Archivio del Tag ‘Iraq’
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Povero Aylan, quelli che ti piangono sono i tuoi assassini
La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.Non solo le élite globali – quelle stesse che per puro cinismo cavalcano lutti e tragedie – sono assolutamente indifferenti rispetto al dolore altrui, ma per giunta lo fomentano e nascostamente lo incaraggiano. Le migrazioni di massa non avvengono per caso: sono il risultato voluto di alcune specifiche politiche che mirano alla realizzazione di altrettanto specifici risultati. Gli uomini che si imbarcano su una carretta nella speranza di raggiungere l’Europa salpano spinti quasi sempre dagli stessi mostri: la fame e la guerra. La fame e la guerra sono due “eggregore” dolosamente evocate all’interno di alcuni occulti cenacoli, popolati da uomini che puzzano di zolfo posti ai vertici di una maleodorante catena di comando. La fame è il risultato delle politiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, strumento di pressione e di morte che diffonde scientificamente miseria in tutte le zone povere e meno povere del pianeta. Ora guidato dall’ineffabile Christine Lagarde, il Fondo Monetario Internazionale – nato con ben altri propositi – ha gradualmente assunto le sembianze di un essere deforme, rapace testa di ariete pronta a succhiare l’anima e la vita di tutti i popoli finiti disgraziatamente sotto le sue melliflue cure.L’istituto della Lagarde è di fatto il braccio armato delle élite neoliberali, statunitensi ma non solo, pronte a saccheggiare ovunque ricchezza con la scusa di diffondere il verbo che predica e decanta le virtù del “liberoscambismo”. La guerra, parimenti, è figlia diretta del lavorio degli stessi identici “alchimisti”, sepolcri imbiancati che sganciano bombe nel nome della democrazia così come quegli altri levano il pane agli affamati nel nome dell’opulenza. Orwell è in mezzo a noi. Le élite globali, scatenando fame e miseria con l’inganno per il tramite del ferreo controllo dei mezzi di informazione, ottengono perciò risultati previsti e voluti. L’arrivo di immigrati disperati serve anche a ricattare i proletari che vivono in Occidente, messi in condizione di dover competere sul piano salariale con nuova manodopera che va ad ingrossare “l’esercito di riserva” di marxiana memoria. L’influsso delle teorie di Kalergi, propugnatore della creazione in vitro di una razza “meticcia” – in quanto tale presuntivamente manipolabile dai nuovi signori dello spirito – offre poi una aggiuntiva chiave di interpretazione ad uso e consumo dei palati più intransigenti.Le guerre in Libia e in Siria, così come quelle più antiche riguardanti Iraq e Afghanistan, gonfiano inoltre il portafoglio dei trafficanti d’armi, notoriamente molto influenti presso i più importanti governi d’Occidente. Tragedie così permettono infine ad un esponente del nazismo tecnocratico come Angela Merkel – direttamente responsabile dell’aumento della mortalità infantile in paesi colonizzati e schiavizzati come la Grecia – di indossare le vesti fintamente candide (in realtà intrise di sangue) del buonismo, aprendo le porte ai rifugiati in fuga a beneficio di telecamera: “Avete visto che Angela non può essere poi così nazista se accoglie perfino gli ultimi della Terra?”. Tanto nessuno vi racconterà mai le gesta di coloro i quali fanno finta di abbracciare i disperati subito dopo averli appositamente calati nella scomoda posizione di “disperati”. Quelli che piangono le povere vittime di cotanta barbarie sono gli stessi che li hanno appena uccisi. Ma tanto, annebbiati dal Grande Fratello, nessuno se ne accorgerà mai. Buon viaggio dolce fanciullo. Questo mondo non ti meritava.(Francesco Maria Toscano, “Quelli che hanno finta di piangere sono gli stessi che l’hanno ucciso”, dal blog “Il Moralista” del 6 settembre 2015).La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.
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Madsen: Gladio, terroristi “islamici” per spaventare l’Europa
Strani attentati alle ambasciate, presunti terroristi intercettati sui treni, killer “impazziti” che fanno stragi e poi vengono puntualmente giustiziati dalla polizia. Tutto questo ha un nome preciso: Gladio. Secondo Wayne Madsen, ex funzionario della Nsa, la storica rete “Stay Behind” che la Nato utilizzò per la strategia della tensione in Europa non è mai stata smantellata. E oggi torna utilissima, per intimidire gli europei schiacciati dalla crisi: anziché cercare soluzioni di rottura – politiche, economiche, internazionali – dovremmo restare incollati agli attuali leader, approvando decisioni sempre più autoritarie, “suggerite” dagli Usa, anche di fronte alla crisi dei migranti che agisce come detonatore della recessione economica, mentre il Medio Oriente è in fiamme e qualcuno, al Pentagono, sogna una guerra con la Russia. Già dirigente della struttura spionistica da cui fuggì anche Edward Snowden, scatenando lo scandalo “Datagate” (tutti i leader occidentali monitorati e intercettati), Madsen fu il primo, dopo l’11 Settembre, a evocare il fantasma di Gladio mettendo in collegamento il G8 di Genova con l’attentato alle Torri: due eventi di sangue, figli della stessa matrice, il terrorismo di Stato.Oggi, Madsen denuncia il carattere opaco di troppi recenti attentati, dalla Francia alla Turchia, proprio mentre il quadro internazionale si fa sempre più pericoloso e instabile grazie all’azione “coperta” di Washington, che dopo aver devastato l’Iraq ha innescato la primavera araba, rovesciato Gheddafi scatenando il caos in Libia e infine armato i jihadisti in Siria dando origine al fenomeno Isis, da cui il grande esodo di profughi che sta assediando l’Italia e il resto d’Europa. In un dettagliato report su “Strategic Culture”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, Madsen analizza le troppe “coincidenze” degli ultimi attentati che hanno scosso l’opinione pubblica europea. «La recente sparatoria al consolato americano di Istanbul da parte di due donne, secondo il governo turco membri di un gruppo terroristico di estrema sinistra, il “Revolutionary People’s Liberation Army-Front” (Dhkp-C), così come l’incidente sospetto sul treno ad alta velocità “Thalys” diretto a Parigi da Amsterdam, per Madsen indicano che le operazioni “false flag” condotte dalla rete Stay Behind della Cia dell’epoca della guerra fredda, conosciuta come Gladio, siano di nuovo pienamente operative.Si ritiene che il Dhkp-C sia responsabile di un attentato suicida all’ambasciata americana di Ankara nel 2013, che causò la morte di un agente della sicurezza turca. In quell’attacco, un sito web chiamato “The People’s Cry”, presumibilmente gestito dal Dhkp-C, rivendicò il ruolo di uno dei suoi membri, Ecevit Sanli, come esecutore dell’attentato suicida all’ambasciata, finito con la morte dello stesso Sanli e della guardia turca. Per l’ex analista dell’intelligence Usa, c’è puzza di bruciato: «Il problema generale riguardo alla