Archivio del Tag ‘Italia’
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L’Ocse: sorpresa, 6 americani su 10 non possiedono niente
Anche quest’estate in televisione è arrivato l’immancabile ciclo dei film di “Rocky”. Pur essendo ogni produzione sostanzialmente uguale all’altra, Sylvester Stallone riesce sempre a catturare l’attenzione di chi ha un briciolo d’ambizione. Come fa? Non certo per i muscoli o la capacità di stare davanti ad una telecamera, se è vero che ieri come oggi ci sono attori ben più atletici e bravi a recitare. Nessuno però ha saputo incarnare il sogno americano meglio di lui. Balboa è un uomo di umili origini e “solo” che contro ogni previsione riesce ad affermarsi in un mondo difficile e competitivo come quello americano. Un sogno alla portata di tutti: basta impegnarsi. Questo messaggio è affascinante; tutto l’Occidente ne è stato contagiato e sognare è gratis. A soli 40 anni dall’uscita del primo “Rocky”, gli americani si svegliano però dai sogni hollywoodiani e cominciano a fare due conti. Per capire se una società sta progredendo o meno occorre infatti paragonarla con altre simili per sistema produttivo, servizi, cultura, religione, nonchè col proprio passato. E’ ovvio che non possiamo mettere a confronto il tenore di vita dell’americano medio con quello di un pakistano, anche se c’è sempre qualche imbecille ideologizzato che lo fa. Fatta questa doverosa premessa, vediamo.Negli Usa la disoccupazione si aggira oggi al 4% rispetto a una media europea doppia (9%). Quindi gli Usa hanno visto migliorare questo dato rispetto a qualche anno fa, durante il periodo della crisi dei mutui subprime, ma i salari minimi negli Stati Uniti sono scesi di un terzo in termini reali rispetto agli anni Settanta mentre in un paese come la Francia sono saliti di quattro volte. Inoltre, chi rimane senza lavoro in America non gode di ammortizzatori sociali, in buona sostanza, mentre negli altri paesi occidentali gli amministratori e l’opinione pubblica sono stati più bravi a tenere sotto controllo le disuguaglianze resistendo all’idea di convertire l’economia di mercato in una società di mercato. In poche parole, settori chiave come l’educazione, la sanità e la sicurezza sono stati sottratti alla deregulation più becera. La minaccia esiste e si fa sempre più grande, sia chiaro, ma rispetto agli Stati Uniti sono ancora rose e fiori. Come ripeto sempre fino alla nausea, la povertà e la ricchezza sono concetti, e non situazioni oggettive. Lo so che a molti questo ragionamento sembra ostico e controintuitivo, ma se nel mondo tutti morissero di fame mediamente attorno ai 30 anni, nessuno di costoro direbbe che è “povero”. Povertà e ricchezza, insomma, sono due facce della stessa medaglia: non può esserci la ricchezza se non c’è la povertà, e viceversa.La situazione più intelligente, sic stantibus rebus, è quella di appianare il più possibile le disuguaglianze, perchè sono queste che rendono orrenda la povertà. Oggi davanti ai supermercati possiamo trovare un barbone che dichiara di fare 3 pasti al giorno ed è in sovrappeso, ma nessuno sano di mente si azzarderebbe a sostenere che egli non sia povero. Completamente rovesciata era la situazione nell’immediato dopoguerra italiano, ad esempio, quando essere in sovrappeso e mangiare tre volte al giorno era un lusso riservato a pochi fortunati. Ma vediamoli questi americani – impiegati al 96% – che razza di esistenza conducono. I dati Ocse sulla disuguaglianza ci dicono che il paese dove è in condizioni più radicali è l’America (Usa) e quelli dove è minore sono il Giappone e poi l’Italia. Ciò puo anche destare sorpresa, ma è nei numeri e accade per il semplice fatto che Giappone e Italia hanno molto debito pubblico, ma poco debito privato. A rendere povere le persone è il debito privato e non il debito pubblico. A meno che, come sta accadendo in Italia, non si decida a tavolino che anche il debito pubblico diventi un problema cedendone la gestione a speculatori, banchieri privati ed economisti rimasti fermi alle ricette ottocentesche.Nello studio dell’Ocse, si vede chiaramente come la concentrazione della ricchezza non sia in mano alla classe media, che ne detiene appena il 30%. Il grosso degli americani è povero, nel senso che ha un lavoro magari, ma non ha beni nella propria disponibilità, al netto dei debiti contratti. Un altro studio del 2015 della Google Consumer Survey ha infine rivelato che 6 americani su 10 hanno meno di mille dollari sul conto corrente e che 1 su 5 il conto proprio non ce l’ha. A possedere un immobile (quasi sempre preso a debito con mutuo) sono solo il 63,5% degli statunitensi, contro il 74% per cento degli italiani. Insomma, se per le multinazionali americane la pacchia continua ed anzi aumenta, per l’americano medio le scelte economiche degli ultimi decenni, da Ronald Reagan in poi, sono state un autentico disastro che rivela, attraverso i dati sul debito privato, la reale possibilità per Rocky di comprare villa con piscina ad Adriana. In questo modello, pur caratterizzato oggi da alta occupazione, non è possibile affrontare con serenità nessun tipo di spesa imprevista né, in particolare, pensare di accumulare fortuna attraverso risparmi e investimenti.(Massimo Bordin, “Il 60% degli americani non possiede nulla”, dal blog “Micidial” del 25 luglio 2018).Anche quest’estate in televisione è arrivato l’immancabile ciclo dei film di “Rocky”. Pur essendo ogni produzione sostanzialmente uguale all’altra, Sylvester Stallone riesce sempre a catturare l’attenzione di chi ha un briciolo d’ambizione. Come fa? Non certo per i muscoli o la capacità di stare davanti ad una telecamera, se è vero che ieri come oggi ci sono attori ben più atletici e bravi a recitare. Nessuno però ha saputo incarnare il sogno americano meglio di lui. Balboa è un uomo di umili origini e “solo” che contro ogni previsione riesce ad affermarsi in un mondo difficile e competitivo come quello americano. Un sogno alla portata di tutti: basta impegnarsi. Questo messaggio è affascinante; tutto l’Occidente ne è stato contagiato e sognare è gratis. A soli 40 anni dall’uscita del primo “Rocky”, gli americani si svegliano però dai sogni hollywoodiani e cominciano a fare due conti. Per capire se una società sta progredendo o meno occorre infatti paragonarla con altre simili per sistema produttivo, servizi, cultura, religione, nonchè col proprio passato. E’ ovvio che non possiamo mettere a confronto il tenore di vita dell’americano medio con quello di un pakistano, anche se c’è sempre qualche imbecille ideologizzato che lo fa. Fatta questa doverosa premessa, vediamo.
