Archivio del Tag ‘Italia’
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.
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Ingroia: l’astensionismo è un progetto politico del potere
Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.Nei toni dell’assemblea costitutiva della lista, svoltasi a Roma il 16 dicembre, si coglie ormai la piena consapevolezza della catastrofe incombente: «Non è affatto escluso il rischio, per l’Italia, di essere commissariata in modo anche formale, esattamente come la Grecia». C’è un Rubicone da varcare: «Adesso o mai più, perché domani sarebbe tardi», sostiene Ingroia, spronando i volontari verso quella che appare una missione quasi impossibile: raccogliere da subito migliaia di firme, in pochissimi giorni, sperando di riuscire a presentare effettivamente la lista in tempo per le politiche del 4 marzo. Alla guida di “Rivoluzione Civile”, nel 2013 Ingroia fallì l’obiettivo: raccolse solo il 2% dei suffragi, restando al di sotto della soglia di sbarramento. Stavolta è diverso, sostiene: la crisi morde, la situazione italiana è peggiorata in modo drammatico. Per questo, dice l’ex magistrato, sarà più facile trovare interlocutori. Lo stesso Ingroia è pervenuto a conclusioni ben diverse da quelle di quattro anni fa: oggi infatti dichiara che, senza sovranità monetaria e sotto il peso perdurante dei trattati europei, nessun partito potrebbe mantenere quello che promette. Lui cosa annuncia? L’abolizione della legge Fornero, la rimozione del pareggio di bilancio della Costituzione, la cancellazione del Jobs Act. Smarcarsi dalla Nato, ma soprattutto da Bruxelles: rinegoziare i trattati-capestro, o addio Unione Europea.Prodi e D’Alema? «Sono proprio loro ad aver sottoscritto il Trattato di Lisbona», dice Ingroia: sono i veri responsabili del disastro, nascosti dietro un’etichetta “di sinistra” che, tagliando i viveri allo Stato, espone l’Italia al massacro sociale, alla fine del welfare e dei diritti del lavoro, alla carneficina delle privatizzazioni selvagge. «Siamo un paese impaurito, preda della paura, e questo nostro progetto politico è soprattutto un atto di coraggio», dichiara Ingroia, citando Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Insiste Ingroia: «Ci vogliono audacia e coraggio per affrontare un’impresa che, non possiamo nascondercelo, è molto difficile». Primo step: riuscire davvero a presentare le liste. Poi: superare lo sbarramento del 3%. «Non ce la faranno mai», è la profezia televisiva di Maurizio Crozza. Ovviamente Ingroia non è dello stesso avviso: «Puntiamo a crescere fino al 60%, rispondendo alla maggioranza degli italiani che ormai ha smesso di votare. L’astensionismo? Fa comodo al potere: meno saremo, e più sarà facile controllarci». Il nemico? «Un sistema politico-finanziario corrotto e mafioso». I partiti? Nessuno affronta il toro per le corna. E in più «hanno tutti paura di noi», dice Ingroia, convinto che il mainstream politico stia sottovalutando la sua “Mossa del Cavallo”.«Vogliono ricacciarci nell’astensionismo – insiste l’ex magistrato – perché è perfettamente funzionale all’élite internazionale, che intende continuare a utilizzare, per i suoi scopi, la piccola élite rappresentata dalla classe dirigente nazionale», che a sua volta agisce «attraverso un’élite di elettori-militanti schierati, quindi controllabili». Aggiunge: «Il crescere dell’astensionismo è un progetto politico, che mira a ridurre il numero dei votanti: meno sono, e meglio sono controllabili». Ingroia spera di «trasformare la disperazione in rivoluzione, la rabbia in progetto». Il mitico 60%? «Un sogno, ovviamente, che però – non domani – potrebbe anche trasformarsi in realtà, a patto di riuscire a infondere fiducia in questa Italia spaventata». A proposito di coraggio, Ingroia cita il massone Martin Luther King, riprendendo la frase che lo stesso eroe americano dei diritti civili prese da un altro massone progressista, lo scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe: «Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Con le parole di un terzo massone, il rosacrociano Gandhi, Ingroia formula il suo auspicio: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci».Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.
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EastMed: Israele “ruba” il gas del mare palestinese di Gaza
«Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda», esulta il ministro dell’energia israeliano, Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto, che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025: pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, «che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ne ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali)», rileva Maurizio Blondet. Il memorandum è stato appena firmato a Nicosia dall’ambasciatore italiano a Cipro e dai ministri dell’energia di Israele, Cipro e Atene, più il commissario europeo Miguel Arias Cañete. «E’ probabile che sarà la Ue a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo)». In altre parole: volendo, ecco l’ennesima spiegazione sulla perdurante assenza di uno Stato palestinese. L’Anp, che neppure controlla Gaza, è ovviamente fuori gioco: non avrà parte, nel business.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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L’Italia è il paese Ue con più poveri: sono oltre 10 milioni
L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici. Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati. Povertà triplicata in dieci anni. La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni.Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno. Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.(“Povertà, Italia primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione: sono 10,5 milioni”, dal “Fatto Quotidiano” del 13 dicembre 2017).L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.
