Archivio del Tag ‘Julian Assange’
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L’indipendenza catalana è già finita, come il suo Badoglio?
Probabilmente verrà ricordata come la secessione interruptus. Sicuramente, come il caso di indipendenza sovrana più rapida del mondo. Roba da Guinness dei primati. La Repubblica catalana, proclamata giovedì scorso, è già finita. E il suo artefice scappato come un Badoglio qualsiasi in Belgio alla ricerca di esilio politico per evitare la galera: Bobby Sands sarebbe davvero fiero di lui e del suo coraggio. Quale esempio di sacrificio davanti all’ideale di un popolo! Oddio, proprio tutto il popolo non era con lui, basti vedere i numeri della marcia unionista tenutasi a Barcellona nel weekend e il fatto che, al netto dell’appello di Carles Puigdemont alla resistenza pacifica, nessuno abbia mosso un dito. Tutti mangiare tapas e a farsi, giustamente, i cazzi loro nel weekend: strano, Madrid non doveva abbattere la sua vendetta impietosa sulla Catalogna? Non doveva dar vita a un’occupazione militare e oscurantista? A una repressione degna di Franco? No, in verità si è comportata un po’ come le farsesche dittature militari del film di Woody Allen: non solo ha avvisato Puigdemont e i suoi sodali della Generalitat che avrebbero rischiato la galera a partire da oggi, garantendo loro 72 ore per riflettere ma, addirittura, gli ha permesso di espatriare!Non basta, per quanto il procuratore generale spagnolo, José Manuel Maza, abbia chiesto l’incriminazione per il presidente catalano destituito con l’accusa di ribellione, sedizione e malversazione (insieme ai ministri del suo governo per aver permesso la dichiarazione d’indipendenza), a tutti è stata – di fatto – concessa la scelta: presentarsi dinanzi ai giudici, affrontare il rischio di detenzione immediata (e la conseguente, potenziale condanna dai 15 ai 30 anni di carcere) in caso di mancata presenza o scappare. Qualcuno magari ci andrà anche in galera per i suoi ideali ma Puigdemont non ci ha pensato un attimo ed è volato a Bruxelles. Dove? Dalle autorità europee, come un vero leader in esilio? No, quelle non lo cagano nemmeno di striscio e hanno detto chiaro e tondo che la Catalogna non la riconoscono manco se il Benevento riesce a vincere una partita prima della fine del campionato. E’ andato dai separatisti fiamminghi. Così pare, almeno. Perché se il governo belga si è trincerato dietro un “no comment”, il presidente della regione belga della Fiandre, il nazionalista fiammingo Geert Bourgeois, nega di avere in programma un incontro con l’ex presidente catalano.Unico a degnare Puigdemont di un pensiero, nientemeno che il cantautore e deputato uscente indipendentista, Lluis Llach, a detta del quale «il presidente Puigdemont, oggi è a Bruxelles in esilio, è una vera e propria denuncia contro lo Stato spagnolo davanti alle istituzioni europee e internazionali». Diciamo che abbiamo assistito a mobilitazione un pochino più sentite: stasera si faranno una cantata assieme. Poi che fine farà, chiuso in un ambasciata a vita come Julian Assange? Una cosa è certa, sappiamo cosa farà il suo partito, il Pdecat, il quale ha reso noto che parteciperà alle elezioni regionali convocate per il 21 dicembre dallo Stato spagnolo! «Il 21 andremo alle urne, ci andremo con convinzione e ci impegniamo a rispettare ciò che dirà la società catalana», ha detto il portavoce del partito, Marta Pascal. E allora c’era bisogno di fare tutto questo casino? Era necessario far mobilitare qualche milione di persone, far prendere botte a un migliaio di loro, fargli perdere giorni di lavoro (stupisce il dato del Pil catalano, almeno stando alle ore che i suoi cittadini hanno passato in piazza a manifestare, invece che lavorare), costringere Madrid a Consigli dei ministri e sedute straordinarie delle Cortes per arrivare a questo?Ovvero, Puigdemont a Bruxelles a mangiare praline, i catalani che vivono normalmente con il delegato spagnolo alla Generalitat per gli affari correnti e le urne condivise il 21 dicembre? Voglio dire, ci hanno tritato i coglioni dal 1 ottobre a oggi per arrivare a questo risultato da minorati mentali, facendo oltretutto affondare l’Ibex e costringendo centinaia di aziende a spostare la sede fiscale? Ditemi di no, per favore. Perché altrimenti tocca cominciare davvero a pensar male, cosa che in effetti ho fatto dall’inizio. Ovvero, pensare a una bella pantomima orchestrata per portare un po’ di instabilità nell’Ue. Magari per dare una calmata sistemica a quel cazzo di “overshooting” dell’euro sul dollaro che non voleva calare. Oppure per eseguire uno stress test sul sistema bancario spagnolo e la sua resilienza, sia come tenuta che solvibilità e il possibile contagio al nostro in caso di tensione continua e bank-run a sportelli e bancomat. Oppure ancora per inviare un messaggio agli altri indipendentisti interni all’Ue, tanto per fargli capire che alzare la cresta è facile ma tenerla dritta molto meno. Oppure ancora una nemmeno troppo velata minaccia relativa all’impasse dei negoziati sulla Brexit, proprio nel momento in cui Theresa May è più fragile a livello interno.Non lo so, magari avevano voglia di scherzare giusto per vedere l’effetto che fa, una specie di Candid Camera. Forse era una burla come quella delle scoregge registrate nella scena del bar di “Eccezziunale veramente”, con Puigdemont e Rajoy nella parte che fu di Abatantuono e Teocoli. Ma, per favore, ditemi che tutta questa colossale pagliacciata non è stata fatta perché davvero Puigdemont e i suoi ci credevano. Come cazzo puoi sperare che Madrid resti ferma e impassibile a guardare, dopo che per primo ti sei messo dalla parte del torto, indicendo un referendum anti-costituzionale? E se Puigdemont avesse sovrastimato la reazione popolare, come dimostrerebbe la normalità della vita in Cataogna e il sì del suo partito alle elezioni anticipate indette da Madrid, allora l’intero quadro andrebbe riletto: altro che resistenza pacifica di massa e sciopero fiscale, l’indipendenza catalana è soltanto un enorme esercizio di sciovinismo ammantato da romanticismo nazionalista. E come tale va trattato. Io sono spiacente per vedove e vedovi nostrani di questa bella avventura ma, siate onesti, trattavasi e trattasi di una farsa: costata molti soldi e moltissima credibilità. Ora, magari, parliamo di cose serie. Io vi avevo messo in guardia.(Mauro Bottarelli, “L’indipendenza catalana e il suo Badoglio sono già finiti. Ora parliamo di cose serie, per favore?”, da “Rischio Calcolato” del 20 ottobre 2017).Probabilmente verrà ricordata come la secessione interruptus. Sicuramente, come il caso di indipendenza sovrana più rapida del mondo. Roba da Guinness dei primati. La Repubblica catalana, proclamata giovedì scorso, è già finita. E il suo artefice scappato come un Badoglio qualsiasi in Belgio alla ricerca di esilio politico per evitare la galera: Bobby Sands sarebbe davvero fiero di lui e del suo coraggio. Quale esempio di sacrificio davanti all’ideale di un popolo! Oddio, proprio tutto il popolo non era con lui, basti vedere i numeri della marcia unionista tenutasi a Barcellona nel weekend e il fatto che, al netto dell’appello di Carles Puigdemont alla resistenza pacifica, nessuno abbia mosso un dito. Tutti mangiare tapas e a farsi, giustamente, i cazzi loro nel weekend: strano, Madrid non doveva abbattere la sua vendetta impietosa sulla Catalogna? Non doveva dar vita a un’occupazione militare e oscurantista? A una repressione degna di Franco? No, in verità si è comportata un po’ come le farsesche dittature militari del film di Woody Allen: non solo ha avvisato Puigdemont e i suoi sodali della Generalitat che avrebbero rischiato la galera a partire da oggi, garantendo loro 72 ore per riflettere ma, addirittura, gli ha permesso di espatriare!
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Il fantasma di Soros: buonismo migrante, guerre e affari
Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
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Terrorismo, il bugiardo copione della morte. Fino a quando?
Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?Mentre si prolunga il silenzio assordante dei media mainstream, che ignorano deliberamente le ormai migliaia di fonti – da Wikileaks in giù – che raccontano tutta un’altra storia, come quella dell’ambasciatore americano a Bengasi saltato in aria con tutte le sue carte dopo che il network di Assange aveva scoperto il traffico di ami chimiche dalla Libia verso la Siria (da cui l’emailgate di Hillary Cinton, con 1.400 messaggi precipitosamente cancellati), ammonta a ormai molti milioni di persone la platea internazionale degli “webeti” che vogliono sapere, informarsi, scoprire perché agli europei oggi tocca morire per strada, al bar, in metropolitana, al concerto, allo stadio. Voci eminenti hanno squarciato un velo di omissioni, falsità e depistaggi. Giornalisti, premi Pulitzer, ex ministri americani, ex militari d’alto rango, massoni, analisti, specialisti dell’intelligence. Raccontano tutti la stessa storia: un’élite impazzita ha il terrore di perdere il potere assoluto conquistato negli ultimi trent’anni, da quando – afflosciatasi la minaccia sovietica – il “partito della guerra”, il business degli armamenti, aveva assoluta necessità di “inventare” un altro nemico, necessario a giustificare il boom inesauribile della spesa militare, e così ha “fabbricato” la minaccia islamista.Lo ammette l’anziano Zbigniew Brzezisnki nelle sue memorie: fu lui a reclutare Bin Laden, fu lì che tutto cominciò. Il seguito è stato solo una tragica farsa, sanguinosissima: l’11 Settembre, le “armi di distruzione di massa” di Saddam, l’esercito barbarico del Califfo, le armi chimiche di Assad e quelle di Gheddafi, l’atomica dell’Iran. Ora siamo ai kamikaze, veri o presunti, ma comunque non sopravviventi: immancabilmente “già segnalati dall’intelligence”, regolarmente “sfuggiti al controllo”, prontamente individuati e riempiti di piombo. Terrorizzare un paese come la Francia, strategico per l’oligarchia finanziaria Ue, secondo alcuni osservatori è una misura preventiva: le leggi speciali frenano la protesta per le misure di rigore sociale in arrivo, e concorrono all’elezione in carrozza di un soggetto come Macron, creatura in vitro della supermassoneria reazionaria incarnata dall’onnipresente Jacques Attali, l’uomo che derise la “plebaglia europea”, illusasi che l’euro fosse stato creato per la sua felicità. Fino a quando durerà, questa recita, che attualmente insanguina il Regno Unito colpevole di aver scelto la Brexit? Se è vero che i signori del terrore hanno paura di perdere il regno, come sostiene qualcuno, c’è ragione di temere un maxi-attentato, stile 11 Settembre. A meno che, a monte, non accada qualcosa, e l’élite “nera” sia sconfitta. Ma non c’è caso che gli “webeti” vengano a saperlo da giornali e televisioni. Siamo nel 2017, e la verità non è mai stata così incerta e rischiosa, avara e tristemente clandestina.Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?
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Manchester Satanic e terroristi Nato, nessuno è innocente
Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.Ora, secondo l’“Independent”, Salman Abedi, il figlio stragista di Manchester, si trovava nella Libia Orientale nel 2011, quando gli aerei britannici bombardavano le truppe del governo libico per portare al potere i Takfiri. Era giovanissimo. Secondo i suoi compagni di scuola, cambiò allora: «Prima era un ragazzo di compagnia, beveva, fumava erba – ma quando tornò dalla Libia nel 2011 era un’altra persona. Diventò religioso. Per qualche tempo è stata innalzata una bandiera nera con scritte in arabo sul tetto della casa degli Abedi a Elsmore Road». Spero che i lettori non abbiano dimenticato come, sotto gli auspici di Hillary Clinton allora segretaria di Stato, carichi e carichi di armamenti saccheggiati dai forniti arsenali di Gheddafi furono spediti in Siria, per armare i Takfiri mercenari arruolati per abbattere il legittimo governo. Una sporchissima faccenda in cui trovò la morte l’ambasciatore Usa Chris Stevens, sacrificato con la sua scorta di Marines per non far saltare fuori la storia. Potevano essere salvati, un commando era pronto a decollare dalla Sicilia, fu dato l’ordine di “stand-down”. Insomma la strage “islamica” di Manchester è un effetto collaterale delle sovversioni britanniche in Libia e in Oriente in obbedienza ai neocon americani. A meno che non sia un’operazione voluta dagli stessi servizi britannici – l’attentatore era ben noto agli agenti – per distrarre l’opinione pubblica da qualcos’altro (Brexit? Elezioni?).Personalmente penso che valga più la prima ipotesi. Ma, come si dice: mai sprecare un disturbato mentale utilizzabile come islamista kamikaze. Quanto alla pop-star Ariana Grande, idolo delle giovanissime: nel 2014, in una intervista a “Billboard”, ha rivelato di essere divenuta “kabbalista” (complimenti) secondo «gli insegnamenti del rabbino Philip Berg», un agente d’assicurazione di New York, fondatore di una organizzazione magica chiamata Centro della Kabbala. Ariana Grande non è la sola celebrità ad aderirivi: Naomi Campbell, Madonna, Leonardo Di Caprio, Britney Spears, Demi Moore e (poteva mancare?) Paris Hilton si dice ne facciano parte. La giovanissima Ariana Grande ne deve essere particolarmente addentro, perché in una intervista ha parlato di come talora venga “abitata” da presenze inequivocabili: «Appena ho chiuso gli occhi ho sentito questa vampata davvero forte vicino alla mia testa… quando ho chiuso gli occhi ho iniziato di nuovo con i sussurri per molto tempo… ho iniziato a vedere questa immagine veramente inquietante, come con forme rosse».Sul web naturalmente si sono affollati complottisti che hanno intuito “messaggi” kabbalisti, per esempio, nell’età dell’attentatore e nella data della strage (22 è il numero delle lettere ebraiche su cui si basa la magia della Kabbala); altri hanno indicato simboli kabbalistici nei videoclip della piccola. La cosa ci stupirebbe poco e poco ci interessa. Oltretutto un produttore cinematografico che ha passato la vita ad Hollywood, Jon Robberson, ha appena accusato l’industria cinematografica hollywoodiana di essere «un nido di pedo-criminalità di natura luciferina». Il che, naturalmente, ci stupirà ancor meno. Stupirebbe di più il fatto che nessun giudice in Usa voglia riprendere in mano la faccenda della strana morte di Seth Rich, un addetto del comitato elettorale democratico che aveva rivelato a Wikileaks migliaia di mail compromettenti sul funzionamento interno del partito: fra cui i trucchi e i giochi sporchi con cui quel partito favoriva la Clinton e sabotava l’altro candidato, Bernie Sanders. «Seth Conrad Rich, 27 anni, fu assassinato per strada l’8 luglio in Washington Dc, da una o diverse persone che non gli rubarono nulla di quello che indossava, lasciando anche la sua ventiquattrore, il suo orologio o il cellulare». Julian Assange accusò Hillary come mandante dell’omicidio (Hillary: «Ma non c’è un drone, qualcosa, per ammazzarlo?»). Il fatto è che si stanno accumulando prove, indizi e testimonianze che puntano ai colpevoli nel Partito Democratico. Ma i giudici e i politici Usa sono tutti concentrati a cercare prove sul delitto originale di Trump, quello di essere un agente di Putin.(Maurizio Blondet, “Manchester Satanic, nessuno è innocente”, dal blog di Blondet del 25 maggio 2017).Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.
