Archivio del Tag ‘Italia Viva’
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Carpeoro: grillini ko, governo Draghi o elezioni anticipate
«Se la candidatura Draghi si profila nel modo giusto, spacca i 5 Stelle e nasce il governo Draghi». Se invece l’ex presidente della Bce non riuscirà a “profilarsi nel modo giusto”, a quel punto «si andrà alle elezioni». E Draghi è più probabile che faccia il presidente del Consiglio o della Repubblica? «Prima l’uno e poi l’altro, direi». Parola di Gianfranco Carpeoro, saggista e acuto osservatore della politica italiana. Era stato il primo, l’8 settembre scorso, a scommettere sulla vita brevissima del Conte-bis, destinato a cadere «entro 90 giorni». Sostituito da un altro esecutivo, dominato da una figura di garanzia per l’establishment? Già allora, Carpeoro non escludeva neppure il voto anticipato: a certe condizioni, disse, «lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Ci siamo? «La fibrillazione dei 5 Stelle è molto importante, per cui non so se reggono: credo che la mia previsione sui 90 giorni si avvererà», conferma oggi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming su YouTube. «Col tipo di contrapposizione che ha avuto col Pd in tutti questi anni, il Movimento 5 Stelle non poteva reggere un’alleanza».Mentre il governo annaspa tra Ilva, Mes ed emergenza-Venezia, i 5 Stelle (umiliati in Umbria) ora vengono dati al 5% in Emilia, ma sulla piattaforma Rousseau sconfessano Di Maio, che proponeva di non partecipare alle regionali emiliane, per evitare l’ennesima débacle. La scadenza dei “90 giorni” per il Conte-bis, insediato a inizio settembre, ormai è vicinissima. Superata la manovra finanziaria (riallineata all’Ue), si accettano scommesse sulla longevità politica di Conte: che cada prima o dopo Natale, poco cambia. A spaventare i “giallorossi” è il voto regionale in Emilia, il 26 gennaio, col rischio che la Lega possa strappare la Pd la storica roccaforte “rossa”. In ogni caso, i grillini si avvicinano alla meta sconfitti in partenza: sondaggi impietosi, per loro, a prescindere dal nome del futuro presidente della Regione. Dal quasi 33% ottenuto alle politiche del 2018, un anno dopo i penstellati erano precipitati al 17% alle europee, dimezzando i voti. E ora, dopo soli tre mesi al governo col Pd, stanno letteralmente sparendo insieme al loro portavoce, Di Maio.Colpa essenzialmente di un colossale flop politico: il reddito di cittadinanza ridotto a parodia di welfare, e il tradimento (spettacolare) di tutte le promesse elettorali. Ilva e Tap, trivelle in Adriatico, Muos e F-35, Tav Torino-Lione. Capitolo pietoso, i vaccini: confermato l’obbligo vaccinale istituito da Beatrice Lorenzin. Peggio: in primavera, lo stesso Grillo firmò (con Renzi) il “patto per la scienza” redatto dal vaccinista Claudio Burioni, per tagliare le gambe alla libera ricerca sui danni da vaccino. Sempre da Grillo, in agosto, il via libera all’accordo col nemico storico dei 5 Stelle, il Pd, siglato con la benedizione di Renzi. All’ex rottamatore, secondo Carpeoro, i grandi poteri hanno proposto un accordo: se ci aiuti a mettere in piedi il Conte-bis, ti faremo finalmente entrare nel salotto buono. Indizio: l’invito al meeting 2019 del Bilderberg, che pure resta una semplice vetrina. «In realtà – afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” – Renzi aveva ripetutamente bussato, ma senza esito, alla superloggia internazionale Maat, quella di Barack Obama». Sul suo rientro in campo, prudenza: Italia Viva è ferma al 5%. «Improbabile che i grandi gestori supermassonici del consenso intendano investire davvero su di lui», dice Magaldi.Altro attore in primo piano sulla scacchiera italiana, il premier Conte: non è affatto “venuto dal nulla”, ma «è l’espressione dello stesso potere vaticano a lungo incarnato dal cardinale Achille Silvestrini», sostiene Fausto Carotenuto, già analista dell’intelligence Nato: «E’ il network che garantì per decenni il potere di Giulio Andreotti». Ma il vero convitato di pietra è Mario Draghi, più che controverso protagonista