dichiarazione del coinvolgimento del Dhkp-C è stato un video postato dal “The People’s Cry” e scoperto dal “Site”, un gruppo legato al Mossad israeliano, con base a Washington, noto per aver distribuito ai media discutibili video e comunicati attribuiti ad “Al Qaeda”, “Is”, ed altri presunti gruppi terroristici islamici». Il presunto ritorno del Dhkp-C, continua Madsen, ha fornito al governo turco una copertura per colpire i guerriglieri curdi nella Turchia orientale e insinuare una mentalità da “Stato sotto assedio” nella mente dei votanti turchi, proprio mentre la nazione si avvia verso un’altra elezione nazionale che vedrà opporsi il governo filo-islamico del presidente Recep Tayyip Erdogan all’opposizione laica.Poi c’è il caso del marocchino Ayoub El Khazzani, accusato di essere salito a Bruxelles sul treno diretto a Parigi con l’intenzione di sterminare i passeggeri. Khazzani, che aveva con sé un Ak-47 e altre armi, in una borsa che ha detto di aver “trovato “ in un parco di Bruxelles, è stato sopraffatto da tre americani e un inglese. Due degli americani che hanno aiutato a bloccare Khazzani sono militari statunitensi, il pilota dell’Air Force Spencer Stone e la guardia nazionle dell’Oregon Alek Skarlatos. Il cittadino di nazionalità inglese è Chris Norman, nato in Uganda e residente nel sud della Francia. Si ritiene che Khazzani, nativo di Tetouan in Marocco, al pari degli altri numerosi presunti terroristi in Francia, abbia viaggiato molto all’estero prima di commettere l’attacco terroristico. Fino al 2014 era residente in Spagna, poi si è trasferito in Francia per lavorare per la società di telefonia mobile “Lycamobile”. Si dice che Khazzani «si sarebbe radicalizzato in una moschea di Algeciras, di fronte al territorio inglese di Gibilterra, dove l’intelligence inglese mantiene uno stretto controllo sui territori spagnoli circostanti, inclusa Algeciras». A giugno, si ritiene che l’uomo stesse combattendo a fianco dei guerriglieri dello Stato Islamico in Siria, per poi spostarsi ad Antiochia in Turchia e a Tirana, in Albania.La storia di Khazzani, scrive Madsen, è quasi uguale a quella di Mahdi Nemmouche, il franco-algerino ritenuto responsabile per l’attacco al Museo Ebraico di Bruxelles. Prima, anche Nemmouche avrebbe combattuto con l’Isis in Siria (e avrebbe trascorso del tempo in Inghilterra). Dopo l’attacco al museo di Bruxelles, Nemmouche è salito su un autobus notturno per Marsiglia. Un controllo doganale ha scoperto la sua sacca, contenente un Kalashnikov, un revolver e proiettili. Arrestato dalla polizia francese, Nemmouche ha dichiarato di aver trovato le armi in una macchina parcheggiata a Bruxelles e di averle rubate per poi venderle sul mercato nero a Marsiglia. Khazzani sostiene che voleva usare le armi trovate in un parco di Bruxelles (un Ak-47, una pistola Luger, un taglierino, mezzo litro di benzina e nove caricatori) per derubare i passeggeri del treno “Thalys”, così da comprarsi del cibo, in quanto era senza un soldo e senza casa. «Sia Khazzani che Nemmouche – continua Madsen – erano ben noti alle forze dell’ordine francesi ed europee come potenziali minacce, eppure non è stato fatto nulla per sorvegliare le loro attività».Prima dell’attacco al treno, Khazzani era l’oggetto di una “Fiche S” della polizia francese: un dossier trasmesso a varie forze di polizia europee, per chiedere che il soggetto venisse posto sotto stretta sorveglianza. Inoltre, la polizia spagnola aveva il Dna di Khazzani in archivio. E ancora, prima dell’attacco sul treno, «dossier completi su Khazzani erano in possesso non solo della polizia spagnola, ma anche di quella tedesca e belga, così come di quella francese». Una storia simile a quella di altri attentatori. Il primo fu Mohamed Merah, il franco-algerino che nel 2012 uccise sette persone nella regione di Tolosa, inclusi tre bambini di una scuola ebraica. Lo imitarono Said e Cherif Kouachi, i fratelli franco-algerini che quest’anno hanno attaccato a Parigi la redazione di “Charlie Hebdo”. Anche loro erano oggetto di una “Fiche S” e di altri dossier delle forze dell’ordine francesi. Idem per il caso del franco-maliano-senegalese Amedy Coulibaly, che ha attaccato il supermarket ebraico Hyper-Cacher a Parigi durante l’attacco a “Charlie Hebdo”: pure lui era noto alla polizia e all’intelligence francesi.In altre parole, nessuno dei nuovi presunti terroristi europei viene dal nulla: la polizia li controlla strettamente, fino al momento in cui entrano in azione per riempire le cronache. E non solo in Francia: «Anche i files della polizia e dei servizi segreti danesi hanno restituito il nome del presunto attentatore omicida della sinagoga centrale di Copenhagen e del Festival del Cinema danese, Omar Alhamid Alhussein, un danese di origini palestinesi». Di fatto, «un criminale schedato per violenza, che era stato rilasciato da una prigione danese appena due settimane prima dell’attacco alla singoga». Scontato, anche qui, il finale: «La polizia danese ha sparato e ucciso Alhussein dopo il suo presunto doppio attacco». Quanto al treno “Thalys”, quello dell’attacco “sventato”, stava transitando nella regione di Oignies nell’alta Piccardia in Francia, quando Khazzani è stato bloccato dai passeggeri. Attenzione allora al ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve: «Ha subito suggerito che Khazzani fosse un membro di un gruppo islamista radicale». Non ha perso tempo, il ministro, e si è recato immediatamente a Copenhagen subito dopo gli attacchi alla sinagoga e al festival. «Si dice che Cazeneuve fosse sotto inchiesta, da parte del 45enne commissario di polizia francese Helric Fredou, vicecomandante della polizia giudiziaria di Limoges, per legami con Jeannette Bougrab».La Bougrab, continua Madsen, era la cosiddetta “fidanzata” del redattore ucciso di “Charlie Hebdo” Stephane Charbonnier, “Charb” per i colleghi. La donna sosteneva di essere la fidanzata di Charb, che sarebbe stato il padre di sua figlia. Si dice inoltre che Fredou si sarebbe suicidato al culmine dell’indagine sui legami tra Bougrab e Cazeneuve. «Fredou si sarebbe sparato alla testa in preda allo sconforto dopo aver incontrato la famiglia di una delle vittime degli attentati francesi». Tuttavia, aggiunge Madsen, la famiglia e gli amici di Fredou hanno scartato la possibilità di una presunta depressione del commissario. «Inoltre, essi hanno sottolineato il fatto che Fredou aveva scoperto importanti indizi sugli attentati terroristici, cosa che lo aveva messo in rotta con Cazeneuve». Secondo notizie francesi, Fredou sospettava del ministro fin dai suoi giorni di commissario alla polizia di Cherbourg, località di cui Cazeneuve era stato sindaco. In quel periodo, Fredou «aveva per la prima volta scoperto l’esistenza dei legami di Cazeneuve con il Mossad, della sua relazione con la Bougrab e con la sua congrega di sobillatori anti-musulmani».Madsen non ha dubbi, è certo di riconoscere i sintomi del male oscuro: «La ricomparsa di Gladio