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“Bin Laden e Isis agli ordini dei Bush, entro 2 anni le prove”
«Entro un paio d’anni il mondo verrà a sapere, ufficialmente, che Osama Bin Laden faceva parte della stessa organizzazione segreta di George W.Bush, la “Hathor Pentalpha”, alla quale appartiene lo stesso Al-Baghdadi, il leader dell’Isis». Non è una profezia, è una previsione. Porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Un libro che ricostruisce il ruolo della supermassoneria internazionale nell’ambito di un particolare sistema di dominio che l’autore chiama “sovragestione”: strategia della tensione progettata da elementi dell’élite politica, economica, finanziaria e militare. Secondo Carpeoro, il “neoterrorismo” è direttamente coordinato da servizi segreti e affidato a manovalanza “islamista”, opportunamente coltivata. Al vertice della piramide si troverebbe una Ur-Lodge (superloggia) come la “Hathor Pentalpha”, fondata da Bush senior nel 1980. La “novità”, annunciata da Carpeoro alla web-radio “Forme d’Onda”, riguarda le rivelazioni che ci attendono: «Sono certo che Julian Assange è perfettamente al corrente di tutto ciò, ed è probabile che sarà Wikileaks a fornire le prove incontrovertibili dei legami più che imbarazzanti tra il vertice Usa, Al-Qaeda e il cosiddetto Stato Islamico».Il primo a rivelare pubblicamente l’esistenza di 36 “superlogge-ombra” al vertice della massoneria internazionale è stato Gioele Magaldi, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, a fine 2014. Nella trattazione – di cui Magaldi assicura di poter fornire le prove, custodite in 6.000 pagine di documenti – l’autore scrive che proprio alla “Hathor”, creata dal clan Bush reclutando l’intero vertice “neocon” più leader europei come Blair e Sarkozy nonché il turco Erdogan, si deve l’incubazione dell’attentato epocale dell’11 Settembre, casus belli “perfetto” per scatenare le guerre in Afghanistan, in Iraq e, a ruota, nel resto del Medio Oriente, fino alla Libia e alla Siria. Ufficialmente, gli storici riconoscono il ruolo di Bin Laden in Afghanistan negli anni ‘80, finanziato dalla Cia: una celebre foto lo ritrae con un supermassone come Zbigniew Brzezinski, già stratega di Jimmy Carter. Un’altra foto, molto più recente, immortala – questa volta in Siria – l’inviato di Obama, il potente senatore John McCain, accanto all’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq.Alla lettura degli eventi, Magaldi fornisce il “collante invisibile” che spiega quegli incontri: Bin Laden e Al-Baghdadi, sostiene, sono stati entrambi affiliati alla “Hathor Pentalpha”, con il compito di fornire all’oligarchia occidentale il pretesto per le ultime guerre. Carpeoro aggiunge che a questa stessa “sovragestione” va ascritto l’opaco terrorismo che di recente ha colpito l’Europa, da Charlie Hebdo al Bataclan fino alla strage di Nizza, passando per gli attentati a Londra, a Bruxelles e in Germania. Massacri efferati, regolarmente “firmati” in modo simbolico (date, luoghi nomi), in modo da rivendicare, in codice, la matrice non islamica (ma sovra-massonica) degli ideatori.«Non bisognerebbe nemmeno chiamarli massoni», precisa Carpeoro, «ma sono loro ad accreditarsi così». La “novità” annunciata nella trasmissione web-radio dell’11 maggio è che il gioco, denunciato da più parti alla voce “terrorismo false flag”, sotto falsa bandiera e “fatto in casa”, sarà svelato definitivamente «entro un paio d’anni, carte alle mano», da più fonti, tra cui probabilmente la stessa Wikileaks, notoriamente in contatto con fonti di intelligence. «Sono convinto – aggiunge – che Assange abbia già più volte minacciato di esibire quei documenti, certamente in suo possesso, ogni volta che gli Usa hanno tentato di farlo estradare». E adesso, dice Carpeoro, prepariamoci: è solo questione di tempo, poi quelle carte usciranno. Così, anche i più scettici «avranno modo di fare qualche riflessione, sulla vera natura di questo neoterrorismo e sull’identità dei suoi reali, insospettabili mandanti».«Entro un paio d’anni il mondo verrà a sapere, ufficialmente, che Osama Bin Laden faceva parte della stessa organizzazione segreta di George W.Bush, la “Hathor Pentalpha”, alla quale appartiene lo stesso Al-Baghdadi, il leader dell’Isis». Non è una profezia, è una previsione. Porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Un libro che ricostruisce il ruolo della supermassoneria internazionale nell’ambito di un particolare sistema di dominio che l’autore chiama “sovragestione”: strategia della tensione progettata da elementi dell’élite politica, economica, finanziaria e militare. Secondo Carpeoro, il “neoterrorismo” è direttamente coordinato da servizi segreti e affidato a manovalanza “islamista”, opportunamente coltivata. Al vertice della piramide si troverebbe una Ur-Lodge (superloggia) come la “Hathor Pentalpha”, fondata da Bush senior nel 1980. La “novità”, annunciata da Carpeoro alla web-radio “Forme d’Onda”, riguarda le rivelazioni che ci attendono: «Sono certo che Julian Assange è perfettamente al corrente di tutto ciò, ed è probabile che sarà Wikileaks a fornire le prove incontrovertibili dei legami più che imbarazzanti tra il vertice Usa, Al-Qaeda e il cosiddetto Stato Islamico».
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Liberamente schiavi: spiati e felici di tenerci lo smartphone
Tutti ricorderanno il clamore mediatico che costrinse, due anni fa, il governo americano a varare delle misure di controllo sulla cosiddetta “bulk data collection”. Era tuttavia chiaro, come paventavo in un precedente articolo, che le agenzie avrebbero trovato facilmente il modo di aggirare l’ostacolo e di continuare indisturbati a spiare tutto lo spiabile. È di ieri, infatti, la notizia di oltre 8.700 documenti della Cia messi in circolazione da parte di Wikileaks. Nonostante Snowden sia in esilio in Russia e Assange confinato in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Wikileaks – pur con tutti i distinguo e i dubbi che lecitamente si possono avere su questa organizzazione – prosegue la sua opera di disvelamento della hybris dei poteri forti. Tali documenti aprono uno scenario terrificante sull’evoluzione dei sistemi di spionaggio informatico che le élite portano avanti da decenni – e questa è la cosa che più colpisce – nella sostanziale indifferenza dei popoli. Ci infuriamo se qualcuno ascolta una nostra telefonata o se un familiare legge un nostro messaggio su WhatsApp – magari a fin di bene – ma tolleriamo distrattamente se poteri disumani controllano – e questi certamente non a fin di bene – ogni nostro sussurro mentre sediamo davanti alla televisione o usiamo il nostro smartphone.Come le rane non ci accorgiamo che l’acqua diventa sempre più calda, ma quando vorremo saltar fuori dalla pentola sarà troppo tardi… I quasi 9.000 files – 8.761 per la precisione – di Vault-7, così si chiama questo leak, sono, a detta di Wikileaks, solo la prima parte di un più ampio programma di rivelazioni che si riferiscono al periodo 2013-2016, e aprono uno scenario terrificante sul controllo globale da parte delle super-agenzie militari. Non solo controllo totale dei nostri smartphone ma monitoraggio delle nostre parole e attività tramite i nostri apparecchi televisivi, senza parlare del progetto di controllare persino le autovetture che utilizziamo per spostarci. Quello che emerge da questi leaks è non solo lo stato di avanzamento tecnologico che consente un controllo pressoché totale sulla vita della gente, ma anche la più assoluta indifferenza, da parte delle agenzie, nei confronti delle leggi che dovrebbero tutelare la privacy di ogni cittadino. Ma forse il concetto di privacy vale solo per i membri dell’élite, per gli altri vale invece il totem della “sicurezza nazionale”…Vault-7 ci rivela altresì che la sede centrale del Grande Fratello di Langley, in Virginia, ha una succursale – totalmente illegale secondo il diritto internazionale – presso il consolato Usa di Francoforte, che ficca il naso negli affari di Europa, Medio Oriente e Africa. Ma non è tutto. Dai documenti risulta anche che software di hackeraggio come SwampMonkey o Shamoon – che consente di rubare i dati e anche di distruggere completamente l’hardware – permettono di controllare totalmente i nostri apparati elettronici, Pc, iPhone o Android. Last but not least, dai leaks emerge, infine, che alcuni di questi sistemi di controllo sarebbero stati sottratti alla Cia e potrebbero essere nelle mani di altre organizzazioni o altre nazioni. La Cia, interpellata, ha risposto – indovinate – con il solito No comment.Pensate dunque a questo scenario – per ostacolare il quale Wikileaks ha deciso di rivelare i files – di ordinaria follia: sono seduto sul divano a guardare il telegiornale – ma l’apparecchio Tv potrebbe essere anche apparentemente spento – e pronuncio parole di critica verso il governo, magari parole che, attraverso i programmi di ricerca automatica di keywords, mi identificano come un “terrorista”. Continuo poi a dire o scrivere qualcosa di negativo sul governo o la polizia tramite il mio smartphone – che a mia insaputa è del tutto nelle mani degli spioni – e poi salgo in macchina per andare al lavoro o ad un appuntamento. Tramite la geolocalizzazione, che tutti attiviamo allegramente sul nostro iPhone per trovare la pizzeria più vicina, o attraverso un controllo remoto attivato a mia insaputa sulla mia automobile, quest’ultima non risponde più ai comandi e io finisco fuori strada schiantandomi da qualche parte.Fantascienza? No, realtà già pienamente possibile.Il tutto giustificato dall’esigenza di combattere quel terrorismo che è stato creato ad arte per giustificare a sua volta il controllo globale. “A me non interessa essere spiato, tanto non ho niente da nascondere”. “Meglio essere spiato e tranquillo che rischiare un attentato”. “La sicurezza prima di tutto”. Chi la pensa così – e non sono pochi – sta collaborando al progetto di una umanità totalmente asservita ai poteri oscuri delle élite dominanti che, tramite la tecnologia e la realtà virtuale, da anni perseguono instancabilmente questo obiettivo. Far sì che l’uomo scelga liberamente la sua schiavitù. Il che deve portare, a mio avviso, a due conclusioni: prima di tutto che siamo corresponsabili di quanto ci accade e, in secondo luogo, che forse dobbiamo iniziare a ridimensionare la nostra dipendenza dal mondo della realtà virtuale per dedicare più tempo ed energie al mondo reale, quello che ci collega ai nostri simili in vincoli di sentimento e di libera azione.(Piero Cammerinesi, “Liberamente schiavi”, da “Coscienze in Rete” del 9 marzo 2017).Tutti ricorderanno il clamore mediatico che costrinse, due anni fa, il governo americano a varare delle misure di controllo sulla cosiddetta “bulk data collection”. Era tuttavia chiaro, come paventavo in un precedente articolo, che le agenzie avrebbero trovato facilmente il modo di aggirare l’ostacolo e di continuare indisturbati a spiare tutto lo spiabile. È di ieri, infatti, la notizia di oltre 8.700 documenti della Cia messi in circolazione da parte di Wikileaks. Nonostante Snowden sia in esilio in Russia e Assange confinato in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Wikileaks – pur con tutti i distinguo e i dubbi che lecitamente si possono avere su questa organizzazione – prosegue la sua opera di disvelamento della hybris dei poteri forti. Tali documenti aprono uno scenario terrificante sull’evoluzione dei sistemi di spionaggio informatico che le élite portano avanti da decenni – e questa è la cosa che più colpisce – nella sostanziale indifferenza dei popoli. Ci infuriamo se qualcuno ascolta una nostra telefonata o se un familiare legge un nostro messaggio su WhatsApp – magari a fin di bene – ma tolleriamo distrattamente se poteri disumani controllano – e questi certamente non a fin di bene – ogni nostro sussurro mentre sediamo davanti alla televisione o usiamo il nostro smartphone.
