Archivio del Tag ‘istituzioni’
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Paese a pezzi, mai unito: e se rinunciassimo all’Italia?
Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.Innamorato della dimensione anche tecnica e ingegneristica dei dispositivi costituzionali, Miglio ancora 15 anni fa pensava che non fosse da escludere l’ipotesi di una classe politica italiana disposta a suicidarsi nella sua dimensione nazionale per riscoprire una propria vocazione locale. Questa illusione ora non è più ammissibile e non vi sarà mai una riforma delle istituzioni, a Roma, che ponga fine a quel potere romano che vede politici settentrionali e meridionali cooperare con tanta passione. In secondo luogo, non è realistico prevedere un’Italia che tenga vivi tenui legami confederali, così come non era realistico immaginare che la Lituania o la Georgia potessero stare in una confederazione che avesse al centro la Russia. Se l’Italia perderà la configurazione prefettizia acquisita nel diciannovesimo secolo, al suo posto vi saranno piccole realtà tra loro assai slegate: non mancheranno certo accordi e alleanze (per giunta entro un condiviso quadro europeo), ma difficilmente vi sarà una struttura comune intesa in senso classico.Certo è impossibile sapere se l’Italia saprà ammettere il fallimento della sua unificazione o invece continuerà a illudersi che sia riformabile anche l’irriformabile. Ma se un giorno l’unità verrà messa in discussione, come giustamente Miglio invitava a fare, quella che ne conseguirà sarà una soluzione di tipo catalano. Qualche segnale va emergendo. A Trieste, ad esempio, c’è un movimento assai attivo che usa argomenti di diritto internazionale (legati all’amministrazione Onu delle zona A e B, create all’indomani del 1945) per rivendicare il diritto ad amministrarsi da sé: dando vita a un Lussemburgo di taglio adriatico e mitteleuropeo. Nel Tirolo meridionale, inoltre, va riemergendo la voglia di ricollegarsi a Innsbruck ed essere sempre più europei e sempre meno italiani. E spinte centrifughe sono visibili anche in Sardegna, in Lombardia e in altre parti del paese. Ma la potenziale Catalogna d’Italia è il Veneto.Miglio immaginava una soluzione confederata basata essenzialmente su tre grandi aree: Nord, Centro e Sud. Le premesse di un anti-Risorgimento vincente, invece, giungono da realtà più piccole e – ciò che è molto importante – dotate di una propria struttura istituzionale. Il Nord di Miglio, come la Padania vagheggiata dai leghisti, non ha confini e non ha un Parlamento. Non così è il Veneto, che dispone di un presidente, di un palazzo del governo e di una sua assemblea rappresentativa. E che nei mesi scorsi ha approvato una legge regionale che istituisce un referendum consultivo sull’indipendenza, che l’attuale esecutivo si è subito preoccupato di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale. Matteo Renzi vuole giocare alla Mariano Rajoy (niente “diritto di voto” per i catalani), e non alla David Cameron. Il referendum scozzese ha però rappresentato uno spartiacque nella storia europea: ha detto che l’unità nazionale di uno Stato dipende dalla volontà, e solo dalla volontà, delle comunità che ne fanno parte.In qualche modo, anche “retoricamente”, Miglio riteneva che l’Italia potesse ancora essere salvata soltanto disfacendola. Oggi le linee di tendenza ci dicono che l’alternativa è tra un’Italia che salva se stessa e condanna gli italiani, oppure un’Italia che si dissolve per dare alle diverse comunità italiane una qualche chance di farcela. E a questo punto c’è da domandarsi in che modo, nei mesi a venire, il potere romano saprà resistere dinanzi a chi chiede di mettere una scheda entro un’urna. La crisi spagnola in corso, che vede Madrid interpretare logiche neo-franchiste, attesta quanto sia difficile per gli Stati democratici opporsi ai movimenti indipendentisti che chiedono di andare alle urne e far decidere tutto con il voto. Le nostre istituzioni pubbliche sono macchine poderose che sottraggono diritti e risorse (ormai il 50% di quanto viene prodotto) legittimandosi con le procedure elettorali.Renzi può disporre di tanta parte dell’economia e della società italiane perché si sente legittimato dal voto. Ma se il voto è così nobile e potente, come può lo stesso Renzi negarne l’esercizio a quei veneti che vogliono interpellare la popolazione in merito alla scelta tra status quo e una Serenissima 2.0? Esattamente come quando Miglio scrisse quelle pagine, non è affatto da escludere l’ipotesi che nulla cambi e che il nostro resti il paese del gattopardismo. Ma l’Europa sta mutando: in Scozia già hanno votato e il 9 novembre catalano (la data fissata per un referendum che la Spagna considera illegale) è ormai alle porte. L’ipotesi che il Veneto sia l’anello che non tiene è assai seria. Ben poco c’è da aspettarsi dalla Corte Costituzionale e dal nostro ceto politico, ma vi sono processi che prendono luogo indipendentemente da queste cose. E talvolta prima di sprofondare nel nulla una società cerca di ripensarsi su basi nuove.(Carlo Lottieri, “E se rinunciassimo all’Italia? La profezia di Gianfranco Miglio”, da “Il Sussidiario” del 20 ottobre 2014).Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.
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Renzi: basta democrazia, frena la crescita. E noi, zitti?
«Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».Cosa vogliamo dire? Che questo sistema – aggravato qui in Italia da storiche “anomalie” – è assolutamente indifendibile e chiunque si ostini a “conservarne” pezzi passa facilissimamente dalla parte del torto. La situazione sta diventando invivibile, al di là di ogni possibile sopportazione, persino per quella parte di popolazione – il cosiddetto “ceto medio” che vive di stipendio e in una casa di proprietà – che di solito veniva portato ad esempio di benessere e virtù civiche, da imitare e porsi come obiettivo di autorealizzazione. È lo stesso che ora viene invece indicato come “egoista”, anacronistico, conservatore (per l’appunto), in quanto cerca – molto debolmente – di non perdere tutto e tutto insieme. Bisogna dire che i reazionari sanno fare benissimo il loro mestiere. Non altrettanto si può dire dei comunisti, e non solo in questo paese. La “difesa dei diritti” – sacrosanta – è il minimo sindacale, ma parla ormai a un blocco sociale in via di estinzione se non si costruisce una prospettiva di cambiamento generale, capace di accogliere i bisogni e gli interessi di strati sociali già da venti anni messi fuori dal ciclo “virtuoso” lavoro-contrattazione-salario-diritti.La prospettiva “moderata” fin qui egemone anche nella sinistra cosiddetta radicale (altrimenti detta “contrattazione a perdere”, o “menopeggismo”) è arrivata a fine corsa. Può solo esibirsi in contorsioni ripetitive, neppure più gratificate da un risultato elettorale positivo. Quando Renzi dice di voler fare il Jobs Act per «occuparsi di chi non si è mai occupato nessuno», dei precari e dei co.co.co., punta esplicitamente a fare delle vittime principali dei governi degli ultimi venti anni la massa di manovra per un golpe, schiera muta cui viene chiesto soltanto consenso al “cambiamento”. Che lui stesso definisce “violento”. Ma con una “procedura pacifica”. Che vuol dire “cambiamento violento con procedimento pacifico”? È un ossimoro, una contraddizione in termini. E quando c’è una contraddizione in termini siamo sicuramente di fronte a una menzogna gigantesca. Ricordate la “guerra umanitaria”, le “truppe di pace”, ecc? Diciamola così: la violenza nell’azione di governo è certa. Punta a distruggere ceti sociali, istituzioni, meccanismi di selezione della rappresentanza, culture, valori fondamentali. È insieme economica, politica e anche ideologica. Resterà pacifica nelle forme solo se non incontrerà resistenza.Sarà una violenza dall’alto, feroce nei fatti e “promettente” nella retorica. Come la cinematografia dei “telefoni bianchi” sotto il fascismo mentre si preparava il macello della Seconda Guerra Mondiale, si riempivano le galere di antifascisti o li si faceva assassinare persino all’estero. Ci stanno dicendo chiaro e forte “basta con la democrazia, ostacola la crescita”. E non saranno molti quelli che si batteranno per la prima, come stiamo vedendo. Qui tocca a noi. Sia chiaro: “noi” come classe, sindacalismo conflittuale, soggettività politiche. Vanno cancellati i ragionamenti soltanto tattici, di breve momento, finalizzati all’autoconservazione dei piccoli gruppi, alla disperata ricerca di qualche via di ritorno a una “normalità” che non solo è fattualmente impossibile, ma ti iscrive di fatto nelle fila dei “conservatori”, inutili a sé e agli altri. Bisogna resistere qui e ora, certamente, ma pensare sui tempi storici, individuare e nominare la prospettiva. Il sistema non tiene più, i reazionari alla Renzi stanno indicando una direzione di “cambiamento” presentandola come l’unica possibile. Siamo capaci di indicarne una opposta?(Dante Barontini, “La violenza di regime”, da “Contropiano” del 24 settembre 2014).«Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».
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Gallino: dittatura Ue, cosa aspettiamo a denunciarla?
«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».Il culmine del sequestro della sovranità economica e politica dei nostri paesi da parte della Ue, scrive Gallino su “Repubblica”, è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del Fiscal Compact, che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, “preferibilmente in via costituzionale”. «I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno – la modifica dell’articolo 81 della Costituzione». Sequestri di sovranità e potere: «Non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria». Per Gallino, i tecnocrati dell’Ue, del Fmi e della Bce sembrano «dilettanti allo sbaraglio», visto che i loro diktat hanno fatto esplodere il debito pubblico nell’Eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011. In realtà non è il super-potere “sbagli”. La realtà è ancora peggiore: il super-potere centrale mente, sapendo di mentire. Perché il suo piano è oligarchico: colpire lo Stato fino a smantellarlo, per lasciare senza più difese lavoratori, aziende e cittadini.La Troika, infatti, imputa la crisi economica al «peso eccessivo della spesa sociale» nonché al «costo eccessivo del lavoro». La loro unica ricetta? Tagliare. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insiste sulla necessità di tosare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato, «dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza». Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato, circa 90 miliardi l’anno, «non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri paesi sono a carico della fiscalità generale», precisa Gallino. Il problema è che «dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce». Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia dell’Ue, esigeva riforme dello Stato sociale, sono state eseguite. La “riforma” del lavoro, il Jobs Act di Renzi, «potrebbe essere stata scritta a Bruxelles». Morale: «Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata».Combattere la crisi, aggiunge Gallino, non è nemmeno il loro obiettivo: «Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo». Il vero nemico delle istituzioni Ue? «E’ lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge: è questo che esse sono volte a distruggere». L’Unione Europea sembra ormai diventata «una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti». Si parla di “fine della democrazia” nella Ue, di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico. «Il termine potrà apparire troppo forte», ma basta dare un’occhiata ai fatti: «I poteri degli Stati membri, di cui le istituzioni europee si sono appropriati, sono superiori a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati».Di fatto, continua Gallino, «le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri». Tutti, beninteso, sono «immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale», che dettano loro le nuove regole a cui i cittadini dovranno sottoporsi. «Non esiste alcun organo elettivo – nemmeno il Parlamento Europeo – che possa interferire con quanto tale gruppo decide». Sicché, «pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione – come vari giuristi hanno messo in luce – viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi».Al limite, «la dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici: italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri». Una tragedia politica, prima ancora che economica: la denuncia del “golpe”, forte e chiara, non è mai stata pronunciata da nessun soggetto politico con visibilità istituzionale, ma solo da analisti indipendenti, Paolo Barbard fra i primi. Si domanda Gallino: «Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce – meglio se sono tante – per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?».«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».
