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Da dove viene il potere di Putin, l’uomo che non sbaglia mai
Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.Da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) Putin ascese alla poltrona di primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. «Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse», scrive Scaglione su “Linkiesta”. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa presidente. «Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale?». A questo passaggio, dieci anni fa Scaglione dedicò quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”). La tesi: «Putin non è un carrierista di successo, ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino». Da chi? «Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevano più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il paese». Qualcosa di simile lo racconta anche il filologo Igor Sibaldi, di madre russa, che vede in Putin l’ultimo terminale del nuovo Kgb fondato da Andropov, che già nell’era Khrushev aveva intuito l’inevitabile collasso dell’Urss, fondando una super-struttura segreta incaricata di tenere in piedi la Russia. Lo stesso Gorbaciov era il protetto di Andropov e veniva pure lui da Kgb, cioè dal network dal quale proviene lo stesso Putin.Anche Scaglione sostiene che Putin è il prodotto di un progetto preciso, a lunga scadenza: «Se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin». Perché è chiaro: se “Vova” è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un piano, «allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’». Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, e l’anno dopo Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. «Chiaro, no? Sulla Russia, Zibi Brzezinski aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile. Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane».Basta fare un piccolo elenco, osserva Scaglione: l’uomo del Cremlino «ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio». Poi lo “zar” «ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del paese ma anche per la sua politica estera: un po’ come la “golden share” del nostro governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa». Ovvero: «Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio».E’ sul fronte europeo che Putin, secondo Scaglione, ha patito ciò che Brzezinski sperava: «La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più “Vova” riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles de Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania». Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. «E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che curiosamente è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale». Però, secondo Scaglione, Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. «Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio».L’attivismo del Cremlino nei paesi islamici è plateale: l’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici. E poi «la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio» sono tutte vicende che «hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione». E poi, «sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla», Putin si è lasciato portare verso Est, «cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria». Cina che adesso «si espande in Africa e in Europa, ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda». E poi tante altre cose, «belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare?».Se così fosse, conclude Scaglione, «avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!». “Vova” è bravo, chi può negarlo. «Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante». Ma tutto da solo? «Resto della mia idea di dieci anni fa», insiste Scaglione: Putin è l’ottimo interprete di un grande progetto condiviso dietro le quinte. La pensa così anche Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere) aggiunge un elemento: sostiene che Putin sia affiliato alla Ur-Lodge “Golden Eurasia”, la stessa di Angela Merkel. E’ una delle 36 superlogge internazionali del massimo potere, dove le grandi decisioni vengono vagliate in anticipo sui tempi della politica. Nemmeno il potere sovietico è mai stato estraneo a quel livello decisionale: lo stesso Lenin, scrive Magaldi, fondò a Ginevra la superloggia (reazionaria) “Joseph De Maistre”. «Putin era un colonnello del Kgb, non un generale», sottolinea Sibaldi, come a dire che i generali ci sono e restano nell’ombra, magari non avendo il talento pubblico del frontman che regna al Cremlino. Chiosa Scaglione: «Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’».Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Berlino trema: lo stragista Amri fu incoraggiato dalla polizia
«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.Pare che la “persona di fiducia” abbia dovuto faticare a convincere Amri. Gli disse: «Ammazziamo questi miscredenti». Insisteva: «Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per fare questi attentati qui in Germania». A citare il fatale colloquio è un ex frequentatore degli stessi circoli, «che dice di essere stato avvicinato alla stessa persona per fare l’attentato in Germania», scrive Maurizio Blondet sul suo blog. Come altri, il testimone aveva rifiutato perché voleva combattere in Siria. E ha confermato che l’informatore della polizia avrebbe insistito nel cercare un «un uomo affidabile per un attacco con un camion». Dunque “l’uomo di fiducia” della polizia tedesca era un agente provocatore: al soldo dell’Isis o dei servizi di Berlino? «La polizia sapeva da luglio che Anis Amri progettava una strage», scriveva “Globalist” già il 22 dicembre. Avverte oggi l’emittente “Rbb”: «Un siriano ex coinquilino di Amri aveva avvertito ben due volte la polizia prima dell’attentato». Ma l’allarme non diede esito, racconta il “Morgenpost”: «Amri è stato tenuto sotto osservazione solo nei giorni feriali. Nei fine settimana e nei giorni festivi il controllo cessava. E l’ufficio del procuratore generale non è mai stato informato della cessazione dell’osservazione».Le