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“Supermassoni: Marcello Foa silurato da Attali e Napolitano”
«Considero le alternative a Marcello Foa, a prescindere dai nomi, come una sconfitta della democrazia in Italia». E’ il preambolo con cui Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, dispensa la sue rivelazioni – a dir poco esplosive – sul clamoroso siluramento del candidato salviniano alla presidenza della Rai, scandalosamente affossato da Forza Italia con la complicità del Pd. Dissapori nel centrodestra sul metodo adottato dal leader della Lega, che avrebbe scavalcato il Cavaliere? Falso: Berlusconi era stato consultato, da Salvini, sul nome di Foa. Peggio: l’uomo di Arcore aveva garantito a Salvini che lo stesso Foa, allievo di Montanelli e già caporedattore del “Giornale”, sarebbe stato eletto presidente della Rai con i voti forzisti e anche quelli di Fratelli d’Italia. Cos’è successo, allora? E’ arrivato un “niet” dall’estero. Da Parigi: precisamente, dall’uomo che si è presentato come “l’inventore” di Macron, ovvero il supermassone reazionario Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e poi super-sponsor di Sarkozy. E a chi avrebbe telefonato, Attali, per chiedere lumi su come bloccare l’elezione di Foa? Al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che secondo Gioele Magaldi milita nella stessa Ur-Lodge del francese, la “Three Eyes”. Napolitano avrebbe consigliato ad Attali di contattare Antonio Tajani, ansioso di farsi confermare alla guida del Parlamento Europeo. E Tajani sarebbe riuscito a convincere Berlusconi, facendo valere proprio il peso della “Three Eyes”, in cui figurano alcuni pesi massimi del potere mondiale di ieri e di oggi, da Kissinger a Draghi.«E’ una riedizione dello stop imposto, a governo non ancora formato, a Paolo Savona come candidato ministro dell’economia», dichiara Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube, il 2 agosto, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Eminente simbologo e già a capo della più antica obbedienza del Rito Scozzese italiano, poi da lui stesso disciolta, Carpeoro (all’anagrafe, Pecoraro) ha alle spalle una lunga carriera come avvocato. Nella diretta web-streaming si diverte con il gioco degli indovinelli, evitando di precisare il nome di Attali ma fornendone l’identikit: francese dal cognome italiano, ebreo, supermassone vicino all’Eliseo, esponente del Jewish Institute e forse anche del B’nai B’rith, la potente cellula massonica del Mossad. Attali ha chiamato Napolitano? «Ha chiamato il presidente emerito della Repubblica, che peraltro credo sia ancora, anche, un esponente del Pd, oltre che – secondo Magaldi – un “fratello” della superloggia “Three Eyes”», la stessa di Attali. Seconda telefonata: a Tajani. «Da massone, Tajani si è messo “in piedi all’ordine”». E Berlusconi? «Idem: si è messo “in piedi all’ordine” anche lui, che massone non è neppure – quand’era in massoneria, si era fermato al grado di apprendista». Certo, il Cavaliere ha provato a resistere: «Ha fatto presente a Tajani di aver già garantito a Salvini i voti per Foa in Commissione di Vigilanza». Ma poi si è piegato: potenza della “Three Eyes”.La fonte di Carpeoro? «Vecchi amici, di una prestigiosa loggia massonica tedesca». Si tratta probabilmente della “Tre Globi”, a cui l’avvocato-saggista fu associato quando, in Europa, fu incaricato di coordinare tutti i massoni del 18° grado del Rito Scozzese, ispirato ai Rosacroce. «Diciamo che queste cose mi sono state rivelate in sogno», scherza Carpeoro: «Colpa della peperonata: ne sono ghiotto, ma non la digerisco». Scherzi a parte: «Se la peperonata non è bugiarda, tutto questo la dice lunga su come funzionano, hanno funzionato e probabilmente funzioneranno le cose italiche». La verità, insiste Carpeoro, è che il governo Conte, ad oggi, «non è stato legittimato dal potere: nessuno crede che duri». Lo stesso Carpeoro, esponente del Movimento Roosevelt, ha rimproverato a Di Maio di aver bussato, negli Usa, alle porte delle grandi lobby e a quelle delle Ur-Lodges neo-aristocratiche, i santuari della supermassoneria più reazionaria. «Ma è stato tenuto fuori dalla porta». Salvini? «Nemmeno ci ha provato: probabilmente non ha la sottigliezza politica per bussare alle lobby. A volte sembra un Renato Pozzetto della politica, sempliciotto e semplicistico».Il leader della Lega, per contro, secondo Carpeoro è senz’altro estraneo al grande potere, che infatti è contro il governo gialloverde: «Finora la pressione manipolatoria delle lobby non è stata in termini di inglobamento, ma di ostacolo. Il potere preferisce i vecchi partiti». Ma non è detto che la spunti, l’establishment: «Le cose non vanno sempre come sembrano essere state scritte». Stando sempre al “sogno della peperonata”, dunque, Berlusconi e il Pd prendono ordini dalla “Three Eyes”, superloggia che annovera – secondo Magaldi – anche altri big del potere italiano, oltre a Napolitano: tra questi Marta Dassù, l’ex ministra renziana Federica Guidi, l’economista Carlo Secchi, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani. Perché Marcello Foa farebbe tanta paura al grande potere, di cui la “Three Eyes” rappresenta uno dei massimi vertici a livello mondiale? «Certamente Foa non è un soggetto manipolabile. In Rai potrebbe parlare di quello di cui è convinto, non di quello che gli fanno dire». L’accusa dei media mainstream di essere filo-Putin? «Non amo i metodi di Putin – premette Carpeoro – ma considero le sanzioni nei confronti della Russia un’idiozia. Trump, che fa finta di litigarci, con Putin fa fior di accordi. Non ho capito perché le uniche verginelle dovremmo essere noi».Valoroso giornalista e impietoso giudice dell’attuale sistema mediatico, nel saggio “Gli stregoni della notizia” Foa ha denunciato le manipolazioni quotidiane delle redazioni che si piegano al “frame”, la cornice disegnata dagli “spin doctor” dei governi per manipolare l’opinione pubblica a colpi di “fake news”. Possibile però che la macchina del fango si mobiliti a reti quasi unificate, non appena spunta un uomo non