “royal family”, senza però che vi fosse traccia di un’investitura (scritta) da parte del nonno. Come se, appunto, l’operazione fosse stata il frutto di una occhiuta regia esterna, affidata all’abilissima “manovalanza” di Gabetti e Grande Stevens.Il primo a protestare per lo strano ingresso nel board Fiat dell’imberbe John Elkann era stato Edoardo Agnelli, che nella “Dicembre” non aveva mai neppure voluto mettere piede. Poco prima di essere ritrovato senza vita ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, il figlio “ribelle” dell’Avvocato confidò al “Manifesto” che trovava inappropriata la nomina del 21enne John nel Cda della Fiat, a pochi giorni dalla morte del cugino “Giovannino” (Giovanni Alberto) Agnelli, figlio di Umberto, lanciatissimo nella carriera aziendale ma stroncato da un tumore a soli 33 anni. John Elkann, ricorda Moncalvo, in fondo deve la sua attuale posizione a una serie terribile di decessi: il nonno Gianni, lo zio Umberto, il cugino Giovannino e, ovviamente, lo stesso Edoardo, sulla cui fine – l’ipotetico volo dal viadotto di Fossano – le prime ombre furono sollevate dal regime iraniano, secondo cui il figlio dell’Avvocato sarebbe stato “suicidato dai sionisti”. Evidente l’allusione (velenosa) ad Alain Elkann, il padre di John, ebreo osservante. Secondo lo studioso italiano Gianfranco Carpeoro, Alain Elkann sarebbe un autorevole esponente nel B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica strettamente controllata dal Mossad, mentre lo sfortunato Edoardo Agnelli, fratello di Margherita, aveva aderito all’Islam e addirittura al Sufismo. Una celebre foto lo ritrare in preghiera a Teheran, di fronte all’ayatollah Alì Khamenei.Nella visione di Moncalvo (autore non solo di “Agnelli segreti”, ma anche de “I lupi e gli agnelli”) la tragica fine di Edoardo è ben presente, ma il giornalista evita accuratamente qualsiasi tentazione complottistica. Moncalvo preferisce stare ai fatti: e le carte (specie quelle prodotte da Margherita Agnelli) raccontano di una sostanziale svolta, nel management e nella proprietà dell’impero ex-Fiat, che appare imposta da lontano, come se i veri dominus del destino del gruppo non risiederesso più a Torino. Un “trasloco” reso lampante dall’avvento di Marchionne, ma in realtà risalente – nelle intenzioni – a un passato assai meno recente. Ai microfoni di “Forme d’onda”, Moncalvo parla addirittura del primissimo dopoguerra, quando l’allora giovane “vitellone” Gianni Agnelli, rinomato playboy, «viveva in una sfarzosa villa in Costa Azzurra, disertata però dal bel mondo dell’epoca, che non perdonava al rampollo torinese la fortuna del nonno, costruita con le commesse militari del fascismo». Tutto cambiò, dice Moncalvo, quando Gianni Agnelli incontrò «la donna più importante della sua vita: Pamela Churchill Harriman», nuora dello statista britannico. «Da quel momento, la nuova fidanzata gli aprì porte prima impensabili: le grandi banche d’affari americane, i Rothschild, i Rockefeller. Potenze finanziarie, coinvolte nel Piano Marshall che poi avviò la “resurrezione” della Fiat devastata dalle bombe alleate».Del resto, è noto che lo stesso Gianni Agnelli scrisse la prefazione (nell’edizione italiana) dello storico saggio “La crisi della democrazia”, vero e proprio manifesto del pensiero unico neoliberista, commissionato da quella Commissione Trilaterale di cui lo stesso Avvocato era membro, accanto a personaggi come Henry Kissinger e David Rockefeller. Moncalvo invita a far luce sull’insieme, collegando i fili su cui il giornalismo nostrano sorvola regolarmente. Per poi scoprire, magari, che alla morte dell’Avvocato quel super-potere si è semplicemente ripreso il pieno controllo dell’impero torinese, a lungo affidato alla sapiente guida politica del principe degli industriali italiani. Un monarca intoccabile, ricorda Moncalvo: avvicinandosi la tempesta di Tangentopoli, Gianni Agnelli ottenne l’immunità parlamentare da Francesco Cossiga, che lo nominò senatore a vita, mentre l’avvocato Chiusano “blindò” la Fiat dall’insidioso attacco di Mani Pulite, che aveva già portato all’arresto del numero tre del gruppo, Francesco Paolo Mattioli, la mente finanziaria della holding torinese.Riuscirono a fare della Fiat un’eccezione, dice Moncalvo: grazie al magistrale Chiusano, si stabilì che il tribunale competente non sarebbe stato quello dell’area dove erano stati contestati i reati (Milano) ma quello di Torino, sede dell’azienda. «Un po’ come se la Juventus giocasse sempre e solo in casa». E a proposito di Juve: «Mai, con l’Avvocato in vita, si sarebbe potuta contestare legalmente la gestione Moggi, togliendo scudetti alla squadra fino a retrocederla in Serie B». Moncalvo spiega così sua la passione per il giallo-Agnelli: «La dirompente azione legale di Margherita ha permesso di svolgere finalmente un’attività giornalistica, attorno alla famiglia più potente d’Italia, sempre protetta dalla micidiale autocensura degli stessi giornalisti, e non solo». Pensate, aggiunge, che il film-capolavoro “Il silenzio degli innocenti”, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, uscì in tutto il mondo con il titolo originale, “The silence of the lambs”, cioè quello del romanzo di Thomas Harris, da cui era tratto. Solo in Italia, «senza alcun riguardo per l’opera di Harris», al “silenzio degli agnelli” si preferì quello, molto meno rischioso, degli “innocenti”.(Sono due i saggi di Moncalvo sulla famiglia Agnelli, stranamente irreperibili in libreria ma comodamente acquistabili sul sito dell’autore. Il primo: Gigi Moncalvo, “Agnelli segreti”, sottotitolo “Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, 522 pagine, 20 euro. Contenuto: “Processi di cui nessuno parla, testamenti ’segreti’, amori clandestini, morti sospette, eredità contese, prestanome all’estero, evasioni fiscali: a undici anni dalla morte dell’Avvocato, finalmente senza censure la saga familiare più avvincente d’Italia”. Il secondo: Gigi Moncalvo, “I lupi e gli agnelli”, sottotitolo “Ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”, 476 pagine, 20 euro. Contenuto: “Mi hanno rubato i figli per farne degli eredi Agnelli”. Il racconto delle verità, dei retroscena, delle ‘trappole’, dei documenti inediti che hanno fatto da contorno alla guerra dichiarata da Margherita alla sua famiglia. E viceversa…).Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.