sulla scena politica europea è la risposta alla crescente ostilità all’Unione Europea e all’austerità dettata dai banchieri centrali europei». E accusa: «I corporazionisti e i fascisti che hanno portato l’Europa al fallimento stanno ora usando le loro risorse mediatiche per trasformare la minaccia favorita degli ultimi vent’anni, il terrorismo islamico, in una minaccia composita di terroristi islamici che collaborano con una rete internazionale di anarchici». Secondo l’ex stratega dell’intelligence statunitense, «in Grecia, Italia, Turchia e Spagna ci sono segnali che il cambio di paradigma da terrorismo islamico ad anarchismo di sinistra sia già in corso, con attentati altamente sospetti e probabilmente di coperura presso ambasciate e altre strutture». Madsen è convinto che «i media faranno comparire sempre più storie fabbricate per collegare “anarchici” e “jihadisti”».Dopo l’incidente del treno “Thalys” a Bruxelles, Cazeneuve e «il suo amico anti-musulmano e socialista di destra, il primo ministro francese Manuel Valls», stanno richiedendo controlli di tipo aeroportuale alle stazioni ferroviarie europee. «Il fine è dare all’Unione Europea un maggiore controllo politico e sociale sulle popolazioni del continente». Madsen fa notare che l’avanzata di gruppi “anarchici” fino a ieri sconosciuti sta avvenendo negli stessi paesi in cui le operazioni di Gladio erano più ampie: Italia, Turchia e Grecia. «L’Italia era il centro focale per l’“Organizzazione Gladio”, la filiale italiana delle operazioni terroristiche paneuropee gestite dalla Cia». In Turchia, Gladio era conosciuta come “Ergenekon”, e in Grecia come “Operazione Sheepskin”. «Finché Gladio sarà di nuovo attiva in Europa – avverte Madsen – i popoli del continente dovranno avere paura, molta paura».Strani attentati alle ambasciate, presunti terroristi intercettati sui treni, killer “impazziti” che fanno stragi e poi vengono puntualmente giustiziati dalla polizia. Tutto questo ha un nome preciso: Gladio. Secondo Wayne Madsen, ex funzionario della Nsa, la storica rete “Stay Behind” che la Nato utilizzò per la strategia della tensione in Europa non è mai stata smantellata. E oggi torna utilissima, per intimidire gli europei schiacciati dalla crisi: anziché cercare soluzioni di rottura – politiche, economiche, internazionali – dovremmo restare incollati agli attuali leader, approvando decisioni sempre più autoritarie, “suggerite” dagli Usa, anche di fronte alla crisi dei migranti che agisce come detonatore della recessione economica, mentre il Medio Oriente è in fiamme e qualcuno, al Pentagono, sogna una guerra con la Russia. Già dirigente della struttura spionistica da cui fuggì anche Edward Snowden, scatenando lo scandalo “Datagate” (tutti i leader occidentali monitorati e intercettati), Madsen fu il primo, dopo l’11 Settembre, a evocare il fantasma di Gladio mettendo in collegamento il G8 di Genova con l’attentato alle Torri: due eventi di sangue, figli della stessa matrice, il terrorismo di Stato. -
Migranti, il Pentagono: 20 anni di crisi, per piegare l’Europa
Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».Son cazzi amari, come si direbbe senza troppi complimenti nei bar di periferia… Il richiamo a Sarajevo fa tremare i polsi, preoccupa un Pentagono che scalpita e la Nato che si mette “in marcia”. Contro chi? Non è che, per caso, si agirà militarmente contro Assad, in Siria, e il cielo non voglia, contro Putin in Europa? Fra l’altro, l’esternante generale d’alto rango Martin Dempsey, ha partecipato al “fiasco” statunitense in Iraq, durante la seconda guerra americana del Golfo che, guarda caso, ha “dato i natali” all’organizzazione criminale dello stato islamico, anche se allora non si chiamava così. In ogni caso, saranno venti lunghi anni di guerre, di ondate di profughi, di stermini di massa e di crisi economica indotta. Vent’anni con la disoccupazione galoppante in casa e lo Stato islamosunnita alle porte, se non scoppia prima un conflitto nucleare con la Russia, tanto desiderato dagli americani e dalle loro comparse masochiste nell’est europeo, come l’Ucraina euronazista e i baltici anti-russi.Vent’anni di annegamenti in massa nel mare e colonne di disperati che cercheranno di raggiungere, attraverso il sud dell’Europa e i Balcani, la spocchiosa Germania arricchitasi grazie all’euro, ai trattati e al saccheggio dell’Europa meridionale. Vent’anni di stragi di innocenti, di distruzione delle infrastrutture e del patrimonio storico in Medio Oriente e in Africa settentrionale, per opera degli assassini islamosunniti molto utili al Pentagono, molto efficienti nel seminare morte e distruzione, molto abili nel generare nuove ondate di profughi. Sono certo che fin dai prossimi mesi potremo osservare il “fronte del conflitto” che si avvicinerà pericolosamente a noi, a causa di un’avanzata islamista che non si arresta, dalla Siria alla Libia. Tunisia e Algeria saranno a rischio… e l’Italia meridionale e insulare? E’ proprio quello che vogliono i signori del denaro e della finanza, che controllano anche il Pentagono, ed è proprio per questo che la “coalizione internazionale” a guida americana non interviene con decisione contro i macellai della sunnah. Qualche bomba su edifici vuoti e qualche drone bastano e avanzano.L’Europa deve esser messa alle strette per cedere definitivamente sovranità e risorse a loro beneficio. I vertici dell’alleanza atlantica e il Pentagono, in situazioni di guerra, la faranno da padroni. A quel punto, tutto sarà chiaro, e persino i Renzi, gli Hollande e gli Tsipras non serviranno più, a Lor Signori, perché saranno le armi, e chi le controlla (cioè loro stessi), a dettar legge ai popoli. Se scoppierà un conflitto nucleare con la Federazione Russa, dopo tutte le provocazioni orchestrate per arrivare a questo limite, loro s’illuderanno di vincerlo per il controllo dell’intero continente europeo – o di ciò che ne rimarrà in piedi – fino al ventiduesimo secolo. Destabilizzeranno nei prossimi mesi anche un importante Stato-canaglia, la Turchia islamista di Erdogan, che non ha più governo stabile e se ne va verso le elezioni d’autunno, fra attentati e attacchi ai curdi?E’ possibile che lo sacrificheranno cinicamente, per calcolo strategico, generando altre, spaventose ondate di profughi che avranno come unica e sola meta l’Europa. Inoltre, se non hanno mostrato scrupoli a scatenare il satanismo sunnita contro le popolazioni di Siria, Iraq e Libia, causando centinaia di migliaia di morti e più di dieci milioni di profughi, avranno qualche remora a spalancare davanti a noi le porte dell’inferno, per poi “salvarci” e dominarci a piacimento? Chiedetevelo, anche se non potete far nulla e vi sentite impotenti davanti a una dura realtà, perché questa crisi durerà venti anni. Lo dice il Pentagono, che se ne intende…(Eugenio Orso, “Hanno deciso che la crisi durerà vent’anni”, dal blog “Pauper Class” del 4 settembre 2015).Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».