controllabile dall’establishment? «Normalissimo», dice Carpeoro: «Fa parte del gioco. Il potere è una scuola seria, chi lo pratica seriamente – come fine della sua vita – poi si specializza: il potere è una specializzazione, è un master». Cinismo senza limiti: «Stanno facendo qualcosa di indegno contro Foa, attaccandolo per via del fatto che il figlio lavora nello staff di Salvini al Viminale. Ma il ragazzo ha fatto una tesi di laurea proprio su Salvini, in tempi non sospetti, prima ancora che il leader leghista diventasse ministro. Perché mai Salvini non lo doveva assumere?». Fango sui Foa – padre e figlio – e silenzio assoluto su Monica Maggioni, ultima presidente della Rai, nonché a capo della sezione italiana della Commissione Trilaterale. La Maggioni? «Completamente omologata al potere, filone Lilli Gruber». Morale: il governo eletto, che gode del consenso di almeno il 65% degli italiani, non riesce a eleggere Marcello Foa presidente della Rai. Per colpa di Napolitano e Attali-Macron, o meglio della “Three Eyes”, a cui Berlusconi e il Pd obbediscono? “Peperonata” e “incubi” a parte, Carpeoro insiste: è l’ennesima umiliazione della democrazia italiana.«Considero le alternative a Marcello Foa, a prescindere dai nomi, come una sconfitta della democrazia in Italia». E’ il preambolo con cui Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, dispensa la sue rivelazioni – a dir poco esplosive – sul clamoroso siluramento del candidato salviniano alla presidenza della Rai, scandalosamente affossato da Forza Italia con la complicità del Pd. Dissapori nel centrodestra sul metodo adottato dal leader della Lega, che avrebbe scavalcato il Cavaliere? Falso: Berlusconi era stato consultato, da Salvini, sul nome di Foa. Peggio: l’uomo di Arcore aveva garantito a Salvini che lo stesso Foa, allievo di Montanelli e già caporedattore del “Giornale”, sarebbe stato eletto presidente della Rai con i voti forzisti e anche quelli di Fratelli d’Italia. Cos’è successo, allora? E’ arrivato un “niet” dall’estero. Da Parigi: precisamente, dall’uomo che si è presentato come “l’inventore” di Macron, ovvero il supermassone reazionario Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e poi super-sponsor di Sarkozy. E a chi avrebbe telefonato, Attali, per chiedere lumi su come bloccare l’elezione di Foa? Al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che secondo Gioele Magaldi milita nella stessa Ur-Lodge del francese, la “Three Eyes”. Napolitano avrebbe consigliato ad Attali di contattare Antonio Tajani, ansioso di farsi confermare alla guida del Parlamento Europeo. E Tajani sarebbe riuscito a convincere Berlusconi, facendo valere proprio il peso della “Three Eyes”, in cui figurano alcuni pesi massimi del potere mondiale di ieri e di oggi, da Kissinger a Draghi.
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Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera
La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.(Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).
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Contro Marcello Foa in Rai, il complotto dei morti viventi
Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.Per contro, il “complotto dei sorci” rende ancora più palese la disperazione degli ex partiti caduti in rovina, specchio perfetto – e piuttosto vomitevole – dei grandi poteri che li hanno utilizzati per decenni, allo scopo di ridurre in cenere la sovranità italiana e svendere il patrimonio nazionale, fino a precipitare il paese in una crisi presentata come fisiologica e incurabile. Sono ancora a piede libero, e armati fino ai denti, i killer politici dell’Italia che fu: possono infatti contare sul plumbeo mainstream cartaceo e radiotelevisivo, lesto nel trasformare in una specie di pazzo visionario un reporter come Foa, allievo di Montanelli, distintosi – nella sua lunga carriera – per equilibrio, indipendenza politica e capacità di fornire opinioni illuminanti e giudizi altamente critici sullo stato delle cose, a cominciare dal giornalismo declassato a far west dove ormai gli “stregoni della notizia” fabbricano quotidianamente le “fake news” suggerite dai governi. Era decisamente troppo, Marcello Foa – troppo abile, troppo trasparente – per essere tollerato dagli omuncoli del Pd e dai loro compari, i residuati bellici ancora al servizio del nonno di Arcore. C’è anche un che di lugubre, nella congiura dei ratti livorosi, pieni di furore per i successi di Salvini: hanno bocciato Foa, ma non hanno niente di meglio da proporre agli italiani. Sanno di non essere nient’altro che cadaveri politici.Tutti i sondaggi attribuiscono ai gialloverdi un consenso che supera il 60%, senza contare gli elettori di Fratelli d’Italia e quel 27% di italiani che il 4 marzo ha scelto di non votare, nauseato dalle performance dei renziani e dei loro colleghi berlusconiani. In modo sbilenco e “gridato”, tra proclami e slogan che sarà difficile trasformare in provvedimenti legislativi, il nuovo governo è comunque assistito dalla sostanziale indulgenza di un paese che non riesce più a digerire gli zombie che ancora infestano, ventiquattr’ore al giorno, i salotti televisivi. E’ in atto un scontro epocale, socio-culturale prima ancora che politico: il sentimento di rivolta generalizzata, per comodità chiamato populismo, segnala che la narrazione dei leghisti e dei pentastellati ha comunque colto nel segno, visto che risponde a un preciso stato d’animo largamente condiviso. Non sarà più possibile truccare completamente la politica, al punto da spacciare per “riforme” endogene la traduzione sistematica dei diktat dell’oligarchia finanziaria euro-pilotata. I morti viventi ancora in circolazione possono, appunto, sabotare l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma la storia è contro di loro. Si è innescata una sorta di rivoluzione culturale: e più la crisi continua a mordere, meno comprensione ci sarà chi ha osato cestinare un gentleman come Marcello Foa, vero e proprio alieno in questa Italia di roditori in via di estinzione.Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.
