Archivio del Tag ‘Iraq’
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Siria, la Russia oscura i radar Nato: Pentagono nel panico
L’intervento militare russo in Siria si è trasformato in una manifestazione di potenza che ribalta l’equilibrio strategico mondiale: l’esercito di Mosca ha “accecato” completamente gli Usa e la Nato, impedendo loro di osservare quello che sta accadendo sul terreno. Solo i russi e i siriani hanno la capacità di valutare la situazione sul campo, avverte Thierry Meyssan. Mosca e Damasco intendono sfruttare al massimo il loro vantaggio e quindi mantengono la segretezza delle loro operazioni. Sarebbero già stati uccisi almeno 5.000 jihadisti, fra cui molti capi di Ahrar al-Sham, di Al-Qaeda e dell’Isis, mentre almeno 10.000 mercenari sono fuggiti verso la Turchia, l’Iraq e la Giordania. L’esercito siriano e le milizie libanesi di Hezbollah hanno riconquistato il terreno senza attendere gli annunciati rinforzi iraniani. Il Pentagono è frastornato, «diviso tra coloro che cercano di minimizzare i fatti e di trovare una falla nel sistema russo e quelli che, al contrario, ritengono che gli Stati Uniti abbiano perso la loro superiorità in materia di guerra convenzionale e che avranno bisogno di molti anni per recuperarla».
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La Russia torna grande, purché non resti invischiata in Siria
L’intervento militare russo in Medio Oriente sembra avere completamente spiazzato gli osservatori occidentali: il monopolio occidentale delle operazioni di “polizia internazionale” a leadership anglo-sassone, a partire dal 1991, improvvisamente sembra essere stato infranto dalla decisione della Duma russa di colpire le forze anti-governative in Siria, siano esse affratellate o meno all’Isis. Molti sono in effetti i risvolti paradossali di questo pesante intervento militare: la Russia che, a seguito della crisi ucraina, pareva relegata ai margini della comunità internazionale, sembra ora prendere a pretesto la lotta contro l’estremismo islamista per affermare con forza la legittimità del governo Assad. Si tratta quindi in definitiva, più che di un intervento dettato da ragioni ideologiche, di una netta ripresa della più classica delle Reapolitik: la difesa di un alleato storico della Russia, con la quale si pone anche in seria difficoltà uno dei più tradizionali avversari della Russia, la Turchia.Elemento non meno importante, che Putin sta debitamente enfatizzando, è che la Russia si è così posta di fatto anche alla testa di una coalizione di forze (Siria, Iran e Iraq) che costituiscono un “fronte” arabo sfacciatamente antitetico a quello sunnita-wahabbita guidato dall’Arabia Saudita, proprio ora che quest’ultimo paese si trova impantanato, fra molte critiche anche al suo interno, in un intervento nello Yemen che sembra stia drenando senza costrutto importanti risorse militari dei paesi del Golfo. Le modalità poi con cui la Russia sta operando in questa delicatissima area del Vicino Oriente rivelano una precisa volontà della Russia di dimostrare la propria capacità operativa “fuori area”, direbbero gli occidentali, vale a dire al di fuori della sua più prossima sfera d’influenza: il che non avveniva per la Russia ormai da decenni. Una cosa infatti sono stati gli interventi nell’area del Caucaso, ben altra cosa è intervenire in Siria, nel cuore del Mashrek, appannaggio, come si è detto, dell’egemonia occidentale fin dai tempi degli accordi Sykes-Picot del 1916.Farlo poi utilizzando armi strategiche come i missili superficie-superficie che le fregate russe stanno lanciando dal Mar Caspio, a 1500 km dagli obiettivi, non è affare di tutti i giorni. Lo spiegamento infine nel Mediterraneo orientale della nave da battaglia Moskva, che il 2 ottobre si è posizionata a largo di Latakia, e che è dotata di 64 missili S-300 superficie-aria, consente oggi alla Russia di creare una “no-fly zone” che copre la maggior parte della Siria occidentale, incluse le alture del Golan e la Turchia meridionale. A parere di esperti israeliani, è possibile ai russi interdire questo spazio aereo in quanto né Israele, né la Turchia, né i britannici dalle loro basi di Cipro sono dotati di aerei con tecnologia “stealth”, vale a dire non rilevabili dai radar russi. Il fatto che alti ufficiali russi si siano incontrati con i loro omologhi israeliani in queste ore non può che confermare la delicatezza della scelta operata da Putin, e la serietà con cui essa è stata accolta dai militari israeliani, che di queste cose se ne intendono.Questa inedita mossa russa fa pensare che Putin veda nella situazione del Medio Oriente allargato una minaccia alla sicurezza complessiva del suo “estero vicino”, in un arco di crisi che va dall’Ucraina alle repubbliche centro-asiatiche un tempo incluse nella compagine dell’Urss. Anche se i media italiani non vi hanno praticamente dato peso, è molto rilevante il fatto che, parallelamente alle operazioni avviate in Siria, il 7 ottobre la Russia ha inviato elicotteri da combattimento Mi-24P e Mi-8 Mtv per rinforzare la sua base militare 201, dislocata in Tagikistan. Il portavoce del Distretto Militare Centrale, colonnello Yaroslav Roshchupkin, ha espressamente dichiarato che «il nuovo gruppo aereo così formato sarà dispiegato nel distretto di Hissar, nella base aerea di Ani a 30 chilometri dalla capitale Dushanbe». Si tratta di una mossa molto significativa che avviene in diretta conseguenza degli attacchi talebani contro la città afghana di Kunduz, a soli 70 chilometri dal confine con la repubblica centro asiatica ex-sovietica: segno evidente che Mosca potrebbe intervenire anche in un altro teatro in cui operano dal dicembre 2001 le forze di “polizia internazionale” occidentali a sostegno del pericolante governo di Kabul.L’impressione è quindi che Putin percepisca ormai sia la guerra civile promossa contro Assad che l’abbandono al caos dell’Afghanistan come mosse occidentali per destabilizzare le aree d’interesse strategico dei confini meridionali della Russia, coordinandosi con l’irrisolta questione dell’Ucraina orientale. Tuttavia, contro un’interpretazione in senso anti-occidentale dell’intervento russo si sono già levate voci autorevoli e ben documentate, come quella di Thierry Meyssan, il quale ritiene invece si tratti di un intervento in qualche modo “concordato” fra l’amministrazione del presidente statunitense Obama e l’esecutivo russo. Un tacito accordo, a parere di Meyssan, maturato fin dal 2013 nel clima di disimpegno nordamericano dal Medio Oriente, divenuto da priorità strategica un inutile ginepraio da quando gli Usa riterrebbero di poter oramai contare su risorse petrolifere proprie derivanti dalle nuove tecniche di estrazione applicate sul territorio americano.In questo modo, gli Stati Uniti favorirebbero il rientro sulla scena internazionale della Russia allo scopo di evitare il consolidamento del suo rapporto privilegiato con la Cina, considerata in realtà la più consistente minaccia all’egemonia mondiale americana. Così facendo, poi, gli Usa ridimensionerebbero, grazie