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Fame e cannibalismo: così divoriamo i figli dei poveri
Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.Ogni 12 minuti la povertà uccide tramite la fame 3.600 tra uomini, donne e bambini in tutto il mondo. O, il che è lo stesso: per ogni 5 hot dog a Coney Island 300 essere umani muoiono di inedia in Africa. Nel 1876 il vicere dell’India, lord Lytton, organizzò a Delhi il banchetto più costoso e sontuoso della storia per festeggiare l’assunzione della regina Vittoria a Imperatrice coloniale. Per una settimana 68.000 invitati non smisero di mangiare e bere; in quella settimana, secondo i calcoli di un giornalista dell’epoca, morirono di fame 100.000 sudditi indiani nel quadro di una carestia senza precedenti che falciò almeno 30 milioni di vite e che fu provocata e aggravata dal “libero commercio” imposto dall’Inghilterra. Mentre i colonialisti inglesi mangiavano pernici e agnelli, i sopravvissuti indiani mangiavano i loro stessi figli.La fame, lo sapppiamo, dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. Bisogna avere davvero molta fame per mangiarsi con le lacrime agli occhi il cadavere di un vicino, ma bisogna avere moltissima fame per divorare allegramente 66 hot dog in 12 minuti. Confesso che, ogni volta che penso alle carestie, non mi viene in mente il ventre gonfio di René o il seno vuoto di Samia, ma la voracità applaudita di Joey Chestnut, quale simbolo pubblicitario di un’economia che non può permettersi nemmeno di calmare gli appetiti di chi è sazio. Chestnut non è un cannibale, no, ma in un certo senso si alimenta del dimagrimento degli etiopi, dei tailandesi e degli egiziani: la terza parte del raccolto mondiale di cereali serve ad ingrassare gli animali che noi occidentali ci mangiamo (1 chilo di carne a persona al giorno gli statunitensi, più di ½ chilo gli europei) e basterebbe a dar da mangiare alla terza parte dei 1.000 milioni di persone che, secondo la Fao, patiscono la fame nel mondo.Esagerare è misurare l’incommensurabile, è rendere appprendibile l’irrapresentabile. Esageriamo: Chestnut è un cannibale. Davanti alle 500.000 persone che lo applaudivano si è mangiato René, Randia, Sevére e Samia e altri 3.595 uomini, donne e bambini. Neppure Bokassa dimostrò mai tanto appetito. A Chestnut si può chiedere che mangi meno e anche che si opponga al suo governo, ma in realtà anche lui è solo un’altra vittima della fame. C’è la fame di quelli che non hanno niente e c’è la fame di quelli che non hanno mai abbastanza; la fame di quelli che vogliono qualcosa e la fame di quelli che vogliono sempre di più: più carne, più petrolio, più automobili, più cellulari, più immagini, più giochi e – anche una moralità superiore. La relazione tra le due insoddisfazioni è un sistema globale. Vogliamo un uomo libero e abbiamo una fame libera.Confesso che ogni volta che penso alla fame non mi viene in mente lo scheletro di Sohad né gli immensi occhi febbricitanti di Sevère, ma l’esercito degli Usa in Iraq e l’allegria depredatoria del Carrefour. Esagerare è rimpicciolire l’illimitato, è ridurre lo smisurato a scala umana. Esageriamo: il cannibalismo è, non più obbligatorio, ma elegante. Alcune poche menti privilegiate (da governi e da multinazionali) dedicano ogni loro sforzo a trovare il modo perchè a tutto il mondo, da tutte le parti, manchi qualcosa; perchè i i bambini di Haiti e della Sierra Leone soffrano la fame e si disperino per questo e perchè i consumatori occidentali – dopo aver divorato boschi, fiumi, minerali e animali (con le loro immagini) – si ritrovino affamati e se ne rallegrino.Il capitalismo toglie ai paesi poveri le loro risorse e, allo stesso tempo, le forze per resistere; il capitalismo dà, a noi occidentali, le merci e, allo stesso tempo, la fame necessaria per inghiottirle senza fermarci; la fame diventa così, da un lato e dall’altro, la disgrazia oggettiva di Africa, Asia e America Latina e la felicità soggettiva di un’umanità culturalmente e materialmente insostenibile e condannata alla distruzione. Sì, la carestia dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. La povertà relativa ravviva l’ingegno, inventa soluzioni collettive, improvvisa solidarietà e crea reti sociali di resistenza. Ma, sotto una certa soglia, quando la fame minaccia la sopravvivenza, le trame si disfano e rimangono solo impulsi atomizzati, solitari, animali: individui puri opposti tra loro. Solo in questo senso – biologico e quasi zoologico – si può dire che le nostre società occidentali sono “individualiste”.Qualche volta ho espresso la regola della soddisfazione antropologica con la seguente formula: “Poco è abbastanza, molto è già insufficiente”. Sotto il “poco” c’è la fame e sono impossibili la coscienza, la resistenza e la solidarietà; sopra l’“abbastanza” c’è più fame e sono impossibili anche la coscienza, la resistenza e la solidarietà. “Troppo” vuole sempre “di più”. Abbiamo già superato questo punto, a partire dal quale l’unica cosa che abbiamo – non auto, non carne, non case, non immagini – è fame; e la nostra voracità, come quella di Joey Chestnut, si sta mangiando – mentre scrivo queste righe – non solo Sania e Sohadi e Sevère, tanto annebbiati e lontani, ma anche i suoi stessi figli.(Santiago Alba Rico, “Fame e cannibalismo”, estratto dal libro “Il naufragio dell’uomo”, ripreso da “Come Don Chisciotte” il 27 agosto 2015. Alba Rico è uno scrittore, saggista e filosofo spagnolo).Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.
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Paghiamo il pizzo al Pentagono, purché non faccia più guerre
Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”. La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela. Le lobby della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna elettorale e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a “Medicare” e “Medicaid”, e quindi «mettere gli “entitlements” [diritti acquisiti] sotto controllo». “Entitlements” è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La “Social Security” e “Medicare”, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”.La destra continua senza sosta a parlare della “Social Security” e di “Medicare” come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici. Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della “Social Security”. Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza. I veri “entitlements” non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da Stati-fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.Il budget militare è nient’altro che un “entitlement” per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono. Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo “entitlement”. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero. L’invasione statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4.000 americani morti, oltre 30.000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni americani distrutti e carriere perdute, un milione di iracheni morti, quattro milioni di iracheni profughi e un paese ridotto in macerie. Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco, dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice. Non c’è alcun interesse nazionale americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex ambasciatore britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobby pensano che i loro “entitlements” non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre. In realtà, il popolo americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. La Russia di Putin ha già paragonato gli Usa alla Germania nazista, e il premier cinese ha paragonato gli Usa a un debitore irresponsabile e immorale. Gli inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq.Agli investigatori inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli Usa, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa. Nel frattempo, le banche d’investimento Usa, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli Usa, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli Usa. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con occhio critico. I sondaggi nel mondo mostrano che gli Usa e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Corea. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà spinto dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà “grazie a Dio, che liberazione”.(Paul Craig Robers, estratti da “Il fantoccio Obama”, intervento pubblicato da “Information Clearing House” e ripreso dal blog “Vox Populi” il 25 agosto 2015. Eminente economista e politologo, Craig Roberts fu tra i più stretti collaboratori di Ronald Reagan).Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.
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Mini: è tutto falso, in questa guerra (mondiale) per bande
Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla Seconda Guerra Mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo Stato.Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: «E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili.Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo).Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: «Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito ( e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Iraq e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica Scientifica” del 6 agosto 2015. Generale di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo, Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a.”, Einaudi, 171 pagine, 12 euro).Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.