autorità tedesche, riassume Blondet, avevano impedito la rapida espulsione di Amri (non presentando alle autorità tunisine le sue impronte digitali, che pure avevano). In più, le forze di sicurezza «gli avevano fatto sapere di essere sotto controllo, e più volte». Lo avevano persino «aspettato alla fermata dell’autobus da Dortmund». Secondo lo “Spiegel”, «il dossier su Amri è stato grossolanamente falsificato, posticipando date e celando un arresto». Se la storia del passaporto abbandonato sul camion-kamikaze è la fotocopia di altre analoghe vicende, da Charlie Hebdo alla strage di Nizza, Blondet fa notare che le modalità di reclutamento di Anis Amri sono le medesime di un altro maghrebino in azione in Francia, Mohammed Merah, che scatenò il terrore a Tolosa nel 2012: «I servizi francesi stavano per reclutare Merah un mese prima dei suoi delitti», ha dichiarato alla Corte d’Assise l’ex capo della sicurezza tolosana. Per il “Foglio”, lo “stragista di Al-Qaeda”, era «un’operazione dell’intelligence francese finita male». E’ saltato fuori anche un video-testamento del giovane: «Sono innocente. Ho scoperto che il mio miglior amico Zouheir lavora per i servizi segreti francesi».Zouheir, scrive il quotidiano “Le Monde”, fece anche parte della squadra di negoziatori che cercò di convincere Merah alla resa durante l’assedio all’appartamento. Il giovane gli si ribellò con queste parole: «Mi hai mandato in Iraq, Pakistan e Siria per aiutare i musulmani. E ora ti riveli essere un criminale e un capitano dei servizi francesi. Non lo avrei mai creduto». Adesso, aggiunge Blondet, la deposizione giudiziaria del capo dei servizi a Tolosa conferma: Merah fu avvicinato da un settore dell’intelligence, la Dgcri (Direction Centrale du Reinseignement Interieur) dopo un viaggio in Pakistan. Ma in realtà, precisa il funzionario, i servizi francesi lo conoscevano bene fin dal 2006, quando Merah era ancora un ragazzino: lo avevano schedato insieme a suo fratello Abdelkadher, dopo un viaggio in Egitto compiuto «apparentemente per imparare l’arabo». Poi, nel 2010, al ritorno dal viaggio in Pakistan, lo interrogano «perché sospettato di aver ricevuto addestramento militare». Sempre nel 2010, arrestato dalla polizia afghana a Kandahar, Merah viene «sottoposto a “debriefing” da due specialisti francesi», i quali «hanno giudicato che, dato il suo carattere curioso e viaggiatore, lo si poteva orientare verso un reclutamento».Un rapporto dei servizi risalente al 21 febbraio 2012, un mese prima del primo omicidio presunto di Merah, recita: «Mohamed Merah ha spirito aperto e astuto. Non ha alcuna relazione con una rete terrorista, ha un profilo viaggiatore». Conclusione: conviene «verificarne l’affidabilità», raccomanda il rapporto. «E’ un approccio di reclutamento», ha spiegato l’ex funzionario dei servizi di Tolosa. Sembra l’accurata formazione di un agente professionale, a cui si impartiscono competenze linguistiche e militari, da avviare alla carriera di infiltrato. «Sappiamo anche che Merah ha cercato di arruolarsi nell’esercito francese nel 2008, e poi nella Legione Straniera, respinto per i suoi precedenti penali», conclude Blondet: «Povero, tragico patriota Merah, usato e distrutto come jihadista perché bisognava addossargli delitti le cui vere ragioni sono inconfessabili». Forse, anche attraverso la giustizia francese e le indagini giornalistiche tedesche, sta cominciando a sbriciolarsi un muro di menzogne sanguinose. Osservando in controluce gli attentati “islamisti” che hanno martoriato l’Europa colpendo sempre e solo nel mucchio (popolazione inerme: mai obbiettivi-simbolo del potere), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” Gianfranco Carpeoro legge le “firme nascoste” – non islamiche, ma occidentali e massoniche – dello stragismo affidato a manovalanza jihadista. E oggi dice: «Entro un paio d’anni, magari attraverso fonti come Wikileakes, emergerà la prova che l’Isis è un’emanazione diretta dei servizi atlantici che fanno capo ai Bush».«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.
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Blondet: Cane Pazzo fermerà il Cretino della Casa Bianca?
«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».Lo stesso Kelly e il generale James Mattis, il segretario alla difesa, avrebbero discusso fra loro cosa fare se Trump ordinasse il “first strike”, il temutissimo “primo colpo” nucleare. «Gli si opporranno?», si domanda l’anonimo spifferatore della storia a “Vanity Fair”, indicato come ex funzionario della Casa Bianca. Altra indiscrezione: in una riunione dello scorso luglio, Trump avrebbe espresso il desiderio di «decuplicare l’arsenale atomico», salvo poi negare via Twitter, minacciando di «togliere la licenza» alla catena televisiva “Nbc” per quella “fake news”. Ma diverse voci smentiscono il presidente e confermano la notizia, aggiunge Blondet: saputo in quella riunione che gli Usa hanno attualmente 4.000 testate nucleari, contro le 32.000 a loro disposizione nel 1960, Trump avrebbe «espresso il desiderio di riportarle a quel numero, lasciando basiti i generali». Si parla anche di una riunione del consiglio di sicurezza nazionale nella Situation Room, a luglio, in cui Trump avrebbe «ordinato ai capi militari di licenziare il comandante dello forze Usa in Afghanistan», paragonando i loro consigli a quelli di un consulente di sua conoscenza di un ristorante di New York, «i cui suggerimenti sbagliati avevano fatto perdere tempo e denaro».La riunione era stata convocata perché il presidente approvasse la nuova strategia sull’Afghanistan, ma è stata così improduttiva che i consiglieri hanno deciso di continuare la discussione il giorno dopo al Pentagono, con la speranza che in una riunione con meno persone il presidente si sarebbe «concentrato di più». Si interroga Blondet: forse non è il Deep State ad aver messo alle costole di Trump i generali Mattis e Kelly per neutralizzarlo e fargli continuare la politica bellicista di sempre. Forse i “buoni” sono proprio i generali, che provano a frenare un presidente che «gioca a fare il dittatore folle, impartendo ordini pericolosissimi». Ordini «aggravati da una mente sconclusionata, incapace di concentrarsi», nonché «da una furiosa mancanza di conoscenze» specifiche e da «idee da cartone animato». Così almeno scrive il sito “Red State”, politicamente ostile a “The Donald”. Fatto sta che Trump ha apertamente sconfessato il suo segretario di Stato, Tillerson, nei suoi sforzi di aprire (o mantenere aperto) un canale diplomatico con la Corea del Nord, con tweet del tipo: «Risparmiati la fatica, Rex. Serve una sola cosa», la Bomba. Tillerson, aggiunge Blondet, «appare in lotta non solo con il Cretino, ma anche con il Deep State, che quanto a intensità di follia non è certo secondo».Se infatti l’inquilino della Casa Bianca sembra quantomeno in confusione, lo “Stato Profondo” rappresentato dal complesso militare-industriale, Cia e Pentagono più Wall Street, è «sempre più fanaticamente impegnato a portare le relazioni con Mosca ad un punto di non ritorno», come dimostra «l’uccisione del generale Asapov, la bollatura della redazione americana di “Russia Today” come “agenzia straniera”, il bando all’antivirus Kasperski in Usa, accusato dagli israeliani di avere dentro un software spionistico, l’armamento nuovo ai ribelli in Siria». Lo stesso Tillerson, aggiunge Blondet, ha fatto una telefonata cordiale a Lavrov, in cui, secondo il comunicato ufficiale, s’è parlato perfino della «prospettiva di collaborazione Russia-Usa per far funzionare le zone di de-escalation» in Siria. «Una telefonata che ha forse solo il senso di dare un disperato segnale: non è il segretario di Stato la fonte degli attacchi e delle provocazioni», scrive Blondet. Ancor più grave: Tillerson è a favore dell’idea che gli Usa «continuino a mantenere l’accordo nucleare iraniano, che Trump invece sicuramente straccerà, fra l’altro aggravando la rottura con gli europei che invece continuano a sostenerlo». E quindi «cosa farà, imporrà sanzioni agli europei che commerciano con Teheran?».Tillerson, continua Blondet, «ha indetto una conferenza stampa per smentire – non già di aver dato del cretino al suo presidente (su questo ha glissato) – ma di essere sul punto di dare le dimissioni». Anche lui, come Kelly, «per senso del dovere». E pure il generale “Mad Dog” Mattis, nonostante il suo soprannome (“cane pazzo”), «esercita quanto può il ruolo di ragionevole trattenitore» del Folle. «Anche lui davanti al Congresso s’è dichiarato a favore del fatto che gli Usa mantengano fede all’accordo con l’Iran (e gli alleati europei e la Russia) sul nucleare iraniano, che Teheran sta rispettando. Ciò ha fruttato a Mattis la furiosa visita di un altro pazzo, il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman», il quale sostiene la posizione di Trump e ha informato il capo del Pentagono – testualmente – che «il conflitto Israele-Iran in Siria ha raggiunto il punto di non ritorno», e che «siccome Teheran continua ad ignorare gli altolà di Israele all’espansione iraniana nel Medio Oriente, Israele va ad un conflitto con l’Iran» in Siria. Infatti «Israele ha reso chiaro, sia gli iraniani che ai siriani, e anche ai russi, che non consentirà alcuna presenza iraniana in Siria, specialmente aerei da guerra o un molo iraniano nel porto di Tartus».Per adesso, scrive il sito israeliano “Yenet News”, ciò che Lieberman potrà ottenere sarà al massimo l’appoggio del Pentagono per intensificare la guerra contro quello che chiamano «la sovversione dell’Iran in Medio Oriente, dallo Yemen a Gaza al Libano». Già esiste «un piano americano contro Hezbollah come parte della guerra contro l’Iran e i suoi satelliti». Un piano che farebbe parte delle misure contro «l’espansione iraniana nella regione», vale a dire – traduce Blondet – la continuazione della sovversione del governo siriano con il pieno sostegno ai jihadisti e con le uccisioni di russi. Nell’articolo di “Vanity Fair” si racconta che Steve Bannon, quand’era ancora il capo-stratega alla Casa Bianca, ha detto francamente a Trump che, col suo comportamento, non doveva temere l’impeachment, ma il 25° emendamento. Al che, Trump ha risposto: «E che cos’è?». Blondet fa notare «quante personalità disturbate, irresponsabili, pericolosamente instabili o con gravi problemi di sociopatia» siano attualmente al potere, citando anche Netanyahu e Erdogan, «che sta rompendo i rapporti diplomatici con gli Usa, nello sgomento dei suoi ministri». Per Blondet, questo è «un passo apocalittico della storia», che aumenta «il disordine demolitorio ed esplosivo», là dove prima esistea un ordine mondiale fondato su equilibri dinamici.«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».
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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Bufera su Visco, ma silenzio sul retroscena (supermassonico)
Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro anche lo strano “suicidio” di David Rossi.«Anziché attaccare il Grande Oriente per le vicende provinciali di Banca Etruria – afferma Magaldi, oggi presidente del Movimento Roosevelt – giornali e televisioni farebbero meglio a interrogarsi sul ruolo di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, poi ministra di Monti: erano al vertice di Bankitalia quando la banca centrale avrebbe dovuto vigilare sull’operato del Montepaschi». Analoga polemica con Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”: «Si parla genericamente di massoneria, in relazione a piccole vicende locali, mentre si continua a ignorare il ruolo supermassonico di primo piano rivestito in Italia, per conto di reti internazionali, da personalità come Monti, Draghi, la stessa Tarantola, l’ex presidente Napolitano e l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan». Sotto il fuoco renziano è ora finito Ignazio Visco? Non una parola, dal mainstream, sul possibile retroterra comune dei contendenti, legati a influenti “salotti” non italiani. Silenzio anche sul ruolo della banca centrale, a cui un altro supermassone, l’eurocrate Carlo Azeglio Ciampi, “staccò la spina” nel 1980, facendo in modo che Bankitalia cessasse di fungere da “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo lo Stato – per finanziare il debito pubblico – a rivolgersi all’esosa finanza internazionale, mettendo all’asta i propri bond. Risultato: una falla rovinosa nel debito italiano, perfetta per indebolire il paese di fronte all’eurocrazia.