Archivio del Tag ‘intimidazioni’
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La mafia tedesca uccide la Grecia, ma l’Ue subirà rivolte
Per una volta consentitemelo: la previsione formulata la sera del referendum (“ora vedrete cos’è davvero l’Europa“) ha trovato drammatica conferma. L’establishment europeo – e soprattutto quello tedesco – ha voluto umiliare il popolo greco per aver osato, legittimamente, opporsi alle regole dell’austerità in Europa che si traducono in un dominio ingiusto della stessa Germania. Sono logiche imperiali, del colonizzatore sul colonizzato, che perlomeno spazzano via la retorica della fratellanza europea, della solidarietà fra i popoli, dell’Unione costruita nell’interesse delle giovani generazioni. I risultati del referendum rivelano che sono stati proprio i giovani greci ad esprimere a stragrande maggioranza (85% di no!) il rifiuto delle ricette europee. Tsipras ha sbagliato la gestione del successo, violando una delle regole fondamentali: non inizi una guerra se non sei sicuro di vincerla. E se non hai esaminato tutti gli scenari alternativi. Tsipras non aveva un piano B. Non ha capito che l’Europa non si fa riformare e che l’unica alternativa sarebbe stata l’uscita volontaria dall’euro.Alla fine non ha avuto la tempra per resistere ed è stato costretto a firmare una resa che è devastante sotto ogni punto di vista ed è di gran lunga peggiore degli accordi rifiutati solo poco più di una settimana fa. Ma sono funzionali al disegno della Germania e delle élite europee: servono da monito a tutti gli altri popoli, che, poveri ingenui democratici, devono sapere che esiste una sola salvezza, quella dell’euro e delle regole imposte dall’alto. E chi osa chiedere di cambiarle, le regole (in fondo era questo che voleva Tsipras) deve sapere che subirà le pene dell’inferno. Sono regole mafiose o, se preferite, da moderno Reich. Con un corollario di speranza. L’intimidazione non basta per mascherare la realtà. E la realtà è racchiusa in un grafico pubblicato qualche giorno fa dal “New York Times”. Oggi la disoccupazione in Grecia è più alta rispetto a quella degli Stati Uniti durante la Grande Crisi del ’29.Solo che gli Usa uscirono da quella crisi spaventosa con uno straordinario programma di rilancio dell’economia, mentre le misure imposte dalla Ue ai greci avranno quale prevedibilissimo effetto quello di far sprofondare ancor di più l’economia reale, dunque di far salire ulteriormente la disoccupazione e con essa la disperazione sociale. La Grecia con i miliardi che riceverà tirerà avanti ancora qualche mese o qualche anno. Poi la realtà prenderà il sopravvento e la gente non ascolterà più le illusioni di uno Tsipras, che peraltro è già politicamente morto. La rivolta sarà estrema, forse anche violenta, e con un epilogo già scritto: l’uscita dall’euro, la spaccatura dell’Europa, la ribellione (e i greci non saranno soli) contro quella che un pensatore straordinario come Zinoviev, con straordinaria preveggenza aveva definito 15 anni fa la dittatura invisibile.(Marcello Foa, “Possono schiacciare la Grecia, non possono manipolare la realtà”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 13 luglio 2015).Per una volta consentitemelo: la previsione formulata la sera del referendum (“ora vedrete cos’è davvero l’Europa“) ha trovato drammatica conferma. L’establishment europeo – e soprattutto quello tedesco – ha voluto umiliare il popolo greco per aver osato, legittimamente, opporsi alle regole dell’austerità in Europa che si traducono in un dominio ingiusto della stessa Germania. Sono logiche imperiali, del colonizzatore sul colonizzato, che perlomeno spazzano via la retorica della fratellanza europea, della solidarietà fra i popoli, dell’Unione costruita nell’interesse delle giovani generazioni. I risultati del referendum rivelano che sono stati proprio i giovani greci ad esprimere a stragrande maggioranza (85% di no!) il rifiuto delle ricette europee. Tsipras ha sbagliato la gestione del successo, violando una delle regole fondamentali: non inizi una guerra se non sei sicuro di vincerla. E se non hai esaminato tutti gli scenari alternativi. Tsipras non aveva un piano B. Non ha capito che l’Europa non si fa riformare e che l’unica alternativa sarebbe stata l’uscita volontaria dall’euro.