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Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia
«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».«Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
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La premiata macelleria Fmi propone di tagliare le pensioni
«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.Il sistema-Italia è entrato in agonia dopo Maastricht, con l’adesione all’euro e la conseguente introduzione dell’austerity europea di marca tedesca, che predica il taglio drastico dello Stato. Nonostante ciò, la Troika – di cui il Fmi è una colonna – propone esattamente la stessa “cura” che sta uccidendo il paziente, ovvero il taglio ulteriore della spesa pubblica, quello che “ammazza” i consumi e quindi l’occupazione, il Pil, il gettito fiscale, la capacità di sostenere l’economia nazionale. Con grande enfasi, i tecnocrati del Fmi fingono addirittura di stupirsi per le dimensioni del disastro, da essi essi progettato e generato con la contrazione progressiva dell’investimento pubblico: si parla apertamente di «rischi che restano ancorati al ribasso» e della «possibilità di stagnazione e bassa inflazione», come riporta il blog “Vox Populi”. «Nell’analisi degli esperti di Washington, la crescita è destinata a rimanere attorno all’1% fino a tutto il 2019: le stime sono infatti per un +1,3% nel 2016, un +1,2% nel 2017, un +1% nel 2018 e un +1% nel 2019. Poi, cattive notizie anche sulla disoccupazione».Quest’anno, la mancanza di lavoro salirà ai massimi dal dopoguerra, secondo le previsioni del Fondo Monetario: si arriverà al 12,6% rispetto al 12,2% del 2013. «La disoccupazione, inoltre, per il Fmi è destinata a restare a due cifre fino al 2017». In altre parole quello che abbiamo di fronte è «uno scenario pessimo, che potrebbe anche essere rivisto ulteriormente al ribasso», prima della fine di ottobre: lo ha spiegato senza peli sulla lingua Kenneth Kang, capo della missione annuale del Fmi in Italia. Di fatto non ci sono speranze, perché nessuna forza politica denuncia le cause della catastrofe. Senza un Piano-B, basato sull’unico rimedio possibile – l’interventismo diretto dello Stato, in barba al cappio dell’Ue – il bollettino clinico resterà quello di oggi, nutrito di un lessico che appare sempre più di natura psichiatrica, più che economica. Tutto sta crollando, e ancora si vaneggia di crescita del Pil, anziché dell’occupazione, in un mondo globalizzato nel quale l’Occidente fa sempre più fatica a piazzare le sue merci. L’Europa, poi, non ha più neppure il margine fisiologico di oscillazione della moneta: privatizzata anche quella, dalle stesse “istituzioni” che oggi propongono a Renzi di massacrare i pensionati italiani.«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.
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Ieri Silvio e oggi Matteo, stesso film: colpire i lavoratori
Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.Il sindacato, dopo anni di compromessi, moderazione, ritirate strategiche (cioè fatte di corsa), inchini e salamalecchi, si trova sotto il fuoco del capo del suo partito di riferimento. La tattica della limitazione del danno ha fatto sì che il danno si ingigantisse. Se non ci fossero di mezzo anche i nostri diritti verrebbe da dire “ben vi sta!”. Fioriscono le analogie tra Renzi e Berlusconi, di cui avevamo discusso poco tempo fa. La loro missione era ed è giungere alla totale sottomissione del lavoro italiano alle ragioni della crescita e del capitale. Nel 2011, con il pieno accordo delle istituzioni europee, Berlusconi tentò un attacco in grande stile nei confronti del lavoro italiano (vedi “Lettera della Bce”). Fallì, e fu sostituito (non che lui non fosse d’accordo). Al suo posto venne Monti, e riuscì a sferrare colpi durissimi a quanto rimaneva del “welfare state” di questo paese. Fu una specie di Trojka fatta in casa.Se Renzi fallirà, se le residue forze del lavoro riusciranno a opporsi all’azione distruttrice del suo governo, è bene tenere presente il fiorentino “farà la fine” del suo predecessore: verrà semplicemente sostituito. Chi ha ancora intenzione di lottare dovrà dunque tenere fermo questo punto: quello cui assistiamo è solo il primo assalto. Alle spalle del ceto politico e del capitale italiano si staglia l’ombra del ceto politico e del capitale europeo. Esattamente come nel 2011. Naturalmente ci sono delle differenze. Il Renzi di oggi è molto più forte del Berlusconi del 2011; e il pretesto dell’emergenza-spread in questo momento non sussiste. Ma dal punto di vista dei lavoratori la situazione non è poi molto diversa: il primo assalto del 2014 sarà semplicemente più violento di quello del 2011, e sarà accompagnato da una propaganda ancora più fittizia e evanescente. Ciò che conta è non ripetere gli errori del passato, non concentrarsi troppo, non demonizzare la figura di Renzi come si è fatto con quella di Berlusconi. L’uno come l’altro rappresentano solo il primo assalto. È sulla resistenza al secondo che si decide il nostro futuro.(“Matteo Renzi farà la fine di Berlusconi?”, dal blog “Il-main-stream” del 20 settembre 2014).Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.
