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Troika, rottamare l’Italia: a Renzi restano solo 100 giorni
Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».Secondo il blog, che per Maria Grazia Bruzzone della “Stampa” ha «occhi sempre aperti sull’Europa», il primo ministro italiano «ha lanciato un messaggio pericoloso: ha rotto la regola numero 3». Non è stato il primo leader nazionale a farlo, e sappiamo quanto salato sia «il prezzo della trasgressione». Il primo fu il premier greco Andreas Papandreou, che ruppe la “regola numero 2” annunciando nell’ottobre 2011 l’intenzione del suo governo di tenere un referendum sul nuovo accordo di salvataggio dell’Eurozona. «In due settimane venne rimpiazzato dall’ex banchiere centrale ed ex “goldmaniano” Lucas Papademos. Come se non bastasse, uscirono indiscrezioni sul fatto che sua madre avrebbe avuto su un conto svizzero 500 milioni di euro non dichiarati. Un prezzo pesante per un momento di coraggio». Il secondo fu l’allora primo ministro Silvio Berlusconi: nel settembre 2011 «osò discutere in incontri privati con leader dell’Eurozona, presumibilmente Merkel e Sarkozy, l’uscita dell’Italia dall’Eurozona». Risultato: «Prima di dicembre Berlusconi era fuori, rimpiazzato dal tecnocrate Mario Monti, già commissario europeo e “goldmaniano” pure lui».Il messaggio agli altri leader era chiaro: non pensate di mettere a repentaglio il Progetto. Da allora, scrive la Bruzzone citando il blog, la disciplina è stata ripristinata e nessun leader ha più osato infrangere le regole. Fino a Renzi. Che nell’intervista al “Financial Times” «ha pericolosamente rotto» la disposizione numero 3, «che impone di non criticare mai le azioni della Troika o dei suoi componenti». Nemici pericolosi: il bersaglio di Renzi, scrive “La Stampa”, era il presidente della Bce Mario Draghi, «il più intoccabile dei membri della Troika (e rappresentante senior di Goldman Sachs in Europa)». La sua chiacchierata fuori dalle righe – continua il post – era l’ultima escalation in una “guerra verbale” scoppiata dopo l’insinuazione (leggi: minaccia) di Draghi verso l’Italia, da commissariare perché caduta in recessione, visto che non ha fatto abbastanza per “riformare” mercato del lavoro, burocrazie e sistema giudiziario. Il risultato è «un clima sfavorevole per gli investimenti».In altre parole, quello di cui l’Italia avrebbe bisogno, per Draghi, è «una bella dose di intervento amministrato dalla Troika, che magari finisca per accelerare la spirale del debito arricchendo gli investitori internazionali». Renzi è sembrato avere altre idee: «Il nostro modello non è la Spagna ma la Germania», ha detto al “Financial Times”. Il blog di Richter ricorda che il premier è arrivato in febbraio promettendo di far uscire l’Italia dalla stagnazione che dura da un decennio. Ma i progressi sono stati lenti: finora si è limitato a togliere 80 euro di tasse ai salari più bassi. Dovrebbe arrivare una riforma della giustizia, ma non ci sono garanzie. E col poco da rivendicare su riforma fiscale e del lavoro, la comunità imprenditoriale si sta innervosendo: temono che Renzi sia solo «un piccolo manager, che punta troppo su un gruppo di amici fidati mentre avrebbe bisogno di consiglieri con esperienza», ha osservato il giornale. Magari alludendo a consiglieri come Carlo Cottarelli, «lo zar della “spending revew”». Un tipo «perfetto, in quel ruolo, dopo una vita al Fmi», dove ha diretto il Dipartimento Affari Fiscali. Ma Cottarelli incontra resistenze: «Spetta a Renzi decidere dove fare i tagli, non a un tecnocrate», ha detto il primo ministro italiano al “Ft” parlando in terza persona.Renzi se l’è presa con le lobby degli affari: «Roma è una città piena di lobbisti. In Italia vige un capitalismo di relazioni. Io non sono parte di quel sistema che ha distrutto il paese. Sono solo col 20% degli italiani che mi hanno votato, con gli 11 milioni che hanno votato il mio partito, e soltanto con loro e con la mia squadra il paese cambierà». Questione di principio, arroganza, ingenuità o un mix di tutto questo? Se lo chiede il blogger arrivando alle conclusioni: «Può essere una frase a effetto da dare in pasto al pubblico, o il prodotto di un calcolo molto astuto: vale a dire che attualmente lui – Renzi – riveste in Europa una posizione molto più forte di quanto molti credano». Motivo: «Come terza economia dell’Ue, la debole performance dell’Italia è un grattacapo per Bruxelles tanto quanto, o anche di più, di quanto lo è per Roma. Con 2 trilioni di debito pubblico – il 133% del Pil – l’Italia non è solo troppo grande per fallire, è troppo grande per essere salvata».«Deporre Renzi – scrive il blog – si rivelerebbe ben più difficile che togliere di mezzo Berlusconi. Dopotutto, anche in un paese che vanta una storia politica moderna come l’Italia quattro leader non eletti in tre anni sarebbero probabilmente un po’ eccessivi: la gente comincerebbe a chiedersi che fine ha fatto la democrazia». Per cui, «se la Troika mirasse a sferrare un altro colpo senza spargimento di sangue, dovrebbe quasi certamente farlo seguire a nuove elezioni». E i maggiori beneficiari della tornata elettorale «potrebbero essere il Pdl di Berlusconi e il M5S di Grillo», cioè «due partiti che non vorrebbero nient’altro che scrivere l’epilogo della breve storia dell’euro». Dunque la Troika «deve per forza riporre eventuali piani nel freezer, almeno per ora». Nel frattempo, «il suo coraggioso (o forse solo pazzo) giovane leader pretende mille giorni per fare i cambiamenti economici e politici che ritiene necessari per il suo paese. Sarà fortunato se ne ottiene cento». Come che sia, conclude “La Stampa”, dopo aver «fatto lo spavaldo» col “Financial Times”, Renzi ha voluto fugare l’impressione di dissapori con la Troika volando subito in elicottero da Draghi e poi incontrando Napolitano. «Sarà anche più forte in Europa di quel che si crede – per mancanza di alternative. Ma è meglio non esagerare».Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».