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Patrizia Scanu: smettiamo di avere paura, l’Italia risorgerà
Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?Generare disgusto e disaffezione verso la politica per indebolire la democrazia era uno degli obiettivi del gruppo oligarchico che nel 1975 produsse “The crisis of democracy”, scritto da Michel Crozier, Samuel P. Huntington, e Joji Watanuki per la Trilateral Commission e che potremmo definire come il manuale per la transizione dalla democrazia all’oligarchia tecnocratica. Bisogna assolutamente invertire la rotta. Però l’aria sta cambiando: sta finendo un mondo, anche se le transizioni non sono mai indolori. Occorrerà il contributo di tutti, ed io ho deciso di non tirarmi indietro, proprio in quanto donna. C’è bisogno di un riequilibrio fra maschile e femminile. Il Movimento Roosevelt è un metapartito, ovvero un soggetto politico del tutto originale, nel quale si confrontano e dialogano laicamente persone di ogni credo religioso e politico, accomunate dalla convinzione che le etichette di destra, sinistra e centro siano ormai sorpassate dagli eventi. Quello che conta è la comune visione progressista della società, fondata sulla democrazia sostanziale, sulla Costituzione del ’48, deturpata da successive e indebite cessioni di sovranità a danno del popolo, sui diritti civili e sociali, sulla partecipazione popolare e sulla valorizzazione delle ricchezze culturali, ambientali, produttive di questo meraviglioso paese.La linea di demarcazione passa ormai fra chi difende la democrazia e i diritti e chi ci ha imposto questo modello economico predatorio neoliberista, di stampo feudale, che drena continuamente ricchezza dai poveri ai ricchi. Perciò mi sono impegnata a favorire il dialogo, a cui ci hanno disabituati la prevaricazione cialtrona e l’insulto sguaiato di vent’anni di mala politica; a sviluppare nel movimento la formazione degli iscritti; a diffondere, in forma divulgativa, la conoscenza sulla realtà economica e politica, camuffata quotidianamente dai media asserviti; a riorganizzare il movimento e a radicarlo a livello territoriale; a dialogare con altri soggetti politici orientati allo stesso fine di superare questa fase storica e di istituire una Terza Repubblica, si spera migliore della seconda, caratterizzata dal tradimento eversivo della casta. Benché il Movimento Roosevelt sia un laboratorio di idee politiche e di iniziative sociali, contribuirà, con le sue proposte e con alcuni iscritti, a costituire con altri soggetti un partito nuovo, di cui ora si sente il bisogno.Come si può vincere il “piano nero” del neoliberismo che toglie diritti, serenità, benessere e futuro ai tanti a favore di pochi? Il primo passo è la conoscenza. La gente è stata narcotizzata da decenni di informazione di regime, pilotata per nascondere quello che conta e per mostrare quello che fa comodo a chi tiene in mano il potere reale. Le battaglie più importanti si giocano sull’informazione e sulla scuola. Non è un caso che proprio su questi due ambiti si siano accaniti i poteri sovranazionali e oligarchici che hanno pianificato l’asservimento dell’Italia. Il fatto che in Europa si continui a presentare le cosiddette “fake news” come una priorità politica, dopo decenni di mostruose menzogne raccontate dai vertici istituzionali nazionali ed europei, la dice lunga sul nervosismo di chi teme un’informazione libera e critica. La scuola è stata impoverita, snaturata e ridotta a centro di formazione per il mondo del lavoro, priva ormai quasi del tutto del potere emancipante che il sapere dovrebbe avere in base alla Costituzione. Quindi la cancellazione della Buona Scuola e delle riforme neoliberiste diventa una priorità assoluta. Ma poi bisogna rendersi conto che il potere esercitato abusivamente su di noi per tanto tempo si regge sulla paura. Bisogna smettere di avere paura, per non farsi manipolare ogni giorno.Dobbiamo renderci conto, ciascuno di noi e tutti insieme, che chi ci ha ridotti così ha potere solo perché noi glielo abbiamo permesso. Dobbiamo smettere di credere alle bugie depressive che ci hanno raccontato. Non siamo condannati alla precarietà, alla povertà, alla svendita dei nostri beni più preziosi, alla corruzione, alle mafie, alla crisi perpetua. L’Italia è una terra benedetta dalla natura, dal clima e dalla storia. Arrivò ad essere nel 1991 la quarta potenza industriale del mondo e poteva diventare la seconda economia europea. E’ stata svenduta per ragioni inconfessabili da una classe politica ed economica che meriterebbe un processo per alto tradimento per la sofferenza e il dolore che ha prodotto consapevolmente e intenzionalmente, come spiega con cognizione di causa Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”. Non c’è nulla di cui avere paura. Ci serve invece alimentare la speranza e riprenderci ciò che ci è stato rubato. Ma questa è responsabilità di ciascuno di noi, per quello che può fare. Nel Movimento Roosevelt vorrei un concentrato di persone piene di idee e di voglia di futuro – e tanti, tanti giovani. Questo è un appello rivolto a tutti, ma proprio tutti i cittadini italiani che vogliono sentirsi orgogliosi del loro paese. Più numerosi saremo, più sarà realizzabile il progetto di riprendersi la democrazia.(Patrizia Scanu, dichiarazioni rilasciate a Enzo Di Frenna per l’intervista “La rivoluzione politica e pedagogica di Patrizia Scanu con il Movimento Roosevelt”, pubblicata sul blog dello stesso Di Frenna il 9 luglio 2018. Eletta segretaria generale del movimento presieduto da Gioele Magaldi, Patrizia Scanu è insegnante, psicologa e ricercatrice nei territori di confine fra le discipline, tra scienza e spiritualità. Laureata in filosofia, lettere classiche e psicologia clinica, ha insegnato filosofia e storia, lettere, latino, greco, pedagogia; ora insegna scienze umane, ovvero psicologia, sociologia, antropologia culturale, etologia, statistica e metodologia della ricerca. Esperta in Fiori di Bach e consulente del Bach Centre di Wallingford, Regno Unito, ha inoltre conseguito un diploma in Gestalt Counselling. Dichiara: «Ci vuole una grande presunzione per poter insegnare, ma è così che si comincia ad imparare; quando sei costretto a farti capire, devi sforzarti prima di capire tu: così scopri quanto sia immensa la tua ignoranza». E aggiunge: «Per me, che in fondo mi sento un po’ guerriera, insegnare è combattere una strenua battaglia contro l’ignoranza: la mia, intanto, e poi quella dei miei giovani pupilli. La conoscenza, per me, è il bene e il potere più grande. Come diceva Socrate, nella testimonianza di Platone, una vita senza farsi domande non è degna di essere vissuta»).Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?
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Meno Europa e più Italia dietro al feeling tra Conte e Trump
In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.Ed è a questo punto, scrive Da Rold, che Giuseppe Conte, «il premier mediatore e probabilmente anche il garante delle scelte di fondo», va a presentare il nuovo “populismo italiano” davanti al vero capo del neo-sovranismo in salsa populista, il presidente degli Stati Uniti, cioè la potenza economica e militare più forte del mondo. «Non c’è dubbio che la contingenza politica nazionale e internazionale possono favorire il premier italiano in un dialogo con il presidente Usa – aggiunge l’analista del “Sussidiario” – fino a stabilire una sorta di corsia preferenziale per quanto riguarda gli affari europei e quelli mediterranei in particolare». Proprio Conte rivendica con orgoglio di essere il premier di un governo populista, ma si affretta a precisare che la permanenza dell’Italia nella Nato e nell’euro non si discutono. Il ministro Tria sarà “un Cerbero dei conti”, ma non abbandonerà il governo e quindi possono stare tutti tranquilli, anche gli alfieri della vecchia austerity e i nuovi confindustriali scalpitanti. Altro problema, il contesto internazionale: «Il croupier Jean-Claude Juncker, magari dopo una bevuta di bourbon, ha abbracciato Trump davanti alle macchine fotografiche trovando un compromesso sui dazi, per adesso. Ma di fatto Donald Trump, anche se poco lineare, non ha mai risparmiato critiche all’Europa, alla Germania in particolare. Si può mettere qualche cerotto, ma la ferita resta».In più, continua Da Rold, l’Unione Europea appare sempre più come un giocattolo rotto, «che deve essere aggiustato al più presto in qualche modo e con qualche riforma, prima che arrivi un’ondata anti-europeista degli stessi europei alle elezioni del prossimo anno». E’ un fatto: «Né Angela Merkel, né l’ammaccato Emmanuel Macron sembrano in grado di assicurare un rilancio e di tamponare le falle europee: occorre imboccare altre strade e battere altre piste». E qui, secondo Da Rold, può arrivare il paradosso: «L’attuale posizione del governo italiano, illustrata da un moderato come Giuseppe Conte, potrebbe giovare alla mediazione tra Stati Uniti e Unione Europea e potrebbe tracciare una sorta di pista privilegiata nei rapporti tra Usa e Italia, soprattutto per i problemi della stabilizzazione necessaria del Mediterraneo e del Nord Africa». In definitiva, Trump «potrebbe porsi come un mediatore tra i paesi del’Unione Europea che sono spesso in contrasto con la linea di Bruxelles e soprattutto quella di Berlino, e favorire quindi le esigenze anche dell’Italia». Potrebbe essere prezioso, l’aiuto Usa, quando l’Italia dovrà varare in autunno la legge di bilancio destinata, sulla carta, ad attuale le più impegnative promesse elettorali, Flat Tax e reddito di cittadinanza. «Gli italiani restano in attesa. Tocca ai politici del cosiddetto cambiamento giocare le carte utili e necessarie».In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.