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Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce
Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.«Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.«Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
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Nato e Ue, due guinzagli per lo stesso padrone: gli Usa
Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».Questa vassallizzazione, continua Meyssan in un’analisi tradotta da “Megachip”, contravviene ai principi dell’Onu, in quanto gli Stati membri perdono l’indipendenza della loro politica estera e di difesa. Il diktat atlantico fu contestato prima dall’Urss e poi dal presidente francese Charles De Gaulle che, «dopo aver affrontato una quarantina di tentativi di assassinio» da parte dell’Oas, l’organizzazione estremista «finanziata dalla Nato» ed essere riuscito a farsi rieleggere, «annunciò il ritiro immediato della Francia dal comando integrato e la riconsegna di 64.000 soldati e impiegati della Nato fuori dal territorio francese». Una pagina di indipendenza che cessò con l’elezione di Jacques Chirac: pochi mesi dopo il suo arrivo all’Eliseo, il nuovo presidente «reintegrò la Francia in seno al Consiglio dei ministri e al Comitato militare dell’Alleanza». Capitolo definitivamente archiviato «con il ritorno delle forze armate francesi sotto il comando statunitense, deciso da Nicolas Sarkozy nel 2009».Infine, aggiunge Meyssan, «la vassallizzazione degli Stati membri è proseguita con la creazione di numerose istituzioni civili, di cui la principale e la più efficace è l’Unione Europea». Lo dice in modo netto, il giornalista francese: «Contrariamente a un diffuso luogo comune, l’attuale Unione non ha avuto tanto a che fare con l’ideale dell’unità europea, quanto con la vocazione di fissare i membri della Nato fuori dall’influenza sovietica, poi russa, in conformità con le clausole segrete del Piano Marshall». Si trattava quindi di mantenere l’Europa saldamente divisa in due blocchi: la Russia da una parte, tutti gli altri con l’America. «Non è un dunque un caso che gli uffici della Nato e quelli dell’esecutivo europeo siano principalmente situati a Bruxelles e secondariamente in Lussemburgo. Ed è per consentire il controllo dell’Unione da parte degli anglosassoni, che questa si è dotata di una strana Commissione, la cui attività principale è quella di presentare “proposte”, economiche o politiche, tutte predefinite dalla Nato».Si ignora spesso che l’Alleanza non è semplicemente un patto militare. La Nato infatti «interviene nel dominio dell’economia», di fatto «è il primo cliente dell’industria della difesa in Europa». Attualmente, tre quarti del bilancio euroatlantico sono assicurati dai soli Stati Uniti, i quali «stanno progettando un confronto con la Cina» sin dall’11 Settembre, che Meyssan chiama «il colpo di stato del 2001». E spiega: il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, mentre il mondo era ipnotizzato dagli attentati, «il presidente George W. Bush fu illegalmente rimosso dalle sue funzioni in virtù del programma di “continuità del governo”». Funzioni presidenziali che ritrovò «solo alla fine della giornata, dopo che il suo paese aveva cambiato radicalmente la sua politica estera e di difesa». Durante quella giornata, aggiunge Meyssan, «tutti i membri del Congresso e i loro staff furono collocati dalle autorità militari in domicilio sorvegliato, presso il complesso Greenbrier (West Virginia) e presso il Mount Weather (Virginia)». E’ da allora, dice Meyssan, che il vero obiettivo è la Cina. E, proprio in questa prospettiva, Obama ha annunciato il riposizionamento delle sue forze armate in Estremo Oriente. Problema: «Questo programma è stato perturbato dalla ripresa economica, politica e militare della Russia, che si è mostrata capace nel 2008 di difendere l’Ossetia del Sud attaccata dalla Georgia e, nel 2014 la Crimea minacciata dai golpisti di Kiev».La resurrezione della Russia di Putin ha inoltre indotto gli Usa ad abbandonare lo “scudo anti-missile” dell’Est Europa, presentato come un sistema di protezione contro i missili dell’Iran ma in realtà progettato per accerchiare la Russia e paralizzarla: i missili da fermare erano quelli che Mosca avrebbe potuto scagliare verso ovest, se attaccata. Ma perché concentrarsi sull’Europa orientale? Per colpire l’Ameirca, dice Meyssam, il percorso più breve è il Polo Nord. «Dopo aver minato per oltre un decennio le relazioni tra Washington e Mosca, il progetto viene abbandonato perché risulta tecnicamente impossibile distruggere in volo i missili russi intercontinentali di ultima generazione. Quindi è il principio stesso