«La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico», scrive Alberto Bagnai sul blog “Goofynomics”, che parla di «modus paraculandi». Bankitalia non vigilava adeguatamente sulla crisi delle banche italiane? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? «Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti? Se così fosse – aggiunge Bagnai – la loro nomina ad opera della classe dirigente che ancora oggi si ripropone come insostituibile oligarchia dovrebbe suscitare alcune domande anche nell’elettore più superficiale». Forse, continua Bagnai, la causa di tante “sviste” ad opera degli organismi di controllo esterni e interni alle banche italiane «era imputabile non all’umana pochezza ma ad un’altra causa: ad un vincolo esterno». Più precisamente «a un chiaro e inequivocabile ordine di scuderia», emanato in sede europea. «Un ordine al quale tutti, ma proprio tutti, dai vertici Bce fin al più passivo sindaco e revisore della più piccola banca territoriale», dovevano sottostare. Ovvero: «Non intralciare l’enorme arbitraggio finanziario reso possibile dal Trattato di Maastricht e dall’unione monetaria».Arbitraggio? «Così si chiama il prendere a prestito nel nucleo e prestare con spread ai mal-investitori della periferia senza subire rischi di cambio e senza alcun controllo sui movimenti dei capitali», spiega l’economista. «Una colossale macchina da soldi, la cui già enorme potenza era ulteriormente amplificata dal mercato dei derivati, grazie al quale si diluivano i rischi di credito nell’oceano degli ignari e polverizzati investitori globali». In pratica, una droga: «Come nel narcotraffico fisico, nel narcotraffico finanziario tutti si sono sporcati le mani: i coltivatori (ingegneri e top manager finanziari), i cartelli dei trafficanti (le grandi banche del nucleo, cresciute in “Germagna” sino a diventare uno Stato nello Stato), i cartelli degli spacciatori e la loro rete di “down the line dealers” (le grandi banche commerciali periferiche e le numerose banchette che le contornano)». E poi anche «i governi, i responsabili dei controlli a tutti i livelli: pubblici e privati, nazionali e internazionali, i partiti e le forze politiche, tutti pro-Maastricht e pro-euro (ricordo che la “Costituzione europea” da noi fu votata all’unanimità e il Fiscal Compact con dibattito praticamente zero»).E’ stato questo il “miracolo” dell’euro, sintetizza Bagnai con sarcasmo: «È stata questa la fonte di accumulo di capitale finanziario che ora permette la fase due: sfruttare la mobilità incontrollata del lavoro». Quindi, «cari moralisti falliti e vigliacchi – chiosa l’economista – chi di voi è senza Maastricht scagli la prima pietra». Se è difficile leggere analisi di questo tenore sulla grande stampa, o tantomeno ascoltarle in televisione, è addirittura impensabile imbattersi in spiegazioni dettagliate su quello che Bagnai chiama “vincolo esterno”. La piaga del neoliberismo finanziario in versione europea ha drasticamente impoverito centinaia di milioni di persone? Certamente, osserva Magaldi, ma bisogna pur sapere che ogni piano – compreso questo – cammina sulle gambe di individui precisi, accuratamente selezionati da un’élite occulta per occupare posti-chiave. Rarissimo che l’oligarchia si dichiari: è accaduto di recente in Francia, quando il supermassone reazionario Jacques Attali ha rivendicato la partenità del progetto che ha portato all’Eliseo la sua creatura, Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild. In Italia, invece, si sorvola regolarmente anche su un altro difensore di Ignazio Visco: Romano Prodi. «Ne parlerò nel sequel di “Massoni”, di prossima uscita», annuncia Magaldi.«Pessimo interprete di questa globalizzazione privatizzatrice», l’ex premier ulivista, ex presidente della Commissione Europea nonché advisor di Goldman Sachs: benché ufficialmente “progressista” sarebbe anch’esso «affiliato a quelle potenti reti supermassoniche internazionali che hanno progettato la grande crisi, in termini di svuotamento della democrazia e colossale trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto», sostiene Magaldi. La stampa ne coglie sempre e solo gli effetti terminali – la disoccupazione, la crisi dei risparmiatori colpiti dai crack bancari – evitando però sempre di inquadrare il disegno, i suoi architetti occulti e i relativi interpreti locali. Non stupisce che giornali e televisioni continuino a ignorare le rivelazioni di Magaldi, che forniscono un’inedita geografia del vero potere. Tra le 36 superlogge mondiali, da cui dipendono entità paramassoniche come il Bilderberg e la stessa Trilaterale, spicca il ruolo nefasto svolto negli ultimi decenni dalle Ur-Lodges neoaristocratiche e oligarchiche, come la “Edmund Burke”, la “Compass Star-Rose”, la “Leviathan”, la “White Eagle”, senza contare la potentissima “Three Eyes” (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) e la “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush, secondo Magaldi con intenti addirittura terroristici (11 Settembre, Al-Qaeda, Isis).A valle, la mappa del back-office del potere si rifletterebbe in Italia – come in ogni altro paese, non solo occidentale – nel reticolo dei leader locali: Magaldi ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali). Della “Three Eyes” farebbero parte anche Padoan e Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da uomini affiliati a Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia). Ignazio Visco, l’attuale governatore di Bankitalia, sarebbe invece legato alla “Edmund Burke” (insieme all’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco). Ma non c’è caso che ne si faccia cenno, nelle cronache: tutto finirà, come sempre, attorno alle chiacchiere di Renzi, più quelle su Renzi e quelle contro Renzi, senza spiegare verso quali scogli sta andando la nave, e per ordine di chi.Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro lo strano “suicidio” di David Rossi.