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L’impero del terrore fatto in casa, il lungo sonno della verità
Un vecchio gioco sporco, sempre uguale. Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo. Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco. L’importante, poi, è dimenticare tutto. Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese. Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno. Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti. Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email. Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appenna successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.Non deve ricordare, il pubblico, che l’abominevole Isis nasce nell’Iraq spianato dalle bombe e interamente controllato dagli Usa. Non si deve ricordare che il fantomatico “califfo” Al-Baghdadi venne stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, per ordini superiori, tra lo sconcerto dei carcerieri. Né si devono riproporre le foto che, qualche anno dopo, lo ritraggono in Siria in compagnia del senatore John McCain, inviato speciale di Obama per sostenere la “resistenza democratica” contro il brutale regime di Assad, resistenza affidata ai “moderati” tagliagole libici, sauditi, giordani, iracheni e anche caucasici, ceceni, cioè quasi mai siriani, tutti terroristi di professione, fraternamente accuditi, armati e protetti dalla Nato, attraverso la Turchia e Israele, nonché le petro-dittature del Golfo. No, il pubblico non deve ricordare chi ha fabbricato l’Isis, come e quando, sulla base di quali macerie, con quali soldi, con quale logistica, con quali armamenti, dopo quali rivoluzioni colorate.Il pubblico occidentale deve solo tremare di paura davanti al fantasma del commando kamikaze con passaporto al seguito da lasciare in bella vista, deve tremare davanti al pericolo incombente del lupo solitario che colpisce con il Tir, il camion, il Suv, per poi essere immediatamente ucciso e quindi messo a tacere, in attesa del killer seguente, già in agguato, pronto a colpire ancora, alla cieca, la folla inerme – mai un obiettivo “nemico”, solo e sempre la folla inerme, cioè noi. La cattiva notizia, tra le tante, è che il mondo ormai «è in mano a cinquanta pazzi, che continuano a giocare col fuoco, fabbricando nemici di comodo telecomandati, senza più capire che il gioco si va facendo pericoloso, fuori controllo, perché gli altri – tutti gli altri, a cominciare da Russia e Cina – non consentiranno più che il gioco duri all’infinito, sulla nostra pelle». Lo ha ripetuto Giulietto Chiesa a Londra, in un dibattito con Gioele Magaldi sulla natura eversiva del potere oligarchico che domina in pianeta ormai da decenni, spingendo sette miliardi di persone in un vicolo cieco – militare, energetico, economico, finanziario, ecologico, climatico.Uno scenario che è tragicamente sotto gli occhi di chi vuol vederlo: dove non cadono bombe, piovono i missili di una crisi senza fine, la finanza impazzita e l’economia in pezzi, l’Europa devastata dall’euro e presa d’assalto da milioni di disperati, sotto la regia di un pugno di banchieri e multinazionali. Mentre Magaldi scommette su una riscossa democratica dell’Occidente fondata sulla riconquista della sovranità impugnando le armi del socialismo liberale roosveltiano, Chiesa fa un’altra proposta, preliminare: costruire un think-tank internazionale, un trust di cervelli, che metta insieme le migliori menti del mondo, non solo americane ed europee ma anche russe, cinesi, indiane, africane, per avere una fotografia diversa da quella, unilaterale e integralmente falsa, proposta dal mainstream occidentale. Una lettura diversa della crisi, un’ottica multipolare, come unica possibilità per poi trovare, domani, soluzioni praticabili, lontano dalla “guerra infinita” che Giulietto Chiesa vide arrivare all’indomani del «colpo di Stato mondiale chiamato 11 Settembre».Uno spartiacque fatale, quello dell’attacco alle Torri: da allora, l’élite neocon ha imboccato la via della strategia della tensione, senza più abbandonarla. Iraq, Afghanistan, Yemen e Sudan, Somalia, Georgia, Egitto, Libia, Siria. Una strategia sanguinosa, stragista, preparata dalle “fake news” di regime: le bugie sulle Torri Gemelle, le favole sulle armi di distruzione di Saddam, le stragi inesistenti attribuite a Gheddafi, l’attacco coi gas attribuito ad Assad. Una strategia feroce, fondata sulla grande menzogna del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, da Al-Qaeda all’Isis, per innescare campagne militari destinate a mettere le mani sull’intero pianeta, abrogando diritti in Occidente e scatenando una guerra dopo l’altra nel resto del mondo. Ora siamo all’epilogo evocato dal Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, che prima ancora del Duemila annunciò che nel 2017 il nemico strategico degli Usa sarebbe stata la Cina. Quando cadde il Muro di Berlino, Gorbaciov sognava ad occhi aperti un mondo diverso, finalmente pacificato. Oggi siamo all’autismo del terrore fabbricato in casa, da un’élite che occulta le notizie e fa spiare miliardi di persone tramite Google, Facebook e le app dello smartphone. Un’oligarchia globale decisa a tutto, pronta a investire ormai solo sull’arma più antica, quella della paura, che nasce dalla manipolazione delle notizie, dal sonno della verità.Un vecchio gioco sporco, sempre uguale. Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo. Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco. L’importante, poi, è dimenticare tutto. Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese. Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno. Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti. Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email. Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appenna successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.
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Eurocrati a Roma, Isis a Londra: tutto in famiglia
Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».Il giornalista cita anche «la farsa di Londra 2005, in cui a uno zainetto lasciato nella carrozza del Tube è stato attribuita la voragine causata da un ordigno posto sotto la carrozza», quindi il triplice attentato di Amman, sempre nel 2005, «preceduto dall’evacuazione dei cittadini israeliani e coronato dall’uccisione di dirigenti palestinesi riuniti con militari cinesi». E poi «Bali, Mumbai, Madrid, Charlie Hebdo, dove certi terroristi camuffati ma identificati grazie all’esibizione ex-post dei documenti in macchina, hanno operato liberamente sotto lo sguardo di pattuglie di polizia». E poi Bruxelles, dove l’attentato all’aeroporto «è stato mostrato utilizzando un vecchio video di Mosca». E Monaco, dove «il più sofisticato armamentario antiterrorista germanico ha lasciato un tizio passeggiare e sparacchiare in un centro commerciale per quattro ore, prima di rinvenirlo e seccarlo mentre se la filava lontano dal luogo». E Nizza, dove «il giro della morte del Tir non lascia un’ammaccatura sulla carrozzeria e un’immagine nelle venti telecamere lungo il percorso (o meglio le ha lasciate tutte, ma il governo ha deciso che non servivano e andavano distrutte). E’ successo anche con quelle del Bataclan».Incongruenze che, per Grimaldi, diventano «lacerazioni smisurate nel tessuto dello storytelling delle stragi», subito «rammendate da tutti i cerimonieri mediatici turibolanti ai piedi degli Alti Sacerdoti, mentre sull’altare dei sacrifici umani celebrano il trionfo dell’arma finale contro classi e popoli subalterni e potenzialmente sovversivi». Ogni giorno, sui media, «viene fatta sparire la verità», tra chiacchiere assortite sulla ipotetica “guerra all’Occidente”, «ora transitata dalla trincee ai ponti di Londra e domani a piazza San Pietro». Facili profezie? «L’avevano già detto, ripetuto, ribadito: “Ci saranno attentati del terrorismo islamico. La questione è solo il quando e il dove”. Veggenti». I talk-show sono assordati da «latrati antislamici di energumeni di una Weltanschauung decerebrata dove, dopo i comunisti che mangiano i bambini, siamo ai musulmani che mangiano le donne». Ricompaiono anche «fossili» come Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Antonio Caprarica, Alessandro Meluzzi.Guerra all’Occidente? Suvvia: «La Nsa, ci è stato rivelato da Snowden e Assange e confermato da Trump, e le altre sorelle depravate dedite al voyeurismo, ascoltano tutto, vedono tutto, ti spiano dallo smartphone, dallo schermo di tv e computer, dal citofono, dall’asciugacapelli. Incamerano un miliardo di dati al minuto». Possono davvero non sapere ciò che si andrebbe preparando? Ora Renzi, «per interposto Gentiloni, gli vende pure (all’Ibm) tutti i nostri dati sanitari. Non ne hanno scampo né la cancelliera tedesca, né la presidente brasiliana, né gli ultimi ruotini del carro, che siamo tutti noi». Eppure, «vigliacco se gli capitasse una volta di intercettare il malvivente che si fa mandare da Al Baghdadi a massacrare gente, proprio là dove non c’è comunicazione, o apparizione, che non siano controllate dal più sofisticato apparato tecnologico mai visto, neppure da quelli di StarTrek». Evidentemente abbiamo a che fare con autrentici supereroi oscuri, «in grado, a distanza, di prendere i comandi di un aereo, come quelli dell’11 Settembre decollati e scomparsi per sempre, l’altro tedesco sui Pirenei, o di un camion, come quello di Nizza, o di un Suv, come quello di Westminster, e fargli fare quello che gli pare».Supereroi neri e «disturbati, manipolati, fuori di testa, che pensano di assaltare il Parlamento britannico con forchetta e coltello, tanto poi tutti quanti muoiono: capitasse