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Sionismo, cent’anni di guerra: dopo la Siria, tocca all’Iran
Un secolo di guerra, in Medio Oriente, grazie al sionismo: lo scorso 2 novembre ricorrevano i cento anni dalla Dichiarazione Balfour, evento che ha marcato indelebilmente la storia contemporanea della regione mediorientale. Con quell’atto politico-diplomatico,ricorda Gaetano Colonna, il governo inglese – sotto la pressione del movimento sionista, collegatosi ai vertici del potere britannico e statunitense nel corso della Prima Guerra Mondiale – aprì la strada alla nascita dello Stato ebraico, poi nato nel 1948. «Molti eventi epocali hanno segnato la drammatica storia di quest’area del mondo, che da allora non ha più conosciuto la pace», rileva Colonna su “Clarissa”: prima il crollo dell’Impero Ottomano e la spartizione fra le potenze occidentali dei territori arabi, poi il controllo della produzione e delle riserve di petrolio, «anch’esso divenuto fattore strategico durante la Grande Guerra dopo che la flotta inglese convertì i suoi propulsori navali a questo carburante». Dalla sua formazione, lo Stato di Israele ha condotto ripetute guerre che «gli hanno consentito di raggiungere un livello di potenza militare e di influenza politica planetaria», passando per «l’annientamento del nazionalismo arabo», di cui il regime sirano di Bashar Assad – oggetto di un violentissimo processo di destabilizzazione – è l’ultimo epigono.In parallelo, il terremoto regionale innescato da sionismo ha provocato la diffusione dell’integralismo islamico, «prima foraggiato dall’Occidente durante la Guerra Fredda, sia in funzione anti-comunista che anti-nazionalista, poi presentato quale nemico mortale e divenuto strumento di una nuova “strategia della tensione” internazionale». Nel frattempo è cresciuta la contrapposizione fra l’Islam sciita guidato dall’Iran, protagonista della rivoluzione khomeinista del 1979, e l’Islam integralista dei wahabbiti in Arabia Saudita, «inattacabile pilastro del sistema di controllo occidentale delle risorse petrolifere fin dal 1943, con l’accordo fra Roosevelt ed il re predone Ibn Saud». Negli ultimi mesi, aggiunge Colonna, «in questo teatro geopolitico fondamentale per gli equilibri di potenza internazionali e dunque per la pace mondiale», abbiamo assistito a ulteriori, pericolosi sviluppi: appare sempre più credibile «la probabilità di un conflitto, rivolto a dare un assetto definitivo a quest’area totalmente destabilizzata dai diretti interventi occidentali in Iraq e in Afghanistan fra il 1991 ed il 2003».Il rapido dissolversi delle aspettative suscitate mediaticamente dalla cosiddetta “primavera araba”, inoltre, «ha mostrato quanto essa fosse in realtà semplicemente rivolta a demolire gli ultimi due regimi del Medio Oriente allargato, Gheddafi in Libia e gli Assad in Siria, sopravvissuti alla neutralizzazione delle classi dirigenti arabe, laiche e nazionaliste, ispirate negli anni Sessanta da un socialismo di tipo populista e anticomunista». L’aprirsi dello spaventoso conflitto siriano, che secondo i calcoli sauditi e occidentali avrebbe dovuto risolversi in pochi mesi, «ha avuto un effetto complessivamente devastante, poiché ha completato il processo di disgregazione delle entità statali dell’intero Medio Oriente, lungo una fascia che oggi corre dal Kurdistan fino al Mare Mediterraneo, dall’Iran al Libano – realizzando per la prima volta in un secolo l’unificazione su di un’unica linea di frattura di una molteplicità di conflitti via via accumulatisi: quello curdo-turco, quello sunnita-shiita, quello israelo-libanese-iraniano». Tutto questo, osserva Colonna, è avvenuto mentre gli Stati Uniti «andavano progressivamente focalizzando il proprio sistema di potenza sull’Oceano Pacifico, come nuovo baricentro degli interessi mondiali nordamericani», spinti su questa rotta «dal crescere della potenza cinese e dal pericolo del costituirsi di un asse indo-russo-cinese in grado di controllare lo Hearthland mondiale – costante preoccupazione di lungo periodo di ogni stratega americano».La sostanziale incapacità degli Usa di costruire una pace in Medio Oriente ha fatto sì che le amministrazioni statunitensi «accolgano oggi le indicazioni strategiche di quella classe dirigente mista americano-israeliana che disegna la politica mediorientale nordamericana». Una classe dirigente che dalla fine degli anni ‘80 «suggeriva non disinteressatamente di delegare allo Stato di Israele la tutela degli interessi dell’America in Medio Oriente», cosa che oggi avviene pienamente. Classe dirigente «bene impersonata da Jared Kushner, autorevole genero del presidente Trump, membro di influenti istituzioni del sionismo statunitense, che ha di fatto delegato a lui la gestione dei rapporti con Israele