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Meglio il Grexit, malgrado la Merkel e la catastrofe-Tsipras
Meglio il Grexit, a questo punto – benché in una situazione catastrofica – piuttosto che restare sotto le forche caudine dell’Eurozona e della Troika, interessate solo ad annientare l’economia greca. Lo sostiene Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, di fronte alle drammatiche notizie provenienti da Bruxelles. «Ovviamente le notizie che arrivano dall’Europa sono terribili, e c’è molta confusione su quanto sta accadendo». Primo capitolo della disfatta, la devastante inadeguatezza di Tsipras: «A quanto pare si è lasciato convincere, qualche tempo fa, che l’uscita dall’euro era del tutto impossibile». Peggio: «Sembra che Syriza non abbia nemmeno fatto alcun piano di emergenza per una moneta parallela (spero di scoprire che non sia così). Questo – aggiunge Karugman – l’ha lasciata in una posizione negoziale senza speranza». Inutile sorprendersi troppo, però: «So anche da persone che dovrebbero essere informate dei fatti che Ambrose Evans-Pritchard ha ragione quando dice che Tsipras sperava di perdere il referendum, per avere una scusa per la capitolazione».Ma attenzione: «Una resa sostanziale non è sufficiente per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e l’umiliazione totale – e c’è una fazione importante che vuole proprio buttar fuori la Grecia, e praticamente apprezzerebbe il fallimento di uno Stato come avvertimento per gli altri». Infine, conclude Krugman in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, «non so se qualche tipo di accordo potrebbe ancora essere approvato; ma anche se lo fosse, quanto tempo potrebbe durare?». Si viaggia a fari spenti, verso schianti teoricamente anche fatali: «Il fatto è che tutti i sapientoni che dicono che un Grexit è impossibile, che porterebbe ad una implosione completa, non sanno di cosa stanno parlando», aggiunge il Premio Nobel statunitense, di scuola neo-keynesiana. «Quando dico questo, non voglio dire che sono necessariamente in errore – credo che lo siano, ma chiunque sia convinto di qualcosa, qui, si sta illudendo. Quello che voglio dire, invece, è che nessuno ha esperienza di quanto sta accadendo davanti a noi».Per Krugman, è «impressionante» come la “saggezza convenzionale” in questo caso «fraintenda completamente il parallelo più vicino, l’Argentina 2002», cioè il collasso dell’economia del paese sudamericano – vincolato al dollaro – cui seguì la “resurrezione”, grazie al recupero di sovranità della moneta. «La solita narrativa è completamente sbagliata: la de-dollarizzazione non ha causato il collasso economico, ma lo ha seguito, e la ripresa è iniziata molto presto», insiste Krugman, ben sapendo che l’euro – cioè un sistema di cambi bloccati – ripropone lo stesso handicap dei pesos argentini vincolati al dollaro: la soluzione quindi è una sola, cioè lontano dall’euro. Certo, c’è un problema in più e si chiama Tsipras: «A questo punto ci sono solo delle alternative terribili, grazie alla inettitudine del governo greco e, cosa molto più importante, alla campagna del tutto irresponsabile di intimidazione finanziaria condotta dalla Germania e dai suoi alleati». Morale: «A meno che la Merkel non trovi miracolosamente un modo per offrire un piano molto meno distruttivo», secondo Krugman «il Grexit, per quanto possa essere terrificante, sarebbe meglio».Meglio il Grexit, a questo punto – benché in una situazione catastrofica – piuttosto che restare sotto le forche caudine dell’Eurozona e della Troika, interessate solo ad annientare l’economia greca. Lo sostiene Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, di fronte alle drammatiche notizie provenienti da Bruxelles. «Ovviamente le notizie che arrivano dall’Europa sono terribili, e c’è molta confusione su quanto sta accadendo». Primo capitolo della disfatta, la devastante inadeguatezza di Tsipras: «A quanto pare si è lasciato convincere, qualche tempo fa, che l’uscita dall’euro era del tutto impossibile». Peggio: «Sembra che Syriza non abbia nemmeno fatto alcun piano di emergenza per una moneta parallela (spero di scoprire che non sia così). Questo – aggiunge Karugman – l’ha lasciata in una posizione negoziale senza speranza». Inutile sorprendersi troppo, però: «So anche da persone che dovrebbero essere informate dei fatti che Ambrose Evans-Pritchard ha ragione quando dice che Tsipras sperava di perdere il referendum, per avere una scusa per la capitolazione».