mai che ne esca vivo uno che ci racconti, magari senza waterboarding, chi lo manda». Ma a noi, a quanto, pare, non interessa: ormai «ci accontentiamo della firma». E così, «anche la scorribanda del presunto Imam radicale di nome Brooks, dopo un po’ di suspence per un migliore ascolto, ha avuto la sua rivendicazione tradizionale». Scotland Yard, la migliore polizia antiterrorismo del mondo, «s’era scordata che quell’Imam era ancora in galera (che ridere: Caprarica, a “La Gabbia”, aveva giurato di riconoscerlo!) e quindi ha dovuto degradare l’attentatore a milite ignoto del terrorismo, pur sempre islamico». Tale Massud, «come sempre noto delinquente, dunque ricattabile, dunque soggetto debole», come quello, «cocainomane etilizzato, dell’aeroporto parigino». L’uomo perfetto per “indossare” la firma dell’Isis. «Uno col coltello a Parigi, un altro che a Londra assalta con due coltelli il più poderoso schieramento di sicurezza del paese, quello attorno alle massime istituzioni. Due abbattuti senza pensarci su mezza volta. Senza pensare quanto sarebbe stato facile e utile bloccarlo, magari con uno spruzzo al peperoncino, e arrivare tramite lui alla centrale operativa alla tana del mostro», aggiunge Grimaldi.Noi però continuiamo a non vedere che «l’Isis, come la carta di ricambio Al Qaida e tutti i terroristini aggregati, sono addestrati, armati, finanziati, riforniti, vestiti e nutriti, medicati (in Israele), da Usa, Nato, Israele e relativi azionisti, affittuari e sicari tra Turchia e Golfo». Ma visto che Barack Obama «soleva mandare un McCain a lisciargli il pelo, a rinnovargli l’affetto», allora «quando l’Isis dice “siamo stati noi”, è logica stringente, e ragion pura anche per Kant, che sono stati loro: gli sponsor, i padrini, i committenti». Troppo facile? «I nostri “esperti” da cento euro al grammo di islamofobia, queste ovvietà banali non le prendono neanche in considerazione», continua Grimaldi. «Interessante l’evoluzione del terrorismo a uso domestico», comunque. «Finite, nella fase, le grandi operazioni da laboriose pianificazioni e con risultati epocali, coinvolgenti apparati di Stato e complesse e numerose componenti professionali, con relativi rischi di gole profonde, errori, sovrapposizioni e trascuratezze, come quelle grandiose dell’11 Settembre, si è passati a progetti realizzabili con mezzi e numeri più modesti».I colpi grandi, «tipo aerei tirati giù o palazzi fatti saltare», ormai «si sono lasciati ai paesi “arretrati”, dove non si fa tanto caso alle toppate». Da noi «si è passati alle coppie di terroristi e ai minigruppi, rigorosamente islamici, visti a Parigi e Bruxelles e, con Wuerzburg, Nizza, Monaco, fino a Londra oggi, ai terribilissimi “lupi solitari”». Ovvero: «Poca spesa, impegno minimo, soggetti adulterati e manovrabili ed effetti anche migliori, più diffusi, capillari, terrificanti. Il panico del vicino, del passante, della vettura qualsiasi, dello sconosciuto, o conosciuto, della porta accanto. Meravigliosa invenzione: insicurezza totale, irrimediabile e, di contro, Stato di polizia, società securitaria, lotta di classe o di liberazione annientate». E pazienza se la privacy non c’è più: tanto, ad archiviarla, «ci hanno già pensato i sicari principi della Cupola, i terrroristi soft: i Tim Cook, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg». Tra «Grande Fratello, ciarle private strepitate al telefonino, selfie in Facebook, ti hanno ridotto a un demolitore pubblico della tua identità, alla mercè di tutti», e soprattutto «dello Stato spione e gendarme e del suo golpe strisciante». Sicché, data «l’enormità della mazzata Brexit» inflitta «alla cosca atlantica fin dagli anni ‘50 installata dalla Cia in Europa, per conto Rockefeller e Rothschild, utilizzando fiduciari come Davignon e Monnet, per fare a pezzi nazioni sovrane e costituzionalmente antifasciste», oggi «a Londra, che aveva appena fissata la data per lo scioglimento degli ormeggi, andava mandato un segnalino». Beninteso: «Poca roba, rispetto al potenziale e all’arsenale di Isis». Un Suv e due coltelli: «Un primo avviso».Osserva Grimaldi: «A Westminster è successo, mica a Canterbury. Al Parlamento dove stanno quelli che brexitano. E sul ponte di Westminster, immancabile per ogni turista eurifero e dollaroso. Come quelli di Sharm el Sheik e di Luxor, che non ci vanno più da quando, nel fedifrago Egitto di Al Sisi che ha fregato i cari Fratelli Musulmani, l’Isis (si fa per dire) fa saltare in aria la gente». Grimaldi teme «quei necrofori che, sabato e domenica a Roma, contro Brexit e altri Exit che girovagano per l’aere europeo, cercheranno di insufflare nel corpaccio in putrefazione dell’Ue quanto basta per fargli fare un po’ di scatti mesmerici». Il pericolo è che, «nel nome dell’Europa ricucita da sarte di palazzo come Laura Boldrini», noi popolo «ci si lasci fregare ancora una volta: prima, prendendo le mazzate perché osiamo ancora andare in piazza, e poi accettando che, anche solo a sollevare le sopracciglia sull’onnicomprensivo e onnipotente tasso di criminalità della classe dirigente, si finisca fuori. O piuttosto dentro. Come amici dei terroristi». E conclude: «Visto cosa si può combinare con una macchina e due coltellini svizzeri?».Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando. «La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia. La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa. «E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma. Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles. Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».
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La Cia è in ascolto: da cellulari, social media e televisori
Wikileaks ha pubblicato quella che sostiene essere la più grossa raccolta di documenti confidenziali sulla Cia, che rivelano le estese capacità di quest’agenzia di mettere sotto controllo gli smartphone e le più diffuse app di social media, come WhatsApp. Un totale di 8.761 documenti sono stati pubblicati all’interno di “Year Zero”, una prima parte di documenti sequestrati che Wikileaks ha definito “Vault 7”. Wikileaks ha dichiarato che “Year Zero” rivela i dettagli di un programma segreto globale di hackeraggio della Cia, che comprende “operazioni armate” contro prodotti come l’iPhone della Apple, Android di Google, Windows di Microsoft e persino i televisori della Samsung [smart-Tv]. Tutti questi sistemi possono essere convertiti e utilizzati come microfoni-spia. Secondo i documenti appena pubblicati, il reparto di telefonia mobile della Cia ha sviluppato svariati strumenti e sistemi che permettono di hackerare i più comuni smartphone, mandando istruzioni perché questi ritrasmettano sia informazioni sulla località in cui si trovano, sia comunicazioni audio e testo. Anche le telecamere e i microfoni degli smartphone possono venire attivati a distanza.Wikileaks ha dichiarato sul proprio sito che «questi strumenti e tecniche permettono alla Cia di controllare a distanza piattaforme di social media come WhatsApp, Signal, Telegram, Wiebo, Confide e Cloackman, prima che venga applicato un metodo di criptazione del messaggio». Il periodo di tempo coperto dai documenti della Cia appena resi pubblici va da 2013 al 2016. Wikileaks si domanda se le capacità di hackeraggio della Cia superino il mandato che le è stato conferito, e pongono il problema di un controllo pubblico sulla agenzia. Julian Assange, il cofondatore di Wikileaks, ha detto che questa massa di documenti mostra il rischio di una proliferazione estrema nello sviluppo delle cosiddette armi cibernetiche. «Il significato di “Year Zero”», ha aggiunto Assange, «va ben oltre la scelta fra cyberguerra e cyberpace. Queste rivelazioni sono anche eccezionali da un punto di vista politico e legale».In particolare, l’analisi di Wikileaks su “Year Zero” ha svelato l’esistenza di “Weeping Angel”, una tecnica di sorveglianza che riesce ad infiltrare le smart-Tv, trasformandole in microfoni attivi. Un attacco contro i televisori della Samsung, in cooperazione con l’Mi5, ha utilizzato “Weeping Angel”, mettendo i televisori in falsa modalità “off”, mentre registrava conversazioni anche quando il televisore sembrava spento. Leggendo la documentazione di “Weeping Angel” si scopre che «è possibile aprire dei portali di ascolto sui servizi utilizzati, oltre che estrarre le credenziali e la history del browser».(“Attenti al cellulare, la Cia vi ascolta”, estratto di un articolo pubblicato da “Russia Today” e tradotto da “Luogo Comune”).Wikileaks ha pubblicato quella che sostiene essere la più grossa raccolta di documenti confidenziali sulla Cia, che rivelano le estese capacità di quest’agenzia di mettere sotto controllo gli smartphone e le più diffuse app di social media, come WhatsApp. Un totale di 8.761 documenti sono stati pubblicati all’interno di “Year Zero”, una prima parte di documenti sequestrati che Wikileaks ha definito “Vault 7”. Wikileaks ha dichiarato che “Year Zero” rivela i dettagli di un programma segreto globale di hackeraggio della Cia, che comprende “operazioni armate” contro prodotti come l’iPhone della Apple, Android di Google, Windows di Microsoft e persino i televisori della Samsung [smart-Tv]. Tutti questi sistemi possono essere convertiti e utilizzati come microfoni-spia. Secondo i documenti appena pubblicati, il reparto di telefonia mobile della Cia ha sviluppato svariati strumenti e sistemi che permettono di hackerare i più comuni smartphone, mandando istruzioni perché questi ritrasmettano sia informazioni sulla località in cui si trovano, sia comunicazioni audio e testo. Anche le telecamere e i microfoni degli smartphone possono venire attivati a distanza.