e con gli alleati arabi mediorientali». Al giovane Kushner, o meglio «a quell’ambiente culturale nordamericano che attribuisce un valore ideologico determinante allo Stato ebraico», secondo Colonna si ascrive oggi il riconoscimento che gli Stati Uniti hanno fatto di Gerusalemme come capitale di Israele, secondo le aspettative sioniste. «Un evento che, a cento anni dalla dichiarazione Balfour, assume un significato sintomatico del livello a cui questo storico movimento è oggi giunto nell’Occidente anglosassone e nel mondo».Colonna ipotizza che questa storica decisione giunga proprio quando si è ormai certi di aver predisposto il quadro politico e militare necessario e sufficiente a sostenerne fino in fondo tutti i possibili contraccolpi. «Sintomo non banale di questo deciso atteggiamento, che ha quasi il sapore di una sfida alla comunità internazionale, è stata l’inaugurazione lo scorso settembre della prima base Usa con personale americano ufficialmente stabilita nello Stato di Israele, all’interno della Mashabim Air Base israeliana, nel deserto del Negev: e dunque in tutto e per tutto vincolata alla catena di comando e al controllo dello Stato ebraico». Il coinvolgimento nel conflitto siriano della Russia di Putin, «dimostratasi assai più efficiente sul piano militare di quanto non siano apparsi gli Stati Uniti e la Nato», in questa luce conferma l’investimento su Israele come «garanzia della stabilizzazione del conflitto», anche da parte di Mosca: «Nessuno dei velivoli israeliani che, violando lo spazio aereo libanese, hanno ripetutamente colpito la Siria, compresa la capitale Damasco, è stato mai oggetto di alcuna azione né difensiva né controffensiva, nonostante la completa copertura di quest’area da parte della efficiente sorveglianza elettronica russa».Il recente attacco israeliano in Siria contro un’installazione militare a quanto pare dell’Iran, colpita il 2 dicembre, «appare indicativo di quanto la creazione di quella faglia conflittuale che parte dal Mediterraneo per giungere all’Iran possa dimostrasi pericolosa sul piano bellico», avverte Colonna. Al presidente francese Macron, il premier israeliano Netanyahu ha spiegato, senza mezzi termini, che «dopo la vittoria sullo Stato Islamico, la situazione è mutata perché forze filo-iraniane hanno assunto il controllo della situazione». D’ora in avanti, ha aggiunto, «Israele considera le attività dell’Iran in Siria come obiettivi militari per cui non esiteremo ad agire se la nostra sicurezza lo richiederà». In questo contesto «si deve anche inquadrare l’impressionante accelerazione della situazione in Arabia Saudita, che è il secondo partner degli Stati Uniti per importanza strategica nella regione: un partner al quale da sempre sono stati delegate molte delle operazioni più delicate, in cui il fattore islamico è stato utilizzato spregiudicatamente dall’Occidente a sostegno della propria politica di potenza – dall’utilizzo anti-terzaforzista negli anni della Guerra Fredda, dalla formazione dei Talebani in Afghanistan per dare un colpo decisivo all’Urss, al ruolo di piattaforma di lancio delle offensive occidentali contro l’Iraq, alla destabilizzazione della Siria, fors’anche all’esecuzione degli attacchi alle Twin Towers del 2001».Proprio in questi ultimi mesi, coincidenti con la preparazione dell’evento storico del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, l’Arabia Saudita (o meglio, una nuova leva di oligarchi sauditi, cresciuti nel clima di integrazione politica e finanziaria con i centri del capitalismo anglosassone) ha dato vita a una potente spinta modificatrice degli assetti sauditi: dall’intensificazione del conflitto nello Yemen, all’ostracismo contro il Qatar, vuoi per il suo aperturismo all’Iran ma soprattutto per il ruolo di competitor del rapporto privilegiato con l’Occidente, fino all’incredibile vicenda della “cattura” del premier libanese Hariri, rimasto alcuni giorni in ostaggio del governo saudita, fino a quando Macron non ha dato garanzie sulla volontà di estromettere l’Iran dal Libano e forse anche di più, l’impegno a contrastare l’ormai troppo potente Hezbollah in Libano. Una vicenda «accolta nella più totale indifferenza da parte europea, nonostante fosse ben chiaro il peso della posta in gioco per la nostra sicurezza – oltre che per quel poco che resta del diritto internazionale».Tutto sembra pronto, secondo Colonna, per «ridisegnare il Medio Oriente secondo le linee strategiche affermate negli ultimi cento anni dal movimento sionista, fattosi potenza internazionale con lo Stato di Israele». O queste mosse saranno accolte supinamente, «con il beneplacito della Russia di Putin, la rabbiosa accettazione dell’Iran e la definitiva disgregazione del Libano», oppure «avremo un nuovo conflitto, che potrebbe