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Se anche Salvini si piega ai padroni del Tav Torino-Lione
Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che non farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.Il maledetto Tav valsusino è ormai materia di umorismo anche televisivo: per Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, si tratterebbe di una linea “ad alta velocità per le merci”. E’ noto a tutti – forse non a Mentana, né al suo pubblico – che si tratta di un ossimoro piuttosto comico: le merci, per definizione, non possono viaggiare ad alta velcità. Negli Usa, cioè il miglior sistema logistico del pianeta, transitato a 60 miglia orarie: oltre quella soglia si mette a rischio la sicurezza dei convogli. Le merci hanno bisogno di puntualità, non di velocità, ma non c’è caso che i media mainstream – stranamente ignorantissimi, su questo aspetto – ne facciamo menzione. La favola della Torino-Lione come segmento strategico per “merci veloci” è nata quando il progetto iniziale, costruito per trasportare passeggeri, è stato reso obsoleto dall’avvento dei voli low cost. Quanto alle merci, sulla tratta Torino-Lione sono praticamente estinte: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già collega l’Italia alla Francia attraverso la valle di Susa via Traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro) ospita appena il 10% dei convogli che potrebbe veicolare: la sua capacità potrebbe aumentare del 900%.Non ci sono più merci, nel trasporto regionale fra Piemonte e Rhône-Alpes, né ve ne saranno secondo tutte le stime. Ma, anziché sfruttare la linea esistente, si pensa a costruire un inutile doppione, per giunta devastante sul piano finanziario e ambientale. Un boccone ricchissimo, però, per i consorzi che lo costruirebbero. Semplicemente sconcertante, anche se non sorprendente, il tenore della dichiarazioni a reti unificate trasmesse dai media all’indomani del ventilato stop ai cantieri da parte dei 5 Stelle. «Imprenditori sulle barricate», secondo la “Stampa”: gli industriali di Torino, con il presidente Dario Gallina, si dicono «allibiti» perché «bloccare la Tav sarebbe un gesto autolesionistico, una disgrazia». E per quale motivo? Mistero: il giornale, all’allibito Gallina, non lo domanda. Per il presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli, «le contraddittorie e irrituali dichiarazioni sul futuro della nuova linea Torino-Lione sorprendono e creano estrema inquietudine». Di nuovo: se la sente, l’esimio Ravanelli, di spiegare – ai lettori della “Stampa” – quale sarebbe il motivo di tanta inquietudine?Al quasi-lutto per la quasi-rinuncia all’alta velocità transalpina si associa il presidente di Api Torino, Corrado Alberto, che definisce «assurda, inaccettabile e demenziale» l’ipotesi dello stop ai cantieri. Spiegazioni? Nemmeno l’ombra. E i sindacati? Eccoli: contrari alla rinuncia alla Torino-Lione anche Cisl e Uil, che si schierano con i segretari Annamaria Furlan («Sarebbe una sciagura») e Carmelo Barbagallo («Non possiamo rinunciare»). Tace Susanna Camusso, ma si schierano contro il blocco dei cantieri anche gli edili della Fillea-Cgil. Qualcuno lo trova, il coraggio di spiegare a chi mai servirebbe, davvero, la linea Tav Torino-Lione? Macché. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino (già a capo della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria) chiede ai leghisti «di insorgere e bloccare questa deriva anti-piemontese, contraria agli interessi del Nord-Ovest e dell’intero paese». Il semi-segretario Pd, Maurizio Martina, parla di «follia che pagherà il paese intero». E Forza Italia? Con Mara Carfagna accusa il Movimento 5 Stelle di «buttare i soldi degli italiani». E per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la rinuncia alla Torino-Lione sarebbe «un passo indietro».Questa è l’Italia: un establishment che non ha esitato a criminalizzare la protesta contro la grande opera progettata in valle di Susa, senza mai degnarsi di fornire uno straccio di spiegazione credibile, capace di giustificare tanta tenacia nell’insistere su un maxi-progetto così controverso, ingombrante, costoso e doloroso, per il bilancio nazionale prima ancora che per il territorio. Passi l’insigne statista berlusconiana Mara Carfagna, passino la Meloni e l’ectoplama Maartina; passino i sindacalisti del 2018 di cui nessuno ricorda neppure i nomi; passino i ferrivecchi della Prima Repubblica come Chiamparino, miracolato dalla Seconda Repubblica come sindaco-fenomeno di Torino in mezzo allo sfacelo della partitocrazia di allora; ma il sovranista Salvini non doveva essere un politico di tutt’altra pasta, cioè schierato dalla parte del popolo? Nel suo piccolo, la valle di Susa è diventata un simbolo possibile per un’altra Italia, quella che – ad esempio – ha licenziato il fantasma di Monti e il suo ultimo erede, Matteo Renzi. Proconsoli deboli, agli ordini di poteri fortissimi (come quelli che hanno finora imposto, senza mai spiegazioni, l’afflizione antidemocratica dell’ecomostro Tav). L’Italia che ha tifato per il governo gialloverde ora assiste a uno spettacolo allarmante: davvero anche il nuovo esecutivo si piegherà, come i precedenti, al diktat dei padrini della grande opera, ancora una volta imposta senza motivazioni documentate?Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.
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Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista
Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.