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Caso Regeni, colpire l’Italia: l’Eni, ma anche Hacking Team
«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.Il nome quell’azienda rimbalza spesso sulla stampa in quei giorni bollenti, a fianco dell’Eni, ricorda Dezzani nel suo blog: si tratta di Hacking Team, una piccola società informatica milanese. «Tra i clienti di Hacking Team c’era anche l’Egitto», scrive il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2016. «Amnesty: basta con l’hacking di Stato, denunciamolo», attacca a ruota la “Repubblica” citando la società. «L’ombra di Hacking Team sull’omicidio Regeni», insiste “La Stampa”. All’interno di quest’ultimo articolo, si legge: «Le tensioni con l’Egitto per l’uccisione di Giulio Regeni hanno lambito anche Hacking Team, l’azienda italiana che vende software di intrusione e sorveglianza a numerosi governi. Il 31 marzo infatti il ministero dello sviluppo economico (Mise) ha revocato con decorrenza immediata l’autorizzazione globale per l’esportazione che era stata concessa alla società milanese, dallo stesso Mise, circa un anno fa». La ragione del ripensamento? «Lo scontro (per alcuni troppo debole da parte italiana) tra il nostro paese e l’Egitto sul caso Regeni». L’Egitto sarebbe stato infatti un cliente di Hacking Team.Software di intrusione e sorveglianza, blocco con decorrenza immediata dell’autorizzazione ad esportare, contesto geopolitico difficile, contatti con l’Egitto nazionalista di Al-Sisi, misteriosi attacchi informatici che riversano in rete la lista dei clienti della società? «Si direbbe che questo piccolo produttore italiano di software, pur fatturando solo 40 milioni di euro rispetto ai 70 miliardi dell’Eni, non sia finito accidentalmente nella bufera Regeni», scrive Federico Dezzani. Secondo l’analista, «gli stessi attori coinvolti nell’operazione per danneggiare i rapporti italo-egiziani», tra i quali Dezzani include «il gruppo “L’Espresso”, Amnesty International, Human Rights Watch», cioè le Ong «dietro cui si nascondono le diplomazie e i servizi segreti angloamericani», avrebbero «sfruttato la morte del giovane friulano per colpire anche una piccola ma scomoda realtà economica». Ma di cosa si occupa esattamente l’Hacking Team? E perché è finita nel mirino dell’establishment atlantico?Nata nel 2003, ricorda Dezzani, l’Hacking Team produce programmi per sorvegliare telefoni e computer, con una peculiarità che la rende pressoché unica a livello mondiale: anziché decifrare i dati criptati, li legge direttamente “in chiaro” sul supporto fisico, introducendo virus sugli apparecchi elettronici. «Partecipata anche dalla Regione Lombardia, l’Hacking Team non è però un nido di pirati informatici: tra i suoi clienti figurano soltanto governi e forze di sicurezza, anche di un certo calibro, se si considera che si annovera anche il Federal Bureau of Investigation». Essendo così ben introdotta negli apparati di sicurezza Nato, l’Hacking Team avrebbe dovuto dormire sonni tranquilli: la situazione, invece, si deteriora mese dopo mese a partire dal 2014, sino a culminare con l’accusa di essere complice del sequestro e l’uccisione di Regeni, con conseguente revoca dell’autorizzazione ad esportare. «Se la società milanese fosse stata “sensibile” agli inequivocabili messaggi che le erano lanciati, avrebbe dovuto da tempo capire di essere finita nei radar dei servizi angloamericani (gli stessi dell’“operazione Regeni”) e avrebbe dovuto notare come l’umore nei suoi confronti stesse velocemente cambiando».Siamo infatti nel febbraio 2014 quando Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare dell’università di Toronto specializzato in sicurezza delle telecomunicazioni e difesa dei diritti umani, accusa la società italiana di aver venduto un sofisticato sistema di monitoraggio di pc e telefoni a decine di paesi. Stati americani (Colombia, Panama e Messico), europei (Ungheria e Polonia), asiatici (Malesia, Thailandia, Corea del Sud). Ma anche a governi “autoritari” come quelli di Azerbaijan, Etiopia, Sudan Kazakhstan, Uzbekistan, Sudan. Nella lista figurano anche paesi “amici” ma non certo democratici come Marocco, Nigeria, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti. Più la Turchia, imbarazzante “democratura” Nato, e lo stesso Egitto. «Che uso fanno, questi paesi di dubbia democraticità, dei programmi acquistati?», si domanda il Citizen Lab. Ovvio: li usano per sorvegliare «attivisti e difensori dei diritti umani», ossia lo stesso humus dove sono state coltivate le “rivoluzioni colorate” che hanno sconquassato il Medio Oriente nel 2011. Sono, per inciso, gli stessi ambienti “studiati” anche dai docenti di Cambridge del defunto Giulio Regeni.A distanza di un mese, continua Dezzani, nel marzo 2014 il rapporto canadese è prontamente ripreso da Privacy International, un’organizzazione non governativa inglese ruotante nell’orbita della London School of Economics. Privacy International prende carta e penna e scrive al Parlamento italiano: non solo, dicono gli inglesi, l’Hacking Team viola i diritti umani, ma riceve addirittura fondi pubblici dalla Regione Lombardia. Che lo Stato italiano intervenga subito, per «indagare e prendere provvedimenti per garantire che la sua attività invasiva e offensiva non sia esportata dall’Italia e utilizzata in violazione dei diritti umani». Già in questa fase, come accadrà due anni dopo col caso Regeni, entra in campo il gruppo “L’Espresso”: «Privacy International chiede chiarimenti al governo sull’attività di Hacking Team, una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa della privacy chiama in causa il governo italiano». Per Dezzani, «è quasi una prova generale dell’attacco che, di lì a due anni, sarà sferrato contro la società milanese, arrivando a revocarle l’autorizzazione ad esportare, sull’onda dell’omicidio Regeni».Ma perché l’Hacking Team, un tempo cliente persino dell’Fbi, è diventata improvvisamente d’intralcio ai servizi angloamericani? Risposta: «E’ una società italiana, e il nostro paese non fa parte della ristretta cricca di spioni anglofoni nota come “Five Eyes”». L’Hacking Team è quindi “un’arma tecnologica” che per gli angloamericani sarebbe meglio inglobare o neutralizzare. Tanto più che «opera in un lucroso mercato dove esistono pochi altri concorrenti (inglesi, americani e israeliani)». E la storia dell’Olivetti, osserva Dezzani, «insegna che le eccellenze tecnologiche in un paese a sovranità limitata, come l’Italia, sono spesso uccise in fasce». Infine, i suoi programmi per la sorveglianza delle telecomunicazioni venduti a “governi autoritari” (Turchia, Nigeria, Uzbekistan, Kazakhstan, Egitto e Malesia) e impiegati per monitorare “dissidenti e attivisti”, di fatto «ostacolano le solite “rivoluzioni colorate” fomentate da George Soros, Mi6 e Cia». Nel 2015, l’assedio attorno ad Hacking Team si stringe: «Nel mese di luglio un attacco informatico in grande stile scardina le difese della società milanese e, svuotatone gli archivi, riversa su Wikileaks (la piattaforma usata dai diversi servizi segreti per lanciarsi fango a vicenda) 400 Gb di dati: clienti, fatture, email», racconta Dezzani.«Wikileaks pubblica un milione di email aziendali rubate ad Hacking Team», scrive “Repubblica”, evidenziando le zone grigie dell’azienda, mentre la stampa inglese attacca ancora più pesantemente: «I documenti – scrive il “Guardian” – dimostrano che l’azienda ha venduto strumenti di spionaggio a regimi repressivi». Il battage della stampa insiste, infatti, sulla natura “autoritaria e repressiva” dei clienti della società milanese: Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan, Russia, Bahrein, Arabia Saudita «ed altri “regimi” che gli angloamericani rovescerebbero con piacere». Del caso si occupa anche il “Fatto Quotidiano”, che nell’aprile 2016 titola: «Hacking Team, revocata l’autorizzazione globale all’export del software spia: stop anche per l’Egitto dopo il caso Regeni». Al che, la società milanese vacilla. E per alcune settimane sembra che debba chiudere i battenti: poi, passata la tempesta mediatica, riprende la normale attività. «L’operazione con cui è ucciso Giulio Regeni ha, senza dubbio, come principali obbiettivi l’Eni e la politica estera tra Egitto e Libia, ma il fatto che anche l’Hacking Team fosse un fornitore del Cairo è prontamente sfruttato per revocare alla società l’autorizzazione ad esportare, così da chiuderle i mercati di sbocco, come auspicato da Londra e Washington», sintetizza Dezzani.«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.