alla presenza militare russa, anche il ruolo troppo ingombrante di Israele, da ultimo manifestatosi in occasione dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano. A supporto di questa interpretazione c’è il fatto che fin dai primi di agosto l’intelligence occidentale, che monitora ovviamente da vicino l’area, era consapevole di quanto i russi andavano preparando, poiché da notizie di stampa risulta che la Russia ha ripetutamente avanzato regolari richieste ufficiali di sorvolo dei territori monitorati dagli occidentali per effettuare i propri rifornimenti e sviluppare missioni di addestramento delle forze dell’alleato Assad, senza che gli occidentali abbiano battuto ciglio.Questa tesi potrebbe facilmente integrarsi anche con l’ipotesi che in qualche modo l’intervento russo possa avere come contropartita proprio la sistemazione della già ricordata questione ucraina, con un riconoscimento di fatto dell’annessione della Crimea e con il congelamento della secessione del Donbass filo-russo sull’attuale linea di fuoco: ipotesi avvalorata in questi ultimi giorni dalla sospensione delle ostilità proclamata unilateralmente da alcune componenti filo-russe che operano nella regione orientale dell’Ucraina. La tesi di Meyssan in definitiva si ricollega ad un’interpretazione della stessa Guerra Fredda come di una Vodka-Cola, come si disse all’epoca, cioè di una concertazione costante fra le due potenze leader per evitare il rischio di un confronto militare diretto quando i conflitti minacciavano di superare una certa soglia di gravità. Noi oggi sappiamo però, lo dicono i fatti, che questa concertazione, per quanto spesso effettivamente messa in atto, in definitiva ha poi condotto l’Urss alla disintegrazione: e sappiamo che proprio l’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979, che gli Stati Uniti in realtà fecero di tutto perché avvenisse, fu un elemento determinante nel crollo del sistema sovietico, unitamente all’accelerata competizione missilistica promossa con il mezzo inganno dello “Scudo Spaziale” lanciato dal presidente Reagan.Forse è quindi possibile avanzare una terza ipotesi, che ovviamente corre il rischio di essere subito etichettata come “complottista”, in base alla quale in realtà gli Stati Uniti ed Israele sono ben lieti che Putin sia stato trascinato sul campo della crisi siriana, nella certezza che in questo modo la Russia si troverà appesantita da un gravoso impegno militare, che potrebbe durare mesi, la stessa Russia che le sanzioni internazionali e la pressione lungo i suoi confini occidentali pongono comunque in una condizione di logoramento permanente. Il fatto che, proprio mentre la Russia scende in campo in Medio Oriente, i britannici schierino un simbolico centinaio di propri soldati nei paesi baltici e gli Stati Uniti assumano l’impegno di “pre-posizionare” materiali militari in Polonia entro il luglio 2016, potrebbe essere indizio di un gioco molto spregiudicato, per lasciare la Russia invischiarsi in una serie di conflitti asimmetrici che potrebbero mettere in crisi lo stesso Putin, proprio come l’Afghanistan esaurì la residua energia del regime sovietico. Questo poi senza contare il fatto che la Russia diverrebbe nello stesso tempo bersaglio di possibili nuovi attacchi dell’estremismo islamista.Ovviamente oggi un gioco così spregiudicato potrebbe risultare molto più complesso ed incerto, proprio perché il bipolarismo che aveva garantito la chiara definizione delle linee di conflitto durante la Guerra Fredda si è dissolto in fronti assai più frastagliati e mobili. Basti pensare alla Turchia: essa oggi vede, cosa mai avvenuta prima, le forze russe operare lungo i suoi confini meridionali, le vede sostenere le forze curde, vede il suo territorio sorvolato da aerei russi. Intanto il regime di Erdogan sconta un’ostilità israeliana mai sanata dopo il massacro della Freedom Flottilla, nonché una crescente tensione politica interna, con la puntuale ripresa del terrorismo stragista, fenomeno da “strategia della tensione” cui non sono certo estranei quegli ambienti militari turchi, vicini all’intelligence filo-occidentale, che non hanno mai digerito la progressiva islamizzazione del sistema politico turco. Le garanzie che in questi giorni la Nato sta dando alla Turchia nei confronti dell’intervento russo non possono quindi che apparire poco credibili al governo turco, consapevole che alla prova dei fatti difficilmente la Nato rischierà per lei uno scontro con la Russia: e forse anche gli ambienti più avvertiti della politica turca possono vedere anche negli sconfinamenti degli aerei di Putin la conseguenza di una politica spregiudicata di americani ed israeliani per far rientrare nei ranghi la Turchia.In conclusione, se è difficile pensare che la classe dirigente di Putin, che bene conosce le modalità operative della deception occidentale possano cadere ingenuamente nella possibile trappola siriana, non possiamo però dimenticare l’ammonimento che il grande Aleksander Solgenicyn ha dato alla Russia in un suo illuminante lavoro troppo presto caduto nel dimenticatoio, “La Questione Russa alla fine del secolo XX”. Esaminando in modo potentemente sintetico la storia della Russia moderna e contemporanea, il grande scrittore russo notava come l’abitudine a lasciarsi trascinare dall’imitazione dell’Occidente in politiche espansive oltre i propri confini abbia solo portato insuccessi e sventure epocali alla Russia e per questo raccomandava: «Non abbiamo bisogno di essere gli arbitri del pianeta né di competere per l’egemonia internazionale (si troverà sempre chi voglia farlo tra le nazioni più forti di noi), tutti i nostri sforzi devono essere rivolti all’interno, a un operoso sviluppo interno». Non ci sono dubbi sul fatto che questa politica di sviluppo interno della Russia sembra essere proprio quello che l’Occidente, come ha dimostrato la questione ucraina, non intende permettere.(Gaetano Colonna, “Le possibili ragioni dell’intervento della Russia in Medio Oriente”, da “Clarissa” dell’11 ottobre 2015”).L’intervento militare russo in Medio Oriente sembra avere completamente spiazzato gli osservatori occidentali: il monopolio occidentale delle operazioni di “polizia internazionale” a leadership anglo-sassone, a partire dal 1991, improvvisamente sembra essere stato infranto dalla decisione della Duma russa di colpire le forze anti-governative in Siria, siano esse affratellate o meno all’Isis. Molti sono in effetti i risvolti paradossali di questo pesante intervento militare: la Russia che, a seguito della crisi ucraina, pareva relegata ai margini della comunità internazionale, sembra ora prendere a pretesto la lotta contro l’estremismo islamista per affermare con forza la legittimità del governo Assad. Si tratta quindi in definitiva, più che di un intervento dettato da ragioni ideologiche, di una netta ripresa della più classica delle Reapolitik: la difesa di un alleato storico della Russia, con la quale si pone anche in seria difficoltà uno dei più tradizionali avversari della Russia, la Turchia.