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Temo una rivolta, perché guadagno mille volte più di voi
«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.Una lettera che è anche una analisi/denuncia del livello estremo raggiunto dalla disuguaglianza nell’odierno capitalismo. E un avviso: così non può continuare. Arriveranno i forconi, contro di noi. Nick Hanauer, 55 anni, nonni immigrati dalla Germania di Hitler, è un classico uomo d’affari americano, uno che si è fatto da sé. Americano anche nel piglio con cui si esprime. «Nel 1992 a Seattle vendevo cuscini fabbricati dall’impresa della mia famiglia a negozi in giro per il paese e Internet era una goffa novità alla quale ci si collegava a 300 baud. Ma già allora mi sono accorto abbastanza rapidamente che molti grandi magazzini miei clienti erano condannati. Ho capito che non appena Internet fosse diventata abbastanza veloce e affidabile – e quel tempo non era così lontano – tutti si sarebbero buttati a comprare on line come pazzi. Realizzare questo, vedere oltre l’orizzonte un po’ più in fretta di tanti altri, è stata la parte strategica del mio successo. La parte fortunata è stata invece l’avere un paio di amici, entrambi di grande talento, anche loro intrigati dalle potenzialità della rete. Uno è un tizio di cui non avrete certo sentito parlare, Jeff Tauber, l’altro era Jeff Bezos (il fondatore di Amazon ndr). Ero così eccitato dal potenziale del web che ho detto ai due Jeff che volevo investire in qualsiasi cosa avessero deciso di lanciare».«Il secondo Jeff – Bezos – mi chiamò per primo, e lo aiutai a sottoscrivere la sua piccola libreria start up. L’altro Jeff partì con un negozio on line chiamato Cybershop, ma quando la fiducia nelle vendite via Internet era ancora bassa; era troppo presto per la sua idea, la gente non era ancora pronta ad acquistare on line cose costose senza vederle di persona (a differenza di oggetti semplici come i libri, la cui qualità non cambia – questa è stata la carta vincente di Bezos). Cybershop non è andato lontano, è stato uno dei tanti fallimenti di imprese dot-com. Amazon è andato meglio. E io ora possiedo un maxi-yacht. Ma lasciatemi essere franco. Non sono la persona più intelligente che avete conosciuto, o quello capace di lavorare più sodo. Ero uno studente mediocre, non sono un tecnico – non so ho mai saputo scrivere una riga di software. Quel che mi è servito, credo, è una certa propensione al rischio e un’intuizione su quel che accadrà in futuro. Intuire dove le cose stanno andando è l’essenza dell’imprenditorialità. E cosa vedo oggi nel nostro futuro? Vedo dei forconi».«Mentre persone come voi e me prosperano oltre i sogni di ogni plutocrate nella storia, il resto del paese – il 99,9% – resta molto indietro e arretra. Il divario fra quelli che hanno e quelli che non hanno peggiora sempre di più. Nel 1980 l’1% in cima alla piramide controllava l’8% del reddito nazionale degli Stati Uniti. Il 50% più in basso si divideva il 18% delle ricchezze. Oggi l’1% più ricco si divide il 20%, e il 50% della popolazione solo il 12%. Ma il problema non è la disuguaglianza in sé, qualche misura è intrinseca a ogni economia capitalista che funzioni. Il problema è che la disuguaglianza è a livelli storicamente mai visti e peggiora di giorno in giorno. Il nostro paese sta diventando una società sempre meno capitalista e sempre più una società feudale. A meno che le nostre politiche non cambino drammaticamente, la classe media scomparirà, e torneremo indietro alla Francia del 18° secolo. Prima della Rivoluzione. Così ho un messaggio per i miei colleghi oscenamente ricchi, per tutti coloro che vivono nelle bolle dei nostri mondi circondati da cancellate: svegliatevi, gente. Non durerà. Se non si fa qualcosa per sanare le clamorose diseguaglianze in questa economia, i forconi ci saranno addosso».«Nessuna società può tollerare una tale disparità. Non ci sono esempi nella storia in cui si sia verificata una tale accumulazione di ricchezza e i forconi non siano arrivati. Dove c’è una società altamente disuguale o c’è uno Stato di polizia, o un’insurrezione. Non ci sono altre possibilità. Il punto non è se, ma quando. Molti di voi pensano che siamo speciali perché “questa è l’America”, pensiamo di essere immuni alla forze che hanno dato vita alla Primavera Araba o alle Rivoluzioni in Francia e in Russia. Molti fra i colleghi dello 0,1% sfuggono questo argomento, molti mi prendono per matto, altri vedono un ragazzino povero con un iPhone e pensano che l’ineguaglianza sia una finzione. Vivete nel mondo dei sogni, vi dico. Volete credere che se ci sarà qualche segnale di destabilizzazione, ci sarà tempo per reagire e organizzarsi. Ma non funziona così, come sa qualsiasi studente di storia. Le rivoluzioni, come le bancarotte, si manifestano per gradi e poi precipitano di colpo. Un giorno uno si dà fuoco e improvvisamente la gente è in strada, prima che ci si renda conto il paese brucia. E non c’è tempo per salire sul nostro Gulfstream e scappare in Nuova Zelanda. Succede così. E se l’ineguaglianza peggiorerà, succederà».Sembrano le parole dei ragazzi di “Occupy Wall Street”, movimento che pare scomparso nel nulla. Ma il nostro capitalista niente affatto pentito non parla così per paura quanto per interesse. Del paese, della società, ma anche degli stessi ultraricchi dello 0,1%, a quanto cerca di dimostrare nell’analisi che segue. La cui tesi si può riassumere nel titolo dato al post da “Business Insider” (foto di persone in fila negli anni ’30 della Grande Depressione): “Spiacenti, gente, ma i ricchi non creano occupazione”. Hanauer se la prende con il punto di vista “ortodosso” dell’economia politica, e ne smonta alcuni presupposti di fondo: «Sono i ricchi che creano occupazione? Falso. E’ come dire che il seme crea l’albero: magari ne è il presupposto, ma provate a piantare un seme su Marte o nel Sahara. Senza terra buona, acqua, nutrienti non spunterà nulla e il seme morirà. La retorica per cui l’America è grande per via di uomini come me e Steve Jobs è finzione. Se entrambi fossimo nati in Somalia o in Congo saremmo rimasti a vendere frutta all’angolo della strada».L’economia non è un’astrazione, ma un ecosistema complesso di persone reali fra loro interdipendenti. Se i lavoratori hanno più denaro, le imprese hanno più clienti e hanno bisogno di più impiegati. A creare posti di lavoro in ultima istanza sono i clienti, i consumatori, vale a dire la classe media. Non sono i ricchi, come vuole uno dei luoghi comuni dell’economia