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Scie chimiche, Gianini: se smontate un aereo scoprite tutto
«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dagli aerei di linea trasformati abusivamente in “tanker”.Alluminio e cadmio, bario, manganese. E poi ferro, torio e stronzio: sono gli elementi chimici riscontrati nel liquido che gli aerei perdono, una volta a terra. L’atmosfera è cambiata, da quando è diventato massiccio il ricorso alla geoingegneria. Sul sito “Tanker Enemy”, Rosario Marcianò spiega che i primi esperimenti risalgono agli anni ‘80, ma il “trattamento dei cieli” è diventato intensivo, anche in Italia, dal 1° gennaio 2001, quando l’allora primo ministro Berlusconi firmò con gli Usa l’accordo “Open Skies Treaty”, divenuto operativo il 23 giugno 2003. Motivazione: il contrasto del surriscaldamento climatico. Di fatto, secondo lo stesso Gianini, era un pretesto per manipolare le condizioni atmosferiche con esiti anche catastrofici, come si è visto anche nella recentissima alluvione che ha devastato il Sud, in particolare la Calabria. Ma in fenomeno è vistoso anche in Sicilia e Sardegna. «Da allora – dice Gianini – è aumentata la concentrazione anomala di piogge, capaci di trasformare ruscelli asciutti in impetuosi torrenti». Gianini crede alla manipolazione sistematica usata come arma: cita i vigneti della Loira e della Borgogna, qualche anno fa distrutti dalle intemperie (caldo africano, seguito da gelate) allo scopo di “convincere” François Hollande a rinunciare alla sua iniziale politica anti-austerity.Nel dossier “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già a capo delle forze Nato in Kosovo, conferma che la “guerra climatica” è ormai una realtà: si possono creare nubi artificiali per “accecare” le difese avversarie, ma quelle stesse nubi possono essere “fabbricate” per provocare siccità o eventi alluvionali, danneggiando l’agricoltura e le infrastrutture. Gianini parla di voli-fantasma, militari, che una volta in Italia vengono classificati civili. Ma cita soprattutto le compagnie low-cost, Ryanair e EasyJet, come i maggiori vettori dell’aerosol atmosferico: sospetta che alcune compagnie campino, letteralmente, con questo “lavoro” clandestino, non essendo sostenibile il bilancio economico del solo trasporto dei passeggeri a bassissimo costo. Inoltre, aggiunge, la recentissima liberalizzazione delle quote da seguire, all’interno delle rotte, rende ancora più efficace l’azione di “disseminazione chimica” del cielo, consentendo sorvoli a minore altitudine. Visivamente, lo strano spettacolo a cui tutti possono assistere è ormai familiare: mentre le ormai rarissime “contrails” (scie di condensazione) svaniscono quasi subito, le “chemtrails” rilasciate dagli aerei restano nell’aria per ore, fino ad espandersi e abbassarsi, creando un velo capace di appannare il sole e cancellare l’azzurro del cielo.Fate un esperimento semplicissimo, dice Gianini: se al mattino trovate la vostra auto cosparsa di una leggera polverina, vedrete che quella polvere – stranamente – si attaccherà alla calamita che avrete cura di far scorrere sul parabrezza. E’ vero che la “sabbia del deserto” può essere anche ferrosa, ammette Gianini, ma ben di rado la sabbia del Sahara “piove” fino alle nostre latitudini, dove invece la “polverina” è pressoché quotidiana. «Oppure – scherza – fate la prova del nove con il comandante di un aereo: quando vi imbarcate, provate a domandargli “scusi, oggi spruzziamo o voliamo puliti?”, e state a vedere che faccia fa». Non teme ritorsioni sul lavoro, Gianini: «Ho di fatto già abbandonato Malpensa, ma per altri motivi. Mai mi avrebbero licenziato per la mia denuncia pubblica: avrebbe fatto troppo rumore e avrebbe costretto i media a parlare del caso, cioè delle scie». Movente e regia? I massimi poteri, secondo Gianini: «I mafiosi, in confronto, sono dei dilettanti». Ma perché nessuno parla, a parte lui? E soprattutto – gli domanda il conduttore di “Border Nights”, Fabio Frabetti – come si fa a custodire un segreto così ingombrante? Non è improbabile che tutte quelle persone – piloti, assistenti, controllori di volo – tengano sempre la bocca chiusa, per anni, senza che a nessuno scappi mai una parola?Enrico Gianini ha una spiegazione anche per questo: il programma di irrorazione dei cieli, dice, è stato avviato in modo graduale, dopo una partenza in sordina affidata a pochissimi voli. Poi l’operazione è cresciuta progressivamente, poco alla volta, ma in modo inesorabile. Quello che ieri poteva sembrare un’anomalia, oggi è la normalità – di cui tutti, sostiene, sono al corrente. «E se lavori in aeroporto a chi la racconti, questa cosa, sapendo che i tuoi colleghi la sanno già?». E la polizia aeroportuale? «Mi rivolsi anche a loro», racconta sempre Gianini, «e ho visto che non erano molto contenti delle mie curiosità». Ma, aggiunge, non è stato mai ostacolato nelle sue ricerche, quando si aggirava sotto la pancia degli aerei armato della bottiglietta con cui raccogliere il liquido, inquinatissimo, che colava sull’asfalto. «In fondo, a nessuno – nemmeno ai poliziotti – fa piacere scoprire che qualcuno può avvelenare impunemente l’aria che poi respiriamo tutti». Che fare? «Semplice: continuare a denunciare il fenomeno, sperando che prima o poi qualcuno si svegli, controlli e intervenga. Ripeto: basta prendere un aereo a caso e smontarlo, per vedere che la coda è ingombra di cisterne piene di liquido».Il caso è clamoroso: di scie chimiche, semplicemente, è vietato parlare. Chi lo fa viene deriso, preso per un cretino visionario e complottista. Le tante interrogazioni parlamentari, sul tema (presentate anche da esponenti del Pd) sono rimaste senza risposta. Ogni tanto, anche sui media mainstream filtra qualche notizia, perlomeno riguardo all’impalpabile mondo dei voli civili, sempre protetto dalla massima discrezione: la “Stampa” ricorda che, se un pilota muore d’infarto mentre è ai comandi, viene sostituito dal suo vice fino all’atterraggio, senza che i passeggeri abbiano il minimo sentore dell’accaduto. Su “Smartweek”, Federico Ciapparoni scrive: «Non è raro che fumi tossici facciano breccia nella cabina di pilotaggio». E aggiunge che molti piloti hanno condotto aerei affollati «mentre respiravano dalle mascherine attraverso cui fluisce l’ossigeno, mentre tutti i passeggeri erano ignari di ciò che accadeva nella cabina». Sulle “chemtrails”, però, la rimozione più eclatante sembra quella della gente comune: ormai ci si è abituati a vedere il cielo “a strisce”, quasi fosse un fatto naturale. Il fenomeno è invece palesemente artificiale: tutti vedono che sono gli aerei a depositare quelle strisce, che poi diventano “nuvole”, ma quasi nessuno si chiede perché. Già: perché, oggi, i cieli sono diventati “sporchi”? Nessuno sente il bisogno di scoprire come mai, oggi – da una quindicina d’anni – i normalissimi aerei di linea “sporcano” il cielo, fino a cancellare l’azzurro?«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dai jet di linea trasformati abusivamente in “tanker”, aerei-cisterna.