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Zeman: ipocriti, siamo noi a creare migranti e terroristi
A quanto pare, in Europa non ci sono soltanto politici come Renzi e la Merkel, Hollande e Napolitano. Esistono anche personaggi capaci di esprimersi in modo insolitamente franco e diretto. Come il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, che ammonisce: piantiamola di lamentarci dell’ondata di migranti, siamo stati noi – accodandoci agli Usa – a provocare i terremoti, tra Africa e Medio Oriente, da cui stanno fuggendo, ininterrottamente, milioni di profughi. «Di questo grande afflusso di rifugiati e di clandestini illegali verso l’Europa sono responsabili gli Stati Uniti e i paesi europei che hanno partecipato all’esecuzione dei piani dementi attuati in paesi come l’Iraq, la Libia e la Siria», ha detto Zeman al giornale ceco “Blesk”. «L’attuale ondata di immigrazione in Europa è sorta a causa della idea demenziale di invadere l’Iraq, dove presumibilmente (secondo gli Usa) si immagazzinavamo grandi armi di distruzione di massa, ma alla fine non si è trovato nulla del genere. Questa ondata deriva anche a causa dell’idea folle di voler “restaurare l’ordine” in Libia e successivamente in Siria».Oltre alla fame, l’eredità più grave del devastante intervento occidentale in quelle terre è la paura: caduti i regimi precedenti, ora quei paesi sono in mano a fanatici e tagliagole finto-islamici, sapientemente pilotati. «Come risultato di queste azioni», ha aggiunto il presidente della Repubblica Ceca, «sono venuti fuori in quei paesi regimi di terroristi che, in ultima istanza, hanno spinto l’attuale flusso incontrollato di migranti illegali in Europa». Di chi è la colpa? Tutta nostra: «La responsabilità di tutto questo non ricade soltanto sugli Stati Uniti, ma anche sui paesi dell’Unione Europea che hanno dato il loro assenso nel partecipare a queste operazioni belliche insensate, come avvenuto in Libia». L’intervento di Zeman “risponde” anche alle recenti manifestazioni popolari organizzate a Brno per protestare contro la politica migratoria della Ue: gli attivisti si sono mostrati contrari ad attuare le politiche migratorie di accoglienza per quote, dettate dalla Commissione Europea.Il presidente Zeman è lo stesso che, mesi addietro, in occasione della sua visita programmata a Mosca per presenziare ai festeggiamenti per i 70 anni della vittoria dell’Unione Sovietica nel secondo conflitto mondiale, aveva letteralmente cacciato dalla residenza presidenziale di Praga l’ambasciatore statunitense, Andrew Schapiro, che era venuto a suggerigli di “non recarsi in Russia” per uniformarsi alle decisioni sanzionatorie di Washington. In quell’occasione Zeman aveva dichiarato: «Qualcuno potrebbe immaginare il nostro ambasciatore a Washington mentre porge “raccomandazioni” al presidente Obama su dove deve o non deve recarsi in visita?». Sempre esplicito, Zeman, citato anche da “Radio Praga”: «Non permetto a nessun ambasciatore straniero di interferire nelle mie visite pianificate».A quanto pare, in Europa non ci sono soltanto politici come Renzi e la Merkel, Hollande e Napolitano. Esistono anche personaggi capaci di esprimersi in modo insolitamente franco e diretto. Come il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, che ammonisce: piantiamola di lamentarci dell’ondata di migranti, siamo stati noi – accodandoci agli Usa – a provocare i terremoti, tra Africa e Medio Oriente, da cui stanno fuggendo, ininterrottamente, milioni di profughi. «Di questo grande afflusso di rifugiati e di clandestini illegali verso l’Europa sono responsabili gli Stati Uniti e i paesi europei che hanno partecipato all’esecuzione dei piani dementi attuati in paesi come l’Iraq, la Libia e la Siria», ha detto Zeman al giornale ceco “Blesk”. «L’attuale ondata di immigrazione in Europa è sorta a causa della idea demenziale di invadere l’Iraq, dove presumibilmente (secondo gli Usa) si immagazzinavamo grandi armi di distruzione di massa, ma alla fine non si è trovato nulla del genere. Questa ondata deriva anche a causa dell’idea folle di voler “restaurare l’ordine” in Libia e successivamente in Siria».
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Sbriciolare la Siria, con missili Usa e mercenari jihadisti
«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice: scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti – afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire efficacemente la Siria».La comunità internazionale, scrive l’analista Usa, dovrebbe «lavorare a creare sacche» fuori dal controllo di Damasco, per poi «espanderle nel tempo». Letteralmente: «Forze americane, saudite, turche, britanniche, giordane e di altri Stati arabi agirebbero da costante supporto, non soltanto via aria, ma anche mediante l’uso di forze speciali di terra quando necessario», al fianco degli “elementi moderati” sul terreno (“moderati” come quelli che fecero uso di armi chimiche per poi incolpare della strage il regime). «Questo approccio – continua O’Hanlon – consentirebbe di trarre vantaggio dagli ampi spazi aperti desertici siriani che consentirebbero la creazione di zone cuscinetto che si potrebbero tenere sotto costante controllo per riconoscere in tempo ogni possibile segno di attacco nemico». L’obiettivo intermedio, aggiunge lo stratega del Brookings Insitute, sarebbe «una Siria confederale, costituita da varie zone largamente autonome», cioè sottoposte a una forza occidentale «che addestri e equipaggi ulteriori reclute, in modo che le zone possano essere stabilizzate ed eventualmente espanse».«Non è questa la strategia di fondo che vediamo in gioco in Siria già adesso?», si domanda Whitney in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”. «E’il caso di notare come O’Hanlon non considera mai neanche un attimo le implicazioni morali di cancellare una nazione sovrana, di uccidere decine di migliaia di civili e di sradicarne altrettanti dalle loro dimore. Questo genere di cose sono semplicemente indifferenti per gli esperti che concepiscono queste strategie imperiali. E’ solo altra farina da macinare». Whitney fa notare inoltre che l’autore dello studio si riferisce a “zone cuscinetto” e “zone sicure”, ovvero «i medesimi termini che sono stati usati ripetutamente nell’ambito dell’accordo Usa-Turchia sull’uso da parte degli americani della base aerea di Incirlik». La Turchia ha chiesto agli Usa di assistere nella creazione di queste “zone sicure” lungo il confine Nord della Siria, in modo che fungano da “santuari” per l’addestramento delle cosiddette forze moderate da impiegare nella “guerra contro l’Isis”. Questo è il piano di O’Hanlon per frammentare lo Stato in milioni di enclaves disconnesse tra loro, «ognuna retta da un manipolo di mercenari armati, affiliati ad Al Qaeda o signori della guerra locali».«Ecco il sogno di Obama di una “Siria liberata”, uno Stato fallito precipatato nell’anarchia con una bella spruzzata di basi americane sopra, così che si potranno arraffare ed estrarne tutte le risorse senza impedimenti», aggiunge Whitney. «Quello che Obama vuole evitare a tutti i costi è un altro imbarazzante flop come l’Iraq, dove la rimozione di Saddam ha lasciato un vuoto di potere e una sensazione di insicurezza che ha portato a violenta e protratta rivolta che è costata cara agli Usa in termini di sangue, finanze e credibilità internazionale». Ecco la strategia oggi è diversa: «Gli obiettivi non sono mai cambiati, cambiano solo i metodi». Il piano, ammete lo stesso O’Hanlon, «non sarebbe diretto soltanto contro l’Isil, ma in parte anche contro Assad, senza mirare a rovesciarlo direttamente, ma piuttosto a negargli ogni possibilità di tornare a governare i territori su cui potrebbe aspirare a riottenere il controllo». Le “zone autonome” sarebbero “liberate” «con l’esplicito intendere che non torneranno mai sotto controllo di Assad o eventuale successore». E attenzione: «Se Assad continuasse a rifiutare di accordarsi per l’esilio, prima o poi si ritroverebbe vicino a costanti minacce al suo potere, se non alla sua persona».Tutto questo, conclude Whitney, significa che «la Siria è designata come laboratorio per la gran strategia per i cambi di regime di O’Hanlon, una strategia nella quale Assad figura come porcellino d’India da esperimenti numero uno». E’ lo stesso O’Hanlon a spiegare che questo piano «scoraggerebbe chi possa pensare che Washington si accontenti di tollerare il governo Assad in quanto male minore». In pratica, per come la vede O’Hanlon, la Casa Bianca dovrebbe «abbandonare la pretesa di stare combattendo l’Isis e ammettere esplicitamente che l’imperativo è “Assad deve sparire”», chiarisce Whitney. Secondo O’Hanlon, «questo aiuterebbe a sistemare le cose con altri membri della coalizione che hanno dubbi rispetto alle reali intenzioni di Washington». L’uomo del Brookings Institute parla chiaro: «Squadre di supporto multilaterali, divise in forze speciali di terra e unità di difesa aerea devono essere sempre pronte al dispiegamento nelle diverse parti della Siria ogni volta che le forze di opposizione riescano a conquistare e mantenere nuove postazioni sicure. Questa chiaramente sarebbe la parte più delicata, e il dispiegare squadroni sarebbe sempre pericoloso. Non bisognerebbe mai ordinare missioni in fretta e furia, ma farlo in maniera ponderata, tuttavia è parte indispensabile dello sforzo».Traduzione di Whitney: «Stivali americani marceranno sul suolo della Siria, possiamo scommetterci. Va benissimo fare il miglior uso della carne da cannone jihadista per condurre la carica e indebolire il nemico, poi al momento giusto basta mandare la prima squadra e si è chiuso l’affare. Questo vuol dire invio di forze speciali, “no fly zone” su tutta la Siria, basi militari sul campo e una bella campagna di propaganda per continuare a convincere la “sheeple” (sheep+people, popolazione gregge) che per difendere la sicurezza nazionale Usa occorre necessariamente distruggere la Siria». Tutto questo, aggiunge Whitney, diventerà chiaro nella “fase due” della guerra, che è sul punto di intensificarsi. Per O’Hanlon, nonostante i rischi, il livello di coinvolgimento militare diretto degli Usa «non sarebbe particolarmente più sostanziale di quello che è stato necessario in Afghanistan durante l’ultimo anno».Per cui, «sarebbe auspicabile che il presidente Obama non guardasse alla questione come un problema da lasciare in eredità al successore, ma piuttosto come una crisi urgente che richiede tutta la sua attenzione e la definizione di una nuova strategia al più presto». Ed ecco dunque il piano per «fare a pezzi la Siria, precipitarla in una crisi umanitaria anche peggiore di quella in cui già si trova e fare crollare Assad senza dover andare in prima persona a rimuoverlo dall’ufficio», scrive Whitney. «Un bel po’ di massacro e distruzione», in un mini-saggio di appena 1.100 parole. «Complimenti all’autore per le doti di sintesi. A noi non resta che domandarci se questi cervelloni stretegici pensano mai a quanto dolore comportano le loro grandi strategie, se gliene freghi almeno qualcosa delle conseguenze». Il piano, peraltro, sembra già in marcia. Subito dopo l’accordo con l’Iran, Obama ha promosso la “no fly zone” sul Kurdistan siriano: prima mossa dell’atroce risiko di cui parla O’Hanlon.«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice: scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti – afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire efficacemente la Siria».