ortodossa, non sono gli imprenditori, che pure sono una parte importante del processo. La classe media è stata la causa, non la conseguenza, della prosperità goduta nel passato dagli Usa. Alzare il salario minimo costa posti di lavoro, per la legge della domanda e dell’offerta? Falso. Lo aveva ben capito Henry Ford che nel 1914 raddoppiò la paga ai suoi operai (a 5 dollari al giorno, equivalenti a 120 di oggi) affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano. Lo ha capito la città di Seattle, che ha alzato per legge il salario minimo a 15 dollari l’ora da 9 – che era già il 30% in più della media Usa. Risultato: Seattle è con San Francisco la città col tasso di occupazione più alto negli Usa, ed è in assoluto la città che cresce di più.Il problema con la nostra economia – chiosa “Business Insider” – è che quella che una volta era la nostra potente classe media è stata lasciata impoverire da decenni di tagli ai costi e salari stagnanti, e oggi porta a casa una quota molto minore di 30 anni fa, mentre gente come Hanauer e i suoi amici dell’1% si accaparravano fette sempre maggiori di ricchezza, anche dopo la crisi del 2008. Dal 2009 al 2012 il 95% dei guadagni è andato all’1% mentre il 99% è rimasto al palo. Negli ultimi tre decenni i compensi per i Ceo (amministratori delegati, direttori generali, alti dirigenti) sono cresciuti 127 volte più rapidamente di quelli di altre categorie. Dal 1950 il rapporto tra la paga di un Ceo e quella di un lavoratore è aumentato del 1.000%: i Ceo guadagnavano 30 volte il salario medio, oggi il loro stipendio vale 500 volte il secondo. E nessuno ha eliminato i propri alti dirigenti senior, li ha esternalizzati in Cina o ha automatizzato il loro lavoro. Al contrario, ce ne sono molti più di prima.Intanto la classe media veniva falcidiata da politiche fiscali favorevoli all’1%, dalla globalizzazione e da miglioramenti tecnologici senza controlli. Ma veniva strozzata anche dalla nostra ossessione per il profitto a breve termine, dall’ethos prevalente nel mondo degli affari per cui gli impiegati sono visti come “un costo” e le società tengono i loro salari più bassi possibile. E’ un bene per l’economia che i ricchi siano sempre più ricchi? Falso. Il punto è che la classe media spende quasi tutto quello che guadagna, e questa spesa diventa ricavo per società avviate, finanziate o possedute da persone come Hanauer. Ma oggi, con i salari bassi come mai grazie all’avidità e alle corte vedute dell’1%, la classe media non è più in grado di farlo, e ciò si ritorce contro l’economia reale e gli stessi imprenditori. In America infatti i più ricchi – imprenditori, investitori e società – oggi hanno così tanto denaro da non riuscire a spenderlo. Così, invece di ri-pomparlo nell’economia creando guadagni e salari, quel denaro resta in conti di investimento.«Io guadagno all’anno 1.000 volte l’americano medio, ma non compro mille volte più roba. La mia famiglia negli ultimi anni ha comprato tre automobili, non 3.000. Io ho acquistato qualche paio di pantaloni e qualche camicia all’anno, come molti altri americani. Ho comprato due paia dei migliori pantaloni di lana, quelli che il mio partner Mike chiama “pantaloni da manager”. Ma non avrei potuto acquistarne 1.000. Invece ho messo via il mio denaro extra là dove non fa molto bene al paese». Se i 9 milioni di dollari di Hanauer in più dei 10 milioni di guadagni annuali fossero andati a 9.000 famiglie invece che a lui, sarebbero stati pompati di nuovo nell’economia attraverso il consumo. E avrebbero creato più occupazione. Invece stanno nei conti bancari di Hanauer o investiti in società che non hanno abbastanza clienti potenziali a cui vendere. Hanauer stima che se la maggior parte delle famiglie americane portasse a casa la stessa quota di reddito nazionale di 30 anni fa, ogni famiglia avrebbe altri 10.000 dollari di reddito da spendere.Con famiglie più ricche, lo Stato potrebbe davvero diventare più snello, risparmiando su assistenza pubblica, cure mediche gratuite, buoni pasto (oggi fruiti da 44 milioni di cittadini). E anche i più ricchi se ne gioverebbero. Il messaggio finale: «Cari 1%, molti dei nostri compatrioti cominciano a credere che il problema sia il capitalismo in sé. Non sono d’accordo, e credo non lo siate neppure voi. Ma il capitalismo lasciato senza controlli tende alla concentrazione e al collasso. Ecco perché gli investimenti nella classe media funzionano, e i tagli delle tasse ai ricchi invece no. Bilanciare il potere dei lavoratori con quello dei miliardari alzando il salario minimo non è male per il capitalismo, è uno strumento indispensabile per rendere il capitalismo stabile e sostenibile», conclude Hanauer (all’inizio invero esortava a prendere esempio dalle riforme di Franklyn Delano Roosevelt, un po’ più ampie di così). «O possiamo star seduti, non fare nulla e goderci i nostri yacht. Aspettando i forconi».L’analisi di Hanauer riguarda anche l’Italia? Sì, per tre motivi. Perché le disuguaglianze ci sono anche da noi, sia pure meno accentuate che negli Usa; perché le tendenze in America si riflettono altrove, a cominciare dall’Europa; perché, al di là delle riforme indispensabili al nostro paese fermo da decenni, l’economia italiana fa parte del sistema economico globale. Un sistema che fra debiti enormi e disoccupazione vertiginosa non sta affatto bene, come oggi ricorda la Banca dei Regolamenti Internazionali, mentre un rapporto della Banca Mondiale invita esplicitamente a prepararsi per la prossima crisi. Hanauer parla sicuramente nell’interesse dell’economia reale, dei cittadini e delle imprese piccole e medie. Ma alle banche e alle grandi corporations i luoghi comuni dell’ortodossia vanno benissimo. Finanza e multinazionali, compresi i costruttori di armamenti, i colossi dell’high-tech, i giganti della farmaceutica o del web hanno clienti globali, si tratti dell’1% del pianeta (dove addirittura 85 iper-ricchi – non 8.500, né 850, proprio 85 – detengono tanta ricchezza quanta ne possiede la metà della popolazione della Terra) o della classe media che a livello planetario comunque emerge fra varie contraddizioni. E multinazionali e banche & finanza hanno anche le lobby più potenti capaci di “convincere” i politici a fare leggi e norme a loro più favorevoli. Non resta che attendere i forconi, allora, o aspettare la prossima crisi?(Maria Grazia Bruzzone, “Svegliatevi plutocrati, i forconi ci saranno addosso”, da “La Stampa” del 4 luglio 2014).«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.