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Ma l’austerity uccide i malati (e aggrava il debito pubblico)
Il vero pericolo per lo stato di salute di un paese e dei suoi cittadini non è rappresentato tanto da una crisi economica ma dalla risposta che a tale evento dà la politica. Non è la recessione in sé a provocare effetti disastrosi sulle vite umane, ma le sciagurate politiche di austerity attuate per superarla. A dimostrarlo sono due esperti di scienze mediche, David Stuckler e Sanjay Basu, nel libro “L’economia che uccide” (Rizzoli, 2013). Dalle ricerche condotte emerge come alcune popolazioni abbiano addirittura riportato un miglioramento nel livello di salute a seguito di periodi di grave crisi economica, come avvenuto ad esempio in Islanda, Svezia e Canada durante le recenti crisi e negli stessi Stati Uniti a seguito della Grande Depressione. È provato, ad esempio, che la minore disponibilità economica induce le persone a spendere meno per alcol e fumo e a preferire gli spostamenti a piedi piuttosto che in automobile, portando in alcuni casi a una diminuzione del tasso di mortalità. Quando per far fronte alla crisi si ricorre invece alle misure di austerity, secondo quello che è il repertorio fisso della ricetta neoliberista, vengono messi in atto una serie di tagli alla spesa pubblica e alla sanità, che minano il ruolo di tutela dei cittadini da parte dello Stato.In perfetto disaccordo con la teoria keynesiana, in un momento in cui la domanda è già depressa, tagliare la spesa pubblica significa indurre i cittadini a spendere meno, avviando così un circolo vizioso in cui a un aggravarsi della depressione della domanda fa seguito un inevitabile aumento della disoccupazione. Questo è il motivo per il quale le politiche di austerity, come testimoniato dal caso del nostro paese, anziché far diminuire il debito lo aumentano. In un simile contesto, caratterizzato dall’alta disoccupazione e l’indebolirsi della rete di sicurezza sociale, la perdita di lavoro può trasformarsi in un problema di salute. Esiste, infatti, una relazione diretta empiricamente comprovata tra spesa in welfare e speranza di vita. Come affermano i due autori: «Il prezzo dell’austerity si calcola in vite umane e quelle ormai perse non potranno più essere recuperate quando il mercato azionario tornerà a salire». A sostegno della loro tesi riportano analisi e testimonianze di quanto accaduto in Grecia a seguito della crisi, e in Italia a partire dal governo Monti.Dalla crisi economica la Grecia passa alla crisi dell’austerity, ovvero lo shock causato dalle misure imposte. In Grecia il primo pacchetto di misure di austerity imposto dal Fondo Monetario Internazionale è entrato in vigore nel maggio del 2010, senza essere sottoposto ad alcuna votazione. L’obiettivo del piano era «mantenere la spesa per la sanità pubblica al di sotto del 6% del Pil, prestando attenzione al controllo dei costi». Si tratta di un valore decisamente basso per poter garantire la qualità della sanità pubblica: per fare una comparazione, il governo tedesco spende oltre il 10% del Pil. I primi a pagarne le spese sono stati ovviamente gli anziani. Nel solo 2011 i fondi per la prevenzione e la promozione della salute sono passati da 29,6 a 5,9 milioni di euro e quelli destinati alla ricerca e al monitoraggio da 91,9 alle diciotto18,4 milioni di euro (dati Oms). A seguito di tali misure, nel 2011 in Grecia il virus dell’Hiv è aumentato del 52% e si è assistito a un’epidemia di malaria che non si riscontrava dal 1974.Fino ad allora nota come il paese con il tasso di suicidi tra i più bassi in Europa, la Grecia ha riscontrato nel 2012 una crescita di tale indicatore del 25%, a fronte di un raddoppio di persone affette da depressione. La disperazione e la rabbia del popolo greco erano tali che nell’ottobre 2012 l’arrivo della Merkel ad Atene ha richiesto il dispiegamento di 6.000 agenti di polizia per contenere i manifestanti che lanciavano pietre, bruciavano bandiere naziste e intonavano cori che dicevano “no al Quarto Reich”. Nonostante le misure di austerity, il debito pubblico greco non solo non è diminuito ma anzi è continuato a salire. Uno degli argomenti cardine del Fondo Monetario Internazionale a favore dell’austerity sosteneva che il moltiplicatore fiscale relativo alla spesa pubblica fosse pari a 0,5: dunque a un taglio della spesa statale sarebbe dovuta corrispondere una crescita del Pil. Di fronte ai fallimenti conclamati nel febbraio del 2012 il Fondo ha chiesto ai propri economisti di ricalcolare il moltiplicatore e si è scoperto che era inficiato da un errore. Il suo valore era maggiore di 1, quindi ogni taglio avrebbe prodotto una perdita. L’istituto di Washington ha ammesso di aver sottostimato gli effetti negativi dell’austerity sulla perdita di occupazione sull’economia. Quello che doveva essere un aiuto concesso alla Grecia si è tradotto in un disastro: perdita di posti di lavoro, minore reddito, calo della fiducia da parte degli europei.(Ilaria Bifarini, “Grecia, l’austerity che uccide”, dal blog della Bifarini del 7 ottobre 2018).Il vero pericolo per lo stato di salute di un paese e dei suoi cittadini non è rappresentato tanto da una crisi economica ma dalla risposta che a tale evento dà la politica. Non è la recessione in sé a provocare effetti disastrosi sulle vite umane, ma le sciagurate politiche di austerity attuate per superarla. A dimostrarlo sono due esperti di scienze mediche, David Stuckler e Sanjay Basu, nel libro “L’economia che uccide” (Rizzoli, 2013). Dalle ricerche condotte emerge come alcune popolazioni abbiano addirittura riportato un miglioramento nel livello di salute a seguito di periodi di grave crisi economica, come avvenuto ad esempio in Islanda, Svezia e Canada durante le recenti crisi e negli stessi Stati Uniti a seguito della Grande Depressione. È provato, ad esempio, che la minore disponibilità economica induce le persone a spendere meno per alcol e fumo e a preferire gli spostamenti a piedi piuttosto che in automobile, portando in alcuni casi a una diminuzione del tasso di mortalità. Quando per far fronte alla crisi si ricorre invece alle misure di austerity, secondo quello che è il repertorio fisso della ricetta neoliberista, vengono messi in atto una serie di tagli alla spesa pubblica e alla sanità, che minano il ruolo di tutela dei cittadini da parte dello Stato.
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Il Mago ipnotizza l’Europa: votare non serve, decido solo io
Lucida follia: è tutto sotto i nostri occhi, eppure si nega l’evidenza. Del sistema capitalistico esistono due traduzioni pratiche: enormi fortune per pochi (neoliberismo) o relativo benessere per molti (keynesismo). Più lo Stato spende, a deficit, e più cresce il Pil. Ovvero: consumi, lavoro, risparmi. Di conseguenza: più gettito fiscale, più soldi per il welfare, la previdenza, le pensioni. E’ un fatto intuitivo, oltre che scientificamente e storicamente dimostrato: più si investe, utilizzando il debito pubblico, più la società cresce, nel suo insieme. Se viceversa si chiude il rubinetto pubblico, la situazione precipita: il 99% della popolazione perde terreno, e il restante 1% si arricchisce a dismisura, acquistando a prezzi di saldo beni e aziende, pubbliche e private; si rilevano servizi un tempo pubblici, insieme a imprese strangolate dalle tasse, imposte per pareggiare il bilancio statale. Il gioco della finanza è basato su scommesse truccate: compro oggi a poco prezzo i titoli che domani varranno di colpo moltissimo, visto che so in partenza che i miei complici li faranno “esplodere”, al momento opportuno, organizzando a tavolino una bella crisi. La Grecia è stata letteralmente spolpata, in questo modo, ma anche l’Italia – fatte le debite proporzioni – ha seguito la medesima sorte. Idem gli altri paesi europei, anch’essi governati dai prestanome di un’oligarchia del denaro che detiene tutti i mezzi monetari per manipolare l’economia. La politica è stata sfrattata dal palazzo: la democrazia, svuotata di ogni contenuto, è stata completamente neutralizzata.Di