della storia italiana recente: tecnocrate di prima grandezza, già dirigente della Goldman Sachs e poi di Bankitalia, prima ancora che della Bce. Da direttore generale del Tesoro, dopo la visita al panfilo Britannia il 2 giugno 1992 (dove il gotha della finanza anglosassone progettò la svendita di un’Italia terremotata da Mani Pulite e minata dallo smembramento dell’Iri affidato a Prodi), Draghi “lubrificò” la grande privatizzazione del paese, che raggiunse il suo culmine col governo D’Alema. Nel suo saggio, Magaldi presenta il super-banchiere come affiliato a 5 influenti Ur-Lodges, tutte di stampo reazionario: punta di lancia del potere neoliberista, post-democratico e neo-feudale che ha varato la spietata austerity europea.Ora, la sorpresa: insieme a Christine Lagarde, che ne ha preso il posto alla Bce (invocando il ritorno alla “moneta del popolo”), lo stesso Draghi ha evocato la Modern Money Theory, cioè il ritiorno alla piena sovranità monetaria, senza più vincoli al deficit. Per Magaldi si tratterebbe di un segnale preciso: Draghi e Lagarde, «già massoni neoaristicratici», avrebbero addirittura «chiesto di entrare nei circuiti della massoneria progressista, rooseveltiana e post-keynesiana, che preme per la riconquista della democrazia sostanziale», anche restituendo agli Stati il loro potere illimitato di spesa a beneficio di cittadini e aziende. Sarà questo il “modo giusto” in cui potrebbe “profilarsi” l’eventuale candidatura di Draghi, cui allude Carpeoro? Un Draghi “pentito” del rigore finora inflitto, dal massacro sociale impartito alla Grecia fino al pareggio di bilancio rifilato all’Italia, tramite Monti e Napolitano? Un Super-Mario dalle mille vite, capace di convincere persino gli smarriti grillini a evitare le elezioni anticipate, di cui peraltro hanno il terrore?Un conto però è profilare ipotesi, un altro è schematizzare impropriamente un quadro che resta fluido e contraddittorio. Sulla carta, l’alternativa è rappresentata dalla Lega di Salvini, che però – tramite Giorgetti – avrebbe fatto sapere di essere pronta ad appoggiare Draghi al Quirinale, dopo Mattarella, se l’ex capo della Bce (pezzo da novanta dell’establishment che “sovragestisce” l’Italia) non si opponesse a un governo Salvini, nel caso in cui la situazuione, magari dopo il voto emiliano, precipitasse verso le elezioni anticipate. Fabio Frabetti annota: Salvini, come un tempo Berlusconi, ha presenziato al rito della presentazione ufficiale dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Carpeoro invita a non enfatizzare l’episodio: è vero, «Vespa è il cerimoniere di un certo establishment, che sfrutta il cavallo che più gli conviene al momento, per poi buttarlo via». Ma intanto «è interessato innanzitutto a vendere i suoi libri, utilizzando allo scopo il politico più à la page». Se proprio c’è da spendere un nome, per il futuro immediato, non c’è storia: Carpeoro indica Mario Draghi.«Se la candidatura Draghi si profila nel modo giusto, spacca i 5 Stelle e nasce il governo Draghi». Se invece l’ex presidente della Bce non riuscirà a “profilarsi nel modo giusto”, a quel punto «si andrà alle elezioni». E Draghi è più probabile che faccia il presidente del Consiglio o della Repubblica? «Prima l’uno e poi l’altro, direi». Parola di Gianfranco Carpeoro, saggista e acuto osservatore della politica italiana. Era stato il primo, l’8 settembre scorso, a scommettere sulla vita brevissima del Conte-bis, destinato a cadere «entro 90 giorni». Sostituito da un altro esecutivo, dominato da una figura di garanzia per l’establishment? Già allora, Carpeoro non escludeva neppure il voto anticipato: a certe condizioni, disse, «lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Ci siamo? «La fibrillazione dei 5 Stelle è molto importante, per cui non so se reggono: credo che la mia previsione sui 90 giorni si avvererà», conferma oggi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming su YouTube. «Col tipo di contrapposizione che ha avuto col Pd in tutti questi anni, il Movimento 5 Stelle non poteva reggere un’alleanza».