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Difendersi lontano da casa: la Russia investe sulla marina
Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portarei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.La Russia sta perfezionando una nuova “dottrina strategica” per le sue forze navali. Il documento della marina – scrive Iacch – afferma che le flotte russe dovranno «essere in grado di impedire qualsiasi pressione e aggressione contro la Russia ed i suoi alleati sia lungo le rotte oceaniche che marittime, e di schierare truppe nelle zone più remote». In caso di guerra, la marina «dovrà essere in grado di infliggere danni inaccettabili a un avversario allo scopo di costringerlo a porre fine alle ostilità». La flotta di Mosca sfrutterà il potenziale tecnologico in suo possesso, «comprese le armi di precisione a lungo raggio». Il contenuto del progetto del 2015 corrisponde a una ripresa della pianificazione strategica, forte anche di una crescita economica sostanziale, in settori chiave della politica nazionale ed estera. Da rilevare, aggiunge l’analista, che nel 2010 la Russia ha avviato un ambizioso piano di riarmo, ancora in corso, che si dovrebbe concludere nel 2020. Il nuovo documento definisce i compiti fondamentali della marina per la prevenzione dei conflitti e la dissuasione strategica, al fine di «valutare costantemente e prevedere la situazione militare e politica, mantenendo le forze navali pronte contro qualsiasi potenziale nemico».«Gran parte delle minacce militari alla Russia provengono dall’Occidente», scrive Iacch, «in particolare nei pressi del Mar Nero e del Mar Mediterraneo». La regione artica è individuata come un’area in cui, afermano i russi, «il conflitto militare potrebbe diventare probabile in futuro». L’Oceano Indiano, l’Antartide e parte del Pacifico ricevono meno attenzione. Il documento strategico, sottolinea l’analista, si concentra sulla protezione delle aree costiere territoriali e sull’Artico: «E’ quindi corretto affermare che la nuova dottrina non persegue la proiezione di potenza globale come obiettivo primario, ma si concentra sugli interessi russi su una doppia flotta composta dalle grandi unità ereditate dall’Unione Sovietica e da piccole e moderne navi equipaggiate con missili a lungo raggio». Fondamentale, anche sotto questo aspetto, il significato dell’Artico: «Dal dicembre del 2012, Mosca ha avviato un’attività sistematica volta a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Qualsiasi scenario strategico riguarderà l’Artico (considerato il principale settore strategico aerospaziale), dal momento che è il percorso di volo più breve tra Usa e Russia».La militarizzazione dell’Artico, con la costruzione di nuove basi o il riutilizzo dei vecchi impianti sovietici, «rimarrà una delle priorità della leadership russa nei prossimi anni», mentre il riscaldamento della calotta polare «rivelerà grandi risorse naturali non ancora sfruttate». Si calcola infatti che il fondo marino dell’Artico custodisca il 15% del petrolio rimanente del mondo, fino al 30% dei suoi giacimenti di gas naturale e circa il 20% del suo gas naturale liquefatto. «A causa del fenomeno dell’amplificazione artica – continua Iacch – la regione si surriscalda in tempi molto più brevi rispetto a quanto avviene in qualsiasi altra parte del globo. La scomparsa del ghiaccio marino è stimata al 2030, con rotte del Mare del Nord che diverranno percorribili per nove mesi all’anno». Ciò si traduce in una riduzione del tempo di viaggio, pari al 60%, tra Europa ed Asia orientale rispetto a quelle attuali attraverso Panama ed il Canale di Suez. La Russia è in vantaggio: «Dispone attualmente di una flotta di 40 rompighiaccio in servizio attivo mentre 11 sono in produzione».Mosca ha appena varato la nuovissima nave rompighiaccio a propulsione Arktika, la più potente al mondo (classe Lk-60Ya, Progetto 22.220). «Con i suoi 567 piedi di lunghezza ed un dislocamento di 33.500 tonnellate, l’Arktika può spezzare lastre di ghiaccio spesse tre metri». Negli ultimi trent’anni, aggiunge Iacch, Mosca ha semplicemente investito maggiori risorse finanziarie nella regione rispetto a qualsiasi altra nazione. «Sarebbe corretto rilevare che, attualmente, la flotta rompighiaccio russa è in grado di creare, incontrastata, nuove rotte commerciali nella regione artica». Ben diversa la situazione degli Usa: «I due cantieri che costruivano le rompighiaccio per gli Stati Uniti sono chiusi». Sicché, «il gap tra Russia e Stati Uniti è stimato in almeno dieci anni, a causa della miopia delle precedenti amministrazioni che hanno concentrato le principali risorse verso il Medio Oriente».Sono tre, riassume Iacch, le potenziali minacce specifiche per la Russia elencate nel documento della marina. La prima, spaventosa, «prevede un crollo improvviso della situazione politico-militare che porterà all’uso della forza militare nelle aree marittime che hanno un interesse strategico per la Russia». La seconda prescrive «lo schieramento di armi strategiche non nucleari di precisione e difese missilistiche nei territori e nelle zone marittime adiacenti alla Russia». La terza, infine, prevede «l’uso della forza militare da parte di altri Stati per minacciare gli interessi nazionali russi». Oltre all’Artico, la dottrina sottolinea l’importanza di proteggere l’accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente e del Mar Caspio. C’è preoccupazione per l’impatto negativo dei conflitti regionali in Medio Oriente, Asia meridionale ed Africa, incluso il pericolo causato dalla crescita della pirateria nel Golfo di Guinea e negli oceani Indiano e Pacifico. «Il rafforzamento della flotta del Mar Nero e delle forze russe in Crimea, nonché il mantenimento di una presenza navale costante nel Mediterraneo, sono individuate come le priorità geografiche più critiche per il futuro sviluppo della marina russa».