di “deterrenza nucleare” che viene abbandonato di fronte alla Russia, anche se rimane pertinente per gli altri Stati». Da Mosca a Pechino: «Washington ha esacerbato le tensioni tra la Cina e i suoi vicini, in particolare il Giappone. La Nato, che storicamente rende l’Europa vassalla del Nord America, si è dunque aperta a dei partner asiatici e dell’Oceania, tra cui Australia e Giappone, attraverso contratti di associazione. Nel frattempo, ha ampliato il suo campo d’azione a tutto il mondo».In questo periodo di restrizioni di bilancio, l’Alleanza, che a quanto pare non conosce crisi, sta costruendo una nuova sede a Bruxelles, per la somma sbalorditiva di un miliardo di euro: dovrebbe essere consegnata all’inizio del 2017. Nel frattempo si prevede di associare anche il Montenegro, mentre si invitano gli europei ad aumentare le spese militari. Intanto, a imporsi è sempre il Medio Oriente: «Nella preoccupazione di evitare che la Cina e la Russia controllino abbastanza materie prime da essere capaci di rivaleggiare con gli Stati Uniti», la Nato «si è aggiunta nel corso dell’estate la questione dell’Emirato islamico», il famoso Califfato. «Un’intensa campagna mediatica ha demonizzato l’organizzazione jihadista, i cui crimini non sono affatto nuovi, ma che deve solo attaccare il popolo iracheno». L’Isis è una cretatura occidentale. E, nonostante le apparenze, «la sua azione in Iraq è del tutto coerente con il piano Usa di dividere il paese in tre Stati separati», per sunniti, sciiti e curdi. «Per realizzare un progetto che costituisce un crimine contro l’umanità, perché presuppone la pulizia etnica, Washington ha fatto ricorso a un esercito privato che le spetta condannare pubblicamente intanto che però lo sostiene sottobanco». In realtà, infatti, i “tagliatori di teste” obbediscono agli ordini. Il Califfato è destinato a durare, assicura Meyssan: «Sebbene attualmente agisca soprattutto in Siria e in Iraq, è stato progettato per mettere a ferro e a fuoco a lungo termine la Russia, l’India e la Cina».La questione dell’Emirato islamico non doveva pertanto essere aggiunta all’ordine del giorno anti-russo e anti-cinese di Newport, perché ne faceva già parte. Inoltre, non volendo rischiare di vedere un qualche Stato membro esprimere i propri dubbi su questa mascherata, Washington ha spostato il dibattito a margine del vertice. Obama ha riunito altri otto altri Stati, più l’Australia (che non è membro Nato, ma solo associata) per «mettere a punto il suo piano di guerra». Così, è stato deciso di associare anche la Giordania a questo dispositivo. In appena una mattinata, il vertice del Galles ha poi sbrigato la questione della lunga presenza occidentale in Afghanistan: «Certo, la Nato ritirerà le sue truppe da combattimento, come previsto, entro la fine dell’anno, ma manterrà il controllo dell’esercito afghano e della sicurezza del paese», ipotecando inoltre le prossime elezioni presidenziali. Quanto all’Est Europa, il vertice ha accettato di estendere il controllo Nato anche sull’Ucraina, «solo per vedere quale sarà la reazione russa», ma non è andato oltre: «L’Atto costitutivo sulle relazioni Nato-Russia non è stato revocato e l’Ucraina non è stata incorporata nell’Alleanza. Ognuno ha preferito evocare un possibile cessate-il-fuoco tra Kiev e il Donbass».Molto rumore per nulla, dunque? In apparenza, sì: «A meno che le cose importanti non siano state decise a porte chiuse, in occasione della riunione dei capi di Stato di venerdì 5 settembre, non sembra che le guerre segrete siano state discusse al vertice, ma solo a margine del vertice e solo con alcuni alleati». Già nel 2011, ricorda Meyssan, la Nato aveva violato le sue regole istitutive, non riunendo il Consiglio Atlantico prima di bombardare Tripoli. «Sembrava in effetti impossibile che tutti accettassero di perpetrare un tale massacro». Per questo, «in gran segreto», Usa e Regno Unito riunirono a Napoli la Francia, l’Italia e la Turchia, «per pianificare un attacco che ha causato almeno 40.000 morti civili in una settimana». Cinicamente, il report del vertice gallese «afferma che l’Alleanza ha protetto il popolo libico», citando le risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite, in realtà utilizzate «per cambiare il regime uccidendo 160.000 libici e facendo precipitare il paese nel caos». In ultima analisi, conclude Meyssan, negli ultimi anni la Nato ha raggiunto i suoi obiettivi in Afghanistan, Iraq, Libia e nel nord-est della Siria, «cioè solo ed esclusivamente in paesi o regioni organizzate in società tribali: non sembra dunque in grado di entrare in conflitto diretto con la Russia e la Cina».Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».