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Fiat, vaccini, 5G e Tav: la politica italiana non se ne occupa
Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.Nel vecchio film, quello finito con le nozze mostruose tra Di Maio e il fratello di Montalbano, o meglio tra l’esodato Renzi e l’ex guastatore Grillo insidiato politicamente dall’indagine sul figlio per presunto stupro, a tener banco era stato un totem come il progetto cimiteriale del Tav Torino-Lione, infrastruttura con cantieri mai davvero decollati (forse al 5%) e comunque destinata a trasformarsi in una spettacolare, costosissima cattedrale nel deserto. L’argomento, che – come tanti altri, poi abbandonati – era servito ai 5 Stelle solo per fare il pieno di voti, è stato usato per la rissa finale con Salvini, per poi essere archiviato nel silenzio generale. La notizia, sfuggita ai radar, è che l’Italia spenderà comunque miliardi per una linea ferroviaria virtualmente superveloce ma destinata a trasportare pochissime merci necessariamente lente. Una ferrovia-doppione, completamente inutile benché rischiosa e devastante per l’ambiente, che ci si ostina ad approntare lungo una direttrice commerciale desolatamente abbandonata, lontanissimo dalle rotte mercantili. Un favoloso binario morto, buono solo per il business dei costruttori (pochissimi posti di lavoro, temporanei), e imposto a una popolazione che ha inutilmente dimostrato, in ogni sede, la sciagurata natura di un ecomostro che indurrà migliaia di italiani a prendere in considerazione l’idea di scappare, lasciando le proprie case.La non-politica del Belpaese, europeista o sovranista non importa, ha evitato accuratamente di affrontare ogni altro tema vitale per le famiglie, dall’obbligo vaccinale imposto (stile Corea del Nord) senza emergenze sanitarie e senza spiegazioni, e il misteriosissimo avvento del wireless 5G, che avanza in semi-clandestinità abbattendo alberi secolari nelle piazze delle città. Logico che i media, a reti unificate, ignorino il convegno organizzato in Parlamento dai sindaci e dai comitati di cittadini giustamente allarmati per l’introduzione, senza precauzioni, di una tecnologia invasiva di cui non si conosce ancora l’impatto sull’organismo. Quanto ai vaccini polivalenti, che secondo la Regione Puglia hanno causato problemi di salute a 4 bambini su 10, sul tema cala semplicemente il sipario, anche se – per la prima volta nella storia – qualcosa come 130.000 bimbi, nel 2019, non hanno potuto accedere né ai nidi né alle scuole dell’infanzia. In compenso, i riflettori abbagliano l’epica sfida per le regionali in Emilia Romagna, dove la Lega potrebbe strappare al Pd la storica roccaforte, un tempo “rossa”. Accipicchia, questa sì che è una notizia: non come l’insignificante sorte della Fiat, che gli Agnelli-Elkann hanno ceduto ai francesi, nel silenzio generale dei media e dei politici italiani di ogni parrocchia.(Giorgio Cattaneo, Libreidee, 23 novembre 2019).Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.
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Sapelli: salvare l’Ilva, è il nostro ultimo gioiello strategico
Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentino alla nostra piccola e media impresa di resistere.Trovare una soluzione è molto difficile, anche perché il problema dell’ex Ilva risale nel tempo. Abbiamo visto avvicendarsi sentenze e provvedimenti con una lettura della responsabilità giuridica delle imprese che, se nel diritto anglosassone comporta sanzioni, nel caso di Taranto (con l’interpretazione che si è data del decreto legislativo 231 del 2001) ha comportato l’esproprio senza alcun processo degli stabilimenti che erano stati acquisiti dalla famiglia Riva e i sequestri di parte della produzione al posto delle multe. Tutto questo ha poi portato a quel provvedimento, certamente inconsueto in uno Stato di diritto, noto come “scudo penale” per Arcelor Mittal, in cambio delle bonifiche ambientali e dei necessari cambiamenti alla produzione. Il tira e molla su questo provvedimento, che ha avuto come protagonisti i 5 Stelle, ora ha indotto il gruppo franco-indiano a prendere la decisione a tutti ormai nota. Non credo che Arcelor Mittal a quel punto abbia poi voglia rimettersi in campo, perché le sono state fatte delle promesse che non sono state mantenute.Bisognerebbe trovare degli altri azionisti privati che subentrassero. Ho in mente per esempio Arvedi, che svolge le stesse produzioni utilizzando delle tecnologie che