essere a bassa intensità, ma potrebbe anche suscitare imprevedibili effetti a catena». Per Colonna, l’Europa porta una gravissima responsabilità: non ha saputo distinguere la propria posizione da quella anglosassone, ha mantenuto la Nato come proprio strumento militare «ben sapendo che esso non ha mai operato a favore dell’unità del nostro continente», e in più ha «incoraggiato la penetrazione militare e tecnologica israeliana nei centri nevralgici della sicurezza europea». Un discorso a parte meriterebbe poi la situazione italiana, «nella cui storia gli ultimi decenni hanno dimostrato, insieme ad una progressiva rinuncia ai nostri interessi strategici essenziali, un acritico accoglimento di tutti i desiderata israeliani». Attenzione: «Le ragioni di questo completo allineameno italiano, e della sua rilevanza per la stessa politica interna del nostro paese, è una storia ancora tutta da scrivere».Un secolo di guerra, in Medio Oriente, grazie al sionismo: lo scorso 2 novembre ricorrevano i cento anni dalla Dichiarazione Balfour, evento che ha marcato indelebilmente la storia contemporanea della regione mediorientale. Con quell’atto politico-diplomatico,ricorda Gaetano Colonna, il governo inglese – sotto la pressione del movimento sionista, collegatosi ai vertici del potere britannico e statunitense nel corso della Prima Guerra Mondiale – aprì la strada alla nascita dello Stato ebraico, poi nato nel 1948. «Molti eventi epocali hanno segnato la drammatica storia di quest’area del mondo, che da allora non ha più conosciuto la pace», rileva Colonna su “Clarissa”: prima il crollo dell’Impero Ottomano e la spartizione fra le potenze occidentali dei territori arabi, poi il controllo della produzione e delle riserve di petrolio, «anch’esso divenuto fattore strategico durante la Grande Guerra dopo che la flotta inglese convertì i suoi propulsori navali a questo carburante». Dalla sua formazione, lo Stato di Israele ha condotto ripetute guerre che «gli hanno consentito di raggiungere un livello di potenza militare e di influenza politica planetaria», passando per «l’annientamento del nazionalismo arabo», di cui il regime siriano di Bashar Assad – oggetto di un violentissimo processo di destabilizzazione – è l’ultimo epigono.
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Sommergibile argentino: tangenti tedesche dietro il guasto
Benché le ricerche del relitto del sottomarino argentino scomparso con 44 persone a bordo siano ancora in corso, emergono le prime, possibili responsabilità per la presunta combustione senza fiamma delle batterie del natante, che ne avrebbe causato l’implosione. Secondo informazioni dei portali tedeschi “Br Recherche” e “Ard-Studio Südamerika”, due aziende tedesche si sarebbero accaparrate la sostituzione dei dispositivi pagando delle tangenti e avrebbero installato dei prodotti di qualità scadente per risparmiare. In occasione di una revisione completa del “San Juan” conclusasi nel 2011, scrive il “Corriere del Ticino”, la Ferrostaal e la EnerSys-Hawker avevano ottenuto un contratto per la consegna di 964 celle per un importo di 5,1 milioni di euro. Secondo quanto indicato alle testate da alcuni politici argentini, è praticamente certo che le due aziende tedesche abbiano pagato delle tangenti per ottenere quella commessa. Un’accusa depositata nel 2010 in tal senso era finita in un insabbiamento. «È tutto molto opaco», conferma la presidente della Commissione esteri del Parlamento argentino, Cornelia Schmidt-Liermann.Riguardo alla qualità della merce consegnata, Schmidt-Liermann commenta: «Sussiste il sospetto che le batterie non fossero, in parte o per niente, della qualità che avrebbero dovuto essere», dichiara. «Non sappiamo nemmeno da dove venissero, se dalla Germania o da un altro paese», aggiunge. «Purtroppo abbiamo innanzi un altro esempio di ipocrisia interessata», commenta Mitt Dolcino su “Scenari Economici”. «Come ben sapete, i partner tedeschi sono sempre in prima fila quando si tratta di dare il buon esempio nei conti (o forse no, visto che all’inizio del III millennio quando si trattò di sforarli in ambito Eu per loro propri interessi non si fecero molti problemi)». Certamente, comunque, «i germani sono sempre prontissimi a richiamare l’Italia al rigore, dall’alto di una supposta superiorità morale». Fa dunque pensare, continua Dolcino, «dover scoprire che il sommergibile argentino San Juan affondato poche settimane or sono per un incendio con a bordo 44 marinai, sommergibile costruito dai tedeschi di Thyssen, era stato riammodernato con la fornitura da parte di due aziende tedesche di nuove batterie nel 2011, batterie che sembrano essere state riconosciute come scadenti. Oltre a scoprire che i soliti tedeschi, quelli dalla grande moralità, hanno pagato le solite