«La Russia – affermano gli strateghi moscoviti – dovrà rafforzare ulteriormente la capacità di proiezione con missili convenzionali e nucleari. Inoltre cercherà di migliorare la sostenibilità delle sue forze navali al fine di assicurare la presenza continua in regioni marittime strategicamente importanti, indipendentemente dalla distanza dalle basi». In caso di guerra, la dottrina rileva che la marina russa «dovrà essere in grado di difendere se stessa e il territorio da avversari equipaggiati con sistemi d’arma ad alta precisione». La leadership di Mosca, sottolinea Iacch, continua ad essere particolarmente preoccupata dal “Prompt Global Strike” americano, ritenuto «una minaccia diretta alla sicurezza internazionale e alla Russia». Nella dottrina di riferimento si rileva che la marina «è uno strumento potenzialmente efficace per dissuadere tali attacchi convenzionali di precisione di portata globale». L’efficacia della marina «dovrà essere strutturata su una combinazione di prontezza, capacità e persistenza: utilizzando le armi convenzionali a lungo raggio ad elevata precisione, la marina russa può minacciare bersagli militari dal mare».Secondo questa dottrina, la nuova capacità delle sue flotte consentirà alla Russia di dissuadere il ricorso all’asset “Prompt Global Strike”. Al fine di svolgere questa missione, la marina «dovrà costruire sottomarini nucleari e convenzionali multifunzionali, navi da combattimento, una potente aeronautica navale e sistemi di difesa costiera a lungo raggio», spiega Iacch. La marina militare russa, sostengono i suoi ammiragli, «è uno degli strumenti più efficaci per il contenimento strategico: le future armi di precisione dovranno essere in grado di distruggere il potenziale militare ed economico di un nemico colpendo le sue strutture vitali dal mare». La dottrina rileva che nel 2025 l’armamento convenzionale principale della marina russa sarà costituito da missili da crociera ad alta precisione a lungo raggio, integrati con missili ipersonici e vari sistemi automatizzati come i droni subacquei. In ogni caso, rileva Iacch, le ambizioni globali lasciano il posto al controllo delle aree territoriali russe e alla natura essenzialmente difensiva delle missioni. Le aree strategiche – Mediterraneo, Baltico, Caspio, Mar Nero e Artico – non richiedono una grande flotta. Di conseguenza, le forze navali russe «dovrebbero essere sufficienti per le finalità descritte nella dottrina navale».Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portaerei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Goya: precisa e coerente, così la Russia ha vinto in Siria
Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».E quanto è costato, a Mosca, questo successo? «Risorse piuttosto limitate», sintetizza il colonnello Goya, in un post ripreso da Maurizio Blondet. Si parla di 4-5 mila uomini sul campo e 50-70 aerei, pari a un costo di circa 3 milioni di euro al giorno, ovvero «un quarto o un quinto dello sforzo americano nella regione». Visti i risultati strategici ottenuti, «i russi hanno una “produttività” operativa molto superiore agli americani o ai francesi». Come mai? Anzitutto perché «il dispositivo russo, impegnato massicciamente e di sorpresa, è stato completo fin da subito», senza clamori propagandistici. Insiste Goya: «La Russia ha dispiegato un dispositivo completo e coerente rispetto al raggiungimento di un obiettivo chiaro, ciò che non ha fatto la coalizione pro-ribelli in Siria». Un intervento «pienamente assunto, al contrario della “impronta leggera” americana». E’ diplomatico, il colonnello: non può dire che gli Usa e i loro alleati – turchi e arabi – hanno coordinato e supportato i terroristi Isis schierati contro Assad. I russi invece sono scesi in campo a viso aperto, non limitandosi al ruolo di addestratori dell’esercito siriano. Ed è questo, dice Goya, ad aver «cambiato il dato operativo», in una guerra “a mosaico” come quella siriana.Attorno a Damasco lottano svariate forze, ciascuna con i suoi sponsor e i propri obiettivi. Il che «rende il conflitto insieme complesso e stabile, in quanto le riconfigurazioni politiche spesso annullano i successi militari di una parte». I due sponsor rivali, Stati Uniti e Russia, non hanno alcuna intenzione di affrontarsi direttamente, ed evitano dunque di “incontrarsi”. Di conseguenza, l’occupazione-lampo di un territorio da parte dell’uno impedisce meccanicamente all’altro, davanti al fatto computo, di penetrarvi. «E la strategia del “pedone imprudente” che attraversa una camionabile e obbliga gli automobilisti a fermarsi: una strategia che i sovietici come i russi hanno adottato regolarmente», continua Goya. «Ciò comporta l’assunzione di un rischio. E in Siria, le esitazioni americane hanno ridotto il rischio». Sicché, ha vinto Mosca: «Dal momento in cui i russi hanno piantato apertamente la loro bandiera e occupato lo spazio – specie aereo – in Siria, per gli altri tutto è diventato più complicato. Il dispiegamento di missili S-300 e poi di S-400 ha imposto una zona di esclusione aerea agli Stati Uniti, ostacolati in tal modo su un teatro operativo per la prima volta dalla guerra fredda».Una interdizione dello spazio aereo che non è stata ermetica, riconosce Goya: i turchi hanno abbattuto un bombardiere russo Su-25 a fine novembre 2015, e gli americani hanno attaccato (a tradimento, dal cielo) i soldati regolari siriani assediati a Der Ezzor, violando un accordo coi russi di poche ore prima: hanno ucciso 62 militari, «in pratica facendo da appoggio aereo al coordinato attacco dello Stato Islamico a terra», ricorda Blondet, mentre la marina Usa su ordine del neo-eletto Trump ha lanciato missili da crociera contro la vecchia base di Shayrat (ma, prudentemente, dal mare). E infine l’armata israeliana ha attaccato il 7 settembre il sito di Mesayf (anche qui con cautela, dal cielo libanese). Poi a giugno un caccia americano ha abbattuto un Su-22 siriano «nel primo duello aereo sostenuto dagli americani dal 1999». Per Goya, se questo dimostra «l’incapacità russa di interdire totalmente, politicamente o tatticamente, il cielo», la rarità e la prudenza di questi attacchi «testimoniano che lo spazio aereo è stato comunque dominato dai russi».Da parte loro, nonostante le ripetute minacce, gli americani «hanno esitato a fornire materiale sofisticato alle forze ribelli, come missili anticarro e terra-aria, e ancor meno a impegnare apertamente loro proprie unità di combattimento». Insomma, non hanno “osato”. Commenta Goya: «La cosiddetta “impronta leggera” è spesso prova della leggerezza degli obbiettivi politici e della motivazione». Il colonello dettaglia l’impiego della brigata aerea mista russa, con una settantina di velivoli (sui 2.000 dell’aviazione di Mosca) e almeno una unità di artiglieria con lanciarazzi multipli, droni, un aereo di ricognizione elettronica, più diverse compagnie di forze speciali, «la cui missione è l’operazione in profondità e l’intelligence». La brigata aerea ha condotto decine di operazioni combinate, ad un ritmo molto elevato: mille uscite mensili. «Una tecnologia piuttosto antica, con grande uso di bombe non guidate», ha portato ad una bassa percentuale di colpi a bersaglio, rispetto