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Grecia, schiaffo al totalitarismo. E ora vedrete cos’è l’Ue
Quando circa il 60% di un popolo vota no, sono superflue le solite interpretazioni. E’ un voto forte, conclamato e, a mio giudizio, colmo di speranza. Ma non del tutto sorprendente. Il popolo greco – che molti in questi anni hanno deriso – è un popolo coriaceo, orgoglioso, profondamente consapevole della propria identità. E’ un popolo che ha resistito a secoli di dominazione ottomana, che nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto a viso aperto gli italiani prima (sconfiggendoli) e i tedeschi di Hitler. Quando si sente minacciato, quando si sente vittima di un’ingiustizia reagisce come ha sempre fatto nella sua storia: unendosi e ribellandosi. Il no dei greci è straordinario perché segna un precedente storico. Un popolo di nemmeno 10 milioni di abitanti ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’Europa finanziaria – dominata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fmi – che ha gettato nella disperazione non solo i greci, ma anche portoghesi, spagnoli, italiani e in fondo quasi tutti i paesi della zona euro, con la sola eccezione della Germania. E lo ha fatto usando lo strumento che quell’Europa di tecnocrati nega ostinatamente e svilisce quotidianamente: la democrazia.Il voto di un popolo che vuole essere ancora sovrano in questa Europa che invece nega la sovranità. E’ uno schiaffo clamoroso, che nemmeno uno spin vergognoso, dai tratti terroristici – perpetrato da tutte le istituzioni europee con la vergognosa complicità di Draghi, che ha portato ai minimi la liquidità alla Grecia, costringendo le banche, in piena campagna referendaria, a rimanere chiuse – ha sortito gli effetti sperati. Altrove queste misure avrebbero provocato una netta vittoria dei sì. In Grecia, invece, è stata vissuta come un gesto imperiale, di occupazione coloniale a cui non si poteva che rispondere con il no. Della serie: noi non ci facciamo intimidire. Che tempra! Che coraggio! Onore al popolo greco. E che esempio per gli altri europei. Il voto di ieri è in ogni caso storico e incoraggia altri popoli a seguire la stessa strada. Da questa mattina sono più forti tutti i movimenti popolari di protesta di tutto il Continente, sia di sinistra che di destra, in Spagna, in Italia, in Francia, in Gran Bretagna. E’ una scossa tellurica che l’Europa dei tecnocrati non potrà ignorare.E questo è l’aspetto più critico e interessante del dopo voto ellenico. Un voto che costringe l’Unione Europea a gettare la maschera, a mostrarsi per quel che è davvero. Infatti, se cede alle richieste di Tsipras e rinegozia il debito, attuando politiche che non siano più solo punitive ma finalmente di stimolo alla crescita economica, rinnega 15 anni di inutile, cieca, prevaricante austerity. Se invece persegue la linea seguita finora, la conseguenza ultima sarà, verosimilmente, da qui a qualche mese il default e il fallimento de facto della Grecia, che si tradurrà in un’uscita di Atene dall’euro con il ritorno alla dracma. Ma se così fosse sarebbe comunque una sconfitta per l’Europa, perché il tabù dell’uscita dalla moneta unica verrebbe infranto, costituendo un precedente dalle conseguenze imprevedibili.Il terzo scenario è quello di un ulteriore, immediato gesto imperiale di Draghi e della Bce, con la chiusura immediata dei rubinetti finanziari alla Grecia, che comporterebbe il fallimento delle banche e uno tsunami sociale. Un gesto di cui verosimilmente Draghi e i suoi referenti dell’elité finanziaria nonché la Germania, sarebbero fieri, ritenendolo l’inevitabile conseguenza della volontà del popolo greco e risponderebbe alle logiche intimidatorie e punitive di chi vuol dimostrare che non esiste salvezza al di fuori di questa Europa – insomma, per dissuadere gli altri popoli dal seguire l’esempio greco. Ma in questo caso mostrerebbe una vocazione totalitaria. Comunque vada, l’Europa finanziaria, basta su criteri assurdi e prevaricatori, oggi ha perso. Come non essere contenti?(Marcello Foa, “Che grande lezione dai greci. E ora vedrete cos’é davvero l’Europa”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 5 luglio 2015).Quando circa il 60% di un popolo vota no, sono superflue le solite interpretazioni. E’ un voto forte, conclamato e, a mio giudizio, colmo di speranza. Ma non del tutto sorprendente. Il popolo greco – che molti in questi anni hanno deriso – è un popolo coriaceo, orgoglioso, profondamente consapevole della propria identità. E’ un popolo che ha resistito a secoli di dominazione ottomana, che nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto a viso aperto gli italiani prima (sconfiggendoli) e i tedeschi di Hitler. Quando si sente minacciato, quando si sente vittima di un’ingiustizia reagisce come ha sempre fatto nella sua storia: unendosi e ribellandosi. Il no dei greci è straordinario perché segna un precedente storico. Un popolo di nemmeno 10 milioni di abitanti ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’Europa finanziaria – dominata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fmi – che ha gettato nella disperazione non solo i greci, ma anche portoghesi, spagnoli, italiani e in fondo quasi tutti i paesi della zona euro, con la sola eccezione della Germania. E lo ha fatto usando lo strumento che quell’Europa di tecnocrati nega ostinatamente e svilisce quotidianamente: la democrazia.