tangenti agli argentini per accaparrarsi detta fornitura di batterie (scadenti). Causando il disastro successivo».L’atteggiamento corruttivo-approfittativo tedesco non è un caso isolato, insiste Dolcinio: «I tedeschi pagarono immense tangenti in Grecia per le Olimpiadi di Atene, contribuendo al successivo default». Inoltre, «pagarono la più grande tangente in Italia dopo Enimont: Siemens, per le turbine di Enel». Sempre imprenditori tedeschi «hanno evitato spese – dicesi risparmiato – per la sicurezza alla Thyssen di Torino, causando la strage di 10 anni dopo: caso per certi versi similissimo al sommergibile argentino». In più, «Deutsche Bank è presente in quasi tutti gli scandali finanziari scoperti negli ultimi 10 anni», mentre Siemens «ha una lista lunghissima di tangenti pagate all’estero». Insomma, «c’è qualcuno che evidentemente fa il santerello a casa sua e poi ne combina di ogni all’estero». E quindi, «forse dobbiamo dubitare che anche le ricette austere che propina all’Italia siano una enorme fregatura a loro vantaggio?». Quando aziende italiane hanno tentato di acquisire omologhi in Francia e Germania, continua Dolcino, sono state bellamente “rimbalzate” senza troppi complimenti, anche andando contro il diritto comunitario (vedasi il caso Fincantieri-Stx), «mentre francesi e tedeschi pretendono di poter acquisire quelle italiane, magari per il tramite di privatizzazioni imposte per via austera-EUropea: si chiama neocolonialismo del III millennio, per chi non l’avesse ancora capito».Pur sapendo che l’austerità non serve per uscire dalla crisi, anzi la peggiora, l’Ue persevera soprattutto con Italia e Grecia. «Se poi voleste davvero arrabbiarvi – aggiunge Dolcino – sappiate che i governi di sinistra non eletti lo sapevano dal 2013 che l’austerità fa male, dalla data dell’articolo de “L’Espress”», del gruppo editoriale di “Repubblica”, quello di Carlo De Benedetti. «Ci sono tutti gli indizi di un piano Eu per annichilire l’Italia, oggi che Londra non è più in grado di difendere la sua creatura ottocentesca nel cuore del Mediterraneo, un paese arricchitosi troppo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dunque divenuto preda». A maggior ragione oggi, dal momento che la rediviva Europa riscopre la sua innata natura coloniale: «Essendo gran parte dei paesi che furono colonie oggi indisponibili o eccessivamente forti, le potenze ex imperiali devono approfittarsi delle prede più accessibili, magari degli stessi vicini, ad esempio l’Italia, a maggior ragione se si tratta di “conquistare” o anche “neutralizzare” alleati diciamo “strutturali” del vero avversario europeo dei prossimi anni, gli Usa».A riprova di ciò, Dolcino segnala che l’ex vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel ha annunciato che la rottura con Washington non verrà sanata nemmeno dalla dipartita di Trump. Tradotto: «La sfida tedesca a Washington è appena iniziata». La cosa che più stupisce Dolcino è come la gran massa degli italiani, «non il manipolo di globalisti elitari tipo Elkann o DeBenedetti», non abbiamo ancora capito che «bisogna abbandonare il carro euro-tedesco il più velocemente possibile», perché il rischio è quello di «finire precisamente come si sta finendo: schiavi del debito e poveri». Dolcino parla della gente comune, della classe media in via di demolizione programmata, via crisi economica innescata dall’oligarchia finanziaria franco-tedesca. «Chi invece ha convertito enormi patrimoni da instabili lire in solidi pseudomarchi se la gode». Fidarsi di quest’Europa e di questa euro-Germania? Impossibile. «Appunto, il rischio è di finire come il sommergibile argentino».Benché le ricerche del relitto del sottomarino argentino scomparso con 44 persone a bordo siano ancora in corso, emergono le prime, possibili responsabilità per la presunta combustione senza fiamma delle batterie del natante, che ne avrebbe causato l’implosione. Secondo informazioni dei portali tedeschi “Br Recherche” e “Ard-Studio Südamerika”, due aziende tedesche si sarebbero accaparrate la sostituzione dei dispositivi pagando delle tangenti e avrebbero installato dei prodotti di qualità scadente per risparmiare. In occasione di una revisione completa del “San Juan” conclusasi nel 2011, scrive il “Corriere del Ticino”, la Ferrostaal e la EnerSys-Hawker avevano ottenuto un contratto per la consegna di 964 celle per un importo di 5,1 milioni di euro. Secondo quanto indicato alle testate da alcuni politici argentini, è praticamente certo che le due aziende tedesche abbiano pagato delle tangenti per ottenere quella commessa. Un’accusa depositata nel 2010 in tal senso era finita in un insabbiamento. «È tutto molto opaco», conferma la presidente della Commissione esteri del Parlamento argentino, Cornelia Schmidt-Liermann.