agli standard occidentali, e perdite civili sensibilmente più importanti all’inizio ma poi nettamente diminuite».Nell’insieme, il sito americano “Airwars” stima le vittime civili dei russi «tra le 4.000 e 5.400 in totale», ma «da 5.300 a 8.200 quelle da imputare alla coalizione statunitense, che pure usa una percentuale molto maggiore di munizioni guidate». Le perdite russe sono valutate da 11 a 17, ufficialmente, «ma in realtà tra 36 e 48», secondo Goya; perdite «comunque molto basse rispetto alla portata delle operazioni». In più, Mosca non ha impegnato direttamente forze terrestri: si è limitata a un battaglione della fanteria di marina rafforzato da una piccola compagnia di tank T-90, una batteria di artiglieria con 15 lanciagranate multipli e 40 veicoli da combattimento», tra cui i nuovissimi tank Bmpt-72 “Terminator”, coordinati con sistemi satellitari per sincronizzare l’azione di uomini e mezzi. Una forza, quella russa, utilizzata però principalmente «per la protezione delle basi navali di Tartus e Hmeimim». Gli aspetti tecnico-militari, osserva Blondet, non devono far dimenticare il profilo politico intelligentemente adottato dai russi, come sottolinea il colonnello Goya: «La principale novità del dispositivo russo è stata, nel febbraio 2016, la creazione di un Centro di Riconciliazione volto alla diplomazia di guerra, la protezione del trasporto dei combattenti [nemici che si dichiarano sconfitti] e con le autorità civili, Ong e Nazioni Unite, l’aiuto alla popolazione».Questo Centro di Riconciliazione è anche, chiaramente, un organo di raccolta d’intelligence per le forze russe, «ma implica l’ammissione che la fine più ovvia di un conflitto è il negoziato e non la distruzione totale del nemico», osserva Goya, secondo il quale «con mezzi limitati, la Russia ha almeno per ora ottenuto risultati strategici importanti, e comunque molto superiori a quelli delle potenze occidentali, innanzitutto gli Stati Uniti ma anche la Francia, i cui effetti strategici in Siria non sono nemmeno misurabili». Questo, per il colonnello, è dovuto principalmente «a una visione politica evidentemente più chiara e ad un’azione più coerente, con una presa di rischio operativa e tattica che gli Stati Uniti o la Francia non hanno osato». La stessa presenza dei russi in prima linea, se ha causato perdite di vite umane, col suo effetto deterrente sugli attori locali, ne ha anche risparmiate, permettendo lo sblocco rapido delle situazioni tattiche congelate. «E con l’accettazione dei negoziati, gli sviluppi sono stati più rapidi a favore del regime di Damasco rispetto ai quattro anni precedenti, dimostrando ancora una volta che si ottengono più risultati attraverso azioni coerenti sul terreno che azioni da lunga distanza e senza obiettivi chiari».Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».
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Putin: addio armi chimiche. E condona il debito dell’Africa
Distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani. Sono due notizie “hard” di notevole rilevanza politica mondiale e provengono da Mosca. In sé meriterebbero un’attenzione cospicua, ma il modo di operare del sistema informativo dominante è così impermeabile alle notizie vere sulla Russia, che anche gli eventi suscettibili di grande peso simbolico e politico in campo militare ed economico passano praticamente inosservati. Così siamo informati fino all’ultimo tweet sulla lite fra Donald Trump e i giocatori di football, ma non ci viene detto con bastevole attenzione che il più formidabile arsenale chimico della storia, capace di distruggere diverse volte l’intera vita sul pianeta, ha concluso la sua esistenza il 27 settembre 2017. Né ci viene detto che – sempre in quella data – la Russia ha deciso unilateralmente di cancellare il grosso dei sui crediti che gravavano sui paesi africani più indebitati. Dunque, i fatti. Con tre anni di anticipo sulla tabella di marcia, Mosca ha adempiuto in toto alla Convenzione sulle armi chimiche ratificata 20 anni fa, nel 1997, quando ancora possedeva ben 40mila tonnellate fra gas nervini e sostanze vescicanti.Il presidente Vladimir Putin ha riservato a questo fatto una notevole solennità, come quando si posa la prima pietra di una grande manifattura. Solo che in questo caso la cerimonia è stata invece riservata al mettere fine all’ultimo chilogrammo rimasto degli ultimi due ordigni. Il quantitativo terminale è stato definitivamente distrutto con un ordine impartito da Putin in persona, in videoconferenza con i funzionari inviati presso il villaggio di Kizner, dove si trovava l’ultima goccia dell’arsenale chimico che Mosca ha ereditato dall’Urss. Putin lo ha definito «un enorme passo verso un maggiore equilibrio e sicurezza nel mondo di oggi». Ha ricordato che per adempiere al trattato internazionale il suo paese ha speso tanto e ha investito in imprese high-tech in grado di neutralizzare l’intero arsenale. Ha poi ricordato che gli Stati Uniti stanno opponendo ogni tipo di scusa economica e finanziaria per giustificare i continui rinvii sulla completa distruzione del proprio arsenale. «Onestamente, questa storia della mancanza di fondi mi suona proprio strana», ha ironizzato Putin.La Russia in questi anni ha padroneggiato strategicamente il tema dell’eliminazione delle armi chimiche, al punto da ottenere grandi dividendi politici nelle negoziazioni internazionali: nel 2013 Mosca impedì l’aggressione diretta delle forze armate occidentali alla Siria mettendo sul piatto della bilancia la completa eliminazione dell’arsenale chimico siriano (che a suo tempo Damasco aveva costruito come deterrente opposto alle decine di bombe atomiche detenute da Israele). Fu una tappa diplomatica fondamentale per rovesciare poi le sorti del conflitto siriano a sfavore della galassia jihadista. E ora arriva quella che il turco Ahmet Üzümcü – direttore dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche – definisce come una «grande pietra miliare» per il disarmo chimico mondiale.Ovviamente questa non è ancora la fine delle armi di distruzione di massa, visto che tutte le potenze nucleari continuano a testare nuovi armamenti sempre più micidiali e sofisticati. In proposito, nel suo discorso in videoconferenza, Putin ha sottolineato di avere piena consapevolezza «dei pericoli potenziali e dei rischi associati alla ripresa della corsa agli armamenti e ai tentativi di sconvolgere la parità strategica». Ha sottolineato che la sicurezza globale richiede il dialogo e il «rafforzamento delle misure per la creazione di