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Ue, sogno massonico: la rivincita storica dei Templari
E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.Secondo Franceschetti, il Trattato di Lisbona è uno strumento perfetto di questo progetto di dominio, perché aumenta i poteri del Consiglio Europeo, organismo «che nessuno conosce», e dispone «la diminuzione dei poteri del Parlamento Europeo» insieme alla «ulteriore perdita di sovranità degli Stati centrali in alcune materie chiave». Che c’entrano massoneria e Rosacroce con tutto questo? Suggestioni storico-leggendarie? Niente affattato, sostiene Franceschetti, secondo cui tutto comincia molti secoli fa, addirittura coi Templari, di cui il Trattato di Lisbona sarebbe «la vendetta ideale», dopo la fine dell’ordine cavalleresco all’inizio del ‘300. Vendetta che il capo dei Templari, Jacques de Molay, giurò contro il Papa e l’imperatore. «Se Jacques de Molay fosse vivo sarebbe senz’altro soddisfatto: la sua vendetta si realizza ogni giorno di più e tra pochi anni sarà completa», scrive Franceschetti, ripercorrendo la storia dell’ordine cristiano creato da nel 1139 da Ugo De Payns.Strano ordine: i Templari erano abili guerrieri, chiamati a proteggere le rotte dei pellegrini in Terra Santa, ma erano anche monaci e vivevano seguendo la regola dell’estrema povertà, poi codificata da San Bernardo. In più, erano onestissimi: per questo, ricevevano in custodia il denaro dei ricchi, dei nobili e dei sovrani. Diventeranno così «i primi banchieri al mondo». I Templari, continua Franceschetti, crearono «il primo sistema bancario mondiale», tanto da essere considerati «gli inventori del bancomat». Chiunque, infatti, «poteva depositare beni presso i centri templari che si impegnavano a custodirli». Al momento della consegna del denaro, «i Templari rilasciavano un attestato che dichiarava l’avvenuto deposito». Così, chi avesse depositato valori a Parigi poteva poi recuperarli anche in Italia, in Germania o in un qualsiasi altro centro templare, «che gli avrebbe rilasciato una identica quantità di oro».Sui Templari si è scritto di tutto, ma «quel che è certo è che acquisirono delle conoscenze e una sapienza particolari per quell’epoca», grazie al contatto con l’Oriente che permise loro di sviluppare «un patrimonio di conoscenze tratte sia dalla cultura cattolica ufficiale europea che dalla cultura cabalistica orientale». Divennero potenti, i Templari: troppo potenti. Alla fine del 1200, erano il super-potere dell’Europa cristiana: rispettati dagli imperatori, rispondevano solo al Papa. A decretarne la fine fu il sovrano francese Filippo il Bello, a corto di soldi, deciso a impossessarsi del “tesoro” dei cavalieri. Il Papa, Clemente V, non si oppose. Anzi, «soppresse l’ordine templare, depredò i loro beni e mandò al rogo migliaia di appartenenti all’ordine». Jacques de Molay, l’ultimo dei maestri templari, venne arso vivo il 18 marzo 1314. «Maledì il Papa e l’imperatore, i quali morirono nello stesso anno in circostanze “misteriose”».Molti Templari si rifugiarono in Svizzera, dove «crearono l’attuale sistema bancario» elvetico, continua Franceschetti. Nella Confederazione, «difesero le frontiere dagli invasori e continuarono la loro attività di banchieri». Nelle epoche successive, «molti sovrani depositavano in Svizzera i loro beni, e questa è la ragione della secolare neutralità svizzera durante tutta la storia europea: nessun sovrano avrebbe distrutto una nazione ove lui stesso aveva interessi economici». Non a caso, aggiunge l’avvocato Franceschetti, molti cantoni elvetici – e la stessa bandiera svizzera – recano «le insegne templari, o degli Ospitalieri di San Giovanni», “erranti” come gli stessi Cavalieri di Malta. Di fatto, i Templari perseguitati dalla Chiesa «conservarono la loro struttura, che sopravvisse in segreto».Struttura, continua Franceschetti, dalla quale «germinò la maggior parte delle società segrete che esistono anche oggi: Templari, Rosacroce, Massoneria, “Skull and Bones”, Illuminati». I Rosacroce, «la massoneria più potente e segreta», secondo lo studioso «altro non è che un ordine templare a cui apparteneva anche Dante Alighieri, che infatti è considerato un po’ il padre dei Rosacroce attuali». Non a caso, aggiunge l’avvocato, indagatore di molti “misteri irrisolti” della nostra storia recente, gli «omicidi massonici» vengono compiuti tutt’oggi con la regola del contrappasso dantesco: «Povero Dante! Se sapesse come è stata interpretata la sua “Divina Commedia” probabilmente si suiciderebbe da solo, e forse per la prima volta avremmo un suicidio vero, in questa Italia».Per Franceschetti, in ogni caso, ricostruire i passaggi-chiave della storia esoterica europea è fondamentale per capire meglio la storia ufficiale, fino alle attuali convulsioni sempre più autoritarie dell’Ue. Per questo è bene tener d’occhio i Templari, che “risorsero” in segreto nel 1313 in Scozia, con un nuovo emblema raffigurante un uccello, il pellicano, che è «uno dei simboli dei Rosacroce». All’interno della Chiesa Templare, «approvato dal Papa», nacque poi il “Sacro Collegio dei 33 Frati Maggiori della RosaCroce”, continua Franceschetti. Ma il «silenzio secolare» dei Rosacroce è rotto solo nel 1614, quando «entrano in scena ufficialmente, pubblicano il loro primo manifesto, la “Fama Fraternitas”, e si fanno conoscere in tutta Europa».Nel 1717, continua l’avvocato, i Rosacroce e i Templari «danno vita alla massoneria moderna, quella per così dire ufficiale». Mezzo secolo dopo, nel 1776, nasce l’ordine degli Illuminati «ad opera di Adam Weishaupt», ma secondo molti storici «questi altro non sono che un particolare ramo dei Rosacroce». Tutta