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Uranio e diamanti, gli Usa in Africa coi tagliagole Seleka
La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.Il gruppo con il quale le forze Usa hanno instaurato un collegamento è conosciuto come i ribelli Seleka, i cui membri sono a maggioranza musulmana. Negli ultimi due anni, i Seleka si sono impegnati in una guerra di bassa intensità con la fazione cristiana rivale “anti-Balaka” in una lotta di potere per il controllo del paese. La Repubblica Centrafricana è ricca di oro, diamanti, legname e uranio. Lo Stato, senza sbocco al mare, ha una massa equivalente a quella della sua ex potenza coloniale francese, ma una popolazione inferiore al 10% della Francia. Dall’ottenimento dell’indipendenza dalla Francia nel 1960, il paese ha assistito a cinque colpi di Stato, alcuni con il coinvolgimento segreto francese. Migliaia di civili sono stati uccisi finora nel ciclo di violenza settaria che dura da due anni, con milioni di sfollati, che spesso cercano rifugio in nascondigli di fortuna nella giungla. Il reale pericolo è che il percepito sostegno americano per un lato rispetto all’altro potrebbe innescare una strage ancora su maggiore scala.La scorsa settimana, il “Washington Post” ha riferito che le forze speciali americane avevano istituito una base nella giungla del nord-est della Repubblica Centrafricana, dove la milizia Seleka ha la propria roccaforte. «Il Pentagono non aveva precedentemente rivelato che stava cooperando con i Seleka ed otteneva informazioni dai ribelli. L’accordo ha messo le truppe americane in una posizione scomoda», secondo il “Post”. L’obiettivo dichiarato delle forze armate statunitensi è dare la caccia ad un noto signore della guerra, Joseph Kony, che gestisce un gruppo di guerriglia conosciuto come l’Esercito di Resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra). Kony e il suo Lra sono da ritenersi responsabili di atrocità di massa e del reclutamento di bambini soldato. Originario dell’Uganda, Kony e l’Lra guadagnarono notorietà quando l’ente di beneficenza statunitense Invisible Children diffuse un video quasi quattro anni fa che pubblicizzava le violazioni commesse del gruppo.Con le varie celebrità americane che avallavano il video, il presidente Usa Barack Obama inviò forze speciali in quattro paesi africani con la missione di rintracciare Kony ed i suoi complici. Questi paesi sono l’Uganda, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Finora, Kony ha eluso la cattura, anche se Washington ha posto una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Si ritiene che egli sia rintanato in una zona remota della giungla a cavallo tra i confini dei quattro paesi africani in cui le forze speciali degli Stati Uniti operano. Il terreno è costituito da una fitta giungla con poche strade e si dice copra un’area delle dimensioni della California. «Immaginate la ricerca di 200 criminali in un’area delle dimensioni della California coperta dalla giungla», afferma un funzionario militare statunitense citato dal “Post”. «Tra bracconieri, commercio di avorio e l’Lrs, non si sa chi è chi».In questa caccia sfuggente al signore della guerra Kony ed al suo Lra, i militari americani si stanno rivolgendo alla milizia Seleka per “informazioni”. Ma, come noto, quel legame con i Seleka sta causando qualche preoccupazione tra le truppe Usa sul terreno. Questo perché i Seleka hanno guadagnato una reputazione per le atrocità alla pari con quelle di Kony e dell’Lra, tra cui l’assassinio di civili, lo stupro di donne e il reclutamento di bambini soldato nei loro ranghi. Il “Post” riferisce: «Secondo i funzionari militari statunitensi, la squadra di truppe Usa a Sam Ouandja [la base nella giungla della Repubblica Centrafricana nord-orientale] si incontra regolarmente con i capi Seleka, ottiene informazioni dai ribelli e talvolta fornisce assistenza medica ai lealisti Seleka». Il documento aggiunge: «La cooperazione è un argomento delicato. Il Pentagono non pubblicizza i suoi rapporti con i Seleka e ha rifiutato di commentare in dettaglio le interazioni».La riluttanza del Pentagono a “pubblicizzare i propri rapporti” non è sorprendente. Nel 2013, la statunitense Human Rights Watch ha registrato un regno di terrore sotto i Seleka nella Repubblica Centrafricana, riferendo come le sue forze «hanno distrutto numerosi villaggi rurali, saccheggiato diffusamente nel paese e violentato donne e ragazze». “Hrw” ha riferito sulle uccisioni extragiudiziali perpetrate dai Seleka, alcune che coinvolgono l’assassinio di bambini con il taglio della gola. In un attacco brutale il 15 aprile 2013, il gruppo per i diritti ha riferito: «La milizia Seleka ha ucciso la 26enne moglie e la figlia diciottenne di un autista di camion, il cui veicolo volevano per trasportare merci rubate. Un testimone ha descritto come i Seleka hanno sparato al bambino nlla testa, prima di uccidere la madre mentre si avvicinava alla porta della casa di famiglia». In base alle sue scoperte, “Hrw” ha raccomandato che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe imporre sanzioni a tutti i capi Seleka.In un’altra atrocità riportata a maggio 2014, i militanti Seleka hanno ucciso 11 fedeli in una chiesa nella capitale Bangui, lanciando granate nell’edificio e attaccando la congregazione con armi da fuoco. Ma il Pentagono sta ora in collegamento con questa stessa milizia nella sua missione che dovrebbe rintracciare il signore della guerra Joseph Kony e il suo esercito di sbandati. I Seleka non sono certo l’unica milizia fuorilegge, operante nella Repubblica Centrafricana. La cristiana anti-Balaka ha perpetrato altrettante atrocità contro la minoritaria comunità musulmana del paese. Il presidente ad interim Catherine Samba Panza, che ha dovuto tornare in fretta dalla recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York a causa del deterioramento della situazione nel paese, ha accusato elementi del deposto presidente François Bozizé anche di orchestrare le violenze. Bozizé, che è cristiano, si era già avvalso della patrocinio della ex potenza coloniale francese, prima di essere cacciato dal paese dai Seleka nel marzo 2013.Il punto è che la tragedia che si svolge in Repubblica Centrafricana mostra come l’ingerenza da parte delle potenze occidentali serve a versare benzina sul fuoco di un esplosivo conflitto intestino. La dubbia missione delle forze speciali Usa nelle giungle dell’Africa – suppostamente per la cattura di un signore della guerra – sta avendo l’effetto di allineare Washington in una guerra civile che si va inasprendo, e al fianco di elementi le cui mani grondano di sangue. La scena è stata preparata per un’intensificazione ancora più sanguinosa. Il coinvolgimento di Washington può finora apparire come un fattore clandestino, ma non è meno incendiario. Si tratta di un ruolo incendiario che Washington interpreta ripetutamente, come visto in altri conflitti in corso, dalla Siria all’Iraq passando per l’Ucraina.(Finian Cunningham, “La mano nascosta di Washington nella guerra in Africa Centrale”, da “Stampa Libera” del 9 ottobre 2015).La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.