riducono altamente la possibilità di inquinamento. La nazionalizzazione? Non credo che sia una strada percorribile, per via delle regole europee. Cassa Depositi e Prestiti potrebbe anche entrare nel capitale, ma la cosa importante è trovare altri azionisti e dei manager capaci. Ma ci vorrebbe anche un governo che avesse dei ministri autorevoli, soprattutto allo sviluppo economico. A una cordata sembra stia pensando Renzi, dopo che Italia Viva ha votato insieme agli altri partiti di maggioranza per togliere lo “scudo penale” ad Arcelor Mittal. Quella di Renzi è la posizione che può esprimere una persona che è a capo di un conglomerato industriale, non che viene eletta dal popolo per fare gli interessi della nazione e occuparsi di problemi generali. È molto grave che un singolo parlamentare si faccia promotore addirittura di accordi industriali.Vuol dire che i neo-partiti personali sono agglomerati di imprenditori che di volta in volta contattano degli uomini politici, li mandano avanti per fare in modo che si preveda l’applicazione di determinate leggi e misure e attorno a questo raggiungono un consenso che abbia un peso elettorale. Intanto il Pd viene accusato di essersi appiattito sulle posizioni del Movimento 5 Stelle. Il Pd è da tempo che si allinea alle posizioni che io chiamo “esoteriche” dei 5 Stelle. Un tempo, quanti in Italia erano legati ai gruppi maoisti sostenevano che l’acciaio si potesse fare coi secchi, come secondo loro faceva Mao in Cina. Sappiamo però bene che occorre un altoforno, per questo. Adesso ci sono quanti sostengono che produrre acciaio non ha dei rischi ambientali. Li ha, ma abbiamo tutte le tecnologie idonee per evitarli. A Taranto non si è fatto molto, su questo punto, anche da parte degli enti pubblici. La Regione Puglia ha responsabilità enormi, da Vendola in poi, perché aveva tutti i mezzi legali per imporre almeno una copertura dei rifiuti metallici e impedire che il vento li portasse via.Poche settimane fa Whirlpool ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento di Napoli, ora Arcelor Mittal fa un passo indietro da Taranto. Non è un caso, perché questo governo dà segni di grande debolezza, di grande fragilità, soprattutto di indeterminatezza nelle politiche industriali. Anche perché il Pd si è appiattito sulle posizioni dei 5 Stelle. Quindi gli investitori stranieri non si sentono più sicuri e naturalmente pensano già alle vie di fuga dall’Italia. Non escludo che ci siano gruppi esteri pronti all’assalto perché quello di Taranto, una volta risanato, è uno stabilimento di altissima professionalità e rappresenta il 70% del mercato italiano dell’acciaio (che vuol dire le industrie, soprattutto degli stampisti, meccaniche e metallurgiche, tra le migliori al mondo). Nel frattempo, in base ai contratti stipulati, anche senza produrre a Taranto Arcelor Mittal potrà rifornire i clienti dell’ex Ilva con l’acciaio realizzato all’estero. Questa è la cosa che mi preoccupa di più, perché vuole dire che si arriva a eradicare una parte della nostra industria.Penso che con questa vicenda dell’ex Ilva cominciamo ad arrivare al finale della “campagna d’Italia”, cioè alla spoliazione dell’industria italiana. Questa è una vicenda che comincia da Romano Prodi. Un modo per obbligare l’industria italiana, se vuole l’acciaio, a rifornirsi da qualcun altro. Chi se ne avvantaggia? Un po’ tutti i gruppi. Arcelor Mittal è un gruppo franco-indiano. I tedeschi, dopo la drammatica vicenda Thyssen, hanno avuto l’intelligenza di rifarsi. Quindi, come ripeto da tempo, i contendenti della campagna d’Italia sono la Francia e la Germania. Si può rimettere in piedi l’ex Ilva? Ci sarebbe il modo. Abbiamo azionisti privati, penso ad Arvedi; abbiamo anche le capacità manageriali. Ci vuole un sostegno pubblico, che però deve essere forte, autorevole e continuo nel lungo periodo. Cosa che non mi pare possibile oggi. Se c’è un ministro responsabile, mi appello a Gualtieri che mi sembra l’unico con queste caratteristiche nel governo: si dia da fare e si cerchi di separare la polemica pro o contro esecutivo dalla vicenda Ilva. La questione di fondo è salvare l’ex Ilva, qualunque governo ci sia.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Torrisi per l’intervista “Caos Ilva, azionista privato e sostegno dello Stato, ecco come fare”, pubblicata dal “Sussidiario” il 6 novembre 2019).Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentono alla nostra piccola e media impresa di resistere.