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Obama fa pace con l’Iran. Smetterà di sostenere l’Isis?
«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?Ci spera Vladimir Putin, super-negoziatore accanto all’Iran, secondo cui l’accordo contribuirà alla lotta al terrorismo in Medio Oriente. Il presidente russo parla di «miglioramento della sicurezza globale e regionale, dato dal rafforzamento dell’accordo di non-proliferazione del nucleare», fino alla eventuale «creazione, in Medio Oriente, di una zona libera da armi di distruzione di massa». Il vero problema, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è iniziato quando il ministro degli esteri russo Sergeij Lavrov ha affermato che Mosca si aspetta la cancellazione del piano di difesa missilistica di Washington, dopo che l’accordo con l’Iran ha dimostrato che Teheran non è, e non sarà, una “minaccia” nucleare. «Ecco l’ostacolo. Il Pentagono semplicemente non vuole cancellare una parte della propria dottrina militare “Full Spectrum Dominance”», accampando banali ragioni “diplomatiche”. «Ogni analista di sicurezza non accecato dall’ideologia sa che la difesa missilistica non è mai stata rivolta all’Iran, ma alla Russia. L’ultima analisi militare del Pentagono menziona – non a caso – le maggiori figure asiatiche (Iran, Russia e Cina) come “minacce” alla sicurezza nazionale statunitense».Dal punto di vista delle relazioni Iran-Russia, aggiunge Escobar, il commercio è destinato ad aumentare, specialmente in nanotecnologie, componenti meccaniche e agricoltura. Sul fronte energetico, l’Iran sicuramente competerà con la Russia sui più importanti mercati come la Turchia e presto l’Europa occidentale, ma c’è ampio margine per Gazprom e l’iraniana Nioc (National Iranian Oil Company) per spartirsi le quote di mercato. Il capo di Nioc, Mohsen Qamsari, anticipa che l’Iran darà priorità alle esportazioni verso l’Asia e proverà a recuperare almeno il 42% del mercato che aveva in Europa prima delle sanzioni. «Piuttosto mediocre», secondo Escobar, reazione di Washington: «Obama ha preferito affermare – giustamente – che ogni percorso che portasse ad armi nucleari iraniane è stato impedito, e ha promesso di porre il veto a qualsiasi intervento del Congresso atto a bloccare l’accordo. Quando ero a Vienna, la settimana scorsa, ho avuto una conferma sicura – da fonte europea – che l’amministrazione Obama è fiduciosa di avere i voti necessari a Capitol Hill».Cosa succederà a tutto quel greggio iraniano? Tariq Rauf, ex capo delle politiche di sicurezza dell’Aiea, l’agenzia Onu per il controllo del nucleare, e ora direttore del programma di non-proliferazione e disarmo all’Istituto di Ricerca Internazionale sulla Pace di Stoccolma (Sipri), definisce l’intesa «il più importante accordo multilaterale sul nucleare degli ultimi vent’anni», dopo quello contro i test nucleari del 1996, al punto di proporre il Nobel per la Pace per il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. «Ricostruire la fiducia tra Iran e Usa, tuttavia, sarà una via lunga e pericolosa», spiega Escobar. Teheran ha acconsentito a una moratoria di 15 anni per limitare di due terzi la sua potenzialità di arricchimento dell’uranio. Entro il 15 dicembre, tutte le questioni ancora in sospeso – si parla di 12 punti – andranno chiarite, e l’Aiea farà una valutazione finale. «Uno dei punti più spinosi è stato risolto quando Teheran ha permesso agli ispettori dell’Onu di visitare potenzialmente tutti i siti». Non ci saranno ispettori statunitensi, ma solo di nazioni con relazioni diplomatiche in atto con l’Iran. Tuttavia, «l’implementazione dell’accordo richiederà almeno i prossimi 5 mesi», sicché «le sanzioni verranno tolte solo all’inizio del 2016».L’Iran diventerà una calamita per gli investimenti esteri, continua Escobar: «Le più grandi multinazionali occidentali e asiatiche sono già ai blocchi di partenza per iniziare a martellare questo mercato praticamente vergine, con più di 70 milioni di abitanti, tra cui una classe dall’educazione molto valida. Ci sarà un boom in settori come l’elettronica, l’industria dell’auto e il turismo e il tempo libero». Poi c’è, come al solito, il greggio. «L’Iran ha ben 50 milioni di barili conservati in porto – pronti ad essere buttati sul mercato globale. Il cliente preferito sarà, inevitabilmente, la Cina – dato che l’Occidente resta imbrigliato nella recessione. Il primo punto all’ordine del giorno iraniano è riacquisire le fette di mercato perse a vantaggio dei produttori del Golfo. Attualmente il trend dei prezzi del greggio è in discesa – quindi l’Iran non può contare su grandi profitti a medio-breve termine». E la “guerra al terrore”, finora solo promessa da Obama? Tanto per cominciare, «l’embargo ai danni dell’Iran per quanto riguarda le armi convenzionali resta in essere, per 5 anni: è assurdo, se paragonato ad Israele e alla Casa di Saud che continuano ad armarsi fino ai denti».Lo scorso maggio, ricorda Escobar, il Congresso Usa ha approvato un vendita di armi da 1,9 miliardi di dollari ad Israele. Comprende 50 bombe anti-bunker Blu-113 («per far cosa? Bombardare il sito iraniano di Natanz?») e 3.000 missili Hellfire. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, secondo il Sipri, la Casa di Saud ha speso ben 80 miliardi di dollari in armi lo scorso anno: più del potenziale nucleare di Francia e Gran Bretagna. L’Arabia Saudita «sta foraggiando una – illegale – guerra in Yemen», accusa il giornalista. «Il Qatar non sta indietro di molto. Ha raggiunto un accordo da 11 miliardi di dollari per acquistare elicotteri Apache e sistemi di difesa missilistica Patriot, e ha in programma di comprare un sacco di caccia F-15». Trita Parsi, presidente del Consiglio Nazionale Statunitense-Iraniano, va dritto al punto: «L’Arabia Saudita spende per la difesa 13 volte l’Iran, ma in qualche modo l’Iran, e non l’Arabia Saudita, è visto dagli Usa come un potenziale aggressore». Questa è la realtà: «Quindi, qualsiasi cosa succeda, aspettiamoci giorni duri», conclude Escobar, presente ai negoziati di Vienna.A un ristretto gruppo di giornalisti indipendenti, racconta Escobar, il ministro degli esteri Zafidha rivelato che le negoziazioni saranno un successo perché Usa e Iran si sono accordati sul «non umiliarsi a vicenda». Ha affermato di aver pagato «un alto prezzo domestico per non incolpare gli statunitensi» e ha elogiato Kerry come «un uomo ragionevole». Ma era molto sospettoso dell’establishment Usa, «fermamente intenzionato a non togliere le sanzioni». Zarif ha anche elogiato l’idea russa: in seguito all’accordo, sarebbe ora di creare una vera coalizione contro il terrorismo, unendo Stati Uniti, Iran, Russia, Cina ed Europa – anche se Putin e Obama hanno acconsentito a lavorare insieme per “questioni regionali”. «La diplomazia iraniana dava segnali del fatto che l’amministrazione Obama si è finalmente resa conto che l’alternativa ad Assad in Siria è l’Isis/Isil/Daesh, non il “libero” esercito siriano». Un tale grado di collaborazione, dopo il muro della diffidenza, deve ancora essere visto. Solo allora «sarà veramente possibile valutare chiaramente se l’amministrazione Obama avrà preso una decisione strategica e se la “normalizzazione” delle relazioni con l’Iran comporti più di quanto non stia alla luce del sole», compresa quindi la liquidazione dell’armata di tagliagole telecomandati che agisce in favore di telecamera.«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Pura ferocia, ecco l’Ue: spietata, contro il pallido Tsipras
Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, gli se esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.Alla sopravvivenza economica della Grecia, scrive Varoufakis, l’Ue ha preferito «il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte sul debito pubblico ellenico». Nulla di così strano: l’anomalia, semmai, consiste nel fatto che il debito statale di Atene sia stato finanziato da banche private, attraverso la moneta privata chiamata euro. L’austerity che ha devastato la Grecia, facendone crollare il Pil del 25%, serviva solo a “rifondere” le banche straniere, non certo a risollevare l’economia di Atene. «Una volta che questa sordida operazione è stata completata, l’Europa si è subito inventata un altro motivo per rifiutarsi di discutere la ristrutturazione del debito: andava a colpire le tasche dei cittadini europei! E quindi – continua Varoufakis – venivano somministrate dosi ancora maggiori di austerità, mentre il debito cresceva spingendo i creditori a erogare nuovi prestiti in cambio di altra austerità».Il governo Tsipras, continua l’ex ministro, è stato eletto «per porre fine a questo circolo vizioso, per esigere un haircut del debito e mettere fine all’austerità». Mission impossible, ovviamente, sotto il regime euro-Ue: Syriza, invece, si è fatta eleggere raccontando ai greci che sarebbe stato possibile passare all’inferno al paradiso, pur restando nell’Eurozona. Il resto sono dettagli: «Le trattative – racconta Varoufakis – si sono arenate nella ben nota impasse per una semplice ragione: i nostri creditori continuavano a negare qualsiasi ristrutturazione, mentre allo stesso tempo esigevano che il nostro debito, che non è pagabile, fosse rimborsato “parametricamente” dalle fasce più deboli della popolazione greca, dai loro figli e dai loro nipoti». In realtà, il debitro sovrano non è mai “pagabile”, non lo è mai stato e non deve esserlo: il debito del Giappone rappresenta il 250% del Pil ma non è un problema, perché lo Stato – padrone della sua moneta – è in grado di sostenerlo in qualsiasi momento. Nell’Eurozona, invece, si “deve” ricorrere al denaro dei banchieri, che non concedono prestiti a scopo di beneficenza.Lo stesso Varoufakis ricorda che, nella sua prima settimana da ministro, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem (l’Eurogruppo è l’assemblea dei ministri delle finanze europei) lo mise «brutalmente» messo di fronte a un ultimatum: «Accettare la logica dei bailout e rinunciare a ogni pretesa di ristrutturazione, altrimenti il nostro accordo sui nuovi prestiti sarebbe stato cancellato – con l’implicita conseguenza non detta che le nostre banche avrebbero dovuto chiudere». Dopo cinque mesi di trattative, eccoci al redde rationem: le “istituzioni” europee, guidate da Merkel e Schaeuble, impongono a Tsipras di rimangiarsi tutto, per screditarlo di fronte ai greci, dopo l’intollerabile sfida democratica del referendum contro l’austerity. Nel 2010, ricorda ancora Varoufakis, la minaccia della Grexit «nel 2010 spaventava a morte gli investitori finanziari perché le loro banche erano piene zeppe di debito greco». E ancora nel 2012, «nonostante Wolfgang Schaeuble ritenesse che i costi della Grexit avrebbero avuto il vantaggio di disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva continuava a creare grandi preoccupazioni». Quando invece Syriza è andata al potere a gennaio scorso, «a conferma del fatto che i bailout non hanno realmente lo scopo di salvare la Grecia (ma piuttosto quello di costruire una muraglia cinese attorno al nord Europa), una larga maggioranza dell’Eurogruppo – sotto la tutela di Schaeuble – ha considerato la Grexit come l’esito più favorevole e l’ha adoperata come minaccia contro il nostro governo».Varoufakis sostiene che i greci, «giustamente», hanno «i brividi al pensiero di essere amputati dall’unione monetaria». Il problema è proprio l’euro, «una moneta completamente controllata da creditori ostili alla ristrutturazione del nostro insostenibile debito nazionale». Per uscire dall’euro, secondo l’ex ministro, «dovremmo inventarci una valuta dal nulla: nell’Iraq occupato c’è voluto un anno per introdurre nuove banconote, circa 20 Boeing 747, la mobilitazione di tutta la potenza militare americana, tre stabilimenti per stampare il denaro, centinaia di camion. Senza questi aiuti – continua Varoufakis – sarebbe come se la Grecia dovesse annunciare una grossa svalutazione con 18 mesi di anticipo, il che porterebbe all’immediata liquidazione di tutti i capitali investiti e al loro trasferimento all’estero con ogni mezzo possibile». Così, con la minaccia della Grexit che rafforzava il “bank run” indotto dalla Bce, «il nostro tentativo di rimettere sul tavolo la questione della ristrutturazione si è scontrato contro un muro di gomma. Tutte le volte ci rispondevano che quella era una questione da affrontare in un non meglio specificato futuro successivo alla completa realizzazione del “programma”».Scontata, quindi, l’intransigenza tedesca, anche di fronte al tentativo del successore di Varoufakis, Euclid Tsakalaotos, che ha tentato di convincere «un Eurogruppo chiaramente ostile» che la ristrutturazione del debito «è un prerequisito per il successo delle riforme in Grecia». Finalmente, Varoufakis ammette che il problema è proprio la moneta unica europea: «L’euro è un ibrido fra un vincolo valutario fisso come l’Erm del 1980 o il gold standard e una “moneta di Stato”. Il primo fonda la sua forza sulla paura di esserne espulsi, mentre la “moneta di Stato” implica meccanismi di riciclo (reinvestimento) dei surplus fra Stati membri», ad esempio un budget federale e l’emissione di titoli di Stato in comune, gli eurobond invocati inutilmente già ai tempi di Tremonti. «L’euro è una via di mezzo – più vincolo monetario che moneta di Stato». Di statale, in realtà, l’euro non ha nulla: è anzi il braccio operativo dell’élite finanziaria interessata a lucrare sullo smantellamento degli Stati, ma questo Syriza non l’ha mai osato dire.Anche oggi, Varoufakis si limita in fondo a considerazioni tattiche: «Il ministro delle finanze tedesco – scrive, sul “Guardian” – vuole che la Grecia venga costretta a uscire dalla moneta unica per mettere una paura del diavolo ai francesi e convincerli ad accettare un modello di Eurozona di tipo disciplinario». E’, in fondo, il peccato originale di Syriza: pensare che esista un modello di Eurozona non-disciplinario. E’ come aspettarsi che possa davvero essere ristrutturato (tagliato) un debito nominalmente pubblico, ma non denominato in moneta sovrana. Eppure, nonostante gli errori strategici di Syriza, il “martirio” della Grecia offre un terrificante spettacolo di cos’è realmente l’Unione Europea. L’Austria farà un referendum per uscirne, la Gran Bretagna voterà nel 2017 per abbandonare Bruxelles, mentre Obama teme l’aiuto di Putin alla Grecia e l’Ue punta tutto sulle dimissioni di Tsipras per ripristinare il dominio totale della Troika, togliendo ai greci ogni illusione di sovranità.Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, se gli esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.