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Profughi, vendetta della storia: il conto dei nostri disastri
In questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una sconcertante inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica europea. La gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è per capirci) è convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui difenderci e che basti serrare la porta di casa per farla finita e lasciarli a cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono l’accoglienza, lo fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore (che comunque è molto meglio della reazione degli altri) ma non per consapevolezza della portata del problema sul piano storico e delle misure che, pertanto, sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare rifugio ad un po’ di bambini che rischiano di morire, cosa comunque doverosa, ma è solo la punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio, vedrete il seguito… Questi profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra, ma da dove viene questa guerra? Magari, vale la pena di ricordare le guerre del Golfo e dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di “polizia internazionale” in Sudan, Mali, Somalia…Non sono di quelli che pensano che tutto quel che accade sia colpa dell’Europa e degli Usa, lo so che ci sono responsabilità anche della vecchia Urss ed anche delle classi dirigenti africane ed arabe, ma, insomma, se ci accorgessimo della fetta non piccola delle nostre responsabilità faremmo già un passo in avanti per trovare la soluzione. C’è stata una rivolta in diversi paesi arabi che non ha prodotto (almeno per ora) i risultati sperati, ma anche questa da dove viene? Ci sono regimi indecenti che hanno usato le enormi risorse della rendita petrolifera per alimentare classi dirigenti corrotte e che non hanno saputo avviare un programma di sviluppo economico, regimi dittatoriali che non hanno rispettato i più elementari diritti umani, ma chi ha sostenuto questi regimi per decenni? Facciamo il conto di quanti vanno messi sul conto dell’Urss e di quanti su quelli dell’Occidente? Gheddafi era un dittatore spietato e incapace di costruire un futuro del suo popolo: verissimo, ma chi lo aiutò a fare il suo colpo di Stato e poi lo ha costantemente sostenuto per quaranta anni di fila? Chi ha permesso ai suoi servizi segreti di assassinare i suoi oppositori per le strade di Roma? Chi lo ha avvisato dell’operazione Hilton? E chi gli ha coperto le spalle in tutte le occasioni, salvo doverlo mollare proprio alla fine?Ne sappiamo niente noi Italiani? E in Siria, certo le responsabilità preminenti fra il 1960 ed il 1991 sono state dell’Urss, e dopo della Russia, ma con il beneplacito di Inghilterra, Francia e Usa. E prima, in Siria cosa c’era? Alla fine della prima guerra mondiale, la divisione dell’Impero Ottomano, si ricavò un territorio chiamato Siria, tirando linee dritte con il righello e senza porsi alcun problema sul tipo di composizione etnica interna, poi lo si affidò a mandato francese ed i francesi come prima cosa fecero l’accordo con la minoranza alawita, una frazione del gruppo sciita che totalizzava meno di un quinto della popolazione, però contava al suo interno una bella fetta delle classi colte. Gli alawiti divennero la classe dirigente del paese, la borghesia compradora alleata degli occupanti e, perciò stesso, odiati da tutti. Quel che non impedì che, con l’aiuto degli inglesi prima e dei russi dopo, restassero a capo del paese.Oggi non è solo una rivolta contro un regime indecente, è anche la rivolta contro un’etnia, anche se le responsabilità sono della ristretta classe dominante alawita e non certo di tutti gli appartenenti a quel gruppo, e non è certo un caso che oggi loro siano la maggioranza dei profughi. Dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare dopo il 1960, venne la decolonizzazione che, per molti versi, fu peggio del colonialismo: i paesi in particolare africani restarono sottosviluppati. E poi, lo sappiamo, le guerre locali, poi gli interventi Usa, eccetera. Questo disastro lo abbiamo costruito noi con decenni e decenni di errori, colpe, disastri, ora sta arrivando il conto. E vi meravigliate? Se gli storici facessero il loro mestiere e la smettessero di guardarsi l’ombelico, rigirando la solita storia europea, forse ci sarebbe più consapevolezza delle responsabilità pregresse ma, soprattutto, delle prospettive future.(Aldo Giannuli, “L’esodo dei profughi e la vendetta della storia. Quando gli storici non fanno il loro mestiere”, dal blog di Giannuli del 24 settembre 2015).In questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una sconcertante inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica europea. La gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è per capirci) è convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui difenderci e che basti serrare la porta di casa per farla finita e lasciarli a cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono l’accoglienza, lo fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore (che comunque è molto meglio della reazione degli altri) ma non per consapevolezza della portata del problema sul piano storico e delle misure che, pertanto, sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare rifugio ad un po’ di bambini che rischiano di morire, cosa comunque doverosa, ma è solo la punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio, vedrete il seguito… Questi profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra, ma da dove viene questa guerra? Magari, vale la pena di ricordare le guerre del Golfo e dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di “polizia internazionale” in Sudan, Mali, Somalia…
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Gli Usa? Mai neppure tentato di colpire l’Isis: ecco le prove
Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.Quando gli Usa fanno sul serio, la loro force de frappe è devastante per intensità e potenza; invece quando, come accade in Siria contro l’Isis, si limita a dei raid dimostrativi, significa che la vittoria finale non è la vera priorità e le operazioni hanno più che altro fini mediatici.Chi invece vuole vincere è Putin. E la differenza è evidente. Il Cremlino sta colpendo molto duramente i gruppi armati salafiti in Siria, persino con missili di lunga gittata. E che tali gruppi appartengano all’Isis o al Qaida o ad altre organizzazioni islamiche è francamente risibile: i ribelli armati moderati in Siria di fatto non esistono, sono tutti estremisti islamici della peggior risma. Sia chiaro: al sottoscritto non piacciono né le bombe americane né quelle russe e vorrei, come ha scritto Ron Paul, che nessun ordigno insanguinasse la Siria.Sun Tzu insegna che la guerra è la soluzione estrema, a cui bisogna ricorrere solo in casi estremi, e il fatto che si sia arrivato a tanto rappresenta una sconfitta per tutti i grandi paesi, a cominciare da quelli occidentali, dall’Arabia Saudita e dalla Turchia, responsabili per la destabilizzazione della regione. Ma una volta che è dichiarata va combattuta senza se e senza ma, soprattutto avendo ben chiari gli obiettivi: l’America dice di voler sconfiggere l’Isis ma la sua priorità è di far cadere Assad ovvero l’uomo che si oppone all’Isis. E non sembra per nulla preoccupata dalla conseguenza ultima delle sue manovre che è quella di consegnare al neocaliffato e/o ad Al Qaida l’area tra Siria e gran parte dell’Iraq, ovvero a un regime violento, settario, retrogrado; il peggio che si possa immaginare e ben lontano dai valori di democrazia, libertà, diritto che Washington difende e promuove in altre parti del mondo. Capire le logiche di questa America è davvero molto difficile.(Marcello Foa, “Ecco la prova che l’America non sta bombardando l’Isis”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’8 ottobre 2015).Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Caos migranti, il piano Soros-Cia per destabilizzare l’Europa