questo dovrebbero parlare, ogni giorno, i media italiani che si avventano come mastini rabbiosi contro il pallido governo gialloverde, scuoiato vivo a reti unificate solo per essersi permesso di innalzare il deficit, sia pure in modo irrisorio – ben al di sotto del tetto (artificioso, ideologico) sancito a Maastricht. Che razza di Europa è, quella di Maastricht? Per quale motivo, dopo un quarto di secolo, è ancora in vigore un trattato palesemente suicida, che ha “gambizzato” una potenza economica mondiale seconda solo agli Usa e alla Cina, seminando crisi e disperazione fino al punto da resuscitare i peggiori nazionalismi del Novecento? Come ragionano, i nostri post-giornalisti? Da dove pensano che provenga l’esasperazione di massa che sta letteralmente gonfiando l’esercito “rossobruno” dei cosiddetti sovranisti? Sta covando un vasto incendio, ormai, e i pompieri sono già al lavoro: l’oligarca Oettinger impone il bavaglio al web in vista delle prossime europee, mentre il collega Draghi minaccia ogni giorno il governo italiano (l’unico a rompere le righe, per ora, nel mortale ordoliberismo che i grassatori hanno imposto ai popoli europei). Impera un’ipocrisia disgustosa: il massimo rigore inflitto ai molti, per proteggere i privilegi di pochissimi, viene spacciato per virtù. Si racconta che il bilancio dello Stato è come quello di una famiglia – come se anche la famiglia potesse battere moneta. Salgono in cattedra economisti che hanno rinnegato il proprio mestiere: di professione, ormai, fanno i maghi.Lo stesso Draghi, prima di salire sul Britannia da cui partì la grande spartizione dell’Italia, era un economista keynesiano: sapeva perfettamente che, senza una robusta dose di deficit, l’economia collassa. Lo sapeva così bene che la sua tesi di laurea, realizzata sotto la guida dell’insigne Federico Caffè, dimostrava – letteralmente – l’insostenibilità tecnica di una eventuale moneta unica europea, che avrebbe inevitabilmente imposto un regime fiscale austeritario, mettendo in crisi il continente. Poi, si sa, il mago Draghi fu promosso: prima di conquistare la poltronissima della Bce aveva presidiato Bankitalia, e come stratega della peggiore banca d’affari del mondo, la famigerata Goldman Sachs, aveva contribuito in modo decisivo (insieme a Carlo Cottarelli, del Fmi) a rovinare la Grecia. Oggi, sempre Draghi – al servizio del grande monopolio finanziario privato che domina l’Europa – si permette di dare consigli al presidente Mattarella su come scoraggiare il governo Conte, regolarmente intimidito anche da Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, teleguidato sempre dall’uomo di Francoforte. Questi signori agitano lo spettro dello spread, come se fosse un fenomeno naturale (e non invece la nota roulette scatenata a comando da poche mani). Chi sono, questi signori? Chi ha consegnato loro tanto potere? Chi ha dato loro la facoltà di annullare, sostanzialmente, il risultato democratico delle elezioni?Nello scenario odierno colpisce la dismisura tra la realtà e la sua narrazione virtuale. L’arma del mago – che manipola il pubblico – è sempre la stessa: la paura. Guai, se osate sforare i parametri della depressione collettiva programmata. Guai, se vi azzardate a espandere il benessere alla struttura sociale, ormai in stato di crescente sofferenza. Giornali e televisioni rilanciano lo stesso messaggio: è giusto avere paura. E’ saggio. Siamo nati, in fondo, per vivere nella paura. La paralisi generale che si ottiene è impressionante. E i maghi, innanzitutto, restano al loro posto. Oggi sono preoccupati, certo, dai primi rumorosi segnali di insofferenza. Se le vituperate masse dovessero malauguratamente svegliarsi, per loro sarebbe finita. Crocifìggono l’Italia per il suo debito pubblico, che viaggia attorno al 130% del Pil, ben sapendo che nessuno chiederà mai conto, a Draghi e ai suoi padroni, del successo di un sistema come quello del Giappone, arrivato al 250% di debito senza colpo ferire, senza disoccupazione, e senza subire nessun tipo di estorsione finanziaria (spread), essendo i giapponesi protetti da una vera banca centrale, che si comporta da prestatore di ultima istanza e garantisce in modo illimitato l’esposizione contabile della nazione.Sanno perfettamente, i maghi neri, che basterebbe la disobbedienza di un solo paese a far crollare l’incantesimo: investendo in modo coraggioso, con un super-deficit strategico (Keynes docet) l’economia si metterebbe automaticamente a volare. E un paese che scoppia di salute, ovvero di futuro, sarebbe preso d’assalto da tutti gli investitori del pianeta. Culmine della follia: i maghi neri trattano l’Italia come fosse il Burundi, e non un grande paese industriale del G8. Uno Stato con duemila miliardi di debito, ma quasi diecimila miliardi di patrimonio, tra risparmi e beni immobiliari. Stiamo parlando dell’Italia, il paradiso turistico tecnologicamente avanzato che detiene il 70% dei beni culturali del mondo. Solo una forma patologica di devastante ipnosi collettiva può consentire al mago e ai suoi compari di insolentire, minacciare, ricattare e derubare una comunità del genere, formata da 60 milioni di cittadini, condannandola a vivere – ancora e sempre – nella paura di perdere tutto. Ma chi è, davvero, Mario Draghi? Chi ce l’ha messo, alla guida della Bce? E chi è Jean-Claude Juncker? In nome di quale Europa questi signori parlano? Quale suffragio popolare ha mai sorretto gli spaventapasseri che a turno sputano minacce dagli uffici di una Commissione Europea che ignora deliberatamente qualsuasi indicazione provenga dall’Europarlamento, unica istituzione elettiva dell’Unione?Il Trattato di Lisbona non è una Costituzione europea, è uno statuto coloniale – con la differenza che, rispetto al colonialismo tradizionale, quello europeo non ha neppure il pregio della terribile visibilità della potenza dominante. Il vero vertice è rappresentato dal celeberrimo “pilota automatico”, che la cupola finanziaria privata utilizza per soggiogare i sudditi, spesso con la cortese collaborazione dei vari gauleiter franco-tedeschi, ai quali viene concesso il tristo privilegio del kapò. Risultato: mezza Europa oggi ce l’ha coi tedeschi, come popolo, per via degli immani crimini sociali commessi da Angela Merkel, mentre tanti italiani ormai detestano i francesi, in blocco, per colpa del loro impresentabile presidente, l’oltraggioso sbruffone Macron, a sua volta mal sopportato dai suoi stessi connazionali, in quanto servitore di poteri oligarchici nemmeno così oscuri. E questa sarebbe oggi l’Europa? Sarebbe questo il giusto habitat politico dove far vivere oltre mezzo miliardo di esseri umani, che ormai si guardano in cagnesco?In questi anni, il mago si è arricchito smisuratamente mentendo ai sudditi, raccontando loro che dovevano rassegnarsi a stare peggio, a rinunciare a crescere come un tempo. La protesta ribolle, in molti paesi, ma il mago non ha un Piano-B: non cambia ricetta, non prospetta alternative alla sua teologia dell’infelicità. Al limite, pensa a come depistare il pubblico, coi soliti sistemi: i media addestrati a ripetere menzogne, i governi frontalmente minacciati di terribili punizioni, i movimenti più irrequieti eventualmente infiltrati da agenti provocatori. Tutto questo accade, ancora, perché a valere sono le regole del mago: è stato lui a raccontare che, impoverendosi, ci si arricchisce. Austerity espansiva, l’ha chiamata. Che è come dire: tutti sappiamo che gli asini volano. Per quanto ancora, il mago, terrà in vita il suo maleficio? Quanto tempo impiegheranno, i popoli europei, a sfrattare i loro parassiti? L’impresa è molto ardua, vista la sproporzione delle forze in campo. Nel 2012, sotto il dominio del mago Monti, l’Italia scrisse nella sua Costituzione che la Terra è piatta, e non gira affatto attorno al Sole. Tecnicamente: pareggio di bilancio. Tradotto: è giusto auto-sabotarsi, amputare il futuro. Perché non viene rimosso, oggi, quel vincolo medievale? Perché non si torna a dire, tanto per cominciare, che la Terra è tonda?La superstizione neoliberista è stata fatta a pezzi