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Insegnava a non avere paura, per questo Osho fu ucciso
Osho Rajneesh fu assassinato dalla Cia mediante avvelenamento da tallio. Morì il 19 gennaio 1990, all’età di 60 anni. Faceva paura, perché insegnava a non avere paura di nulla. La morte, scrisse, va accolta con gioia: è come “addormentarsi in Dio”. «Che fu assassinato non lo dice un complottista come me», scrive Paolo Franceschetti. «Lo dice lui stesso, lo dicono i suoi allievi, e la storia del suo assassinio è narrata nel libro “Operazione Socrate”, che spiega anche le ragioni per cui venne avvelenato». Negli anni ‘80, i media lo presentavano come un guru spirituale così anomalo da viaggiare in Rolls Royce, a capo di un clan di appassionati di orge e fumatori di hashish. Non faceva nulla per allontanare da sé l’immagine di personaggio incongruente: secondo Gianfranco Carpeoro, esoterista e studioso di simbologia, il guru indiano emigrato negli Usa aveva capito perfettamente di essere sotto tiro, in pericolo di morte: aveva un enorme ascendente su milioni di giovani, e non voleva fare la fine di John Lennon. Meglio rischiare di passare per ciarlatano, pur di evitare l’omicidio?Osho era una potenza, con qualcosa come 400 titoli usciti a suo nome. Libri praticamente su tutto: vita e morte, religione, amore, denaro, depressione, felicità, etica. E politica. I suoi seguaci italiani? «Sembravano un po’ sciroccati», scrive Franceschetti sul suo blog. Convinti, i “Sannyasin”, che il Maestro se ne fosse semplicemente “andato” per sua scelta. «Dopo aver parlato con loro – confessa Franceschetti – mi convincevo che la storia del suo assassinio doveva essere una balla, prima di tutto perché nessuno dovrebbe aver interesse a uccidere il leader di un branco di sciroccati». La storia della Cia? «Una stupidaggine: quando non si sa a chi dare la colpa, si tira sempre fuori la Cia o gli extraterrestri». Le cose cambiarono quando Francheschetti, avvocato con alle spalle accurate indagini su alcuni dei più atroci casi insoluti della cronaca nera italiana, dal giallo di Cogne al Mostro di Firenze fino alle “Bestie di Satana”, prese in mano un libro di Osho, “La via delle nuvole bianche”. «Rimasi colpito dalla bellezza e della profondità del libro», racconta. «Poi ne lessi altri e via via mi convincevo che il suo pensiero era di una profondità fuori dal comune, che mal si attagliava all’immagine di orge e Rolls Royce che i media ne avevano tramandato».La data della sua morte era quanto meno sospetta, scrive Franceschetti, perché ai giorni nostri è difficile morire a sessant’anni per cause naturali, «specie se stiamo parlando di un uomo che viveva seguendo una dieta sana e principi anche spirituali sani». Osho aveva lavorato, e poi fondato una comunità spirituale, in India. Nel 1981 si trasferì in America e fondò una comunità nell’Oregon, ad Antelope: Raineeshpuram. Venne arrestato il 28 ottobre del 1985 a Charlotte, nella Carolina del Nord, e fu tenuto in stato di arresto per 12 giorni. Motivo del fermo: immigrazione clandestina. «Per quello che, in Oregon, è un semplice illecito amministrativo, Osho fu tenuto, illegalmente, 12 giorni in prigione». Poi gli fu comminata una pena di 10 anni di galera, con la sospensione condizionale, in aggiunta all’espulsione dagli Usa. «Venne accusato perché alcuni cittadini americani che frequentavano la comunità di Osho avevano contratto matrimoni di convenienza con degli stranieri, per far acquisire loro la cittadinanza americana. L’accusa poi era sicuramente falsa, perché Osho era il leader di una comunità che contava oltre 7.000 persone: difficile immaginare che fosse direttamente colpevole di questi reati».Osho venne sottoposto a «una serie di procedimenti illegali», e tenuto in stato di arresto per molti giorni in più rispetto a quella che sarebbe stata la normale procedura, senza che i suoi avvocati fossero avvisati dell’arresto. Venne trasferito in 12 giorni prigioni diverse, «senza motivo e senza una regolare procedura». In un carcere fu registrato col falso nome di David Washington: perché? Fu tradotto in un penitenziario di contea e non nel carcere federale, dove per giunta rimase 4 notti anziché una, come previsto in genere per i prigionieri in transito. Leggendo la sua biografia, e il libro che alcuni suoi discepoli hanno scritto sulla sua morte, saltano agli occhi poi alcune cose. Anzitutto la testimonianza di un detenuto in carcere per omicidio, Jonh Wayne Hearu, che al processo dichiarò di essere stato avvicinato per gettare una bomba sulla comunità di Osho. Furono addirittura insabbiate le