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Mazzucco: vogliono il morto in mare, per seppellire Salvini
L’avevo detto in anticipo: ci hanno preso per il culo. Dall’incontro di Bruxelles con il leader europei, Conte non ha portato a casa assolutamente niente, se non appunto la presa in giro di una promessa di collaborazione che ovviamente non c’è. Vedrete come finiremo, quest’estate: cominceremo ad avere delle barche piene di gente, che galleggiano in mezzo al mare senza sapere dove andare. E infatti ci siamo già arrivati. Finché non hai l’impegno da parte degli altri di prenderci la gente, chiudere i porti serve solo a creare una crisi locale. Arrivano barconi con sopra 450 migranti: figurarsi se la Libia se li riprende, o se sbarcano a Malta. Quindi Salvini dovrà trovare una scusa, inventarsi una motivazione. Il fatto è che, ogni volta, se accettiamo di sbarcare migranti, dall’altra parte – i francesi soprattutto – si sfregano le mani, perché finché non si ottiene un impegno reale, un accordo firmato, nel quale ci si distribuisce questi migranti, non cambierà assolutamente niente. Finiremo solo per scontrarci contro un problema che è più grosso di tutti noi. Mattarella è intervenuto per far sbarcare profughi, decidendo lui al posto del governo? Non è la prima volta che Mattarella ci dimostra che non è affatto super partes: sta chiaramente dalla parte dei “piddini”, della cordata buonista umanitaria che – non si capisce perché – ha tanto bisogno di questi immigrati.E’ vero che Salvini in quel caso ha fatto il passo più lungo della gamba: come ministro degli interni non è carino intervenire per suggerire alla magistratura quello che dovrebbe fare, tipo arrestare presunti facinorosi. Ma è altrettanto vero che non sono affari che riguardano Mattarella: comunque sia, è una questione tra ministeri o istituzioni diverse, mistero degli interni e magistratura. Non abbiamo certo bisogno che intervenga il Quirinale, e invece il capo dello Stato ha fatto proprio una telefonata a Conte, diretta, per chiedere che sbloccasse la situazione. Quindi Mattarella non è assolutamente super partes, come peraltro aveva già dimostrato durante la formazione del governo. Dal punto di vista di Salvini, cioè di chi vuole fermare gli sbarchi, la verità è che noi abbiamo due nemici: uno è l’Unione Europea, l’altro è la cordata interna del Pd e dei buonisti che non vedono l’ora che ci sia qualche tragedia in mare per poter addossare la colpa su Salvini e cominciare con l’arma del ricatto. E questo purtroppo mi tocca dirlo: temo che succederà molto presto, perché è impensabile che si possa passare tutta l’estate in situazioni come queste, senza che prima o poi non ci scappi da qualche parte il morto. A quel punto si scatenerà la vergogna del ricatto morale e finiremo esattamente dove qualunque persona con un minimo di cervello aveva già capito che saremmo finiti.L’altra sera, in televisione, Luca Telese cercava di attirare in trappola un’esponente dei 5 Stelle. Diceva: e se in uno di questi lager libici ci fosse una donna che deve partorire? Non ha forse il diritto di sognare di venire in Italia? E’ chiaro che se vai a cercare il caso estremo riesci sempre ad avere ragione, nello specifico, ma non hai stabilito la questione di principio – cosa che, appunto, tutte queste persone si rifiutano di fare. La questione è semplice: certo, anch’io ho il diritto di sognare di diventare ricco come Donald Trump, ma non è che poi sono autorizzato ad andare a rapinare una banca o a violare la legge, per diventarlo. Quindi, se ci sono delle leggi, vanno rispettate. E noi abbiamo queste leggi, in questo momento, che non permettono un’immigrazione di questo tipo. Quindi bisogna rispettarle. Il problema non è tra noi e il Sud, è tra noi e il Nord. Il resto dell’Europa se ne fotte, dei migranti che sbarcano in Italia. Tutto sarebbe risolto se ci fosse un accordo di spartizione automatica, proporzionale, fra gli Stati europei. Su ogni barcone con 450 migranti, divisi per i 28 paesi Ue, a ciascuno finirebbero 20 persone: non sarebbe più un problema, per nessuno. E soprattutto, noi vedremmo che gli altri non se ne fregano, e quindi saremmo anche noi più invogliati a fare la nostra parte, se gli altri facessero la loro. Viceversa è chiaro che ti impunti, come sta facendo Salvini in questo momento.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta “Mazzucco Live”, in web-streaming su YouTube il 14 luglio 2018).L’avevo detto in anticipo: ci hanno preso per il culo. Dall’incontro di Bruxelles con il leader europei, Conte non ha portato a casa assolutamente niente, se non appunto la presa in giro di una promessa di collaborazione che ovviamente non c’è. Vedrete come finiremo, quest’estate: cominceremo ad avere delle barche piene di gente, che galleggiano in mezzo al mare senza sapere dove andare. E infatti ci siamo già arrivati. Finché non hai l’impegno da parte degli altri di prenderci la gente, chiudere i porti serve solo a creare una crisi locale. Arrivano barconi con sopra 450 migranti: figurarsi se la Libia se li riprende, o se sbarcano a Malta. Quindi Salvini dovrà trovare una scusa, inventarsi una motivazione. Il fatto è che, ogni volta, se accettiamo di sbarcare migranti, dall’altra parte – i francesi soprattutto – si sfregano le mani, perché finché non si ottiene un impegno reale, un accordo firmato, nel quale ci si distribuisce questi migranti, non cambierà assolutamente niente. Finiremo solo per scontrarci contro un problema che è più grosso di tutti noi. Mattarella è intervenuto per far sbarcare profughi, decidendo lui al posto del governo? Non è la prima volta che Mattarella ci dimostra che non è affatto super partes: sta chiaramente dalla parte dei “piddini”, della cordata buonista umanitaria che – non si capisce perché – ha tanto bisogno di questi immigrati.
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Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?