dagli economisti democratici e, prima ancora, dalla realtà stessa: il bilancio del sistema neoliberale è una vera e propria catastrofe planetaria. Laddove si è tagliato lo Stato, è crollata anche l’economia privata. Unici beneficiari, gli immensi oligopoli finanziarizzati. Se si abbatte la spesa pubblica, frana l’intero paese. L’hanno capito tutti, ormai. E i primi a saperlo sono proprio loro, i grandi illusionisti: Juncker e Draghi, Merkel, Moscovici, Macron. Per chi lavorano, in realtà? Per quale nuovo ordine feudale? Troppa democrazia fa male, scrivevano negli anni ‘70 i maghi ingaggiati dalla Trilaterale: l’eccesso di democrazia – affermarono, testualmente – si cura restringendo gli spazi democratici, confiscando libertà e diritti. L’Europa è stato il loro grande laboratorio. C’erano ostacoli, al loro piano, ma sono stati rimossi – dall’italiano Aldo Moro allo svedese Olof Palme. Nemmeno i Craxi dovevano più essere in circolazione: diversamente, come riuscire a raccontare che, per ingrassare, bisogna saltare i pasti? Ci si domanda quand’è che torneranno in vigore le regole fisiologiche della vita, al posto di quelle – truccate – dell’illusionista. Per esempio: dove è scritto che l’Europa non possa avere una Costituzione democratica, validata dai suoi popoli? Chi ha stabilito che l’Unione Europea non possa essere affidata a un governo legittimo, regolarmente eletto? Chi l’ha detto che il continente non possa avere un’autentica banca centrale, anziché un istituto privatizzato e gestito da stregoni? Quanto a lungo sarà ancora sopportata, l’insolenza bugiarda del mago?Lucida follia: è tutto sotto i nostri occhi, eppure si nega l’evidenza. Del sistema capitalistico esistono due traduzioni pratiche: enormi fortune per pochi (neoliberismo) o relativo benessere per molti (keynesismo). Più lo Stato spende, a deficit, e più cresce il Pil. Ovvero: consumi, lavoro, risparmi. Di conseguenza: più gettito fiscale, più soldi per il welfare, la previdenza, le pensioni. E’ un fatto intuitivo, oltre che scientificamente e storicamente dimostrato: più si investe, utilizzando il debito pubblico, più la società cresce, nel suo insieme. Se viceversa si chiude il rubinetto pubblico, la situazione precipita: il 99% della popolazione perde terreno, e il restante 1% si arricchisce a dismisura, acquistando a prezzi di saldo beni e aziende, pubbliche e private; si rilevano servizi un tempo pubblici, insieme a imprese strangolate dalle tasse, imposte per pareggiare il bilancio statale. Il gioco della finanza è basato su scommesse truccate: compro oggi a poco prezzo i titoli che domani varranno di colpo moltissimo, visto che so in partenza che i miei complici li faranno “esplodere”, al momento opportuno, organizzando a tavolino una bella crisi. La Grecia è stata letteralmente spolpata, in questo modo, ma anche l’Italia – fatte le debite proporzioni – ha seguito la medesima sorte. Idem gli altri paesi europei, anch’essi governati dai prestanome di un’oligarchia del denaro che detiene tutti i mezzi monetari per manipolare l’economia. La politica è stata sfrattata dal palazzo: la democrazia, svuotata di ogni contenuto, è stata completamente neutralizzata.
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Galloni: agenzia di rating italiana, e salta il ricatto-spread
Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.L’Italia fa bene a tirar dritto e a continuare sul solco di quel compromesso di cui dicevamo. Anche se, paradossalmente, con più coraggio, con una manovra ancora più espansiva, si avrebbe un effetto sul Pil più marcato e quindi un’effettiva riduzione del debito. Avremmo anche una movimentazione pesante di centinaia di migliaia di posizioni lavorative aggiuntive. Ma per fare questo bisogna risolvere due questioni. Oltre all’Europa c’è il prolema dei mercati. Bisogna fare in modo che le nostre banche non siano spiazzate da un cattivo rating. Il vero problema non è lo spread, ma il rating. Se ci abbassassero ancora di rating, potrebbe accadere che le stesse banche non abbiano alcun interesse a mantenere titoli italiani o non lo possano addirittura fare. Una soluzione? Dobbiamo immediatamente attrezzarci con un’agenzia di rating nostra e con un accordo con le grandi banche. Se non si fanno queste due cose è come voler andare ad affrontare i carri armati a mani nude o con le fionde. Ci vogliono invece i bazooka. Il governo deve immediatamente pensare a predisporre delle difese preventive affinché lo spread non influisca troppo sui tassi d’interesse delle nuove emissioni.Dunque, un’agenzia di rating italiana. Poi, se ci accordiamo con altri grandi paesi è ancora meglio. L’importante sono i criteri: questa agenzia dev’essere fatta da professionisti seri, non quelli che fanno parte delle agenzie statunitensi, che consigliavano ai loro clienti dieci minuti prima del crollo dei titoli di acquistarli, come capitato con Lehman Brothers. Servono professionisti bravi che spieghino in base a cosa danno il rating. Da quando esiste la macroeconomia, il rating di un paese dipende dalle sue capacità di esportare e di sostituire importazioni. In pratica, dipende dalla capacità di avere una bilancia commerciale sostenibile. Siccome l’Italia da questo punto di vista sta andando bene, stiamo esportando: siamo la terza potenza mondiale, in quanto a diversificazione merceologica dell’export. E inoltre stiamo sostituendo moltissime importazioni. Non vedo perché dobbiamo avere dei fondamentali negativi. Dovremmo avere anche noi le tre “A”.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Carmine Gazzanni per l’intervista “Un’agenzia italiana di rating per far saltare il ricatto dello spread. L’Italia tiri dritto, basta pensare allo zero virgola”, pubblicata da “La Notizia” l’11 ottobre 2018. Insigne economista post-keynesiano e presidente del Centro Studi Monetari, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.
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Ci servono veri statisti, per abbattere il Muro di Bruxelles
Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…Il dubbio ci sembra più che legittimo, al di là dei desideri o delle speranze di ciascuno. La forza populista, grosso modo, potrà conquistare in Europa fino a un terzo degli elettori votanti, oltre il buco nero dell’astensionimo. Basterà una forza del genere per liquidare definitivamente l’attuale establishment europeo? E si tratterà poi di forze realmente componibili, omogenee, in grado di allearsi? L’ipotesi più probabile, invece, è che per evitare la paralisi, globalisti e sovranisti dovranno arrivare a un compromesso, a una pace armata, cioè a un armistizio, o dividersi ambiti e territori. Dal punto di vista dei grillini sarei particolarmente cauto con le profezie di vittoria e di sventura, anche perché se Salvini ha sponde reali in Francia, nel nord Europa e nell’est europeo, dovute a consonanze tematiche, a partire dall’Europa delle nazioni e dal tema dei migranti – oltre che in Russia e negli Stati Uniti – non altrettanto può dirsi del Movimento 5 stelle che resta un fenomeno italiano. E’ più facile pensare a un’alleanza delle forze sovraniste, nazionalpopuliste, piuttosto che a un’alleanza populista-radicale di tipo grillino.Dal punto di vista politico, gli avversari dei populisti sono tutti azzoppati e governano nei loro paesi in alleanze precarie, eterogenee di centro-destra-sinistra, guidando forze di minoranza: dalla Germania alla Spagna, dalla Francia a molti altri paesi. La leader politica dell’Eurozona, Angela Merkel, è in vistosa caduta ormai da tempo. E molti movimenti in ascesa, nonostante si definiscano liberali, aderiscano ai popolari o siano perfino alleati di governo con forze dell’establishment, rientrano piuttosto nel filone nazional-conservatore o sovranista-populista. Il centravanti dell’eurarchia oggi è Macron, che gode di un consenso ultra-minoritario nel suo paese, largamente impopolare in patria e assai inviso in molti paesi europei, a cominciare dall’Italia, per le sue evidenti e sleali contraddizioni: fa l’europeista global ma cura poi gli interessi