l’Europa di quei secoli, dice Franceschetti, «è intrisa di cultura rosacrociana e massonica: basti pensare che sono “Rosacroce” Leonardo Da Vinci, Paracelso, Nostradamus, Bacone, Galileo, Giordano Bruno, Comenio, Cartesio, Newton, Leibniz, ma anche scrittori e romanzieri come Bram Stocker, Mary Shelley e Giulio Verne». Si badi: il fenomeno «è assolutamente positivo per la società di quel tempo: solo grazie ai Rosacroce, infatti, la ricerca scientifica e alchemica poté proseguire senza la persecuzione dei Papi e degli imperatori».Sono infatti «i ricercatori massonici, rosacrociani e templari» a battersi per lo sviluppo “eretico”, cioè libero, della conoscenza. Ovviamente, con tutte le cautele del caso: «Per sfuggire alle persecuzioni papali e imperiali, i Templari e i Rosacroce dovettero operare in segreto». Sullo sfondo, due avversari storici, da abbattere: la Chiesa cattolica, nemica del progresso dell’umanità, e il suo grande alleato, l’assolutismo monarchico nemico della libertà. Secondo Franceschetti, «molti Rosacroce, primo tra tutti Dante», coltivavano propositi più che altro riformisti, ma «il Rosacrocianesimo, come movimento mondialista anticattolico, ha potuto accogliere sotto le sue ali sia movimenti e idee positivi, come il buddismo, sia i movimenti satanisti o praticanti un esoterismo “nero”, come l’attuale Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’oro, ovverossia la “Rosa Rossa”». Attraverso i secoli, la Chiesa ha dovuto quindi lottare per difendere la sopravvivenza del suo potere. «A un certo punto, resasi conto che non poteva vincere in un attacco frontale con la Chiesa, la massoneria decise per la strategia più ovvia: corrompere la Chiesa dall’interno, affiliando alla massoneria vescovi, cardinali e anche Papi».Sempre secondo Franceschetti, si può leggere anche come «il coronamento del sogno massonico» la decisione di Paolo VI di abolire la scomunica ai massoni. «E chissà che risate deve essersi fatto, il nostro Jacques de Molay, quando Paolo VI aprì le porte del Vaticano a Licio Gelli e Umberto Ortolani, i due padri della P2, nonché a Sindona». Ortolani venne addirittura nominato “Gentiluomo di Sua santità”, «onorificenza che gli permetteva di accedere alla residenza papale in qualsiasi momento, senza preavviso», mentre Gelli fu nominato commendatore “de equitem ordinis Sancti Silvestri Papae” nel 1965. Gelli e Ortolani «facevano entrambi parte dei Cavalieri di Malta, l’unico ordine cavalleresco ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa». Il colpo mortale al Vasticano? «C’è stato con lo Ior, la banca vaticana», quando «la massoneria ha fatto affluire nella casse dello Ior ad opera delle banche Rotschild e Chase Manhattan ingenti flussi di denaro», trasformandolo in «un centro di riciclaggio del denaro per la criminalità organizzata di tutto il mondo, con un vincolo di segretezza superiore addirittura a quello delle banche svizzere».Spietata nemesi: «La corruzione, la violenza e l’intolleranza che la Chiesa ha dimostrato nei secoli, hanno permesso l’infiltrazione della massoneria per minare alla base il potere ecclesiale». Ma attenzione, «nessun fenomeno esiste se non ci sono i presupposti culturali e politici perché quel fenomeno cresca», con complicità ad ogni livello. Di massoneria, si sa, era intriso il Risorgimento: «Garibaldi e Mazzini furono due Maestri del Grande Oriente d’Italia». Abbattute le monarchie, però, «l’opera era solo all’inizio: occorreva realizzare quella comunità mondiale che era nel progetto rosacrociano». Per il passo successivo, in sostanza, serviva qualcosa come l’Unione Europea. Ci si arriva più facilmente con l’adozione del bipolarismo, che sforna pochi leader “controllabili” eliminando il “rischio” della democrazia reale. «Questo risultato in Italia è stato raggiunto mediante la cosiddetta strategia della tensione», sostiene Franceschetti: «Tutte le stragi degli anni di piombo, rosse e nere, fino alla stragi del ‘92, avevano infatti la regia unica di Gladio e della P2, con l’intento di trasformare il sistema-Italia da multipartitico a bipartitico».Facile osservare come la maggior parte del piano sia stata ormai realizzata, conclude Franceschetti: il bipolarismo introdotto nella maggioranza degli Stati e il Trattato di Lisbona che riduce l’Europa a un unico super-Stato. Che ne penserà il vecchio Jacques De Molay? «Avevano abbattuto e massacrato i suoi Templari perché stavano costituendo una specie di Stato sovranazionale pericoloso per gli imperi di allora; ma oggi la massoneria, che è la vera erede del sapere e delle tradizioni templari, ha ripreso il controllo della situazione creando un’organizzazione che è al di sopra degli Stati e che, anzi, ha in pugno gli Stati e i governanti». Un potere che, «come allora, ha il suo cuore nelle banche centrali», come la Bce, che non risponde neppure al Parlamento Europeo. Stati, governi, Parlamenti? Ridotti a pura rappresentanza, perché il potere è ormai «detenuto dalle banche» e la politica è completamente asservita alla finanza. A loro volta, banche e politica «sono controllate dalla massoneria», dice Franceschetti. «I Templari, insomma, hanno ricreato se stessi nel segreto, e oggi sono più potenti che mai», anche si mantengono “invisibili” (solo in Italia, le sigle riconducibili al mondo massonico sono tantissime: Grande Oriente, Gran Loggia Regolare, Umsoi, Stella D’Oriente, Roundtable, Cavalieri di Malta).C’è una storia parallela, sostiene Franceschetti, che resta sempre nell’ombra: come la militanza massonica di personaggi come Dante, Freud, Jung, Mozart. E’ tutto molto paradossale: anche grazie alla massoneria, «siamo transitati dal vecchio ordine mondiale