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Basta diktat dagli Usa, la Cina avrà la sua Banca Mondiale
Basta con l’egemonia di Wall Street, la Cina vuole una sua Banca Mondiale orientata da Pechino e non dal capitale finanziario occidentale. Mentre gli Stati Uniti premono sulla Russia con l’escalation in Ucraina e minacciano di accerchiare la Cina spostando nel Pacifico la loro flotta da guerra dopo aver imbrigliato l’Europa nella tela atlantica con il Ttip e il Tisa, i trattati segreti su merci e servizi per imporre l’american way of life a colpi di deregulation e privatizzazioni, il gigante asiatico aumenta il suo pressing per creare un’istituzione finanziaria globale in grado di fronteggiare e competere con la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank, che Pechino ritiene troppo influenzate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Nelle ultime settimane, segnala “La Stampa”, la Cina ha proposto di raddoppiare il capitale per l’antagonista della Banca Mondiale a 100 miliardi di dollari. Al momento, secondo il “Financial Times”, sono già 22 i paesi che hanno mostrato interesse nell’iniziativa.«La banca allo studio dovrebbe chiamarsi Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), e dovrebbe puntare inizialmente a costruire la nuova versione della Via della Seta, l’antica strada degli scambi commerciali fra Europa e Cina», scrive il quotidiano torinese. «Fra i progetti anche una ferrovia diretta da Pechino a Baghdad». Per il giornale di New York, «la Cina ritiene di non poter ottenere niente dalla Banca Mondiale o dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e così vuole una sua banca mondiale». E’ molto vasto l’interesse internazionale per l’iniziativa, ma in ogni caso «la Cina è pronta ad andare avanti anche se nessun altro vi prendesse parte». Se gli Stati Uniti arrivano a minacciare anche militarmente l’Eurasia, pretendendo di mantenere l’attuale controllo egemonico sui grandi capitali, la Cina – il maggior creditore dell’America – organizza un’evidente controffensiva, che (d’intesa con la Russia) potrebbe portare all’abbandono del dollaro come moneta internazionale, a favore dello yuan, per le forniture di gas e petrolio.L’Aiib, aggiunge “La Stampa”, sarebbe una sfida per l’Asian Development Bank, che i cinesi valutano troppo influenzata dal Giappone. «Se partisse con 100 miliardi di dollari, Aiib sarebbe già due terzi dell’Asian Development Bank, che può contare su 165 miliardi di dollari». Il Giappone e gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti dell’Asian Development Bank, con rispettivamente il 15,7% e il 15,6%, e il presidente dell’istituto è giapponese da quando è stata fondata nel 1966, mentre la Cina controlla appena il 5,5% del colosso finanziario, anche se la sua economia è molto più grande di quella del Giappone. Pechino, che ha organizzato diversi incontri per promuovere l’iniziativa, avrebbe già firmato un apposito “memorandum of understanding” con 10 paesi. Il mondo si avvia ad essere sempre meno americano, a cominciare dal motore dell’economia globale.Basta con l’egemonia di Wall Street, la Cina vuole una sua Banca Mondiale orientata da Pechino e non dal capitale finanziario occidentale. Mentre gli Stati Uniti premono sulla Russia con l’escalation in Ucraina e minacciano di accerchiare la Cina spostando nel Pacifico la loro flotta da guerra dopo aver imbrigliato l’Europa nella tela atlantica con il Ttip e il Tisa, i trattati segreti su merci e servizi per imporre l’american way of life a colpi di deregulation e privatizzazioni, il gigante asiatico aumenta il suo pressing per creare un’istituzione finanziaria globale in grado di fronteggiare e competere con la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank, che Pechino ritiene troppo influenzate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Nelle ultime settimane, segnala “La Stampa”, la Cina ha proposto di raddoppiare il capitale per l’antagonista della Banca Mondiale a 100 miliardi di dollari. Al momento, secondo il “Financial Times”, sono già 22 i paesi che hanno mostrato interesse nell’iniziativa.