francesi, predica sull’immigrazione e poi chiude l’accoglienza. L’anno scorso l’Europa intera, e l’intero quadro politico francese – giscardiani, gollisti, socialisti – scese al suo fianco per impedire che vincesse Marine Le Pen. Ha goduto di un sostegno politico, eurocratico e mediatico assoluto. Ciò nonostante la sua credibilità e i suoi consensi sono costantemente in calo, clamorosamente minoritari in Francia. Il contrario di Trump, che è sotto attacco permanente ma registra grandi risultati concreti, soprattutto sul piano economico e occupazionale e mantiene vasto consenso popolare, nonostante il suo stile colorito e discutibile.Il nemico da battere in Europa avrà la faccia di Macron più che di Juncker o di Moscovici. È il prototipo dell’eurocrate. Liberista e progressista, global ma senza rinunciare all’arroganza francese, fabbricato in provetta, figlio di maternità surrogata, adottato dalla famiglia allargata di progressisti, tecnocrati e moderati, testimonial di una Francia politically correct, gay e nera, global e antifascista, Macron è il testimonial di questa Unione pseudoeuropea. Intanto aspettiamoci, in questi mesi ogni colpo basso dall’Europa e dai suoi sicari, interni e internazionali, per far cadere o inguaiare i populisti. Spread e non solo, è una guerra e lorsignori capiscono che qui in Italia si giocano una partita che vale per l’Europa. Ma lo scenario che si apre è inquietante, tra sovranità tramontate e sovranità alternative non ancora sorte o minate. Al declino inglorioso dei vecchi partiti, si unisce il rischio aggiuntivo di un cortocircuito del populismo. Restiamo coi piedi per terra, ancorati alla realtà, e guardiamo dall’altra parte: si può davvero pensare che leader come Di Maio e compagnia possano essere gli statisti alternativi a cui affidare le sorti dell’Europa? Si può seriamente caricare su spalle così piccole e inadeguate una responsabilità così grande, come fondare, ridisegnare e guidare la nuova Europa? Uagliù, nun pazziamo, avrebbe detto Padre Pio.(Marcello Veneziani, “Il Muro di Bruxelles”, da “Il Tempo” del 9 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…
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Bifarini: tutti schiavi della finanza, grazie a politici traditori
«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.Da sempre strumento di supporto dell’economia capitalistica, con l’avvento del neoliberismo la finanza si è tramutata da servitore a padrone dell’economia mondiale, fagocitandola e riproducendosi a ritmi vertiginosi. A partire dal 1980 l’ammontare degli attivi generati dal sistema finanziario ha superato il valore del Pil dell’intero pianeta. Da allora la corsa della finanza al profitto è diventata così veloce da quintuplicare per massa di attivo l’economia reale nel giro di un trentennio. Sotto la presidenza Bill Clinton, sono state introdotte due pietre miliari per completare la deregolamentazione del sistema finanziario neoliberista. Con l’abolizione del Glass-Steagall Act – introdotto da Roosevelt l’anno successivo alla crisi del ’29 – è stata eliminata la separazione tra banche d’affari e d’investimenti, che così hanno riconquistato concentrazioni di potere economico. In contemporanea, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) ha dato il via libera alla compravendita di prodotti fuori Borsa con la cancellazione delle precedenti norme, considerate restrittive, sul controllo dei derivati.Ogni giorno nascono nuove tipologie di derivati sempre più sofisticati e complessi, che possono essere scambiati “over the counter”, ossia fuori dalle Borse. Essendo titoli “transitori” non rispondono all’obbligo di essere registrati nel bilancio bancario e sfuggono alle normative del settore. Sfruttando le falle del sistema, da esso stesso generate, i grandi gruppi finanziari hanno creato una miriade di società indipendenti cui trasferiscono fuori bilancio grossi capitali, che in tal modo divengono invisibili. Tali strumenti hanno le stesse caratteristiche della moneta: sono rivendibili più volte, facilmente monetizzabili e scambiabili senza detenere il possesso del loro sottostante. Così i derivati, messi in circolazione in enormi quantitativi dalle banche, sono divenuti una nuova forma di moneta circolante, che sfugge alle analisi e rende problematici e inefficaci gli interventi di politica monetaria. E’ il mondo della finanza-ombra, quel vasto mercato parallelo, nato tra le trame del sistema bancario internazionale, che ha reso mastodontica e fuori controllo la mole dei prodotti finanziari circolanti.Una grossa fetta di questi prodotti finanziari ha per sottostante forme di debito, come ad esempio le ipoteche sulla casa. Con un meccanismo perverso, in cui il denaro viene creato attraverso il debito, si realizza una forma di speculazione assoluta che niente ha a che vedere con la creazione di valore, ma piuttosto con la sua distruzione. E’ evidente che un sistema economico basato sulla speculazione sganciata dalla produzione e fondata sul debito, sia pubblico che privato, sia insostenibile. Il paradosso del finanzcapitalismo è che trova nel caos e nella povertà il suo humus ideale, poiché proprio la speculazione sui debiti e sulle sofferenze ne è la linfa vitale. Il suo funzionamento è regolato da meccanismi complessi, artificiosi, che si basano sull’applicazione di modelli della fisica e della cibernetica: nulla di più lontano dall’economia reale! I maggiori responsabili dell’affermarsi di questo sistema distorto e criminale sono i politici, venuti meno al loro compito di tutelare le fasce deboli e di assicurare il benessere sociale. L’intero sistema socio-economico liberista è ormai concepito per servire la finanza.(Ilaria Bifarini, “Finanzcapitalismo: schiavi del debito”, dal blog della Bifarini del 10 ottobre 2018).«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.
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Franceschetti: sono gli ‘amici del popolo’ a tradire il popolo
Vuoi vedere che, alla fine, saranno proprio gli “amici del popolo” a varare le leggi peggiori, inguaiando gli italiani? «Non me ne stupirei, se andasse a finire proprio così», dice Paolo Franceschetti, noto per aver indagato – come avvocato e poi come ricercatore indipendente – su alcuni dei più atroci delitti irrisolti della storia italiana, a partire da quelli del Mostro di Firenze. La sua tesi: omicidi rituali, commessi da personaggi insospettabili e altolocati. Stragi utili, in ogni caso, alla “sovragestione” occulta del potere: il killer imprendibile è perfetto per tenere in ansia la popolazione, salvo poi presentare all’opinione pubblica un capro espiatorio invariabilmente modesto, senza cultura, proveniente dai ceti popolari. Come dire: è giusto che il popolo patisca ingiustizie, dato che i suoi esponenti (quelli che finiscono in prima pagina) sono rozzi e brutali. Una lettura psico-politica che ha reso Franceschetti estremamente diffidente, rispetto all’offerta elettorale italiana: paradossalmente, proprio la fiducia che Lega e 5 Stelle riscuotono presso gli elettori rendono questi due partiti il vettore ideale, per chi volesse manipolarli, spingendoli a tradire, ancora una volta, le aspettattive di una società messa alla frusta dal rigore imposto dai poteri che sovrastano l’Unione Europea.