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Sapelli: Macron vuole “mangiarsi” l’Italia, grazie a Renzi
Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfittebbero subito Cina e Stati Uniti».Secondo Sapelli, «i cinesi ci sguazzeranno, in questa carenza di potere». E così potranno perfezionare i loro rapporti con la Nuova Via della Seta, «su cui nessuno intende fare marcia indietro, a cominciare proprio dall’Italia». E Washington? «Gli Stati Uniti non esistono più: esistono due o tre Americhe, impegnate in una lotta spietata l’una contro le altre». Gli Usa, aggiunge il professore, non riescono più a esercitare la loro influenza stabilizzatrice. Gli Stati Uniti, dice, «sono grandi per potersi occupare del mondo, ma non grandi abbastanza per potersene occupare da soli». E quindi, «appena la potenza americana si è dimostrata non più grande come un tempo, si sono subito visti i riflessi sulle divisioni europee», che una volta «si risolvevano nell’ambasciata americana», e oggi non più. «Il problema dell’Europa non sono gli europei, ma gli Stati Uniti, che non riescono più a unire il gregge. Quindi, divisioni ed egoismi nazionali all’interno della Ue aumenteranno sempre di più». E oggi il problema numero uno, in Europa, si chiama Macron.Il presidente francese «è alle prese con grossi problemi interni», e ha davanti a sé «una campagna elettorale difficilissima con il suo pseudo-partito diviso, lacerato, a pezzi». Per Sapelli, il suo disegno troverà una via d’uscita gollista. Ovvero: «Fare il duro in Europa, non cooperare. E immaginiamoci un po’ cosa si appresta a fare la Francia in Italia». Allarme rosso: «Ora che sta per arrivare la stagione delle nomine ai vertici degli enti pubblici, la preoccupazione principale di Macron, muovendo quella macchina potente e perfetta che è la diplomazia francese, sarà di affermare la potenza della Francia nell’economia italiana». E non troverà ostacoli? «Renzi è sceso in campo per questo, per aiutare i francesi in questa posizione», sostiene Sapelli. «Situazioni che abbiamo già storicamente vissuto con il Risorgimento, con la Prima Guerra Mondiale: è una vecchia tiritera dei rapporti italo-francesi». Il professore allude anche al Trattato del Quirinale, impostato proprio sotto il governo Renzi: di quel trattato «non si sa nulla», e finora «è stato affidato a parti private: il Parlamento non ne ha mai avuto contezza».E dunque – domanda Biscella – che effetti avrà sulla politica italiana questa “comunione d’intenti” tra Macron e Renzi? «Macron si sente un re taumaturgo, invece Renzi è come un contadino che vuole farsi toccare dal re», risponde Sapelli. «Renzi è un elemento di disturbo che lavora per suoi fini, mira a disgregare i partiti. Che è la stessa operazione condotta da Macron per arrivare al potere: lui ha disgregato gollisti e socialisti, Renzi, se lo imita, vuole disgregare il Pd, e prima voleva rottamare tutti. Ma non essendo un re taumaturgo, ha poi dovuto fare un passo indietro». Secondo Sapelli, fino alla stagione delle nomine il governo non dovrà cadere. Poi, potrà succedere. Del resto, aggiunge, la creazione di “Italia Viva” è servita proprio a questo scopo. E il governo Conte-bis è a termine. «Renzi sa benissimo quanto è difficile che questo governo duri», sottolinea Sapelli.E la Germania? L’opposizione a 360° di Macron mette a rischio anche il Trattato di Aquisgrana firmato con la Merkel? «Assolutamente no», dice ancora Sapelli: «I legami fortissimi, culturali ed economici, tra Francia e Germania resistono. I due litigano continuamente, ma Berlino e Parigi sono una coppia, invece l’Italia non è fidanzata con nessuno. E’ una signora abbandonata a se stessa». Ma Conte non era il cocco dell’establishment euro-atlantico? «Parlare di un Conte accreditato presso l’establishment mondiale per aver partecipato a un G7 mi sembra un po’ esagerato», dice Sapelli, che non esclude una completa “riabilitazione” di Matteo Salvini. «Il destino di Salvini è nelle mani di Salvini, tutto dipende da cosa farà: se la Lega diventa quello che deve diventare, cioè una nuova Dc, una forza moderata, tutto potrebbe cambiare». Spiega Sapelli: «Le regioni più produttive dell’Italia, in larghissima parte rappresentate dalla Lega, hanno bisogno di un partito che sia ragionevole e riformista».Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfitterebbero subito Cina e Stati Uniti».