La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.(Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
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Sul carro degli onesti. Foa: l’Italia e il branco dei gattopardi
Caro direttore, ci risiamo. L’Italia opportunista, l’Italia che, come sempre è accaduto nella sua storia, è maestra nell’abbandonare i perdenti salendo sul carro dei vincenti, sta prevalendo ancora una volta, appropriandosi i risultati di quella che fino ad oggi era stata la battaglia della parte pulita del paese. Sembra un paradosso, eppure purtroppo non lo è. Ricorda com’era la situazione a febbraio, quando scoppiò lo scandalo della Baggina? Il regime era solido e potente, poteva ancora sperare di limitare i danni, di far apparire quella vicenda un episodio isolato attribuibile ai “mariuoli”, o addirittura di insabbiare tutto con la complicità di giudici compiacenti. Di Pietro non si lasciò intimidire e, se ha potuto proseguire arrivando dove tutti sappiamo, il merito in parte è anche nostro, di quella fetta dell’opinione pubblica che sin dall’inizio si è schierata con entusiasmo dalla parte del “giustiziere di Tangentopoli”. A febbraio eravamo in pochi a gioire e a combattere. Era l’Italia pulita, onesta, che non ama gli schiamazzi di piazza. Tra questi pochi c’erano in blocco i nostri lettori.Per qualche giorno, Di Pietro ci ha fatto rivivere le emozioni degli anni ‘70: si tifava per lui come si tifava per Montanelli contro la tracotanza dei comunisti e le pallottole delle Brigate Rosse. Ma oggi a quale spettacolo assistiamo? Sul carro della denuncia di Tangentopoli sono saliti tutti gli onesti e le persone per bene, certo, ma anche i corrotti, i furbastri, gli opportunisti. Insomma, il peggio del paese. Ed è proprio la loro voce a tuonare sempre più forte, surclassando quella dell’Italia dal volto pulito. Sono questi maestri della propaganda e del conformismo ad aver ispirato alcune delle recenti spettacolari iniziative e a coniare gli slogan più incisivi a sostegno dei giudici di Milano, così brillanti da far apparire naif è un po’ patetiche le scritte sui muri “Forza Di Pietro” che ci entusiasmavano la primavera scorsa. C’è da preoccuparsi. Quelle centinaia di persone che oggi gareggiano a chi urla nelle piazze gli insulti più virulenti contro i potenti caduti in disgrazia sono le stesse che fino a pochi mesi fa bazzicavano nelle anticamere del potere, nella speranza di partecipare alla spartizione del malloppo. Portaborse, intellettuali alla moda, giornalisti di regime, arrampicatori e affaristi.Il loro scopo è evidente: appropriarsi la bandiera dell’Italia onesta e introdursi nelle forze politiche emergenti (Lega, Rete, Msi, movimenti referendari) per continuare a fare quel che hanno sempre fatto ho sognato di fare: la dolce vita e le carriere facili a spese del paese. Ormai manca solo che anche mafiosi e camorristi esprimano solidarietà e appoggio a Di Pietro. Per questo, caro direttore, “Il Giornale” vada ancora una volta controcorrente, iniziando una di quelle battaglie per le quali i nostri lettori dal 1974 ci appoggiano con passione ed entusiasmo. Come nel 1988, quando svelammo lo scandalo dell’“Irpiniagate”. Come agli inizi degli anni 80, quando fummo i primi a denunciare la corruzione della partitocrazia e a invocare la riforma del sistema elettorale. Continuiamo a schierarci con Di Pietro, ma fuori del gregge dell’ormai gratuito “dipietrismo”. Lasciamo ad altri le chiassate di piazza e diamoci da fare per smascherare gli eterni furbi d’Italia.(Marcello Foa, “Sul carro degli onesti”, lettera pubblicata sul “Giornale” del 21 dicembre 1992 dall’allora direttore Indro Montanelli, che in calce alla missiva aggiuse: «Questa lettera, caro Foa, potrei avrela scritta io». Lo rammenta lo stesso Foa, in un affettuoso ricordo che dedica a Montanelli sul blog “Il cuore del mondo”, pubblicato sul “Giornale” il 21 luglio 2018. Impegnato a denunciare le ipocrisie dei media mainstream con saggi di successo come “Gli stregoni della notizia”, oggi Foa condanna l’ostracismo moralistico del vecchio establishment, ostile a Salvini e al sovranismo democratico “gialloverde”).Caro direttore, ci risiamo. L’Italia opportunista, l’Italia che, come sempre è accaduto nella sua storia, è maestra nell’abbandonare i perdenti salendo sul carro dei vincenti, sta prevalendo ancora una volta, appropriandosi i risultati di quella che fino ad oggi era stata la battaglia della parte pulita del paese. Sembra un paradosso, eppure purtroppo non lo è. Ricorda com’era la situazione a febbraio, quando scoppiò lo scandalo della Baggina? Il regime era solido e potente, poteva ancora sperare di limitare i danni, di far apparire quella vicenda un episodio isolato attribuibile ai “mariuoli”, o addirittura di insabbiare tutto con la complicità di giudici compiacenti. Di Pietro non si lasciò intimidire e, se ha potuto proseguire arrivando dove tutti sappiamo, il merito in parte è anche nostro, di quella fetta dell’opinione pubblica che sin dall’inizio si è schierata con entusiasmo dalla parte del “giustiziere di Tangentopoli”. A febbraio eravamo in pochi a gioire e a combattere. Era l’Italia pulita, onesta, che non ama gli schiamazzi di piazza. Tra questi pochi c’erano in blocco i nostri lettori.
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Mybank: credito alle Pmi in tempo reale, grazie al digitale
La Disruption non è futurismo, è realtà e soprattutto può essere il più potente moltiplicatore economico per l’Italia dal baby boom a oggi, ma molto più formidabile. L’Italia deve la sua ricchezza al 78% alle piccole e medie imprese (Pmi), infatti ne abbiamo 3.940.000, contro le sole 1.822.000 della Germania e le 2.387.000 della Francia. In questi numeri sta una delle principali ragioni per cui la catastrofe bancaria del 2008 ha sproporzionatamente penalizzato l’Italia rispetto ai due paesi del nord. Con la precipitosa stretta creditizia delle banche in tutta Europa, chi c’è andato di mezzo più di chiunque sono le Pmi, assai più delle grandi imprese alle quali le banche hanno di fatto continuato a prestare almeno il minimo. Per cui la nazione col maggior numero di Pmi è stata, per pura aritmetica, quella che ha subito maggiori sofferenze, cioè noi, e parliamo soprattutto di posti di lavoro svaniti o di assunzioni impossibili da fare, ma anche di fallimenti forzati. Aggiungo per onestà intellettuale che è verissimo che poi le agghiaccianti riforme del lavoro dei governi tecnici da Monti in poi e del Pd, ma anche la miopia di tantissimi imprenditori che hanno sfruttato all’osso quelle politiche ‘lavoricide’, hanno peggiorato le cose.Purtroppo da allora l’essenziale flusso creditizio da banche a Pmi non si è più risollevato. Ecco la situazione all’anno scorso riassunta dai dati di Bankitalia elaborati dal centro studi Cgia: il 10% d’imprese che costituisce le grandi aziende italiane beneficia dell’80% dei crediti bancari totali. Alle Pmi, che sono oltre mille volte più numerose, va il rimanente 20%. Questo 10% di ‘grandi’ e meglio