Proprio come le forze oscure della miliardaria rete di organizzazioni non governative della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti e di George Soros, che complottarono per destabilizzare Medio Oriente e Nord Africa attraverso l’uso dei social media, realizzando la cosiddetta “primavera araba”, tali forze hanno aperto un nuovo capitolo sulla disfunzionalità globale facilitando il flusso di rifugiati e migranti economici da Medio Oriente, Asia e Africa all’Europa. Nel marzo 2011, il leader libico Muhammar Gheddafi predisse cosa sarebbe accaduto all’Europa se la stabilità del suo paese veniva minata dalle potenze occidentali. In un’intervista a “France 24”, Gheddafi predisse correttamente: «Ci sono milioni di neri che potrebbero attraversare il Mediterraneo per la Francia e l’Italia, e la Libia svolge un ruolo nella sicurezza nel Mediterraneo». Il figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam Gheddafi, condannato a morte dal regime radicale che governa Tripoli, fece eco ai commenti del padre nella stessa intervista al notiziario francese. Sayf disse: «La Libia può diventare la Somalia del Nord Africa, del Mediterraneo. Vedrete i pirati in Sicilia, a Creta, a Lampedusa. Vedrete milioni di immigrati clandestini. Il terrore sarà vicino».Come si è visto nei recenti avvenimenti, Sayf aveva proprio ragione. Infatti, per l’Europa, il terrore è letteralmente a fianco. Si stima che ben 4.000 jihadisti veterani degli olocausti terroristici in Siria, Iraq e Yemen, abbiano approfittato dell’assenza dei controlli sulle frontiere di Schengen dell’Unione europea per entrare o ritornare in Europa. Molti giovani “migranti” hanno iPhone, bancomat, diversi passaporti e molto contante, difficilmente ciò che ci si aspetta di trovare in possesso di veri profughi di guerra. Non solo gli africani hanno inondato l’Europa meridionale dopo aver attraversato in modo periglioso il Nord Africa, tra cui la Libia, ma i profughi siriani, per lo più creati dal trasferimento massiccio occidentale ai jihadisti siriani di armi catturate in Libia dopo il rovesciamento di Gheddafi, innescando la sanguinosa guerra civile siriana, fluiscono via mare e via terra nel cuore dell’Europa. Soros, che non è altro che un frontman miliardario dell’ancor più ricca famiglia di banchieri Rothschild dell’Europa occidentale, ha supervisionato la completa distruzione degli Stati nazionali nell’Europa sud-orientale, che oggi consentono l’accesso incondizionato dei migranti economici e dalla guerra civile da Siria, Iraq, Nord Africa, Africa sub-sahariana, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Birmania, Sri Lanka e altre nazioni del Terzo Mondo devastate da guerra e povertà.Risultato dei programmi di reingegnerizzazione delle nazioni, Soros prima ha contribuito a distruggere la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, con l’aiuto attivo dell’Unione Europea e della Nato. Le sette repubbliche indipendenti che una volta costituivano la Jugoslavia, ora sono le principali vie di transito per decine di migliaia e prossimi centinaia di migliaia di migranti non europei. La Grecia, che soffre per l’austerità degli “avvoltoi” dei banchieri centrali e privati europei, tra cui Soros e i suoi mandanti Rothschild, difficilmente può affrontare il massiccio flusso di rifugiati. I banchieri si sono assicurati che la Grecia non possa nemmeno fornire i servizi sociali di base al proprio popolo, lasciando soli i profughi da zone di guerra e nazioni che soffrono del crollo di governi ed economia. La Macedonia, che continua a subire il tentativo di “rivoluzione colorata” in stile ucraino su concessione dei neocon dell’amministrazione Obama, come l’assistente del segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici Victoria Nuland, non può trattenere l’invasione della massa di rifugiati dalla Grecia. Molti rifugiati sono trattati al confine greco-macedone con fastidio, ammucchiandosi in Macedonia e poi in Serbia.I migranti hanno cercato ogni modo possibile per raggiungere le accoglienti Austria e Germania. I rifugiati a Budapest sommersero la stazione ferroviaria centrale, costringendo a chiuderla ai passeggeri, profughi che cercavano di raggiungere Austria e Germania, così come ungheresi e turisti. I rifugiati musulmani arrivati a Monaco di Baviera erano irritati dalla presenza per le strade di tedeschi e stranieri che celebrano l’annuale “Oktoberfest” bevendo birra. Già vi sono stati scontri per le strade tra celebranti l’Oktoberfest ubriachi e alcuni rifugiati musulmani che si oppongono alla presenza dell’alcol. I funzionari della città di Monaco di Baviera avevano detto che potevano ricevere solo 1000 nuovi rifugiati al giorno. La città ha visto il numero salire a 15.000 al giorno con circa il 90 per cento che non si registra presso le autorità locali, scomparendo per destinazioni sconosciute. Nelle città e nei paesi dell’Europa, i migranti appena arrivati dormono nei parchi e sui marciapiedi creando l’incubo della salute pubblica con feci umane nei parchi e puzza di urina permeare le pareti degli edifici.La situazione è aggravata dal recente arrivo dei rifugiati siriani nel nord della Germania, che scambiano il velenoso fungo selvaggio “tappo della morte” per una varietà commestibile che cresce nel Mediterraneo orientale. Nonostante le avvertenze in arabo e curdo distribuite ai rifugiati, i profughi hanno ingerito i funghi velenosi, subendo vomito e diarrea incontrollabile, aggiungendo altro dilemma alla salute pubblica in Europa. E’ solo questione di tempo prima che le malattie trasmesse dai rifiuti umani, come colera e tifo fanno, facciano il loro trionfale ritorno nelle città d’Europa dalle pandemie mortali dello scorso millennio. La cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente del Consiglio dell’Unione europea Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno la responsabilità diretta dell’afflusso di oltre un milione di rifugiati politici ed economici nel cuore dell’Europa. Merkel non ha fatto segreto del desiderio di aggiungerli alle file dei lavoratori ospiti, “Gastarbeiter”. Tuttavia, come mostrato da altri lavoratori ospiti in Germania arrivati negli ultimi decenni, questi lavoratori non si considerano “ospiti” ma residenti permanenti e cittadini.Nel frattempo, Tusk e Juncker, quest’ultimo originario del minuscolo Lussemburgo, hanno