«Riconosco che Lega e 5 Stelle sono portatori di un rinnovamento valido, sulla carta, e quindi spero sinceramente di sbagliarmi – premette Franceschetti, ai microfoni di “Border Nights” – nel momento in cui esprimo il timore che anche questo governo possa rivelarsi un sostanziale inganno». Le paure di Franceschetti sono storicamente motivate: «Ho sempre votato a sinistra, ma poi ho scoperto che proprio la sinistra, di cui il popolo di fidava, è stata incaricata di attuare le leggi più impopolari». E’ storia: la progressiva contrazione dei diritti del lavoro, la flessibilità universale presentata come inevitabile, le grandi privatizzazioni che hanno sabotato l’economia nazionale italiana. «Dove poi la sinistra non è bastata sono arrivati i cosiddetti “tecnici” a finire il lavoro». Eclatante il caso Monti: pareggio di bilancio in Costituzione, Fiscal Compact, legge Fornero sulle pensioni. Tracollo del Pil, crollo del potenziale industriale, svendita generale del paese. Da qui la protesta recente sotto la bandiera del “sovranismo” leghista, alleatosi con il movimentismo dei pentastellati, fino all’inedito esito del governo “gialloverde”, che – sulla carta – sta provando a sfidare il potere europeo, nonostante l’assedio ostile cui è sottoposto da parte dei grandi media.Campanello d’allarme, l’ultima dichiarazione di Paolo Savona: se tracima lo spread, saremo costretti a rivedere il Def, piegando la testa. Si delinea un bivio: possibili elezioni anticipate, con “chiamata alle armi” per mobilitare gli elettori contro Bruxelles, in alternativa alla più mesta delle ritirate (la rinuncia al 2,4% di deficit per finanziare reddito di cittadinanza, Flat Tax e pensioni più dignitose). «Vorrei tanto potermi fidare dei “gialloverdi” – dice Franceschetti – ma sono costretto a prendere nota, ad esempio, di quanto sta avvenendo sul fronte dei vaccini: lungi dall’abrogare la legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale, si sta elaborando una nuova proposta di legge che prevederebbe vaccinazioni obbligatorie anche per gli adulti». Se così fosse – aggiunge Franceschetti – il governo Conte farebbe persino peggio dell’esecutivo Gentiloni. Il che è paradossale, ma non così inconsueto: sarebbe uno spettacolo al quale il pubblico italiano è stato abituato. E cioè: niente di meglio che gli “amici del popolo”, per rifilare al popolo le peggiori leggi, dettate dal vero potere. «Teniamo presente che a comandare sono poteri economici e finanziari: l’Europa dipende dalla Bce, che non è sottoposta ad alcun controllo democratico». Come credere che due partiti, Lega e 5 Stelle, possano (e vogliano davvero) rovesciare un dominio così schiacciante?Vuoi vedere che, alla fine, saranno proprio gli “amici del popolo” a varare le leggi peggiori, inguaiando gli italiani? «Non me ne stupirei, se andasse a finire proprio così», dice Paolo Franceschetti, noto per aver indagato – come avvocato e poi come ricercatore indipendente – su alcuni dei più atroci delitti irrisolti della storia italiana, a partire da quelli del Mostro di Firenze. La sua tesi: omicidi rituali, commessi da personaggi insospettabili e altolocati. Stragi utili, in ogni caso, alla “sovragestione” occulta del potere: il killer imprendibile è perfetto per tenere in ansia la popolazione, salvo poi presentare all’opinione pubblica un capro espiatorio invariabilmente modesto, senza cultura, proveniente dai ceti popolari. Come dire: è giusto che il popolo patisca ingiustizie, dato che i suoi esponenti (quelli che finiscono in prima pagina) sono rozzi e brutali. Una lettura psico-politica che ha reso Franceschetti estremamente diffidente, rispetto all’offerta elettorale italiana: paradossalmente, proprio la fiducia che Lega e 5 Stelle riscuotono presso gli elettori fa di questi due partiti il vettore ideale, per chi volesse manipolarli, spingendoli a tradire, ancora una volta, le aspettative di una società messa alla frusta dal rigore imposto dai poteri che sovrastano l’Unione Europea.
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Grazie all’imbroglio del debito, vogliono portarci via tutto
Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Si può allonatarsi anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.La storia della nostra “prigionia” è lunga è dolorosa, riassume Grossi. Pietra miliare, il Trattato di Maastricht: l’Ue non può prestare soldi agli Stati né ad altri enti pubblici diversi dalle banche. «Perché? Non c’è alcun ragionevole motivo». Non esiste ragione, spiega Grossi, per cui la politica debba rinunciare al controllo della moneta. «Noi viviamo nell’economia dello scambio, visto che nessuno è in grado di prodursi tutto quello di cui ha bisogno, e per scambiarsi le cose serve la moneta. Questa deve circolare, passare di mano in mano, e quando ce n’è poca nel sistema bisogna immetterla». E dal 1971, finito il “gold standard”, è diventato chiaro che creare moneta è qualcosa che si può fare senza costi. «L’importante è che ce ne sia la giusta quantità e che, soprattutto, vada a finire nelle tasche giuste. Ma lo Stato ha rinunciato al potere di emetterla, questo è il primo punto». Il secondo? Il sistema finanziario si è trasformato: prima, il cittadino portava i risparmi in banca, e la banca li investiva nell’economia reale e creava lavoro. Oppure il cittadino prestava quei risparmi allo Stato, sotto forma di Bot e Cct, perché era un modo per metterli al sicuro.«Lo Stato usava quei risparmi per fare spesa pubblica: in sostanza, rimetteva quei soldi nelle tasche dei cittadini che spendono e nelle casse delle imprese che investono». La moneta circolava, aggiunge Grossi, perché «c’era un controllo pubblico», sia nella sua creazione, sia nella sua circolazione. Ormai «la moneta si crea dal nulla». Dunque, «sarebbe meglio riportarla sotto il controllo pubblico». La questione è che circola molto male, la moneta, «perché il sistema finanziario è diventato privato». E non solo: «Ha smesso di fare il suo mestiere: non prende il risparmio privato per indirizzarlo sulle imprese che investono o nelle famiglie che devono comprare casa». Il grosso «finisce sui mercati finanziari». E se tutti vogliono comprare i titoli di Stato il loro prezzo sale. Peraltro, «se il mercato compra titoli e le banche centrali continuano a comprarne con le operazioni di “quantitative easing”, e comprano pure titoli di aziende private, in quelle operazioni non fanno altro che sostenere il prezzo della bolla speculativa. Ci dicono che lo fanno per far salire l’inflazione e far entrare soldi alle imprese ma questi soldi vanno direttamente sui mercati finanziari».Fino agli anni ‘90, prosegue Grossi, si finanziavano ancora investimenti e imprese. Ora invece «la gran parte viene destinata a circolare attraverso lo scambio di titoli, di derivati sempre più complessi e sempre più oscuri». Così, la finanza decide tutto: «Una grande banca d’affari può chiamare una impresa, ottenere la sua collocazione in Borsa, studiarla, preparare il report per presentarla ai mercati, finire col conoscerla meglio di quanto non riesca a fare l’impresa stessa. Può farle avere i soldi dei mercati perché conosce tutti i fondi di investimento, anzi ha i suoi fondi di investimento. Ha la sua ricerca che può distribuire a tutti gli enti istituzionali in giro per il mondo, può fabbricare i derivati sui titoli e sui prestiti, negoziarli, fare tutto per operare sui mercati finanziari». Ed è chiaro che, con tali informazioni, la banca può sapere molto prima di altri quando il prezzo può salire e quando può scendere. «Possono fare qualsiasi cosa, far arricchire chi vogliono». L’obiettivo finale? «Non è continuare ad accumulare moneta, ma comprare beni reali», spiega Grossi. «E come si fa a comprare a basso costo cose reali? Scatenando crisi economiche».La Grecia insegna: con la scusa del debito, società e banche tedesche si sono prese anche gli aeroporti. Chi ha impedito alla Grecia di difendersi? L’Unione Europea, con i suoi vincoli: proibendo allo Stato di creare moneta, e perfino di farsela prestare per fare spesa pubblica in investimenti. Ovvio che il mondo finanziario sia intimamente legato alle multinazionali. E paesi come la Germania e gli Usa, dove c’è un grosso nucleo di grandi aziende internazionalizzate, traggono enormi dei benefici da questo sistema: a monte, riescono a ottenere regole su misura per il proprio business. «Anche in Italia ce le avevamo, le grandi aziende: le partecipazioni statali». Certo, ricorda Grossi, ci hanno raccontato che erano “carrozzoni” spreca-soldi. «In realtà facevano invidia agli Usa, alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania». Così è arrivata la mannaia Ue: «Il Trattato di Maastricht ci ha poi imposto il vincolo assurdo del rapporto del 60% tra debito e Pil (e deficit non superiore al 3% del Pil)». E’ avvenuto «in un particolare momento, in cui noi eravamo a 100 e gli altri a 60». Obiettivo: frenare l’Italia, barando.