fiducia». Il disarmo chimico è un passo politico importante e dimostra in modo pratico che grandi misure strategiche di disarmo sono possibili e governabili, magari un domani anche nel campo degli armamenti nucleari.Il condono del debito africano. Lo ricorda il sito “Sputnik”: il presidente Putin ha annunciato la decisione di cancellare «oltre 20 miliardi di dollari di debiti ai paesi dell’Africa», il tutto nell’ambito delle «iniziative per aiutare i paesi poveri fortemente indebitati». Molte partite geopolitiche si stanno giocando ora nel continente africano, e avranno tutte enormi conseguenze sull’energia, le materie prime, le basi militari e i grandi flussi migratori. Il Cremlino cala sul campo una carta che può cambiare lo scenario, con un maggior peso della Russia. L’annuncio del presidente russo è stato fatto in occasione del suo incontro con Alpha Condé, che è sì il presidente della Guinea, un paese di meno di 11 milioni di abitanti, ma è soprattutto il presidente dell’Unione Africana, che ricomprende tutti i 54 Stati dell’Africa (1,1 miliardi di abitanti).(Pino Cabras, “Russia: distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani”, da “Megachip” del 29 settembre 2017).Distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani. Sono due notizie “hard” di notevole rilevanza politica mondiale e provengono da Mosca. In sé meriterebbero un’attenzione cospicua, ma il modo di operare del sistema informativo dominante è così impermeabile alle notizie vere sulla Russia, che anche gli eventi suscettibili di grande peso simbolico e politico in campo militare ed economico passano praticamente inosservati. Così siamo informati fino all’ultimo tweet sulla lite fra Donald Trump e i giocatori di football, ma non ci viene detto con bastevole attenzione che il più formidabile arsenale chimico della storia, capace di distruggere diverse volte l’intera vita sul pianeta, ha concluso la sua esistenza il 27 settembre 2017. Né ci viene detto che – sempre in quella data – la Russia ha deciso unilateralmente di cancellare il grosso dei sui crediti che gravavano sui paesi africani più indebitati. Dunque, i fatti. Con tre anni di anticipo sulla tabella di marcia, Mosca ha adempiuto in toto alla Convenzione sulle armi chimiche ratificata 20 anni fa, nel 1997, quando ancora possedeva ben 40mila tonnellate fra gas nervini e sostanze vescicanti.
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Craig Roberts: americani folli, stanno ammazzando i russi
La Russia ha portato le prove che Washington sta collaborando con l’Isis negli attacchi contro le forze armate della stessa Russia. In un attacco condotto da Washington, l’Isis ha cercato di catturare 29 poliziotti militari russi. Tuttavia, sono entrate in azione le forze speciali russe e il risultato ha prodotto perdite incredibili per l’Isis. In un altro attacco condotto da Washington, il generale Valery Asapov e due colonnelli russi sono stati uccisi durante un assalto in violazione degli accordi. Prima o poi il governo russo si renderà conto che quello di Washington non è un governo razionale con cui si può parlare di diplomazia, perseguire la pace o raggiungere qualche accordo. Prima o poi il governo russo si renderà conto che, lungi dall’essere razionale, Washington è un insieme di psicopatici, pazzi criminali che sono arrivati a capo di tutto il complesso militare e della sicurezza che, a turno, badano solo a tutelare i loro enormi profitti. In altre parole, per i poderosi gruppi di interesse che controllano il governo degli Stati Uniti, la guerra è un centro di profitto.Non c’è diplomazia russa che basti per far qualcosa su questo punto. È un peccato che il governo russo non si sia reso conto di chi erano quelli con cui stavano trattando. Se il governo russo non avesse dovuto sottoporre la propria razionalità all’ombra di Washington, la guerra in Siria sarebbe già finita da un paio di anni; invece, sperando di giungere ad un accordo, i russi hanno accettato i tanti “stop-&-go” che chiedeva Washington per guadagnare tempo e per riprendere fiato dallo shock prodotto dall’intervento dei russi e per mettere in atto il piano per dividere la Siria e mantenere così il conflitto vivo per sempre. Ma le speranze di una pacificazione sono venute a mancare e il pericolo di cui il ci avvertiva “The Saker” è diventato reale.Le proteste dei calciatori neri che si sono rifiutati di restare sull’attenti durante l’inno nazionale sono arrivate in un momento sfortunato. Fanno buon gioco a tutto il complesso militare e della sicurezza, che sta usando la voce forte del presidente Trump – che sfida l’“anti-americanismo” – per fustigare il fervore patriottico. È incredibile come le persone ci caschino ogni volta. Il complesso militare e di sicurezza e le loro “press-titutes” stanno facendo sollevare la rabbia della gente contro coloro che “attaccano il nostro paese”. Questa rabbia si sposterà presto ai giocatori-neri di football contro la Russia. Dopo essersi messi in tasca la gente, il complesso militare e di sicurezza potrà alzare il livello delle sue sconsiderate provocazioni contro la Russia fino a quando non saremo tutti morti.(Paul Craig Roberts, “Washington ha cominciato il suo conflitto militare contro la Russia”, dal blog “LeRockWell.com” del 27 settembre 2017, tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”. Prestigioso analista geopolitico, Craig Roberts è stato viceministro del Tesoro nel governo di Ronald Reagan).La Russia ha portato le prove che Washington sta collaborando con l’Isis negli attacchi contro le forze armate della stessa Russia. In un attacco condotto da Washington, l’Isis ha cercato di catturare 29 poliziotti militari russi. Tuttavia, sono entrate in azione le forze speciali russe e il risultato ha prodotto perdite incredibili per l’Isis. In un altro attacco condotto da Washington, il generale Valery Asapov e due colonnelli russi sono stati uccisi durante un assalto in violazione degli accordi. Prima o poi il governo russo si renderà conto che quello di Washington non è un governo razionale con cui si può parlare di diplomazia, perseguire la pace o raggiungere qualche accordo. Prima o poi il governo russo si renderà conto che, lungi dall’essere razionale, Washington è un insieme di psicopatici, pazzi criminali che sono arrivati a capo di tutto il complesso militare e della sicurezza che, a turno, badano solo a tutelare i loro enormi profitti. In altre parole, per i poderosi gruppi di interesse che controllano il governo degli Stati Uniti, la guerra è un centro di profitto.