minacciato di multare i membri non comunitari Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda se non assorbono la loro quota di rifugiati, una percentuale dettata dagli “eurocrati” dell’Ue a Bruxelles. Anche se Tusk ha chiesto ai Paesi dell’Ue di aprire frontiere e tesorerie ai profughi, la sua nativa Polonia è reticente ad accettarne più di qualche centinaio. L’opposizione della Polonia si unisce a quella di Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia. Il successore di Juncker a primo ministro del Lussemburgo, Xavier Bettel, primo capo europeo ad avere un matrimonio gay, ha accolto centinaia di rifugiati. Bettel crede nell’Europa senza frontiere e, quindi, come Merkel, Tusk e Juncker, è un eroe delle Ong finanziate da Soros che fanno dell’Europa un esperimento d’ingegneria sociale mortale. Molti lussemburghesi cercano qualcuno come Marine Le Pen in Francia per fermare il carrozzone dell’accoglienza dei rifugiati che minaccia di cancellare il Granducato del Lussemburgo.I paesi che hanno radicalizzato gli eserciti jihadisti in Siria e Iraq, in particolare Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Quwayt, hanno ritenuto opportuno non prendere nessun rifugiato dai combattimenti in Siria e Iraq. L’Arabia Saudita ha avuto il coraggio assoluto di offrire alla Germania la costruzione di 200 moschee per i rifugiati, dove viene solo predicato e insegnato la versione wahabita dell’Islam. Nel frattempo, vi sono prove che la Turchia esorti i rifugiati dalla Siria sul suo suolo ad unirsi all’esodo su carrette del mare verso l’avversaria Grecia. Tale mossa ha provocato la morte di molti bambini e donne, servita solo a commuovere gli europei del nord che hanno invitato migliaia di profughi nei loro paradisi sociali. La Turchia ha anche distribuito manuali ai migranti per istruirli su dove andare una volta giunti in Germania, per avere dal governo l’assistenza sociale. Proprio come si è visto con le rivoluzioni colorate dirette da Soros e Cia nei paesi arabi e Ucraina, il flusso di migranti è stato istruito via Twitter su dove c’erano controlli alle frontiere e come aggirarli. Tale direzione “esterna” ha guidato i profughi da Grecia, Macedonia, Serbia a Croazia e Slovenia, instradandosi verso le frontiere austriache e tedesche, evitando in tal modo le sempre più ostili Ungheria e Serbia. C’è già stata una scaramuccia al confine tra polizia croata di scorta a un treno carico di profughi al confine ungherese e le guardie di frontiera ungheresi.Che siano neo-conservatrici e neo-liberisti, le politiche che hanno portato alla peggiore crisi dei rifugiati in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale hanno radice nei crogioli politici dei gruppi di facciata finanziati da George Soros e Cia in Europa e Stati Uniti. E’ solo questione di tempo prima che i loro ruoli in ciò che è avvenuto in Europa sia scoperto da nazionalisti di destra e di sinistra e che loro case editrici e siti web vadano in fiamme. Alla fine, gli europei si sveglieranno e scopriranno che la Russia s’è immunizzata dal flagello dei rifugiati evitando di frequentare l’Ue e le sue messinscene. Quando i migranti appena arrivati inizieranno a defecare, vomitare e urinare per le strade di Tallinn, Riga, Vilnius, Helsinki e Stoccolma, la Russia libra dalla crisi dei rifugiati non sembrerà così male, dopo tutto.(Wayne Madsen, “Il piano Soros-Cia per destabilizzare l’Europa”, da “Strategic Culture” del 24 settembre 2015, ripreso da “Aurora”).Proprio come le forze oscure della miliardaria rete di organizzazioni non governative della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti e di George Soros, che complottarono per destabilizzare Medio Oriente e Nord Africa attraverso l’uso dei social media, realizzando la cosiddetta “primavera araba”, tali forze hanno aperto un nuovo capitolo sulla disfunzionalità globale facilitando il flusso di rifugiati e migranti economici da Medio Oriente, Asia e Africa all’Europa. Nel marzo 2011, il leader libico Muhammar Gheddafi predisse cosa sarebbe accaduto all’Europa se la stabilità del suo paese veniva minata dalle potenze occidentali. In un’intervista a “France 24”, Gheddafi predisse correttamente: «Ci sono milioni di neri che potrebbero attraversare il Mediterraneo per la Francia e l’Italia, e la Libia svolge un ruolo nella sicurezza nel Mediterraneo». Il figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam Gheddafi, condannato a morte dal regime radicale che governa Tripoli, fece eco ai commenti del padre nella stessa intervista al notiziario francese. Sayf disse: «La Libia può diventare la Somalia del Nord Africa, del Mediterraneo. Vedrete i pirati in Sicilia, a Creta, a Lampedusa. Vedrete milioni di immigrati clandestini. Il terrore sarà vicino».
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Sacrifici umani, il suicidio dei carabinieri secondo la maga
«Tranquilli, non mi sono bevuto il cervello: so bene che i sacrifici umani sono una follia, un delirio. Solo che accadono veramente. E sono così folli, per noi, che nessuno li scoprirà mai. Nessuno arriverà mai ai colpevoli, perché non ammettiamo l’idea che si possa uccidere qualcuno in un rito propiziatorio». Così, l’ex avvocato Paolo Franceschetti prova a rileggere la strana morte di una bella ragazza, Claudia Racciatti, di professione tenente dei carabinieri. Decesso imbarazzante, archiviato come suicidio: si sarebbe sparata davanti ai due colleghi che, in caserma, la stavano interrogando per una storia di irregolarità contabili. Troppe stranezze, rileva Franceschetti: in genere chi si uccide lo fa in luoghi isolati. «Vero è che di suicidi in caserma, tra polizia e carabinieri, ce ne sono una marea; ma è altrettanto vero che, appunto, in genere non si tratta di suicidi». In più, il tenente Racciatti era una testimonial dell’Arma, fotografata per il calendario e per diverse campagne pubblicitarie. Bella, prestante, solare. Tutto il contrario di un’aspirante suicida. Quanto al movente – i presunti ammanchi attribuiti alla donna – secondo Franceschetti non regge: un vero ladro tenta di giustificarsi fino a negare l’evidenza, di sicuro non si spara alla testa. E nonostante la notorietà dell’ufficiale, i media non si sono occupati del caso. Strano, no?Troppo spesso, scrive Franceschetti nel suo blog, vengono trasferiti funzionari onesti solo per minime manchevolezze, mentre i veri criminali vengono coperti: «L’esempio più eclatante è quello della banda della Uno Bianca, che terrorizzò l’Emilia Romagna per anni. Era evidente a chiunque fosse un esperto di armi e strategie militari che si trattava di azioni commesse da personale addestrato militarmente, ma i componenti della banda furono coperti per anni ad alti livelli. E il poliziotto che indagò su di loro e incastrò i fratelli Savi invece venne trasferito». Altrettanto spesso, la teoria del furto compare quando un fatto di sangue viene presentato come suicidio. I giornali parlarono di “furto di carburante” nel caso del comandante di stazione Angelo Simone, «suicidatosi dopo aver ucciso il commilitone Angelo Nella». Altra tragedia in caserma, altro suicidio. «Altro disinteresse. Altro silenzio». Come per la Racciatti: non una parola, da giornali e televisioni «sempre pronti a interessarsi della nuova camicia indossata da Michele Misseri per dire l’ultima idiozia a cui non crede nessuno». Davvero non interessa, la tragica morta del giovane tenente donna? «Nessuna domanda ai due colleghi che erano nella stanza, nessuna domanda sui motivi reali del suicidio, nessuna notizia, niente di niente».