finanziate imprese non è affatto un esemplare di affidabilità creditizia, al contrario: sono le responsabili dell’81% delle insolvenze bancarie nazionali, cioè quell’oceano di cediti ‘marci’ che fanno delle banche italiane le più a rischio oggi al mondo. Eppure le banche continuano a negare crediti più alle Pmi che alle ‘grandi’. C’è stata una lieve ripresa della fiducia e quindi dell’erogazione di crediti da parte delle banche, che si è materializzata in un +0,3% in media in Italia dal 2016 al 2017. Ma anche qui l’ingiustizia è palese: all’interno di quella misera crescita, alle imprese medio-grandi va lo 0,6% mentre le piccole e micro imprese continuano a soffrire di sempre meno crediti.Sbloccare questo disastro – che, ribadisco, si trasforma poi in fallimenti forzati (quanti hanno chiuso mentre aspettavano pagamenti solo perché le banche non gli hanno concesso un prestito a breve), licenziamenti o non assunzioni – non è semplice. Il motivo primario l’ho accennato sopra: le banche italiane sono le più sofferenti al mondo oggi, con in pancia quasi 300 miliardi di crediti inesigibili, cioè ‘marci’, chiamati Npls. I lettori devono immaginare che, al di là di tutte le porcherie che di certo ’ste banche fanno fra corruzione politica e favoritismi, i succitati esplosivi Npls sono il motivo per cui i loro dirigenti hanno oggi il terrore di prestare ad aziende la cui affidabilità creditizia possa andare in fumo dopo pochi mesi o anni. E qui sono cruciali i mezzi che una banca ha per determinare con accuratezza e senza grandi ingiustizie se l’imprenditore bisognoso sia affidabile o meno. E qui la Disruption delle nuove tecnologie come l’Artificial Intelligence (Ai) e Machine Learning può fare una differenza enorme. Cioè: da una parte scremare i falsi affidabili, e dall’altra recuperare tanti condannati che invece affidabili erano eccome, ma non solo, incoraggiare prestiti più sostanziosi a molti. Il tutto si traduce in semplificazione, tutela a 360 gradi, e sviluppo d’impresa con posti di lavoro.Mai sentito parlare di Mybank? Sono cinesi, ed è il primo istituto di credito al mondo che lavora interamente sulla Cloud, senza filiali, e che con soli 400 impiegati serve milioni di Pmi cinesi. A Mybank si sono letti il rapporto della Banca Mondiale “Toward Universal Financial Inclusion, 2017-2018”, dove fra le altre cose sono citate proprio le lungaggini e le complessità delle indagini bancarie per stabilire se un’azienda ha affidabilità creditizia come uno dei problemi più distruttivi. Infatti da una parte la banca oggi non riesce ad avere accesso a un numero sufficiente di dati sul cliente per davvero capire se è affidabile, oppure analizza dati che potrebbero non essere poi così significativi sul grado di solvibilità come essa crede; dall’altra le lungaggini cartacee, gli sfinenti colloqui d’ufficio, e tempi d’attesa si assommano in ritardi che spesso sono fatali all’imprenditore piccolo-medio. La soluzione cinese di Mybank si articola su tre fronti: A) Poggiare su una società dove la digitalizzazione rende la maggior quantità possibile di dati raggiungibili all’istante da chi legalmente li richiede (Big Data); B) Usare una Artificial Intelligence specifica per il risk management al fine di determinare con la maggior sicurezza possibile l’affidabilità creditizia dell’imprenditore sulla base dei dati di cui al punto precedente; C) Rendere disponibili alle Pmi i sevizi di credito sulla Cloud, quindi accessibili dagli smart-phones senza muoversi dal lavoro.Sono già sette milioni i piccoli-medi imprenditori cinesi che, iniziando da C), hanno fatto richiesta di un prestito presso Mybank da una App sul cellulare in un tempo massimo di 3 minuti. L’istituto di credito ha, ad oggi, erogato in questo modo 110 miliardi di dollari di finanziamenti. L’Ai di Mybank prende in esame la richiesta e in media la risposta richiede 1 secondo, senza alcun intervento umano. Il tasso di Npls finora accumulato da Mybank è sotto all’1%. E’ facile anche per i non addetti ai lavori immaginare quale espansione di Pil italiano – in termini di occupazione, di ampliamento di milioni di micro-piccole-medie aziende, di nuove “ventures” nelle startup, di salvataggio d’imprese solide ma soffocate da ritardi nei pagamenti, ecc. – un rilassamento delle ansie bancarie nella concessione di crediti può portare grazie a queste tecnologie, col superamento dopo dieci anni della disastrosa stretta creditizia.Il mio realismo ora m’impone di specificare che la Cina è, rispetto all’Italia, su un altro pianeta per ciò che riguarda il cosiddetto Inclusive Digital Financial System, cioè il sistema finanziario mirato all’inclusione delle micro-piccole-medie aziende e che corre sul digitale della maggior mole di dati disponibili (Big Data). Ma questo è precisamente spunto per una delle riforme urgenti che il ministro del lavoro Di Maio deve fare, e che mi permetto di sollecitagli. L’altra nota fondamentale riguarda le regolamentazioni bancarie: chiaramente una Disruption di questo livello richiede quello che proprio i cinesi chiamano “un ruolo di generoso sostegno” da parte dei regolamentatori. Qui purtroppo l’Italia non più sovrana, e incapsulata nei meandri dei regolamenti bancari Ue, ha le mani legate. Ma quando si parla di Disruption l’oppressiva Bruxelles ha già dato segni di rilassamento (a partire dalla sua Europe 2020 Strategy – The Digital Agenda), per cui, ministro, per il bene del paese si metta al lavoro. Questa è innovazione, cioè Disruption nella sua migliore essenza, cioè: nessun futurismo, concretezza nel tessuto produttivo e d’impiego più forte che l’Italia possiede e con cui ha primeggiato nel mondo.(Paolo Barnard, “Disruption e credito alle piccole-medie imprese: creare lavoro – ministro, per lei”, dal blog di Barnard del 14 luglio 2018).La Disruption non è futurismo, è realtà e soprattutto può essere il più potente moltiplicatore economico per l’Italia dal baby boom a oggi, ma molto più formidabile. L’Italia deve la sua ricchezza al 78% alle piccole e medie imprese (Pmi), infatti ne abbiamo 3.940.000, contro le sole 1.822.000 della Germania e le 2.387.000 della Francia. In questi numeri sta una delle principali ragioni per cui la catastrofe bancaria del 2008 ha sproporzionatamente penalizzato l’Italia rispetto ai due paesi del nord. Con la precipitosa stretta creditizia delle banche in tutta Europa, chi c’è andato di mezzo più di chiunque sono le Pmi, assai più delle grandi imprese alle quali le banche hanno di fatto continuato a prestare almeno il minimo. Per cui la nazione col maggior numero di Pmi è stata, per pura aritmetica, quella che ha subito maggiori sofferenze, cioè noi, e parliamo soprattutto di posti di lavoro svaniti o di assunzioni impossibili da fare, ma anche di fallimenti forzati. Aggiungo per onestà intellettuale che è verissimo che poi le agghiaccianti riforme del lavoro dei governi tecnici da Monti in poi e del Pd, ma anche la miopia di tantissimi imprenditori che hanno sfruttato all’osso quelle politiche ‘lavoricide’, hanno peggiorato le cose.