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Pentagono, strano dossier: vi salveremo dagli zombie
Il Pentagono pensa proprio a tutto in fatto di sicurezza: persino a difendersi dai morti, o meglio dai morti viventi. Nei piani del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti c’è un dossier chiamato “Conop 8888”, ovvero un piano di sopravvivenza in caso di attacco degli zombie. Secondo quanto riferisce la rivista “Foreign Policy”, il protocollo è stato pensato per addestrare i comandanti delle forze armate ad adottare opportune strategie in caso di una catastrofi particolari, ovvero di «apocalisse dei morti viventi». Uno scenario che sembra più il soggetto di una pellicola sul filone di “The Walking Dead”, scrive Francesco Semprini su “La Stampa”. Il protocollo, non secretato, è conosciuto come “Counter-Zombie Dominance”: un vero e proprio piano di sopravvivenza per contrastare ogni minaccia legata a «un’offensiva dei morti viventi» e aiutare «qualsiasi popolazione del mondo, compresi gli avversari tradizionali», come Cina, Russia o Corea del Nord.Il documento, aggiunge la “Stampa”, porta la firma di alcuni strateghi militari di Omaha, sede del comando strategico del Nebraska, ed è frutto di un lavoro durato circa due anni e terminato nell’aprile del 2011. “Conop 8888” non è solo un protocollo che individua direttive e linee guida per «aiutare le autorità nel mantenere l’ordine pubblico e ripristinare i servizi di base durante e dopo un attacco degli zombie». E’ anche un preciso censimento delle tipologie di zombie: dai “pathogenic zombie” ai “radiation zombie”, figli di agenti patogeni e del nucleare, dagli “evil magic zombie”, il risultato di sperimentazioni, ai futuristici “space zombie”, passando per i “vegetarian zombies”, i meno pericolosi perché si nutrono solo di vegetali, e i “chicken zombie”, cioè vecchie galline ovaiole soppresse col gas, sotterrate e tornate alla luce come pollastre morte-viventi.Pamela Kunze, capitano della marina Usa e portavoce del comando strategico, spiega che si tratta di «uno sforzo creativo a scopo formativo, per insegnare agli studenti i concetti basilari delle risposte militari a ipotetici scenari di guerra». Non si tratta di una novità assoluta per le autorità americane, aggiunge Semprini, visto che il Center for Disease Control (Cdc) – la massima autorità in campo sanitario – ha già utilizzato gli zombie per la formazione, «costruendo un’intera campagna di sensibilizzazione per la preparazione di un kit di emergenza contro l’invasione dei morti viventi». Una simulazione in ogni caso sinistra e, volendo, carica di allusioni – solo virtuali, certo, a patto che non si scopra che siamo proprio noi gli zombie a cui pensano i ghostbusters americani, cioè i militari di un paese e conduce guerre segrete, organizza golpe, prepara la guerra climatica e intanto fa strage di civili, coi missili dei droni, nei cieli di paesi che non sono in guerra con nessuno. Il giorno che si ribellassero, però, i militari americani sono pronti: nessuno “zombie” pakistano, siriano, somalo o russo potrà opporsi al formidabile “ripristino dell’ordine pubblico”.Il Pentagono pensa proprio a tutto in fatto di sicurezza: persino a difendersi dai morti, o meglio dai morti viventi. Nei piani del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti c’è un dossier chiamato “Conop 8888”, ovvero un piano di sopravvivenza in caso di attacco degli zombie. Secondo quanto riferisce la rivista “Foreign Policy”, il protocollo è stato pensato per addestrare i comandanti delle forze armate ad adottare opportune strategie in caso di una catastrofi particolari, ovvero di «apocalisse dei morti viventi». Uno scenario che sembra più il soggetto di una pellicola sul filone di “The Walking Dead”, scrive Francesco Semprini su “La Stampa”. Il protocollo, non secretato, è conosciuto come “Counter-Zombie Dominance”: un vero e proprio piano di sopravvivenza per contrastare ogni minaccia legata a «un’offensiva dei morti viventi» e aiutare «qualsiasi popolazione del mondo, compresi gli avversari tradizionali», come Cina, Russia o Corea del Nord.
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Renzi e il carisma pericoloso di chi non tollera la verità
Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà. E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa (ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media. Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello Stato liberale e l’avvento del mussolinismo. Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come improbabile salvatore della patria.Ogni volta si è assistito all’esibizione dello stesso lessico, con poche variazioni. E chi richiamava all’opportunità di soffermarsi sulla problematicità dell’accadere, sulla sua complessità non riducibile con le parole magiche, è stato liquidato con una catena di termini che vanno dal postbellico “disfattista” e “imbelle”, al denigratorio “insulso” («insulso intellettuale» fu la formula con cui Mussolini invitò il prefetto di Torino a perseguitare Gobetti) ai più didattici «professoroni» o «professorini» (in qualche caso «professorucoli»), all’enfatico «Soloni» o «sapientoni», oltre i quali la creatività dei critici della critica non sa andare. Né la cosa stupisce. Fa parte dell’ordine delle cose il fastidio per la fatica del pensiero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono soluzioni possibili.Quello che può incuriosire, piuttosto, è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini, i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti dell’“Unità” e di “Europa”, gli spin doctor di complemento del Tg3, su lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vicedirettore della “Stampa” sulle «vecchie cinture di castità»…), tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni, il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti…Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini, uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno quello del Craxi rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore). E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico pagante.Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs Act e dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati alla privatizzazione. Dice di aver abolito le Province, come promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il trucco. L’odiato intellettuale è odiato per questo. Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura.Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà. E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa (ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media. Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello Stato liberale e l’avvento del mussolinismo. Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come improbabile salvatore della patria.
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Crisi ucraina, perché il Fatto attacca Giulietto Chiesa?