«Mi sono sempre domandato il motivo di questa morte», scrive Franceschetti. «Perché si può uccidere una persona in una caserma? Quale può essere il motivo?». L’ex avvocato ritiene si sia trattato di un “omicidio rituale”. E indica le iniziali del nome della vittima, Cr, acronimo dei Rosacroce, ricercatori spirituali apparsi in pubblico con questo nome nel Rinascimento, cui ora si ispirerebbero settori super-segreti di massonerie deviate. E il movente? «Un omicidio rituale indica un rito, ma un rito deve essere finalizzato a qualcosa. E allora la domanda è: a cosa serve questo rito?». La possibile risposta, Franceschetti sostiene di averla trovata in un libro di Dion Fortune, una delle esoteriste più famose al mondo, che visse in Inghilterra all’inizio del ‘900. «Insieme a Aleister Crowley, Israel Regardie e Arthur Edward Waite, è l’esoterista che ha maggiormente contribuito alla diffusione dell’esoterismo anche tra coloro che non sono “iniziati” a una confraternita segreta». Se i libri di esoterismo sono un impervio labirinto, quelli della Fortune – in particolare “Magia applicata”, “La dottrina cosmica” e “La battaglia magica d’Inghilterra” – forniscono le basi dell’esoterismo, in termini comprensibili anche ai non iniziati.Nei suoi romanzi, la Fortune ha inserito «molti segreti altrimenti intrasmissibili», e inoltre «ha fornito importanti indicazioni sul modus operandi delle società segrete», a cominciare dalla “legge del contrappasso” su cui si incardina la Divina Commedia di Dante, grande iniziato dell’epoca, leader della setta pre-rosacrociana dei “Fidelis in Amore”. «In particolare – sostiene Franceschetti – la Fortune fornisce una chiave di lettura per alcuni omicidi inspiegabili, come questo di Claudia Racciatti». Non era solo «un’iniziata e una maga, fondatrice di una sua confraternita tuttora operante», ma era anche transitata nella famigerata “Golden Dawn”, nell’Ordine della Rosa Rossa, e in diverse altre società segrete. «Secondo l’autrice, per ogni evento importante che accade nella storia, occorre un sacrificio umano, di una o più persone». Esempio: «Per la costruzione di un tempio, devono essere sacrificate una o più vite umane». Oppure: «Per la costruzione di una città, di un palazzo, per far nascere una nuova associazione, organizzazione, per promuovere un evento, occorre un sacrificio». E la vittima deve avere delle caratteristiche che richiamano – nel nome, nella professione, nella sua vita personale o nell’aspetto – le particolarità dell’evento che si vuole propiziare.Delirio? Senz’altro. Ma poi, sostiene sempre Franceschetti, accade che quel “delirio” uccida realmente, armando la mano di qualcuno e organizzando le necessarie coperture: magari, di mezzo ci finisce un capro espiatorio, un balordo come Pacciani, mentre i veri colpevoli restano lontanissimi dai riflettori e dalle indagini. Stando alla Fortune, dunque, il motivo “propiziatorio” – nel 2010 – potrebbe esser stato il fatidico scioglimento dell’Arma dei carabinieri, destinata ad essere abolita per poi confluire nell’Eurogendfor, la super-polizia europea istituita dal Trattato di Velsen, del 2007. Trattato ratificato proprio nel maggio del 2010. Sempre secondo la “delirante” logica iniziatica, la morte della Racciatti – nel caso non si sia trattato di suicidio, come sostiene Franceschetti – sarebbe stata «un sacrificio per propiziare la nascita della nuova struttura e ritualizzare la fine dei carabinieri»? Nessuno meglio di lei era idonea a rappresentarli, «dato che col suo bel volto aveva fatto da testimonial all’Arma». Franceschetti aggiunge che «spesso, i sacrifici richiesti per un’operazione su larga scala non sono unici», e rileva che, sempre nel maggio 2010, per la precisione il giorno 14, si è suicidato un carabiniere di 43 anni a Viterbo, nel quartiere Santa Barbara. «Non solo Santa Barbara è la protettrice dei militari, ma guarda caso il 14 maggio è anche la data in cui viene promulgata la legge che ratifica il Trattato di Velsen».Franceschetti cita anche la strage di Porto Viro, in provincia di Rovigo. Tre persone, morte in una caserma dei carabinieri: due militari e la moglie del comandante della stazione. «Manco a dirlo, l’assassino dopo la strage si è suicidato: il modo migliore per archiviare tutto e non fare alcuna indagine». Conclude Franceschetti: «Noi, che vediamo delitti rituali ovunque, siamo un filino paranoici: in fondo, che ci sarà mai di strano in tutti questi carabinieri che si suicidano?». E aggiunge: «A coloro che, leggendo questo articolo, penseranno che mi sia bevuto il cervello e che l’idea di uccidere una persona a fini sacrificali sia una follia, rispondo che è vero, è una follia. Un delirio. Ma occorre soffermarsi a riflettere che le persone che decidono la morte di un carabiniere a fini sacrificali, sono le stesse che decidono di muovere una guerra all’Iraq e fare un milione e mezzo di morti raccontandoci la favoletta prima delle armi chimiche e poi del petrolio di Saddam, oppure dell’attacco alla Libia per difendere le popolazioni civili dalla cattiveria di Gheddafi, e la maggior parte della gente si beve queste idiozie e si abitua a tutti questi morti. E per questi esseri, la morte di qualche carabiniere, raccontandoci poi la storiella del suicidio avvenuto per il timore di un’azione disciplinare, non conta nulla».«Tranquilli, non mi sono bevuto il cervello: so bene che i sacrifici umani sono una follia, un delirio. Solo che accadono veramente. E sono così folli, per noi, che nessuno li scoprirà mai. Nessuno arriverà mai ai colpevoli, perché non ammettiamo l’idea che si possa uccidere qualcuno in un rito propiziatorio». Così, l’ex avvocato Paolo Franceschetti prova a rileggere la strana morte di una bella ragazza, Claudia Racciatti, di professione tenente dei carabinieri. Decesso imbarazzante, archiviato come suicidio: si sarebbe sparata davanti ai due colleghi che, in caserma, la stavano interrogando per una storia di irregolarità contabili. Troppe stranezze, rileva Franceschetti: in genere chi si uccide lo fa in luoghi isolati. «Vero è che di suicidi in caserma, tra polizia e carabinieri, ce ne sono una marea; ma è altrettanto vero che, appunto, in genere non si tratta di suicidi». In più, il tenente Racciatti era una testimonial dell’Arma, fotografata per il calendario e per diverse campagne pubblicitarie. Bella, prestante, solare. Tutto il contrario di un’aspirante suicida. Quanto al movente – i presunti ammanchi attribuiti alla donna – secondo Franceschetti non regge: un vero ladro tenta di giustificarsi fino a negare l’evidenza, di sicuro non si spara alla testa. E nonostante la notorietà dell’ufficiale, i media non si sono occupati del caso. Strano, no?
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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.