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Minzolini: via Conte, Renzi punta su Draghi a Palazzo Chigi
Secondo Augusto Minzolini la crisi del governo M5S-Pd non è poi così vicina come alcuni profetizzano. In estrema sintesi, secondo quanto riportato in un retroscena su “Il Giornale”, le minacce e i veti incrociati degli ultimi giorni – che hanno portato a pensare che già sulla manovra i giallorossi potessero capitolare – sono fuochi di paglia. La ragione? Ad oggi, le urne non convengono a nessuno: il centrodestra viene dato davanti, e soprattutto Pd e M5S in caso di crisi dovrebbero scontare l’effetto negativo che conseguirebbe dall’aver dato vita a un governo durato soltanto poche settimane. Più plausibile, al contrario, che in un breve, medio o lungo periodo che sia si arrivi a un cambio di premier. Quest’ultima ipotesi, infatti, negli ultimi giorni continua a trovare diritto di cittadinanza in diversi retroscena di stampa. Il primo a volere una simile staffetta sarebbe il solito Matteo Renzi, che ha da tempo iniziato la sua battaglia contro il premier, spalleggiato anche da Matteo Salvini.E pure Luigi Di Maio – gli ultimi giorni lo hanno dimostrato – con Conte ha un rapporto sempre più logorato, e le rassicurazioni arrivate dal vertice di lunedì sera valgono a poco. Quale premier, dunque? Una risposta, piuttosto clamorosa, la offre sempre Minzolini nel medesimo retroscena. Il piano è quello dello specialista dei giochi di palazzo, ovvero Renzi. Uno scenario che emerge quando si dà conto di quanto risposto dal leader di Italia Viva a chi gli chiedeva come fosse possibile immaginare che chi verrà nel suo partito, per esempio da Forza Italia, in questa legislatura possa votare la fiducia a un premier come Conte. «Nessun problema», risponde Renzi, «non pretendo certo che chi viene voti la fiducia a Conte. Semmai potrebbero votare i nostri emendamenti, se li convincessero, se li considerassero figli di una cultura liberale. A me non interessa l’oggi, ma il domani».Già, il domani. Parole un poco profetiche, per certo gravide di conseguenze. Il significato, secondo Minzolini, è chiaro: non c’è alcun bisogno di dare la fiducia al premier di oggi, ossia al presunto avvocato del popolo Giuseppe Conte. Gliela si potrà dare se cambiasse atteggiamento, «se diventasse adulto», per dirla con le parole del Minzo. Ad oggi, Renzi, promette fiducia al premier del futuro, il cui nome viene snocciolato in chiusura: Mario Draghi. Nome fatto tra le righe: promettere la fiducia «in un possibile domani a uno che somigli a un Draghi». Ma poiché tra poco – il 24 ottobre – Draghi lascerà la presidenza della Bce…(“Mario Draghi premier al posto di Giuseppe Conte? Il piano di Matteo Renzi, secondo Augusto Minzolini”, da “Libero” del 22 ottobre 2019).Secondo Augusto Minzolini la crisi del governo M5S-Pd non è poi così vicina come alcuni profetizzano. In estrema sintesi, secondo quanto riportato in un retroscena su “Il Giornale”, le minacce e i veti incrociati degli ultimi giorni – che hanno portato a pensare che già sulla manovra i giallorossi potessero capitolare – sono fuochi di paglia. La ragione? Ad oggi, le urne non convengono a nessuno: il centrodestra viene dato davanti, e soprattutto Pd e M5S in caso di crisi dovrebbero scontare l’effetto negativo che conseguirebbe dall’aver dato vita a un governo durato soltanto poche settimane. Più plausibile, al contrario, che in un breve, medio o lungo periodo che sia si arrivi a un cambio di premier. Quest’ultima ipotesi, infatti, negli ultimi giorni continua a trovare diritto di cittadinanza in diversi retroscena di stampa. Il primo a volere una simile staffetta sarebbe il solito Matteo Renzi, che ha da tempo iniziato la sua battaglia contro il premier, spalleggiato anche da Matteo Salvini.