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Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
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I pm: Deutsche Bank barò sullo spread, rovinando l’Italia
Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.A onor del vero, scrive Zacché, l’indagine sul gruppo bancario di Francoforte è vecchia di due anni, avviata dalla Procura pugliese di Trani (già attivasi in altri procedimenti finanziari come per esempio quello contro le agenzie di rating). E nel settembre scorso è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini, con i magistrati pugliesi pronti a chiedere il rinvio a giudizio di cinque banchieri che guidavano il gruppo nel 2011 (tra cui l’ex presidente Josef Ackermann e gli ex ad Anshuman Jail e Jurgen Fitschen) e della stessa Deutsche Bank. Poi però non se n’era saputo più nulla. Ora invece si apprende che l’indagine è stata trasferita a Milano dalla Corte di Cassazione, per motivi di competenza territoriale, su richiesta dei difensori della banca. «Come noto – ricorda il “Giornale” – la vicenda riguarda la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva, comunicando tutto soltanto il 26 luglio». Una notizia bomba, tanto che il “Financial Times” titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».Ora l’indagine che i pm milanesi hanno riaperto ricostruisce l’intera serie di operazioni decise dalla banca tedesca. E, secondo l’accusa, emergerebbe che già alla fine dello stesso mese di luglio del 2011, Deutsche Bank aveva ripreso a comprare Btp (per almeno due miliardi) senza annunciarlo, mentre altri 4,5 miliardi di titoli italiani erano posseduti da un’altra società tedesca acquisita nel 2010 dalla stessa mega-banca. Il 26 luglio, dunque, «Deutsche Bank comunicò le vendite avvenute entro il 30 giugno, ma non gli acquisiti successivi», avendo quindi «venduto prima del crollo dei prezzi, e ricomprato dopo». Una speculazione «che sembra aver fatto perno sulla crisi finanziaria italiana, causandone poi anche quella politica». Mario Monti, incaricato da Napolitano, ha così avuto modo di fare quello che i “mercati” (la Germania) chiedevano da tempo: demolire la domanda interna del paese, il cui Pil è crollato di colpo del 10% insieme alla produzione inustriale, calata vertiginosamente del 25% aprendo la porta all’acquisto, a prezzi di saldo, di alcune tra le migliori firme del made in Italy.Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.
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Giulietto Chiesa: così Beppe Grillo ha ingannato gli italiani
Avevo creduto alle promesse di Grillo, ma mi ero sbagliato: che se ne rendano conto o meno, i grillini non hanno nessuna possibilità di cambiare l’Italia. E nemmeno nessuna intenzione di farlo, stando a come si comportano i leader: nessuna proposta vera su niente di importante, né la crisi economica né quella geopolitica. «Fanno le pulci alle spese dei parlamentari, ma tacciono sui fiumi di soldi che spendiamo per la difesa militare: 60 milioni di euro al giorno, contro i 44 di finanziamento pubblico a cui i parlamentari grillini hanno rinunciato, dal 2013». Parola di Giulietto Chiesa, direttore di “Pandora Tv” e promotore – con Antonio Igroia – del progetto “Lista del Popolo”, definito anche “La Mossa del Cavallo”. In sintesi: «Metà degli italiani non vanno più a votare, l’altra metà votano per partiti in cui non credono più, in gran parte, e intanto l’Italia va a rotoli: quindi che facciamo, stiamo a guardare?». Chiesa punta su una lista che si rivolga all’oceano dell’astensionismo, per portare in Parlamento un nucleo di opposizione radicale al mainstream politico: «Fra cinque anni sarà tardi, perché i cartelli bancari avranno finito di privatizzare il paese e per l’Italia non ci sarà più niente da fare», dice, ai microfoni di “Border Nights”.A motivare Chiesa rispetto al progetto elettorale con Igroia, anche la cocente delusione rappresentata dai 5 Stelle: «Li ho votati, sperando che la loro spallata sarebbe stata molto utile, ma poi alla spallata non è seguita un’azione». Beppe Grillo? «Mi aveva telefonato, promettendomi che ci saremmo risentiti, per parlare di contenuti. Invece è sparito». Peccato, si rammarica il giornalista, autore di saggi come “La guerra infinita”, sul terrorismo “false flag” dell’11 Settembre. Giulietto Chiesa è tra quanti avevano sperato che, dopo i “vaffa” iniziali, i grillini potessero accettare di crescere e confrontarsi con altri interlocutori sui temi più decisivi. Errore: continuano a ripetere che non faranno alleanze con nessuno. «Hanno ottenuto un grande risultato, dovuto alla genialità spettacolare di Beppe Grillo», ammette. Ma poi, aggiunge, «sostanzialmente hanno ingannato milioni di persone, perché non si può cambiare l’Italia con il 25%». Onestamente: è impensabile cambiare un paese complesso