testimonianze di alcuni agenti federali, che dichiararono che stavano indagando su un’altra bomba, destinata non alla comunità di Osho ma al carcere nel quale il leader spirituale era stato tradotto. Gli uomini dell’Fbi fecero capire che si trattava di «telefonate partite da centri istituzionali», ma «l’inchiesta su questa vicenda venne insabbiata e il funzionario che stava indagando venne trasferito».Il giorno dell’arresto, continua Franceschetti, erano pronti centinaia di militari che avevano circondato la comunità di Osho. Erano «in assetto da guerra e con elicotteri da combattimento». Il leader spirituale però «fu avvertito della cosa e quel giorno si fece trovare a casa di una sua seguace, dove si consegnò pacificamente». Per giunta, da giorni, i suoi legali chiedevano notizie circa l’eventuale possibile arresto di Osho «il quale, nell’eventualità, voleva consegnarsi spontanemente». Le autorità americane rassicuravano gli avvocati, ripetendo che non dovevano temere nulla. Eppure, «l’arresto fu effettuato a sorpresa e con la preparazione di un vero esercito». Motivo? «A mio parere – dice Franceschetti – avevano preparato una strage, che fu sventata dall’allontanamento di Osho dalla comunità». Probabilmente, «per il governo la cosa migliore sarebbe stato provocare un incidente per poter uccidere Osho direttamente il giorno dell’arresto». Giornali e televisione, che avevano sempre creato problemi alla comunità dipingendola come un covo di satanisti orgiastici, avrebbero liquidato l’aventuale massacro come l’inevitabile esito di un atto di ribellione da parte di fanatici fondamentalisti, una rivolta «repressa con le armi dall’eroico esercito americano».Altro fatto inspiegabile: Osho disse di essere stato in carcere per 11 giorni, quando invece i giorni erano stati 12. «In altre parole, per un giorno Osho perse la memoria. Non fu mai chiarito il perché e il come». Resta il fatto che al guru fu riscontrato un avvelenamento da tallio che lo portò alla morte in pochi anni. «Nei giorni successivi all’arresto, Osho fu trattenuto in carcere più del dovuto perché doveva prepararsi l’avvelenamento da tallio», che avvenne probabilmente «spargendo la sostanza nel letto dove Osho dormì». Era solito dormire su un fianco, e la parte del corpo che risultò agli esami maggiormente contaminata era proprio quella dove Osho aveva dormito. Una morte così sospetta, da mettere in allarme politici e intellettuali anche in Italia, firmatari di una denuncia scritta. Tra questi Lorenzo Strik Lievers, Luigi Manconi, Marco Taradash, Michele Serra, Giorgio Gaber, Lidia Ravera, Giovanna Melandri, Gabriele La Porta. «Il quadro dei fatti è impressionante», scrissero, «e gravissimi sono gli interrogativi che ne escono». Per cui, «se coloro cui spetta non vorranno o non sapranno dare risposte persuasive, saranno essi a legittimare come fondata la denuncia dei discepoli di Osho». I firmatari chiesero l’apertura di un’inchiesta internazionale, per «far luce su questa pagina oscura», e per sapere «se, ancora una volta nella storia, il “diverso” sia stato prima demonizzato e poi eliminato nell’indifferenza generale».Perché fu ucciso, Osho Rajneesh? I suoi allievi accusarono «i fondamentalisti cristiani, che vedono Satana in tutto ciò che non è cristiano». Secondo Franceschetti, erano completamente fuori strada. Tanto per cominciare, «Bush padre, come il figlio e come Reagan (presidente al tempo dell’arresto di Osho) non sono cristiani nel senso “cristiano” del termine». Il cristiano vero «dovrebbe essere tollerante e amorevole verso tutti, e non dovrebbe per nessun motivo uccidere». Loro? «Sono cristiani nel senso “rosacrociano”; fanno parte cioè di quel ramo dei Rosacroce deviato, l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro», e quando parlano di Dio e di Cristo «intendono questi termini in senso esattamente opposto al senso cristiano: non a caso in nome di Dio scatenano guerre uccidendo milioni di persone». Bush ha spesso ha ripetuto che “Dio è con lui”. Già, ma «il Dio in nome del quale scatenano la guerra è il loro dio, Horus, non il Dio dei cristiani». Bush quindi «non è un cristiano», mentre Osho «è più cristiano di molti “cattolici”, in quanto seguiva alla lettera i principi di amore e tolleranza che sono scritti nei 4 Vangeli».Franceschetti indaga il profilo spirituale del crimine e la sua traduzione politica: «La comprensione e l’interiorizzazione dei principi su cui si basa la filosofia di Osho è idonea a scardinare proprio quei capisaldi su cui la massoneria rosacrociana basa la sua forza: ovvero il concetto della morte e il concetto del