fondato sul Papato e sugli imperi assoluti, a quello attuale». Purtroppo, in Italia, il transito verso la modernità liberale è stata pagata a caro prezzo: «Le stragi di Stato, i testimoni dei processi morti in modo inspiegabile, i poliziotti e i magistrati uccisi perché credevano di vivere in un sistema libero». E’ come se fossero stati sistematicamente uccisi «tutti quelli che in qualche modo si avvicinavano alla verità e arrivavano al cuore del sistema». E questo, perché i due grandi antagonisti – Vaticano e massoneria – «hanno avuto un curioso destino, praticamente identico». Sono nati «da due messaggi meravigliosi, quello di Cristo da una parte e quello del libero pensiero dall’altra», ma poi sono stati entrambi manipolati da «alcuni personaggi», decisi a trasformarli in «strumenti di potere», arrivando anche a usare «il crimine e la sopraffazione», quindi «rinnegando il messaggio originale».Non resta che sperare che, «da entrambi gli schieramenti, gli uomini più “illuminati” pongano fine a questa situazione per cercare nuove vie politiche, culturali, economiche, che siano più a misura d’uomo». Nel frattempo, mentre i “negazionisti” dominano la scena, il disegno oligarchico avanza incontrastato. Di Nuovo Ordine Mondiale, ricorda Franceschetti, parlava già nel 1600 il celebre Comenio, «teologo e filosofo rosacrociano». Oggi siamo a questo: abolire la sovranità nazionale degli Stati e sottometterli all’autorità di organizzazioni internazionali. E tra le “previsioni” degli ordinovisti non manca la guerra mondiale: esito evocato apertemente nel lontano 1870, lungo le pagine del carteggio tra Mazzini e Albert Pike. In quei documenti, sintetizza Franceschetti, se ne prefigurano addirittura tre: una prima guerra mondiale, per abbattere lo zarismo e instaurare il comunismo, anche in chiave anti-cattolica. Poi una seconda guerra mondiale per consentire, tra le altre cose, la creazione dello Stato di Israele. E infine una terza, originata dallo scontro tra sionismo e mondo islamico. Tutto questo, un secolo e mezzo fa. Studiare la storia della massoneria, insiste Franceschetti, ci permette di capire meglio cosa sta succedendo oggi.E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.
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E Draghi si arrese a Keynes: lo Stato torni a spendere
Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».«Alla fine neppure lui ce l’ha fatta», scrive Barnard nel suo blog. Lui, Draghi, definito «’sto cadavere telecomandato dal neofeudalesimo e cresciuto a scudisciate neoliberiste», la scuola austriaca della destra economica europea, quella di Friedrich von Hayek (lasciare i poveri in miseria, aiutarli solo quel tanto che basta per evitare che la loro rabbia si trasformi in rivolta) e la dottrina iperliberista di Milton Friedman, altro nemico giurato dello Stato come fondamentale istituzione economica a guardia del benessere della comunità nazionale. Cattivi maestri, «da cui escono anche gli Alesina, Serra, Taddei, Boldrin o Giavazzi», vale a dire «gli unici tordi rimasti al mondo della serie “l’euro ha fatto tutto giusto, guai mollarlo”, cui seguono sbadigli e sghignazzi di Goldman Sachs, Jp Morgan, Krugman e altri principianti di questa sorta». Per una volta, il sovranista Barnard canta vittoria: «Draghi ha fatto outing, e si è strappato la camicia mostrando sul petto il tatuaggio di John Maynard Keynes. Ebbene sì!». L’ha fatto, aggiunge Barnard, perché ormai sconfitto dai numeri impietosi della recessione europea.Quello che di colpo sconfessa come un fallimento catastrofico dopo lunghi decenni di linea dura (e suicida), secondo Barnard è un Draghi «ormai fucilato alla schiena dalla Germania», che l’ha appena «bocciato a morte». Un Draghi «ormai sepolto da un’irrimediabile deflazione dell’Europa, cui non ha mezzi per rimediare». Un banchiere centrale «ormai umiliato come l’uomo che ha presidiato la distruzione di una civiltà economica». E a quanto pare si arrende all’evidenza, «senza più mezzi per fare nulla». Così, ha improvvisamente abbracciato Keynes, e insieme al grande economista inglese anche «la Mosler Economics, che è Keynes adattato al terzo millennio». Infatti, a Milano, Mario Draghi ha ammesso che «i governi devono agire con forza per incoraggiare gli investimenti, includendo garanzie di Stato per le piccole e medie imprese», riassume Barnard. «E, quando i conti glielo permettono, i governi devono spendere soldi di Stato», checché ne pensino i liberisti alla Giavazzi.Inoltre, aggiunge Barnard citando Draghi, «solo se le politiche monetarie saranno affiancate da politiche strutturali e da politiche economiche di spesa di Stato, vedremo gli investimenti tornare in Ue», perché la Bce «non può fare tutto da sola». E’ esattamente quanto affermano Barnard e gli attivisti della Mmt, la Modern Money Theory sintetizzata dallo statunitense Warren Mosler: «Senza politiche economiche di spesa di Stato, la politica monetaria non può fare niente». Da almeno trent’anni, agitando lo spauracchio dell’inflazione, il super-potere dell’élite economica europea ha imposto, attraverso la finanza e la tecnocrazia di Bruxelles, l’amputazione progressiva dello Stato, a cui è stato tolto il potere di sostenere l’economia. Oggi, di fronte allo sfacelo dell’Europa, persino Draghi alza bandiera bianca. Meglio tardi che mai, dice Barnard, sostenitore del ritorno alla sovranità monetaria come unica possibilità di risollevare l’economia, ripristinando l’interesse pubblico e la capacità di investimenti strategici mediante iniezioni di denaro: non alle banche ma all’economia reale, puntando alla piena occupazione.Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.