come l’Italia rappresentando solo un elettore su quattro. Si erano illusi di poter conquistare il 51% per cento? «Qualcuno ha addirittura scritto, stupidamente, che tutti si dovrebbero iscrivere al M5S». Altra sciocchezza: «Nel paese ci sono sensibilità diverse, esperienze, storie. Non puoi chiedere alla gente di cancellare il proprio passato. Non esiste una maggioranza della totalità».Nel frattempo, aggiunge Chiesa, «i leader sono andati dietro a Grillo, il deus ex machina che li aveva portati, tra virgolette, al potere. Hanno creduto che, essendo entrati in Parlamento, fossero entrati nel potere: e ci sono stati comodi». Volevano moralizzare il paese? «Ma la moralizzazione che avevano concepito, adesso si vede con tutta chiarezza: era la lotta contro i politici. Sembravano (e sembrano) non rendersi conto che i politici sono solo dei maggiordomi. E’ un errore di analisi», sottolinea Chiesa. «I veri guastatori della democrazia sono state le banche, i grandi imprenditori che hanno venduto le loro imprese all’estero». Un nome su tutti, la Fiat. «Come mai non si parla mai dei grandi imprenditori ladri? Come mai non si parla dei politici che, insieme a loro, hanno cambiato le leggi dello Stato? Non le hanno mica fatte i politici: le hanno fatte i ricchi banchieri che hanno deciso chi doveva scrivere quelle leggi». Giulietto Chiesa non ha mai smesso di parlare con gli elettori grillini, anche su Facebook. «Qualcuno mi ha detto: ma perché non ti iscrivi al M5S? Io ci ho persino provato, ma sono stato respinto: perché ero troppo ingombrante, per questi signori, a cominciare da Beppe Grillo, e a quel punto ho cominciato a pensare che non era un uomo sincero. E adesso lo penso con cognizione di causa».Racconta Chiesa: «A Grillo ho offerto aiuto. Gratis, senza nessun impegno. Gli ho offerto documenti, analisi. Una volta mi telefonò, ero a Mosca, mi ringraziava per aver invitato a votare 5 Stelle in Sicilia. Mi disse: forse dovremmo parlarci. E io: bene, lo farò molto volentieri, al mio rientro in Italia. Mai più sentito». Aggiunge Giulietto Chiesa: «Io sono stato espulso, virtualmente, probabilmente perché sapevano che si sarebbero trovati in grave difficoltà a rispondere a mie obiezioni, che erano tutte amichevoli». Assicura: «Non ho niente contro il Movimento 5 Stelle. Anzi, al contrario: penso che in gran parte sia composto da persone arrabbiate, che non hanno il quadro della situazione ma sono arrabbiate, come milioni di italiani. E io sono arrabbiato esattamente come loro, ma ho capito che senza una linea politica chiara, senza aver individuato il nemico, non si vince. Ecco la differenza». In altre parole: inutile sparare sui politici, meglio individuare i veri “mandanti”. E magari, fare proposte concrete: «Il loro programma 2018 è inconsistente, pari a quello del 2013. Nessun impegno sostanziale sull’economia, sull’Europa, sulla Nato».C’è chi sospetta che i 5 Stelle non siano nient’altro che “gatekeeper”, specchietti per allodole. Missione: deviare l’indignazione popolare verso binari non pericolosi per il potere. Giulietto Chiesa non lo crede: «Ho l’impressione che all’inizio non ci fosse nessun disegno. Credo che né Grillo né gli altri avessero qualche secondo fine. Semplicemente, non essendo in politica, hanno saputo percepire gli umori popolari, e li hanno interpretati. Un fatto spontaneo, quindi, senza un disegno per imbrigliare la spinta popolare». Del resto, qualcosa del genere è avvenuto un po’ in tutta Europa: «Chi ha capito al volo la sfiducia verso i partiti tradizionali ha raccolto questa protesta». Poi, ovvio, i poteri forti hanno strumenti formidabili per imbrigliarla: «Riescono a corrompere, distorcere, inquinare la spinta del nemico. Quindi qualcuno adesso può benissimo aver pensato a questa forza nuova, che però è molto primitiva, non conosce la situazione, non ha esperienza. Qualcuno quindi può aver pensato: ok, dirottiamola su fenomeni secondari. Così il nemico è diventato la classe politica, tutto il resto non è stato visto».Secondo Giulietto Chiesa, «l’Italia è ridotta a colonia dell’America», al guinzaglio della Nato che minaccia la pace in mezzo mondo. «Ma se tu non ti poni il problema di chi è il padrone che ti ha colonizzato, come diavolo puoi pensare di rivoltare l’Italia come un calzino?». I grillini, insiste Chiesa, si sono scatenati contro il finanziamento pubblico ai partiti, rinunciando finora a 44 milioni di euro. «Ma 44 milioni fanno ridere: la nostra difesa militare ci costa 60 milioni di euro al giorno». Grillo dispone di 170, tra deputati e senatori, che si limitano a fare le pulci al conti dei parlamentari: il problema della spesa militare Nato «dovrebbero sollevarlo in Parlamento e gridarlo ai quattro venti», dice Chiesa. «Almeno, quei 44 milioni dovrebbero usarli fare una televisione, che lo dica tutti i giorni dove finiscono