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Cancellare i fatti: Obama e il nuovo Ministero della Verità
Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?Prima di tutto all’ultima trovata delle governance mondiali e dei loro “presstitutes” (geniale sintesi che definisce la stampa prostituita al potere) vale a dire la crociata contro le fake news o post-verità, che via web rappresenterebbero una minaccia per le istituzioni. Pensate che il termine originale inglese, post-truth, è stato eletto parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary! Queste fake news irritano così tanto l’establishment che da diverse parti si invoca addirittura una sorta di commissione di controllo sulle opinioni espresse in rete. Un Ministero della Verità, insomma, di orwelliana memoria. Ora, considerando la costante e instancabile manipolazione che i mezzi d’informazione esercitano da sempre sull’opinione pubblica attraverso menzogne, falsificazioni dei fatti, mezze verità e fantasie, fa davvero sorridere che si identifichi nelle bufale – indubitabilmente presenti in rete – un rischio per la democrazia. Il fatto è che fino a poco tempo fa il fenomeno del cosiddetto ‘complottismo’ era confinato ad una nicchia di persone che iniziavano a fiutare odore di marcio proveniente dai media e cercavano quindi – visti i mezzi messi a disposizione dalla rete – di capire meglio certe situazioni quando i conti proprio non tornavano.Il fact-checking ha permesso allora a milioni di utenti del web di smascherare le vere e proprie bufale messe in onda dalle televisioni di mezzo mondo. Ma ad un certo punto, questo fenomeno del complottismo, della Conspiracy Theory, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tracimando dalla rete ed entrando anche nei salotti buoni dei media mainstream. Fenomeno naturalmente irriso, denigrato e oggi criminalizzato. Certamente grazie anche a tutte le reali bufale presenti sul web, inserite ad arte da falsi idioti o da idioti autentici. Così Obama ha iniziato a fare pressioni su Google e Facebook che dovrebbero – a suo dire – esercitare un controllo su notizie false o presunte tali diffuse in rete. Ora, se i mezzi d’informazione ufficiali diffondessero sempre e solo notizie vere la preoccupazione del presidente americano uscente avrebbe una qualche credibilità ma, dato che è vero esattamente il contrario, questa operazione ha proprio l’aria di un intervento a gamba tesa su tutte quelle comunità virtuali che, collegate tra loro, iniziano a nutrire seri dubbi sulle versioni ufficiali. Pensate che io esageri affermando che “è vero esattamente il contrario”? Bene, allora state a sentire, e parlo solo delle fake news più recenti messe in giro dai media.Negli ultimi mesi i mezzi d’informazione del cosiddetto ‘mondo libero’ hanno ripetuto incessantemente che vi erano tra 250 mila e 300 mila civili intrappolati tutto i bombardamenti russi e siriani ad Aleppo Est, nonostante che le fonti d’informazioni siriane avessero più volte ribadito che il numero delle persone intrappolate non superava un terzo di quella cifra. Ebbene, una volta liberata la parte orientale di Aleppo è emerso che il numero dei civili che erano stati bloccati era inferiore alle 90 mila unità. Pensate che i media occidentali si siano peritati di riconoscere l’errore? No, neppure una riga. L’affermazione secondo la quale hacker russi avrebbero cercato di influenzare le elezioni americane è stata smentita sia da Assange che da Craig Murray – ex ambasciatore inglese in Uzbekistan che si è giocato la carriera quando ha accusato la Cia di complicità nelle torture nell’ex-repubblica sovietica – che ha fatto risalire a due fonti americane, una delle quali ha incontrato personalmente, il leak delle email che hanno inguaiato la Clinton. Risultato? Nessuno: Assange e Murray sono stati definiti spie russe. Così il presidente Obama ha appena firmato una legge di Difesa Nazionale che prevede un investimento di 160 milioni di dollari per nuove operazioni di propaganda Usa, dichiaratamente intese a contrastare la “propaganda russa”.Altre due prove di disinformazione da parte dei media: il risultato delle elezioni presidenziali americane e la Brexit. Nel primo caso non c’è stato un solo mezzo di informazione che non abbia ripetuto ad nauseam che non c’erano dubbi sulla vittoria della Killary. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quanto a Brexit (anch’essa data per inverosimile) le catastrofiche previsioni della vigilia sono state – a oltre sei mesi di distanza – ampiamente contraddette dai fatti. Mentre la quasi totalità degli economisti profetizzavano una flessione immediata, con relativi crolli di Borsa, l’economia britannica è cresciuta negli ultimi mesi, registrando un incremento del Pil rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6% nei primi due trimestri del 2016, e dello 0,6% e dello 0,5% negli ultimi due, vale a dire nel semestre successivo all’esito del referendum grazie al quale il Regno Unito è uscito dalla Ue. Che ne dite, ci sono o no buoni motivi per diffidare delle fake news dei media?Ma i mezzi ufficiali d’informazione non ne vogliono sapere – loro non possono sbagliare per definizione – e così oggi ci troviamo di fronte ad una prima spinta censoria mirata direttamente a ostacolare quella libertà di pensiero e di espressione che oggi inizia a preoccupare l’establishment. Il quale non si sporca le mani con divieti palesi ma subdolamente e vigliaccamente interviene su motori di ricerca e social media. Ora, se il loro obiettivo fosse raggiunto, la ratio menzogna/verità dipenderebbe non dalla nostra personale indagine, ma da un algoritmo. In sostanza da una macchina. Questo non vi dice nulla? La seconda questione che mi riporta agli strange days è collegata ad alcuni avvenimenti la cui estrema gravità è passata – e continua a passare – quasi inosservata. Mi riferisco agli eventi che hanno contrassegnato le ultime elezioni americane. Ora, quanto è avvenuto e sta avvenendo sull’altra riva dell’Atlantico è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia americana. Mai, neppure nei periodi peggiori della guerra fredda con l’allora Unione Sovietica si è visto un tale palese odio e disprezzo verso la Russia come quello che oggi dilaga sui media americani.Neppure nei giorni più oscuri del trentennio che va dagli anni ’50 agli ’80 presidenti come Eisenhower, Nixon, Reagan si sono rivolti ad un presidente russo con termini come quelli che oggi usano politici come Obama, la Clinton, McCain, Clapper. Quell’Obama, su cui ironizza Ron Paul affermando che il Premio Nobel per la pace è il giusto riconoscimento per un presidente che ha bombardato 7 nazioni ed è stato il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere stato in guerra ogni singolo giorno dei suoi otto anni di mandato. Mai una elezione fu così piena di colpi bassi come questa che ha portato The Donald alla Casa Bianca. Mai – anche se è risaputo che vi sono delle aspre rivalità tra i servizi di intelligence Usa – si era verificato uno scontro aperto tra Cia e Fbi come quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. E ancora: mai un presidente eletto aveva pubblicamente screditato le motivazioni dei rapporti di intelligence di una delle più potenti strutture di potere come la Cia, affermando che alla base della conferma del presunto hackeraggio da parte dei russi che avrebbero influenzato le elezioni americane ci sono solo “ragioni politiche”.Si tratta di macro-eventi che indicano un cambio globale nella direzione che l’establishment americano sta imboccando, evidentemente obtorto collo. Un cambio di rotta che non viene digerito dalle strutture di potere consolidato che cercano freneticamente di intralciare e sabotare la nuova direzione della Casa Bianca. In tale chiave va vista l’ultima aggressione verbale a Putin con relativa espulsione di diplomatici. E i media mainstream come si sono comportati di fronte a questi veri e propri terremoti politici globali? Minimizzando la magnitudo degli eventi e distogliendo l’attenzione della gente dalle enormi implicazioni a livello mondiale. Attraverso delle vere e proprie armi di distrazione di massa, dunque. Ma al tempo stesso si fanno megafono di una chiamata alle armi contro le fake news. Quelle degli altri, naturalmente.(Piero Cammerinesi, “Strange days”, riflessione pubblicata da “Altrogiornale” il 12 gennaio 2017).Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?