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Conte-bis: manovra da incubo ma semiseria, salvo intese
«Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».«La manovra è espansiva, dobbiamo ritenerci soddisfatti», ha detto Conte, «quel buontempone», rivendicando lo scampato pericolo sull’aumento dell’Iva. Ma non c’è da fidarsi, prosegue Luciano, proprio per quel “salvo intese”. Torna in mente nientemeno che Mario Monti, che il 23 marzo 2012 aveva emesso un comunicato che iniziava così: «Il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi, salvo intese, il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro». Cioè, ieri come oggi – scrive Luciano – il governo si riservava di modificare il disegno di legge prima di sottoporlo al Parlamento: dunque «un atto politico del governo contro se stesso». Un modo, da parte del premier e dei ministri per dire: “Noi non bastiamo a noi stessi”, decidendo di non decidere. Dunque siamo solo ai “probabili contenuti”, da prendersi con beneficio d’inventario. «Il giudizio che sorge spontaneo su questa procedura non richiede circonlocuzioni: è uno schifo. Ma così è», scrive Luciano. E i contenuti (amcora ipotetici) della manovra? Scongiurato il rincaro dell’Iva (23 miliardi per il 2020), resiste “Quota 100”, a dispetto di Renzi che voleva abolirla. «Per le famiglie si destina poco e nulla, 600 milioni, che il ministro dell’economia Gualtieri ha sintetizzato come “una serie di misure a partire dalla gratuità degli asili nido per gran parte della popolazione e un piano per la costruzione di nuovi asili nido”. Si cancellerà il superticket e dovrebbe aumentare il sostegno alla disabilità».La riduzione del cuneo fiscale ci sarà sin dall’anno prossimo ma di soli 3 miliardi, forse destinati a salire a 5 nel 2021 (sempre “salvo intese”, anzi “intese sulle intese”), a premiare i redditi fino a 35.000 euro: soldi che verrano dati ai lavoratori, ma non alle imprese, scontetando Confindustria. «Il tetto al contante scenderà dai 3.000 euro attuali a 2.000 l’anno venturo e a 1.000 nel 2022, e anche su questo Renzi medita sfracelli», continua Sergio Luciano. «La lotta al contante si direbbe l’unica mossa di qualche rilievo nel pomposo ma vacuo capitolo della lotta all’evasione, che pure contiene numerose regolette seminuove, come il contrasto alle elusioni delle cooperative e l’inasprimento delle pene per i grandi evasori (fino a otto anni per falsa dichiarazione)». Venendo alle misure per l’industria, «lo strombazzato “green new deal” di Conte si limiterà ad un non meglio precisato fondo per la promozione degli investimenti sostenibili». Si prosegue con gli incentivi del programma “Industria 4.0” per sostenere gli investimenti privati e favorire il rinnovo dei sistemi produttivi. Confermate le detrazioni per la riqualificazione energetica e le ristrutturazioni, per l’acquisto dei mobili e degli elettrodomestici “verdi”, e arriva un bonus per i condomini che restaurano la facciata. «E le coperture? I 7 miliardi attesi dall’evasione dimagriscono a 3. E forse, non a caso – chiosa Luciano – il carcere agli evasori resta tra le misure non precisate».«Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».
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Di Maio ci offre un caffè: tanto vale il taglio delle Camere
Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.«Cosa bolle in pentola nello Stivale?», si domanda Giannini. «Questioni di una pericolosità senza precedenti, ma il governo – afferma – reagisce cercando di distrarre l’opinione pubblica con un provvedimento forse condivisibile ma economicamente ridicolo». Secondo Giannini, si tratta di una strategia «comprensibile dal punto di vista mediatico, ma che fallirà». C’è ben altro, sulla bilancia: «I dazi Usa contro il nostro paese sono un monito terrificante: gli americani ci lasciano al nostro destino, cioè soli di fronte alle arroganti violenze economico-finanziarie e geopolitiche francesi e tedesche». Visione impietosa: «Più che una penisola siamo una barchetta, o meglio un barcone in attesa di un… ciclone». E non è per niente casuale, secondo Giannini, che tutto ciò «coincida con l’emergere di questioni oscure riguardanti servizi segreti e spionaggio internazionale (vedasi il premier Conte), perché queste questioni le hanno volute rendere pubbliche proprio gli Usa». Esplicito e brutale, per Giannini, il messaggio dello Zio Sam: cari italiani, non siete più il nostro partner privilegiato in Ue.«Se si esclude il periodo della Seconda Guerra Mondiale – aggiunge Giannini – ho la vaga (e fondata) sensazione che i rapporti del governo italiano con gli americani non siano di buon sangue». Nel frattempo, purtroppo, «si riacutizza il problema delle tragedie nel Mediterraneo, causate dalla ingannevole attrattiva dei porti di nuovo aperti». Ingannevole, certo, «perché attraversare il mare in mano a degli scafisti per giungere in un paese privo di lavoro è una trappola», piaccia o no al pelosissimo buonismo nazionale, caro ai sacerdoti del politically correct. Comunque la si veda, siamo in un oceano di guai. «E proprio in questo contesto si inserisce il dimezzamento dei parlamentari». Ebbene: «Quanto fa risparmiare a ogni italiano? Il costo di un caffè all’anno». Solo fuffa, dunque, e senza neppure un disegno istituzionale alle spalle: si teme infatti che la nuova legge elettorale (ridisegno dei collegi, per adeguarli alla riduzione della rappresentanza) verrebbe improvvisata in extremis, in base alla convenienza del momento dettata dai sondaggi. Per ora i partiti hanno votato compatti, sfilando a Di Maio il monopolio dell’eroica riforma, che poi non è ancora detto che diventi davvero legge. Intanto, Giannini osserva: «Stiamo ballando sul Titanic, e i pentastellati stanno elargendo “generosamente” dilettantismo: un dilettantismo che non ha i tratti del solo Luigi Di Maio».Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.