quei soldi. Allora sì, ci sarebbe stato un rilancio del movimento: e invece, su queste questioni, silenzio». A quattro anni dalle elezioni 2013, «il Movimento 5 Stelle non solo non dice “uscire dalla Nato”, ma dice “ci voglio rimanere, nella Nato”». E il suo nuovo leader, Di Maio, «va negli Stati Uniti per dire agli americani: state tranquilli, noi non metteremo in discussione il nostro essere una vostra colonia». E allora, conclude Chiesa, «è la fine del Movimento 5 Stelle, e mi dispiace». Può anche darsi che vadano bene, a queste elezioni, «e io glielo auguro». Ma non hanno più nessuna chance di salvare l’Italia.Avevo creduto alle promesse di Grillo, ma sbagliavo: che se ne rendano conto o meno, i grillini non hanno nessuna possibilità di cambiare l’Italia. E nemmeno nessuna intenzione di farlo, stando a come si comportano i leader: nessuna proposta vera su niente di importante, né la crisi economica né quella geopolitica. «Fanno le pulci alle spese dei parlamentari, ma tacciono sui fiumi di soldi che spendiamo per la difesa militare: 60 milioni di euro al giorno, contro i 44 di finanziamento pubblico a cui i parlamentari grillini hanno rinunciato, dal 2013». Parola di Giulietto Chiesa, direttore di “Pandora Tv” e promotore – con Antonio Igroia – del progetto “Lista del Popolo”, definito anche “La Mossa del Cavallo”. In sintesi: «Metà degli italiani non vanno più a votare, l’altra metà votano per partiti in cui non credono più, in gran parte, e intanto l’Italia va a rotoli: quindi che facciamo, stiamo a guardare?». Chiesa punta su una lista che si rivolga all’oceano dell’astensionismo, per portare in Parlamento un nucleo di opposizione radicale al mainstream politico: «Fra cinque anni sarà tardi, perché i cartelli bancari avranno finito di privatizzare il paese e per l’Italia non ci sarà più niente da fare», dice, ai microfoni di “Border Nights”.
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Magaldi: l’Italia è salva, grazie a Grasso e ai D’Alema-boys
Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.«C’è da ridere per non piangere, se il rinnovamento deve partire da Grasso», dice Gioele Magaldi a David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della convention romana dei fuoriusciti dal Pd renziano, alleati degli ex-Sel e di gruppi ancora più esigui della sinistra, come quello di Civati. «Già magistrato dignitoso, Grasso è un signore di 72 anni che è stato miracolato da alcune poltrone, come la presidenza del Senato: si è dimesso, tra virgolette, dal Pd, ma non ricordo che si sia erto a difensore della democrazia e dei diritti quando tutti quanti, da destra a sinistra, avallavano il Fiscal Compact varato dal governo Monti, anche con i voti di Bersani, D’Alema, Speranza e compagni, tutti provenienti dalla filiera Pci». Insiste Magaldi: «L’aver pienamente sottoscritto le peggiori le politiche di rigore è davvero il peccato originale di questa sedicente sinistra italiana». E aggiunge: «Chi può pensare, davvero, che il rinnovamento del paese possa venire da un personaggio come Grasso? Non direi che sia stato un presidente del Senato memorabile: e oggi il popolo “de sinistra” dovrebbe entusiasmarsi, plaudire? Immagino quanta eccitazione e quanti fremiti, alla vista di Grasso che arringa le folle. C’è davvero da piangere, da singhiozzare».Per il dopo-elezioni, non c’è bisogno di profezie: sondaggi alla mano, Renzi e il Cavaliere saranno “costretti” a una riedizione del Patto del Nazareno. Larghe intese, ma dalla vita breve: Magaldi prevede «crisi parlamentari sempre più ravvicinate, nei prossimi tempi, perché la situazione è insostenibile: c’è una decadenza dell’Italia che ormai questa classe dirigente nel suo complesso non è in grado di fronteggiare», men che meno «gli spaventapasseri della convention romana della sinistra, vecchi notabili variamente riciclati, che oggi ci vengono a cantare questa canzone stonata: e sono più aristocratici loro, nei rapporti umani e anche nella visione politica, di altri che vengono collocati a destra». Magaldi pensa al futuro Pdp e ragiona da allenatore: «Basta con questa finzione, noi lavoriamo per un partito davvero popolare: non ci interessa la rappresentazione populista, demagogica e squinternata che fa del popolo una macchietta, vogliamo una politica finalmente all’altezza dell’Italia, fondata su sovranità, dignità e diritti». Si tratta di ripartire da zero, per una «credibile rigenerazione politica di un paese malgovernato per 25 anni dai sedicenti centrodestra e centrosinistra». Il punto si svolta? Dire no alla truffa del rigore, dogma ideologico imposto dall’élite finanziaria. E’ la parola d’ordine su cui, promette Magaldi, si costruirà il Pdp, già partire dalla prossima legislatura, parlando anche a parlamentari «disgustati» dello spettacolo in arrivo.Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.