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Trump ha una pistola alla tempia, soccomberà anche lui?
«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?«Vedremo quanto Trump saprà resistere a questi “avvertimenti” nemmeno troppo velati», dichiara il regista Massimo Mazzucco, autore di importanti documentari sul maxi-attentato del 2001 che ha cambiato la storia del pianeta, proiettando le guerre americane in ogni continente. Intervenendo a “Border Nights”, trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti, Mazzucco sostiene che l’elevata vocazione “criminale” di Hillary Clinton rivela la vera natura dei poteri che l’hanno sostenuta, gli stessi che oggi già assediano Trump. La vera colpa della Clinton, agli occhi degli elettori che alla fine si sono rassegnati a votare Trump? «Non solo ha usato il server di casa anziché quello del ministero degli esteri, ma ha anche cancellato 30.000 email per sottrarle all’Fbi, salvo poi andare in televisione a dire, mentendo, di aver messo tutte le email a disposizione delle indagini». Da quelle email, hackerate da Wikileaks, emergono retroscena imbarazzanti: milioni di dollari incamerati dalla Fondazione Clinton in cambio di favori a paesi arabi filo-Isis, concessi da Hillary quando era Segretario di Stato, e in più lo scandalo di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, cioè dell’uomo che avrebbe potuto provare il traffico di armi che dalla Libia venivano fatte affluire in Siria, sotto copertura Usa, per rovesciare Assad.Bene per noi europei, se ha vinto Trump: in teoria, avremo meno tensioni e meno guerre. A favore del neoeletto depongono alcuni aspetti rilevanti: «E’ l’unico presidente americano, almeno negli ultimi 50 anni, ad aver vinto una campagna elettorale solamente con i suoi soldi», sottolinea Mazzucco. «Ha speso un centesimo, credo, di quello che ha speso la Clinton, e quindi ha vinto meritatamente, per quello che ha detto». Da qui in poi, però, è possibile che accada di tutto: «Temo che Trump sia talmente inesperto da circordarsi di gente dell’establishment». Sta già accadendo: come capo di gabinetto, posizione fondamentale nel governo americano, Trump ha scelto Reince Priebus, cioè il segretario nazionale del partito repubblicano, «lo stesso partito repubblicano che ha cercato in tutti i modi di far fuori Trump e che adesso cerca di controllarlo attraverso la scelta del suo capo di gabinetto». Altra scelta fondamentale, «passata inosservata ma che si dimosterà molto significativa nel corso del tempo», è il vicepresidente che «gli hanno messo di fianco», Mike Pence: «Non è affatto un governatorino di campagna come sembra, tranquillo e tradizionalista». Al contrario: «E’ un forsennato, feroce, fetente neocon della prima ora».Mike Pence, continua Mazzucco, è l’uomo che nel 2001, subito dopo l’11 Settembre, si occupò di inondare i media con la propaganda del caso-antrace, appena due mesi dopo l’attentato alle Torri. Con “lettere all’antrace” venivano minacciati diversi senatori, «stranamente tutti democratici, e stranamente tutti quelli che chiedevano di fare una commissione senatoriale sull’11 Settembre, che poi infatti non si fece». Fu proprio Pence ad alimentare la teoria che quell’antrace venisse da Saddam Hussein, «perché lui era mandato avanti da neocon come Cheney e Rumsfeld, che avevano bisogno di una scusa per portare la guerra in Iraq». E quando l’Fbi, «in uno strano gesto di onestà», dichiarò che l’antrace non veniva dall’Iraq ma era “scappato” da un laboratorio Usa, lo stesso Pence scrisse una lettera aprerta al ministro giustizia di allora, John Ashcroft, dicendo: “Lo sappiamo tutti che l’antrace è di Saddam”. «Questo – dice Mazzucco – dimostra che Mike Pence non è affatto un tranquillo governatore di campagna, è un mastino da guerra dei neocon. E sono convinto che l’abbiamo messo accanto a Trump proprio per cercare di condizionare la sua politica estera».Donald Trump è davvero isolazionista, «ha capito benissimo che il mondo sta in piedi fin che c’è un equilibrio e ognuno si fa gli affari suoi: Russia, Cina e Stati Uniti. Non si può continuare a andare a invadere dappertutto». Ma se Trump si rivelasse “troppo” isolazionista, cioè non-guerrafondaio, «Mike Pence cercherà sicuramente di condizionare la sua politica estera verso una strategia più aggressiva». Mazzucco è convinto che per Trump sarà durissima: «Se si dimostra sordo nel continuare le strategie imperialistiche in Medio Oriente, o gli sucede qualcosa (e diventa presidente Mike Pence), o comunque in qualche modo riusciranno a convincerlo. Un po’ come convinsero Bush nel 2000, che in campagna elettorale – prima dell’11 Settembre – diceva le stesse cose diTrump: smettere di fare “nation building”, cioè conquistare paesi». Oggi, a preoccupare il Deep State sono i rapporti con Putin: la distensione in programma con Mosca è nelle corde di Trump, a partire dalla Siria: la priorità «non è più abbattere Assad, come voleva Obama, ma abbattere l’Isis, in collaborazione con Putin». Glielo lasceranno fare?Quasi a rassicurare una parte di quei poteri-ombra, Trump lascia capire che – in cambio – abbandonerà i palestinesi al loro destino: ha dichiarato che Gerusalemme sarà proprietà esclusiva di Israele e che gli insediamenti nei Territori Occupati non sono un ostacolo per la pace in Medio Oriente. Un’evidente concessione tattica alla lobby israeliana, che è uno dei poteri schierati con Hillary. Trump sta provando a destreggiarsi, ben sapendo che «difficilmente i veri poteri Usa si rassegneranno a perdere l’egemonia completa sul mondo». Se così fosse, c’è già Bolton a ricordargli che dovrà guardarsi anche dal “terrorismo interno”. La questione è della massima serietà e pericolosità, insiste Mazzucco: «Anche Obama, appena eletto, pensava davvero di potersi ritirare dall’Afghanistan». Forse non sapeva ancora che «le decisioni non le prende il presidente». Ogni mattina, alla Casa Bianca, riceve il briefing del capo dell’Fbi, che lo informa di quello che succede all’interno del paese, e quello del capo della Cia, che gli racconta quello che succede nel resto del mondo. «Quindi è chi controlla quei briefing che, in realtà, fa fare le scelte al presidente».«Se vai da Obama e gli dici: guarda che qui, a meno di mettere 30.000 soldati in più, ci portano via tutto, gli oleodotti, le basi che li controllano e anche le coltivazioni di oppio da cui dipende il traffico mondiale di eroina, che avviene sotto il controllo statunitense, è chiaro che ti trovi un Obama che, dopo aver vinto il Premio Nobel, manda 30.000 soldati in più in Afghanistan a combattere». Ma, appunto, «dipende da quello che gli raccontano i veri poteri», cioè il complesso militare-industriale, il Pentagono, la Cia: «Sono loro che cercheranno di condizionare anche Trump». Aggiunge Mazzucco: «Io al posto di Obama avrei preteso le prove di quanto mi veniva detto, ma è anche vero che le prove si fabbricano in fretta: è facile condizionare un presidente». Non ci riuscirono solo in un caso: quello di Kennedy. Fu «l’ultimo, vero presidente della storia americana». E cercò di smantellare la Cia, «proprio perché aveva capito che era diventato un centro di potere molto più forte della presidenza». Kennedy aveva già avviato lo smantellamento dell’intelligence: «Ha iniziato licenziando il capo della Cia, Allen Dulles, per la storia della Baia dei Porci», lo sgangherato piano per rovesciare Fidel Castro con il disastroso tentativo di invasione di Cuba, affidato a mercenari.Come sappiamo, però, Kennedy «non ha fatto in tempo a finire il lavoro: è stato fatto fuori da un’alleanza tra la Cia e la mafia», ovvero: «La Cia l’ha deciso e la mafia ha fatto l’esecuzione». Curiosamente, aggiunge Mazzucco, nel ruolo più importante della Commissione Warren, incaricata delle indagini ufficiali, il nuovo presidente Lyndon Johnson «ha messo proprio Allen Dulles, cioè l’ex direttore della Cia licenziato da Kennedy». A giudicare chi è fosse stato a uccidere Kennedy misero proprio la principale vittima politica di Kennedy, il “pezzo da novanta” che Jfk era riuscito a far fuori durante la sua presidenza. «I due Kennedy sapevano che sarebbero morti, ma decisero di andare fino in fondo». Due casi più unici che rari: «Non credo ci siano state altre persone così testarde, di fronte agli “avvisi” ricevuti». Bush abbandonò il suo isolazionismo, Obama il suo pacifismo. Di che stoffa è fatto Donald Trump lo vedremo solo adesso. «Visti i precedenti, c’è da temere davvero un attentato “false flag”, un grande “avvertimento” al neopresidente che vorrebbe archiviare la guerra». Ottimismo? In una battuta: forse si può davvero “tifare” per Trump, «se non altro perché non gli hanno ancora dato il Nobel per la Pace».«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?