«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».Perché il “Fatto” si scaglia contro l’ex corripondente da Mosca? Giulietto Chiesa ha lavorato per “L’Unità”, per “La Stampa”, per la Rai, per il Tg5. Ha insegnato all’università negli Stati Uniti, ha fondato con Mikhail Gorbaciov il “World Political Forum”, assise internazionale permanente per riflettere sulla governance mondiale dopo la fine della guerra fredda. Soprattutto, da almeno dieci anni, è impegnato nella denuncia sulle falsisficazioni del massimo tabù nel nuovo secolo, gli attentati dell’11 Settembre frettolosamente attribuiti a Bin Laden, già plenipotenziario della Cia in Afghanistan prima di diventare “lo sceicco del terrore”, capace di accendere la miccia da cui sono scaturite tutte le guerre degli ultimi anni, a cominciare dall’Afghanistan e dall’Iraq. Di tutti gli opinion leader più in vista, forti del loro riconosciuto prestigio personale – scrisse tempo fa un osservatore scomodo e intransigente come Paolo Barnard – Giulietto Chiesa è l’unico che sia stato capace di rinunciare davvero a tutte le comodità del suo rango pur di continuare a impegnarsi, senza compromessi, per lo smascheramento delle menzogne ufficiali.«Se ci fosse un’informazione decente in questo paese, non avrei pensato a fondare “Pandora Tv”», replica oggi Chiesa. Che accusa: sull’Ucraina, i media mainstream hanno oscurato la notizia principale, all’inizio della crisi, e cioè «non ha mostrato le immagini dei poliziotti di Maidan bruciati dai pacifici dimostranti nazisti armati di lanciafiamme». Al “Fatto”, Giulietto Chiesa risponde così: «Fornite le notizie, non censuratele». In altre parole: meglio la voce di “Rt” che le “veline” di John Kerry. Sempre più spesso, oggi, si invertono gli schemi: increscioso, per Barbara Spinelli, che a dare asilo a Edward Snowden non sia stata la civile Europa, colpita dal Datagate persino con lo spionaggio ai danni del telefono personale di Angela Merkel. Snowden, cui dobbiamo la verità sulle intercettazioni di massa della Nsa, ha ottenuto rifugio solo presso Vladimir Putin.Giulietto Chiesa si dichiara stupito che questo attacco «personale, diretto, insultante» non provenga da “Repubblica” o dal “Corriere”, ma dal “Fatto”. Giovanni Miotto, un abbonato del giornale di Padellaro, Gomez e Travaglio, protesta pubblicamente, dando ragione a Chiesa: «Nelle pagine del “Fatto” dedicate agli esteri, da mesi ormai regna la disinformazione». Miotto riferisce di aver appena scritto «una mail di protesta» alla direzione del giornale, lamentandosi «dell’insostenibile livello di quanto pubblicato sull’Ucraina». Quanto a “Russia Today” – che “Pandora” riprende in italiano, via web – ha semplicemente raccontato i fatti, sottraendosi alla censura occidentale organizzata proprio da Kerry. «Dire che siamo dei “velinari di Rt” è semplicemente un insulto: e si ricorre all’insulto quando non si hanno argomenti», aggiunge Chiesa, presentato dal “Fatto” come una sorta di “dipendente” di Putin. «Qui ci sarebbero gli estremi per una querela, ma non voglio aspettare dieci anni per avere ragione: la ragione è già tutta nella mia storia professionale di corrispondente e di scrittore, non ho bisogno di altro». Il primo a calunniarlo, accusandolo di «essere stato pagato dal Kgb», fu Bettino Craxi, poi condannato per diffamazione.«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” il 26 aprile ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
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Brown: saremo 9 miliardi, grano e riso non ci basteranno
Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.«Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo», scrive Andrea Bertaglio su “La Stampa”, in un articolo che gli è valso il premio “Rendi l’informazione + Sostenibile”, al forum WiGreen di Milano. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono finiti», fa presente Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per aver sviluppato diversi “Piani-B” per salvare il pianeta. L’agricoltura sta frenando: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti. Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico: in India, paese che cresce ogni anno di 18 milioni di abitanti, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Un discorso, aggiunge Bertaglio, che ovviamente «vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina».In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività. La Fao sembra dar ragione a Knight: secondo il suo ultimo rapporto trimestrale, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 sarebbe aumentata di circa il 7% rispetto all’anno precedente, portando la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però Brown, preoccupato per la “scarsità” che ci attende: limitate risorse idriche, consumo di suolo, rese in calo e instabilità crescente dovuta al global warming.Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Ogm. La pensano così il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. «Nonostante i massicci sforzi, però – rileva Bertaglio – i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana». Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari, che dilagano nonostante la crisi. «Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati Fao, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone».Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.
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Già tutta con Renzi la stampa che ieri osannava Letta
Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.Poi tutti con Enrico, a giocare a Subbuteo per non perdersi “la rivoluzione dei quarantenni”. E ora eccoli lì, col solito turibolo e senza fare un plissè, ai piedi del Fonzie reincarnato. Pare ieri che Aldo Cazzullo, sul Corriere, s’illuminava d’immenso: «Napolitano non ha citato Kennedy – “la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione…” – ma ha detto più o meno le stesse cose mentre affidava l’incarico di formare il “suo” governo a un uomo di cui potrebbe essere il nonno [... ]. L’Italia, paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca all’avanguardia in Europa», perché «a Palazzo Chigi arriva il ragazzo che amava il Drive In e gli U2». Ora, oplà, si porta avanti col lavoro ed entra nel magico “mondo di Renzi” passando “dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza”: «Il sindaco viene tre volte la settimana» e «questo è l’unico posto dove stacca il cellulare». Per far che? Ordinare un’impepata di cozze? Ballare il tango?Nossignori. Udite udite: trovandosi dal barbiere, il Renzi «si fa spuntare i capelli (è stato Tony a fargli tagliare il ciuffo)». E nel “bar di Marcello”? Trattandosi di un bar, «fa colazione». Indovinate ora cosa riesce a combinare «nella pizzeria Far West di Pontassieve»? Ordina la pizza. Ma senza mai perdere la sua personalità, ché Lui «non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un ‘uomo di’. Tantomeno di Lapo Pistelli». E «sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Farinetti e Baricco». Perché «nessuno l’ha mai visto in soggezione», neanche davanti a Obama e Mandela. Non porta loden, non gioca a Subbuteo, né si conosce la sua posizione in merito al Drive In e agli U2. Però «il maglione color senape è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari», mica cazzi.Il suo discorso dell’altroieri in Direzione, «come tutto il dibattito a seguire, è segnato da una vena lirica». E con la stampa, come andiamo con la stampa? «Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Severgnini e Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto)». E Cazzullo? Su, Aldo, non fare il modesto: eddai, mettiamoci pure Cazzullo e non ne parliamo più. Per non trascurare i dettagli fondamentali, “Repubblica” dedica un’intera pagina alla Smart (“A tutto gas sulla Smart: così il Renzi-style archivia auto blu e berline”). Essa «è leggera, veloce e un po’ prepotente: è giovane, poi, costosa e non italiana. Insomma, è molto Renzi». Il quale – salmodia umido Claudio Cerasa sul “Foglio” – «sfanala con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Letta, decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia, di tentare finalmente il sorpasso». Per fare che? «Diventare l’Angela Merkel del Pd». E, assicura Giuliano Ferrara, «arrivare a Palazzo Chigi con piglio teutonico».Il ragazzo, come dice Sallusti, «ha le palle» più ancora di Palle d’Acciaio. E, aggiunge Salvatore Tramontano sul “Giornale”, «ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi». Del resto, osserva “Repubblica”, «smart sta per “intelligente”, con una sfumatura di brillantezza». La sfumatura che gli fa Tony quando gli spunta il ciuffo. E il discorso in Direzione? Dire sobrio sarebbe troppo montiano: «Asciutto, senza fuochi d’artificio, senza retorica». Decisiva «la camicia bianca», «cambiata un attimo prima in bagno» dal Fregoli fiorentino (prima era “celeste”): «È il suo tratto distintivo, è il richiamo al mito Tony Blair». In effetti, a parte lui e Blair, chi ha mai portato una camicia bianca?