«Così abbiamo dovuto svendere le partecipazioni statali, perché l’unico modo per entrare era vendere il patrimonio pubblico». La situazione, osserva Grossi, è precipitata con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale ha smesso di finanziare il governo a costo zero, “regalando” il debito (interessi) alla finanza privata. E ora siamo al pareggio di bilancio, varato da Monti: «Quando l’economia è ferma e c’è troppa disoccupazione, lo Stato ha il dovere di intervenire». C’è scritto nella Costituzione, ricorda Grossi: «Lo Stato ha il dovere di fare quanto necessario per metterci in grado di avere una esistenza libera e dignitosa, di contribuire al progresso materiale e spirituale della nazione. E ciò lo possiamo realizzare solo lavorando. Se c’è disoccupazione, crisi economica, le famiglie non spendono e le imprese non investono, allora o interviene qualcuno dall’esterno o la crisi rimane e continua ad avvitarsi su se stessa». A questo punto come fa, uno Stato, a continuare a perseguire politiche “costituzionali”, cioè keynesiane, di sviluppo e occupazione?«Tolto il potere di chiedere a Bankitalia di finanziare il deficit, aggiunto il vincolo di pareggio di bilancio, lo Stato in pratica non può più intervenire nell’economia». Attenzione: «Quando lo Stato poteva creare moneta, il debito pubblico materialmente finiva per non essere un problema». Controllando la leva monetaria, lo Stato non poteva mai ritrovarsi senza soldi. Gli stessi titoli di Stato, aggiunge Grossi, non servivano certo a incamerare denaro: al contrario, erano soldi che lo Stato lasciava ai cittadini, «per impiegare tranquillamente i loro risparmi nella maniera meno rischiosa e più sicura possibile». Se invece viene tolta la sovranità monetaria, sottolinea Grossi, allora il rischio comincia a nascere: «Lo Stato, per ripagare i titoli, è obbligato o a prendere con le tasse i soldi dalle tasche di alcuni cittadini per ripagare chi ha i titoli, o a farseli prestare. Per vendere i titoli di Stato, poi, il tesoro si serve degli operatori specialistici, che sono Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e così via. Anziché rivolgersi ai suoi cittadini che non sanno dove mettere i risparmi, si rivolge alle banche private che fanno aumentare i costi dello Stato».Solo una parte del debito italiano, comunque, è in mano a stranieri: 700 miliardi, su 2.341. Ma questo non cambia la situazione, «perché la maggior parte dei titoli è controllata da questo sistema finanziario». In pratica, «gli investitori ci prestano i soldi alle loro condizioni, e noi abbiamo il rischio spread. Un rischio che arriva dai mercati: non sta scritto in nessuna norma che dobbiamo averlo. E’ stata una scelta tecnico-amministrativa che non ci è mai stata raccontata. Di questa scelta – dice Grossi – dobbiamo liberarci». Mettendo il debito pubblico in mano agli investitori internazionali stranieri e non avendo possibilità di stampare moneta, aggiunge Grossi, lo Stato è costretto a farsi prestare i soldi da altri per pagare quegli investitori. «Ho rinunciato a farmi prestare anche i soldi dai cittadini, e dunque mi sono messo un cappio al collo. Voglio finanziare cose indispensabili per il paese? Sale lo spread, le agenzie di rating abbassano la qualifica dei nostri titoli e possono determinare eventi rischiosissimi e catastrofici. Se viene abbassato il rating molti investitori possono essere spinti a vendere i nostri titoli. E se tutti vendono, si svende».Alla fine può arrivare il default, scattare il meccanismo “salva-Stati” come in Grecia. «Cioè: arrivano, ci prestano i soldi e in cambio ci impongono le tasse, ci dicono cosa privatizzare, cosa vendere, cosa tagliare e chi licenziare, ci piaccia o no. Per questo bisogna rimettere ordine nella nostra ricchezza e modificare il meccanismo uscendo dal cappio». Lo Stato, spiega Grossi, oggi paga inoltre tassi d’interesse altissimi perché si rivolge ai mercati finanziari esteri. «Negli anni ’80 avevamo tassi nominali molto alti, pagavamo anche il 10,15 o 20%. Oggi invece paghiamo dall’1 al 3%». Sembra che ci abbiamo guadagnato, e invece ci abbiamo perso: quello che conta, infatti, è il tasso nominale meno il tasso d’inflazione. «Se ho un debito di 100, se in un anno pago il 10% ma l’inflazione sta al 15%, a fine anno non ho pagato 10, ho risparmiato 5. Perché il peso del mio debito è sceso del 5%. Questo indipendentemente dal livello dei tassi nominali».I problemi sono iniziati smettendo di chiedere i soldi ai risparmiatori italiani, «che si accontentano di un tasso al di sotto dell’inflazione perché vogliono semplicemente difendere il valore del capitale». Tradotto: se io perdo l’1% cento (inflazione) ma nessuno mi tocca il capitale, non mi preoccupo. «Se invece compro un prodotto di investimento in banca e nel momento stesso in cui lo prendo già mi hanno tolto il 4 o 5% (anni addietro addirittura il 10%) allora sì che corro dei rischi e devo preoccuparmi. E quando lo Stato sceglie di farsi prestare i soldi non più dai propri cittadini, che si accontentano di un piccolo tasso di interesse in cambio della sicurezza, e comincia a rivolgersi agli investitori istituzionali che per natura fanno gli speculatori, è per forza costretto a pagare di più». A loro sta bene rischiare un po’ di capitale, a differenza del cittadino risparmiatore, ma vogliono essere pagati molto di più in cambio del rischio. «Ed ecco che i tassi reali sono diventati positivi».Oggi in Italia c’è l’inflazione all’1,50. Il Btp trentennale rende il 3,55%, quindi lo stato paga il 2% reale. «Sembra una cifra bassa ma è altissima, perché basta che passi il tempo e il debito cresce a dismisura. E’ esattamente quanto è successo, anche se ci raccontano che abbiamo sperperato i soldi». Insiste Grossi: «Lo spreco vero sono i 10 milioni di italiani che potrebbero lavorare e non facciamo lavorare», proprio perché il “cappio” di questo debito – gonfiato dalla speculazione – ci lascia in bolletta, mentre l’Ue ci impedisce di fare deficit per investire sul lavoro. Risultato: grazie alle politiche “lacrime e sangue”, ai tagli e all’austerity, in questi ultimi anni il debito pubblico (che si diceva di voler tagliare) è continuato a salire. «Sale il debito, sale la povertà, sale la disoccupazione. E’ evidente che la direzione presa era completamente sbagliata». Il timido Def “gialloverde”, con quel 2,4% di deficit, è primo segnale di una possibile inversione di tendenza, finalmente: il deficit generarerà un aumento del Pil, dei consumi, dell’occupazione.Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Ci si può allontanare anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.
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Onfray: Besson, evasori e lacchè. L’oscena corte di Macron
Vostra Altezza, Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, Mio caro Manu, Mio Re, la stampa ha da poco riferito che tu hai nominato un mascalzone per rappresentare la nazione a Los Angeles. E, unico titolo di nobiltà diplomatica, dicono le malelingue, i gelosi e gli invidiosi, sarebbe un libro agiografico sulla tua campagna presidenziale. Al di fuori di questo fatto d’armi, tanto poco noto che nessuno ne conosce il titolo, la tua penna è una di quelle che si trovano nelle parti meno nobili della professione: il coccige, poiché è quella che manifesta più sovente il carattere inerente alla comunicazione istituzionale: la prosternazione. Da Sartre a BHL presso Sarko (dopo Mao), da Aragon a André Glucskmann presso lo stesso Sarko (anche lui dopo Mao), da Drieu de La Rochelle a Sollers presso Balladur (parimenti dopo Mao), da Brasillach a Kristeva presso il Bulgaro Jivkov (anche lei dopo Mao), gli ultimi cento anni ne hanno visti di scrivani dotati… per la genuflessione politica! Philippe Besson rientra in questa vecchia categoria dei valletti di penna, ma sappiamo ormai in che tipo di piumaggio risulti rilevante questo giovane uomo. Questo tipo di penna non è quello dei più talentuosi ma quello dei più venduti – io parlo dell’uomo, non dell’autore.