denaro». Di fatto, con i suoi scritti, «Osho incita a non temere la morte, e a viverla come uno stato di passaggio, in cui addirittura si vivrà meglio che nel corpo fisico». Quanto ai soldi, «nonostante girasse in Rolls Royce, non era attaccato al denaro: da giovane insegnava all’università ma rifiutò una promozione perché, disse, non voleva regalare ancora più soldi allo Stato con le tasse». Non si preoccupò mai del denaro, «perché sosteneva che nell’universo arriva sempre esattamente ciò di cui hai bisogno, nel momento giusto». Le Rolls Royce? «Arrivarono perché la sua comunità attirava anche gente ricca, e ciascuno metteva in comune ciò che aveva: gli avvocati gestivano gratis i problemi della comunità, i muratori costruivano, i medici curavano, i docenti di varie discipline insegnavano e, ovviamente, chi aveva soldi, donava soldi».Secondo Osho, «il denaro e il lusso sono un mezzo come un altro, possono esserci o meno, ma non devono intaccare la serenità interiore, che invece si acquista con altri mezzi». Insegnava ad amare la vita, ma non ne era attaccato. Lo dimostrano le testimonianze dei seguaci che raccontano la sua ultima notte: rifiutò l’assistenza del medico personale. «E’ il momento che me ne vada», disse. «Inutile forzare ancora le cose. Ormai soffro troppo, in questo corpo». Per Franceschetti, dunque, «Osho faceva paura perché il sistema massonico in cui viviamo si basa su due fondamenti, la paura della morte e la paura della perdita economica». Senza queste paure, il potere, che vive di minacce dirette o indirette (se ti opponi perderai il lavoro, perderai la vita, perderai l’onore perché ti infagheremo) non potrebbe resistere. Senza la paura della morte (tua e dei tuoi cari) svanisce anche il ricatto familiare che si riassume nella frase: non ti opporre al sistema, se tieni alla tua famiglia. A questo sistema la comunità di Osho contrapponeva un modello alternativo, basato sul mutuo aiuto: baratto e libero scambio di beni e competenze quotidiane, senza mercificazione.«Anche dal punto di vista religioso, Osho poteva far paura», conclude Franceschetti. «Non ha fondato una sua religione, né si ispirava ad una religione particolare. Nei suoi libri e nei suoi discorsi utilizzava il Vangelo quando parlava a persone cattoliche, i Sutra buddisti quando parlava a buddisti, i Veda indiani quando parlava a induisti, e attingeva da fonti ebraiche, sufi e chassidiche». Tra i tanti libri, scrisse anche “Le lacrime della Rosa mistica”, quella a cui si ispirano i Rosacroce. «Si possono leggere i suoi scritti, quindi, pur restando buddisti, cristiani, o ebrei. Ma dava una lettura dei testi sacri più moderna e al passo coi tempi, il che poteva far paura a coloro che ancora ragionano con schemi che risalgono a migliaia di anni fa, e che usano la religione come uno strumento per tenere sotto controllo le menti degli adepti». Osho, in altre parole, «fu ucciso per lo stesso motivo per cui furono uccisi altri leader spirituali famosi, come Gandhi e Martin Luther King». Soprattutto, «fu ucciso per la stessa ragione per cui vengono uccisi tutti quelli che si ribellano al sistema denunciandolo fin nelle fondamenta, dai cantanti, agli scrittori, ai registi, ai magistrati, ai giornalisti». Il potere aveva ragione di temerlo: «La diffusione delle idee di Osho poteva contribuire a scardinare il sistema». Se non altro, il suo pensiero non è andato perduto: lo testimonia la continua ristampa dei suoi libri, sempre più diffusi. «Per certi versi, Osho è più vivo che mai».Osho Rajneesh fu assassinato dalla Cia mediante avvelenamento da tallio. Morì il 19 gennaio 1990, all’età di 60 anni. Faceva paura, perché insegnava a non avere paura di nulla. La morte, scrisse, va accolta con gioia: è come “addormentarsi in Dio”. «Che fu assassinato non lo dice un complottista come me», scrive Paolo Franceschetti. «Lo dice lui stesso, lo dicono i suoi allievi, e la storia del suo assassinio è narrata nel libro “Operazione Socrate”, che spiega anche le ragioni per cui venne avvelenato». Negli anni ‘80, i media lo presentavano come un guru spirituale così anomalo da viaggiare in Rolls Royce, a capo di un clan di appassionati di orge e fumatori di hashish. Non faceva nulla per allontanare da sé l’immagine di personaggio incongruente: secondo Gianfranco Carpeoro, esoterista e studioso di simbologia, il guru indiano emigrato negli Usa aveva capito perfettamente di essere sotto tiro, in pericolo di morte: aveva un enorme ascendente su milioni di giovani, e non voleva fare la fine di John Lennon. Meglio rischiare di passare per ciarlatano, pur di evitare l’omicidio?