“La Stampa” la butta sul mistico: mamma Laura «l’ha affidato alla Madonna… della quale, sopra la porta d’ingresso, c’è una bella icona». Del resto a Pontassieve «la Madonna dev’essere di casa perché il posto dov’è cresciuto Renzi sembra un paradiso». Senza dimenticare che lui «la sua station wagon» la guida personalmente «con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto». Santo subito. E anche colto, molto colto. La lingua corrierista di Luca Mastrantonio scomoda Dante Alighieri («per il suo libro “Stil novo”»), lambisce «Cosimo de ’ Medici» e «Benedetto Cellini» (che si chiamava Benvenuto, ma fa niente) e s’inerpica su su fino a Steve Jobs (per «il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: Stay hungry, stay foolish») e al «Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana… Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione, ma i moventi sono diversi».Tra “L’Unità” ed “Europa” è il solito derby del cuore, anzi della saliva. Un filino più perplessa la prima, anche se Pietro Spataro conviene che «l’Italia ha bisogno come l’aria (sic, ndr) di una svolta radicale», «restare nella palude sarebbe stato il male peggiore», «meglio essere trascinati da un’“ambizione smisurata” che prigionieri di una modesta navigazione”: peccato che né lui né “L’Unità” avessero mai avvertito i lettori che Letta era una palude e una modesta navigazione (che s’ha da fa’ per campa’). Eccitatissimo, su “Europa”, il sempre coerente Stefano Menichini. Solo in aprile cannoneggiava il «ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere»: «I Travaglio, i Padellaro, i Flores che annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote”». Putribondi figuri che osavano dubitare delle magnifiche sorti e progressive del governo Letta: «Personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi. Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini… lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione».Ora invece, con agile balzo, impartisce l’estrema unzione al fu Nipote («Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso») e bussare alla «porta che si sta spalancando a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana»: quella di Renzi, che «si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva». Perché «a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano». Torna finalmente a rifulgere il sole sui colli fatali di Roma.(Marco Travaglio, “Governo Renzi, sulla Smart del vincitore”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 febbraio 2014).Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.
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Missione, salvare l’Italia: ora Renzi non ha più alibi
Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare un messaggio: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Fiorenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».Lo sintetizza Jacopo Iacoboni, sulla “Stampa”: il difficile per Renzi comincia ora, perché «si delineano due scene stridenti e totalmente incompatibili». Da una parte «un uomo non ancora quarantenne che conquista la guida del partito con una campagna aperta, popolare, e chiedendo un voto agli italiani», e dall’altra, «in stanze divenute grigie, purtroppo, il Parlamento delle “larve intese” (neanche più larghe)». Dal corpo elettorale del Pd arrivano indicazioni inequivocabili: l’outsider Civati «è andato piuttosto bene, senza fare sfracelli ma dando segno di vitalità», mentre il dalemiano Cuperlo è colato a picco, «non perché non fosse un uomo di valore: semplicemente perché è apparso totalmente schiacciato e legato all’abbraccio mortale della burocrazia del partito (e della Cgil): un tandem micidiale che farebbe perdere una partita anche a Maradona, se esistesse, nell’Italia 2013».«In tempi di disaffezione e di protesta dilagante», scrive Ezio Mauro su “Repubblica”, la risposta dell’8 dicembre è «sorprendente e confortante», perché rappresenta «un atto di fede nella democrazia e persino nella politica, unito a una speranza testarda di cambiamento: in mezzo ad una crisi gravissima, che con la mancanza di lavoro sta erodendo la democrazia materiale del paese, le primarie dicono che per il popolo di sinistra la politica è ancora l’unico strumento per cambiare l’Italia, a patto che incominci a cambiare se stessa». Aggiunge Mauro: «Ogni volta che la sinistra dischiude le sue porte e chiede ai cittadini di partecipare la reazione è positiva, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate in passato per la dissipazione dei dirigenti». Secondo il direttore di “Repubblica”, giornale “organico” al Pd, «la sinistra è seduta su un giacimento di energia democratica». Archiviata l’ombra lunga della nomenklatura dalemiana, ora non ci sono più alibi: «Renzi ha vinto soprattutto per questo: per la promessa di cambiare il Pd e il paese. Dovrà farlo subito, cominciando dalla legge elettorale, dai costi della politica, dalla crisi del lavoro».Guai se il sindaco di Firenze disperdesse l’ultima speranza, aggiunge Mauro, perché i milioni di elettori che hanno votato Renzi pretendono un cambiamento radicale. Un notevolissimo atto di fiducia, se si considera che il neosegretario non ha ancora detto praticamente nulla su come “rivoluzionerebbe” l’Italia. Pochi spiragli anche dal discorso della vittoria, pronunciato a caldo: «Ci siamo resi conto che tocca a noi perché abbiamo conosciuto l’euro e non l’Europa». L’orizzonte che conta è quello delle europee: con l’annunciata battaglia no-euro affidata alla credibilità di un certo Berlusconi e alle sgangherate analisi che Grillo ha offerto alla platea del V-Day di Genova. Finora, Renzi ha ignorato il problema, sostenendo che l’Italia può rimediare – da sola – ai guasti di Bruxelles, semplicemente ripulendo se stessa dai suoi vizi. Nel frattempo, il paese sta affondando, col premier di turno costretto a tagliare servizi vitali per rispettare i lacci e le tagliole fiscali imposte da una Troika che nessuno ha eletto. Attenti a non dare per morto il Pd, avverte Aldo Giannuli, perché i suoi elettori (regolarmente frustrati da pessimi dirigenti) pretendono una svolta “di sinistra”, che punti cioè a tutelare i diritti della maggioranza. Manca ancora l’attesa spiegazione: nemmeno Renzi ha finora spiegato perché il paese stia crollando, ricattato dai poteri forti che dominano le istituzioni europee e impongono la capitolazione del sistema-Italia. Tre milioni di voti sono un’enorme apertura di credito. L’ultima, prima che qualcuno spenga la luce.Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale, persino attraverso gli attuali partiti. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare messaggi espliciti: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Firenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».