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Cinismo e paura nel “profughismo” della Fortezza Europa
«Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».Meglio quindi «distinguere il presunto viaggiatore disciplinato da quello allo sbando, potenzialmente foriero di problemi per l’ordine pubblico». I flussi degli ultimi mesi, osserva “InfoAut”, hanno reso necessaria una nuova impostazione, di cui il governo tedesco ha tentato di promuoversi capofila. «Le migrazioni odierne sono il prodotto degli sconvolgimenti politici del Nord Africa e dell’Asia occidentale. Pesano le guerre civili in Libia e in Siria: la prima per aver da tempo aperto falle nella gestione draconiana dei flussi subsahariani che Gheddafi aveva, a suo tempo, concordato con Berlusconi; la seconda per aver condotto milioni di persone dalle regioni siriane verso paesi a loro volta instabili come l’Iraq, il Libano o la Turchia, e aver quindi prodotto il desiderio di proseguire il viaggio verso paesi più ricchi – quelli dell’Europa settentrionale». I numeri dei migranti sono notevolmente aumentati, insieme alla loro determinazione a passare le frontiere, «anche a costo della resistenza all’identificazione e alle violenze delle polizie». I capitali europei hanno sempre «bisogno di mano d’opera a basso costo», ma al tempo stesso non possono rinunciare «a trarre beneficio dall’astio (preesistente o indotto) di gran parte delle popolazioni provate dall’austerity verso le masse dei nuovi arriva(n)ti».Secondo “InfoAut”, il rinato interesse per la categoria del “profugo” «è il nuovo criterio per amministrare l’esclusione là dove il ricorso alle ordinarie procedure non appare possibile». Certo, il governo Merkel, per conto dell’imprenditoria tedesca (ma in contrasto con talune tensioni della Germania profonda), guarda sempre con interesse all’ingresso dei migranti siriani attualmente in viaggio dalla Turchia: «Appartenenti spesso a ceti istruiti, provenienti da un paese dove il sistema educativo è piuttosto avanzato, non di rado importatori di una forza lavoro specializzata o di tendenza cognitiva (al contrario di migranti in gran parte orientati a occupazioni generiche provenienti da altri paesi) essi sembrano rappresentare una merce umana potenzialmente fruttifera per le aziende tedesche». Ma un simile piano di assorbimento selettivo rende necessaria un’efficiente burocrazia dell’immigrazione: per questo i paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia, «sono in queste ore spronati a istituire con celerità e rigore centri d’identificazione, classificazione e deportazione (gli “hotspots”) che permettano un ingresso ordinato verso i confini settentrionali (presupposto necessario per l’ingresso dispiegato alla fase fattuale della “solidarietà” tedesca)».Non è tutto. Notoriamente, la Siria rappresenta un obiettivo militare per gli Stati Uniti e la Francia, come a suo tempo la Libia, che fu gettata nel caos dai bombardamenti (anche italiani) del 2011. «Incentrare l’attenzione sulla tragedia umanitaria siriana può anche avere, per le potenze europee, un tornaconto propagandistico-militare, preparando le proprie popolazioni all’evenienza di un intervento armato», avverte sempre “InfoAut”, anche perché il fattore politico-militare è prepotentemente all’opera in tutta la fase attuale: «La svolta nord-irachena del 2014 ha aperto una fase di instabilità che ha liberato, secondo linee-forza contrastanti, energie e spazi per numerose contraddizioni sopite, latenti o pregresse nell’Asia occidentale: dalla crisi dei regimi arabi e dei governi-fantoccio all’eredità politico-militare delle resistenze afghana e irachena, fino all’approfondirsi della contrapposizione sunnita-sciita e alle irrisolte questioni kurda, libanese, palestinese». Ciò che accade, dunque, «non è che uno degli effetti collaterali di questo multiforme incendio, e i migranti odierni, come quelli di tutti i tempi, portano con sé questo bagaglio di tensione politica e sociale».Non a caso, continua il newsmagazine, assistiamo a dinamiche migratorie che, da Ventimiglia a Calais, passando per Gevgelija e Rozske, assumono i caratteri di vere e proprie ribellioni. «Sarebbe allora miope ignorare le contraddizioni che muovono lungo il pianeta assieme agli esseri umani, così come quelle che abitano gli esseri umani che si aggirano per il pianeta». Del resto, «l’universo migrante non è uno spazio evanescente ed etereo», ma un mondo materiale lacerato, frastagliato, stratificato. «Possiamo dimenticare i barconi giunti in Sicilia con libici, siriani e maghrebini autorizzati a respirare, e bengalesi e pakistani assassinati nella stiva, assieme a subsahariani schiacciati a morire sul fondo del fondo, sotto a poppa, in una terribile gerarchizzazione razziale dell’accesso alla speranza o alla morte degli esseri umani?». E’ proprio «questa procedura di selezione, filtraggio e gerarchizzazione – tanto nella forma selvaggia del mercato illegale, quanto in quella giuridica del mercato istituzionale – che dobbiamo, oggi, rifiutare con estrema chiarezza».Il richiamo diffuso a una solidarietà caratterizzata dalla retorica “profughista” può allora, in questo momento, assumere un significato pericoloso e ambiguo, conclude “InfoAut”. «Occorre smontare l’idea secondo cui le condizioni economiche non costituiscono un fondamento legittimo per la decisione di partire, considerato non soltanto che il benessere e il malessere economico delle diverse aree geografiche e classi sociali sono interconnessi, ma anche che le dinamiche di guerra e persecuzione politica hanno origini economiche di volta in volta individuabili». Così, «la critica delle politiche di morte e subordinazione portate avanti nel Mediterraneo» non può appiattire le nozioni di libertà, oppressione o guerra secondo una rappresentazione del diritto internazionale «parziale, storicamente situata e politicamente insufficiente». Se i benefici del diritto acquisito vanno sempre rivendicati, «là dove conquiste storiche affiorano nelle sedimentazioni giuridiche in seguito alle lotte e agli sconvolgimenti passati», bisogna «costruire la contrapposizione viva per il cambiamento, dentro gli sconvolgimenti odierni». Attenzione: una contrapposizione che si nutra di una solidarietà «diversa da quella (ipocrita) delle istituzioni», preoccupate solo di «amministrare, gestire e controllare nuove e temibili contraddizioni sociali».«Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».
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Karzai ammette: Al-Qaeda? Mai esistita, era un’invenzione
L’ex presidente afghano Hamid Karzai, intervistato l’11 settembre 2015 da un giornalista di “Al Jazeera”, spazza via 14 anni di narrativa ufficiale occidentale dichiarando che Al-Qa’ida è una mera invenzione. Lo dice senza alcun tentennamento: «Per me è un’invenzione. Non ho mai ricevuto un solo rapporto da una qualunque fonte afghana su Al-Qa’ida o su quello che stessero facendo. Noi non li vediamo, non riusciamo a visualizzarli, per noi non esistono. Non ho mai ricevuto rapporti dalla nostra intelligence, o dalla nostra gente. Non ho mai avuto a che fare con loro». Il video con l’intervista (sottotitolato in italiano da “luogocomune” e ripreso da “Pandora Tv”) non è stato ancora citato con rilievo dai nostri grandi media. Eppure la notizia è importante. La traduciamo anche in un semplice concetto: gli enormi costi economici e umani dell’invasione dell’Afghanistan da 14 anni in qua sono imposti ai popoli sulla base di un pretesto inventato. Esattamente come fu per la guerra in Iraq. Ulteriore traduzione: si corre a cercare negli occhi degli altri popoli pagliuzze da chiamare “criminali di guerra”, mentre abbiamo travi conficcate nei nostri democratici occhi occidentali. Come definire altrimenti un Tony Blair?
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.