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Barnard: via la dittatura? Solo grazie a un nuovo Gorbaciov
La dittatura dell’élite crollerà solo dall’interno, se e quando – al momento buono – verrà fatta collassare da esponenti dello stesso potere, illuminati e preparatissimi, capaci di restare sott’acqua per anni, conquistando la fiducia degli egemoni. E’ la lezione della storia: l’impero sovietico fu fatto cadere nel solo modo possibile, e cioè dal suo interno, grazie all’ex presidente del Kgb, un certo Mikhail Gorbaciov. Lo sostiene Paolo Barnard, prendendo spunto da opposte riflessioni fornite da attenti lettori, divisi sul ruolo politico di strumenti di comunicazione di massa come Facebook. Straordinaria opportunità di veicolare messaggi rivoluzionari in modo virale o “oppio dei popoli” per concedere a tutti la possibilità di uno sfogo innocuo e comunque controllato dal sistema industriale delle comunicazioni? Sono vere entrambe le interpretazioni, scrive Barnard sul suo blog. Con tutti i suoi limiti, persino Facebook può servire la causa dell’umanità. A patto però che, un giorno, si svegli un Gorbaciov disposto a terremotare il potere. Viceversa, ogni tipo di rivolta dall’esterno sarà perfettamente inutile.Nicolas Micheletti è ottimista: Facebook, scrive, è un’arma decisamente sottovalutata. E’ vero, «può portare dipendenza patologica, ci stacca dalla realtà, ci toglie tempo libero per studiare testi che ci aprirebbero la mente». Ma il network creato da Zuckerberg può anche informare e sensibilizzare: «Con Facebook ogni persona può essere un “giornalista”, ogni persona può essere una rampa per l’informazione». Lorenzo Cortonesi invece non si fa illusioni: il social network ti concede sì di circuitare idee intelligenti, ma «a patto che non rompi troppo i coglioni». Ovvero: «Se tu arrivassi a 60 milioni di visualizzazioni», cioè «i numeri che davvero cambierebbero qualcosa», magari per parlare dell’“economicidio europeo”, «scompariresti nella nebbia in 20 secondi esatti». Motivo: «Non è concepibile usare Fb per fare “vero giornalismo”, semplicemente perchè non è stato creato per questo».Realismo: «Credi davvero che uno di noi o tanti di noi possano cambiare il mondo con Fb? Por favor». Davvero pensiamo che «una Merkel, un Draghi, non sappiano cos’è Facebook e che cosa potrebbe scatenare se davvero “funzionasse”?».«Nulla viene lasciato al caso, con multinazionali come queste», scrive Cortonesi, rispondendo a Micheletti. «Fb è solo quello che Paolo Barnard disse una volta (e con piena ragione) in una sua vecchia intervista a proposito di Grillo e il suo movimento di grillini: una valvola di sfogo. Io aggiungo, un luogo per apatici rincoglioniti, ridotti a postare mici e aforismi del cazzo. Nulla di più. E questo non preoccupa nessuno». Chi invece ha provato seriamente a fare informazione «è stato bannato, censurato, oscurato». I motivi? «Apparentemente tecnici o di comportamento», ma nella realtà «“rompi il cazzo e sei pericoloso”: ne abbiamo avuto prova proprio in questi giorni con la pagina di Paolo, rimossa più volte». Quindi, «non facciamoci abbindolare sempre da queste “visioni” salvifiche: non cambi niente da casa, seduto a scrivere un articolo». La verità è che «i “rentiers” se ne strafregano di Facebook perché sono loro che ci mettono i soldi per farlo campare». Ok. Che fare, allora? Solo lo 0,2% dell’opinione pubblica, secondo Barnard, «ha compreso che chi comanda la nostra vita in tutto ciò che conta sono oggi strutture sovranazionali immensamente potenti». Quindi, «quali strumenti e strategie dobbiamo usare per arginare The Machine?».Francamente: «Conta qualcosa fare cartelli con lo spray e sfilare per le strade? Conta Facebook? Conta