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E’ già cominciata la rottamazione del governo Renzi-Grillo
Italia Viva, ovvero: la carica dei Morti Viventi. A sfottere Renzi ci si mette anche Leonardo Pieraccioni. Su Twitter, l’attore e regista toscano posta un fotomontaggio mostra i transfughi del Pd, capitanati da Matteo Renzi tra Maria Elena Boschi e Ivan Scalfarotto, in versione “walking dead”. Più seria la “minaccia” di Piero Fassino, stavolta nei confronti di Salvini: mister “abbiamo una banca”, stavolta, pronostica il trionfo imminente del leader della Lega. «Proponendosi come l’alternativa a Salvini, Renzi finirà per offrirgli una rendita di posizione che il leader della Lega sfrutterà per uscire dal proprio isolamento», dice l’ex sindaco di Torino ed ex segretario Pd, in un’intervista alla “Stampa”. Con Fassino non si scherza: le sue leggendarie profezie si avverano regolarmente, ma al contrario (memorabile la porta sbattutta in faccia a Grillo, che tentò di candidarsi alle primarie del Pd: «Se vuol fare politica, si faccia un partito suo»). Scherzi a parte, Fassino attacca duramente Renzi: «Non ha mai fatto i conti con le sconfitte, e oggi fonda un partito per riproporre le scelte dei suoi governi, senza tener conto che quando passi dal 40 al 18% non puoi dire che è colpa del fuoco amico».
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Magaldi: Vox Fusaro e Renzi-2, niente di nuovo per l’Italia
Tanti anni fa, il sociologo inglese Anthony Giddens vaticinava le “magnifiche sorti e progressive” della Terza Via, a metà strada tra socialismo e capitalismo. Traduzione pratica: negli ultimi decenni, la sinistra s’è messa a completo servizio della destra economica neoliberale. Capoclasse Tony Blair, seguito da Bill Clinton e Massimo D’Alema. Ultimi della fila, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che è una specie di Renzi-bonsai «regolarmente “bruciato” e battuto sul tempo dal Renzi originale», osserva Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt. «Peraltro, al clamore del mainstream per l’annuciato divorzio di Renzi dal Pd non corrispondono certo numeri entusiasmanti: le previsioni oscillano fra il 3 il 5% al massimo». In altre parole: un modo come un altro per non andare da nessuna parte, «non avendo niente di nuovo da offrire agli italiani, per giunta dopo averli malgovernati». Nessuna novità, secondo Magaldi, neppure dall’altra notizia che – in piccolo, su “ByoBlu” – si è affacciata nell’agenda politica: la nascita di Vox Italia, esperimento firmato da Diego Fusaro. «Peccato – dice Magaldi – che un intellettuale così colto non proponga altro che un “rossobrunismo nazionalsocialista”: a che serve bocciare l’imperante neoliberismo, se poi si prospetta un ritorno al tradizionalismo nazionalista e illiberale?».
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L’Ultima Fregatura, nuovo film di Renzi nella caverna-Italia
Sarà contento, il travaglismo nazionale, di aver tolto a Salvini le chiavi del governo per riconsegnarle a Renzi. Era il IV secolo avanti Cristo quando Platone inventò il cinema, con il Mito della Caverna: quella disegnata sulla parete non è la realtà, sono solo le ombre proiettate dal fuoco. Il mondo vero, tridimensionale, è là fuori: ad andare in scena nella grotta è un semplice spettacolo. Si può cadere in errore, certo. Dipende anche dal talento del proiezionista. Il Mago di Rignano, ad esempio, ne ha da vendere: superò il 40% dei suffragi dopo aver elargito la mancia degli 80 euro, brillando nell’arte cabarettistica in cui si sarebbe cimentato Di Maio. Poco dopo, nell’estate 2016, dal cinema si passò al teatro: uno spettacolare vertice con la Merkel e Hollande, sul ponte della portaerei Garibaldi al largo di Ventonene, per celebrare la farsa dell’unità europea evocando abusivamente il fantasma di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo del Novecento. Un pretesto altamente scenografico, con una missione illusionistica: spacciare per Europa Unita l’aborto dell’attuale Disunione Europea, di cui l’Italia – da Renzi a Conte – si candida a restare servitrice sottomessa e depredabile.