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Bugie per scatenare la guerra. Così fan gli Usa, da sempre
Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiassero del tutto estranei al fatto.Le immagini della nave semi-affondata e quelle dei funerali dei marinai furono fatte passare nei primi cinegiornali dell’epoca, generando nel paese uno stato di indignazione sufficiente a poter scatenare una guerra, che nel frattempo il futuro presidente Roosevelt, allora ministro della marina, aveva preparato fin nel minimo dettaglio. Solo nel 1980, quasi un secolo dopo, gli americani avrebbero riconosciuto che gli spagnoli non erano responsabili dell’attacco, dicendo però – per non autoaccusarsi – che il “Main” era affondato perché alcuni esplosivi erano stati stipati troppo vicini alle caldaie. Nel frattempo, l’intera armata spagnola era stata distrutta, e così gli americani diventavano la nuova potenza marittima mondiale, con postazioni strategiche che andavano dai Caraibi sino alle Filippine. Nel 1915, fu l’affondamento del “Lusitania”, da parte di un sottomarino tedesco, a dare inizio alla crisi tra Stati Uniti e Germania, che permise ai primi di entrare nel conflitto mondiale.Pare che gli americani abbiano fatto sapere di nascosto ai tedeschi che sul “Lusitania” viaggiava un importante carico di armamenti destinato all’Inghilterra. In questo modo, sarebbero riusciti a provocare l’attacco da parte del sottomarino tedesco che affondò la nave, sulla quale viaggiava anche un centinaio di cittadini americani. Nel 1941, fu il noto attacco a Pearl Harbor a scatenare nella popolazione americana quell’ondata di indignazione che permise a Roosevelt di entrare con decisione nella Seconda Guerra Mondiale, contro Giappone, Italia e Germania. Circa 3.000 marinai furono massacrati in un attacco a sorpresa, del quale si sarebbe saputo in seguito che gli americani erano invece al corrente già da molte ore. Ma in quell’occasione fu fatto di tutto perché queste informazioni non arrivassero in tempo al comando del porto, come ha poi confermato l’ammiraglio Kimmel, che aveva assistito impotente al massacro dei suoi uomini e alla distruzione delle sue navi: «Avevamo bisogno di una cosa, che i nostri mezzi non sono stati in grado di farci avere: di vitale importanza erano le informazioni disponibili a Washington, i messaggi intercettati che dicevano dove e quando il Giappone avrebbe probabilmente attaccato. Io non ho ricevuto queste informazioni».Nel 1964, gli Stati Uniti decidevano di entrare ufficialmente in guerra con il Vietnam del Nord, dopo aver aiutato militarmente per molti anni il Vietnam del Sud, senza mai intervenire direttamente. Il pretesto di guerra venne dal cosiddetto “Incidente del Golfo del Tonchino”, in cui delle motovedette vietnamite furono accusate di aver lanciato siluri contro l’incrociatore americano “Maddox”. Fu il ministro degli esteri, Robert McNamara, a dare alla stampa la notizia della pronta reazione americana all’attacco vietnamita: «Subito dopo l’attacco, rappresentanti americani a Saigon si sono incontrati con rappresentanti del governo sud-vietnamita, e insieme hanno concordato che un’azione punitiva congiunta era necessaria». Ma lo stesso McNamara, 40 anni dopo, avrebbe confessato che l’attacco delle motovedette era stato tutta un’invenzione per creare, appunto, il necessario pretesto per entrare in guerra: «Eventi successivi hanno mostrato che la nostra impressione di esser stati attaccati quel giorno era sbagliata: non era successo». Nel frattempo, erano morti quasi 60.000 soldati americani ed oltre 3 milioni di civili vietnamiti.Nel 1990, la situazione fra gli Stati Uniti e l’Iraq di Saddam Hussein si era fattav tesa, e la squadra di neo-conservatori vicini al presidente Bush convinse quest’ultimo ad un intervento armato contro il dittatore iracheno. Gli americani fecero allora sapere a Saddam che non avevano nulla in contrario se si fosse impadronito dei campi petroliferi del Kuwait, un territorio che da sempre l’Iraq reclamava come proprio. La trappola funzionò. E Saddam invase in Kuwait. Subito dopo, Dick Cheney (che in quel periodo era ministro della difesa) fece avere all’Arabia Saudita delle foto satellitari nelle quali si vedevano 250.000 soldati di Saddam ammassati verso il confine del loro paese. Temendo un’invasione imminente, i saduti concessero agli americani il permesso straordinario di stabilire delle basi militari sul loro territorio, mettendoli così in grado di attaccare comodamente l’Iraq. Contemporaneamente, partiva una massiccia campagna mediatica contro Saddam, che veniva accusato di aver usato contro i suoi connazionali curdi delle armi chimiche, che gli stessi americani gli avevano venduto, per poi coprire con il loro silenzio il genocidio in corso, pur essendone perfettamente al corrente.La campagna mediatica contro il dittatore iracheno culminava con la toccante testimonianza di una giovane infermiera kuwaitiana, che descriveva al mondo le atrocità commesse dai soldati di Saddam negli ospedali del suo paese invaso: «Mentre ero là ho visto i soldati iracheni entrare nell’ospedale armati di mitra, hanno tolto i neonati dalle incubatrici, hanno portato via le incubatrici e hanno lasciato i bimbi a morire sul pavimento freddo». La notizia fece il giro del mondo, e da quel momento nessuno ebbe da ridire sui bombardamenti americani in Iraq. Qualche anno dopo, alcuni giornalisti vennero in possesso di foto satellitari che stano state scattate dai russi sulla stessa zona di deserto e proprio negli stessi giorni. «La cosa più importante era quello che non mostravano. Ti saresti aspettato di vedere dei carri armati lungo il confine, ma non ce n’era nemmeno uno. E non c’era niente, alle spalle della frontiera, che potesse rifornire quella quantità di carri armati e soldati».Le stesse immagini che mostravano distintamente i carri armati iracheni al centro di Kuwait City rivelavano anche che lungo la frontiera con l’Arabia Saudita non c’era assolutamente nulla: non un mezzo, non un uomo, non un carro armato. Anche l’infermiera che aveva commosso il mondo si rivelò essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, che aveva recitato ad arte la scena delle incubatrici (del tutto inventata), dopo esser stata allenata professionalmente da una delle più note società di pubbliche relazioni di Washington, la “Hill & Knowlton”. Nel frattempo, gli americani ne avevano approfittato per piazzare delle basi permanenti in Arabia Saudita e per sterminare l’intero esercito iracheno. In uno spietato e vile tiro al bersaglio, in piena violazione di tutti i trattati di guerra mai esistiti, migliaia di soldati iracheni furono massacrati e letteralmente inceneriti dall’aviazione americana, mentre si trovavano del tutto scoperti e impossibilitati a fuggire, sulla via del ritorno verso Baghdad.(Ricostruzione estratta dal documentario “Il nuovo secolo americano”, di Massimo Mazzucco, editato su YouTube).Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiarassero del tutto estranei al fatto.