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Achtung Grillo, i nemici dell’Europa e quelli dell’Italia
Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.A dare l’allarme è lo stesso Enrico Letta, uomo Bilderberg: «Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25% questo sarebbe molto preoccupante», dichiara il premier a “La Stampa”. «Il rischio che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle europee è molto forte: non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo». Timore condiviso da un euro-oligarca come il tedesco Martin Schulz, secondo cui «la possibilità che nel prossimo Europarlamento ci sia tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o populisti è ormai più che probabile». Mai nessuno che si pronunci sulle cause del terremoto elettorale in arrivo. Eppure, aggiunge lo stesso Messora, basta ascoltare quello che Mario Monti (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs) ha appena detto alla Cnn: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa, un’espansione della domanda». Mai stato così chiaro, Monti. «Come si distrugge la domanda interna? Alzi le tasse e svaluti i salari», dice Messora, «così la gente non ha più soldi e compra di meno».Ma non basta: lo Stato potrebbe sempre alzare la spesa a deficit, cioè investire sui cittadini, mediante politiche sociali (reddito di cittadinanza) o creando lavoro. «E allora cosa facciamo? Semplice: inventiamo il pareggio di bilancio e lo mettiamo addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Era l’equazione che ci avrebbe matematicamente reso più poveri: se costringi la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda, allora se punti sulle esportazioni devi per forza massacrare i portafogli». E’ quello che ha fatto Monti. Più “domanda attraverso l’Europa” significa «diventare un centro di produzione a basso costo per i ricchi paesi del nord (Germania in testa), una specie di Cina europea, così da non essere costretti a comprare dai trafficanti di diritti di Pechino, per togliere il mercato all’oriente spregiudicato». A quel punto, la strada è obbligata: tagliare i costi di produzione. «E siccome le materie prime le paghiamo sempre uguale, bisogna pagare di meno gli stipendi e diminuire i diritti (vi dice niente la battaglia per la modifica dell’articolo 18?)».E come li costringi, i lavoratori, ad accettare uno standard di vita meno dignitoso? Ci si arriva per gradi: «Li getti nella crisi più nera, svendi tutto il patrimonio di economia nazionale e permetti ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. Gli togli le case con Equitalia. Costringi le fabbriche a chiudere: meno offerta di lavoro uguale più domanda, cioè milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane». Il paradiso dei tedeschi, affamati di aziende da comprare in saldo e di lavoro a basso costo per il loro export. «Venire a fare shopping in Italia è come andare all’outlet nel periodo dei saldi». Per Messora, non è irrilevante il risvolto geopolitico: un’Europa germanizzata può «limitare lo strapotere commerciale dei Brics, e magari togliere potere a quella Cina che detiene la maggior parte del debito americano».Funziona così: «Prendi un paese massacrato dal debito pubblico, ricattabile, ma anche industrializzato, dunque con le possibilità e le competenze produttive per soddisfare la tua domanda, e lo trasformi in una miniera a basso costo. Un piano iniziato negli anni ’80, ai tempi di Kohl e Mitterrand». Per Messora, non è altro che «un disegno criminoso, deciso sulla testa dei popoli, senza consultarli». Una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità sull’onnipotenza di una élite che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza europea la costruzione di un’unica, enorme, sovra-nazione «dove il controllo democratico è inesistente (e dove i think-tank sostituiscono i parlamenti)». A questo progetto oligarchico, «i socialismi europei hanno venduto l’anima». Certo, resta ancora «un’opinione pubblica da condizionare, da convincere che non esistono altre strade». E allora, bisogna «monitorare le comunicazioni nei paesi euroscettici, per identificare i temi più rilevanti e per assoldare una squadra di piccoli Goebbels in grado di reagire prontamente e fare una propaganda mirata», accusando di “populismo” chi contrasta l’oligarchia dominante.E’ il tema della crociata alle porte: «Bisogna combattere i “populismi”, cioè chiunque insista nel coltivare la convinzione che le élite non abbiano un mandato divino a governare sul cielo e sulla terra (né le loro soluzioni siano le migliori a prescindere), ma la sovranità appartenga al popolo». E’ quello che fa l’anziano Scalfari, tra una cena e l’altra con Napolitano e Draghi: l’importante è demonizzare Grillo, evitando accuratamente di spiegare le ragioni del suo successo, cioè il fallimento catastrofico della resa italiana agli euro-diktat. Nella sua replica, Grillo sfotte Scalfari: mi ha paragonato, dice, agli invasori marziani evocati da Orson Welles nel 1938. «Alla bufala di Welles credettero sei milioni di persone, a Scalfari non crede neppure più De Benedetti», scrive Grillo. «E’ il tempo della panchina lunga, caro Eugenio, magari al Pincio. Tu, l’Ingegnere e Napolitano a ricordare i vecchi tempi. Quando gli elettori, il cosiddetto popolo così tanto disprezzato non contava nulla. Bei tempi quelli, ma non torneranno più». Da Palazzo Chigi, Enrico Letta strepita: «Fermiamo i nemici dell’Europa». A partire dalle prossime europee, milioni di cittadini cercheranno invece di fermare, innanzitutto, i nemici dell’Italia.Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.