informare la gente, e la… gggènte? Conta fare Onlus e associazioni? Conta uno sciopero della fame o mettere il proprio corpo contro proiettili di gomma?». Il grande giornalista, autore de “Il più grande crimine” (prima clamorosa denuncia contro il “golpe” finanziario dell’élite neo-feudale che sta rottamando la democrazia) propende per un’altra soluzione: forse, aggiunge, «l’unica cosa che conta davvero è starsene muti per 35 anni della propria vita, arrivare come colletti bianchi dentro le stanze di un ministero, dentro quelle di una megabanca, dentro quelle di una potente think tank, quelle della Bocconi, della Sapienza e, dall’interno, sferrare l’attacco». E spiega: «L’Urss non l’hanno neppure intaccata di una scheggia i sacrifici tragici ed eroici dei dissidenti spediti in manicomi o in Siberia, l’ha fatta crollare dall’interno proprio il suo presidente (e non certo Reagan o il Papa)». Per Barnard, «il colpo finale al Vero Potere, se mai accadrà, sarà sferrato da una coalizione di super-tecnocrati favorevoli all’Interesse Pubblico». Personaggi «dalla preparazione micidiale (spaccano un capello in due con uno sguardo…), già insediati in posizioni di potere». Semplificando, aggiunge Barnard, è «ciò che successe quando John Maynard Keynes, Piero Sraffa e alcuni intellettuali altolocati inglesi come William Beveridge, tutti interni al Potere britannico, teorizzarono lo Stato Sociale, la Piena Occupazione, e l’economia nell’interesse pubblico». Quegli uomini «cambiarono il mondo di allora in Europa».Accadde anche in Italia, nel 1970, grazie a Giacomo Brodolini e Gino Giugni, «autori del più avanzato Statuto dei Lavoratori (pro lavoratori) del mondo». Erano anch’essi «colletti bianchi già interni al Potere. Eccezionali». La missione, oggi, è proprio questa: indirizzare i nuovi Gino Giugni verso la Mosler Economics, la sovranità monetaria, per liberare lo Stato dal ricatto della finanza e riconvertire l’economia verso la piena occupazione. I nuovi insider dovranno crescere nell’ombra e scalare posizioni di potere per poi scardinare, un giorno, il dispositivo neo-feudale che sta cancellando la civiltà democratica europea. Come Gorbaciov, gli insider dovranno conquistare la piena fiducia della Macchina: e quindi «scalare posizioni nei partiti, nei governi, nelle amministrazioni, in Ue», come fossero «impassibili finti burattini del Vero Potere». Il rischio? E’ che, al momento buono, il loro attacco «venga soffocato anche dall’interno della stanza dei bottoni». E qui allora entrano finalmente in gioco le associazioni, le Ong, gli attivisti: senza mai svelare il loro collegamento con i «colletti bianchi infiltrati», i militanti devono fin d’ora «lavorare come pazzi per divulgare sul territorio e alla popolazione intellettualmente raggiungibile», cioè non la totalità dell’opinione pubblica, «il messaggio economico di salvezza nazionale che i colletti bianchi serbano nascosto».La missione, dunque, consiste nel «rivelare al popolo raggiungibile l’inganno fatale del Vero Potere di oggi». In altre parole, «devono fargli capire che non esiste un’altra strada, e che la distruzione della civiltà dei diritti è ormai completa». Massima urgenza, quindi. Quest’opera di “facilitazione”, spiega Barnard, serve a risolvere un punto cruciale: «Creare una relativa massa di opinione pubblica che sappia farsi sentire, o meglio rumoreggiare, quando i nostri colletti bianchi porteranno alla luce le loro proposte per l’Interesse Pubblico dentro il Vero Potere». Quando tenteranno di soffocarli, «se le opinioni pubbliche, anche in numeri esigui ma rumorosi, si faranno sentire, il Vero Potere si spaventerà». Infatti, sottolinea Barnard, «l’unica cosa al mondo che può intimidire il Potere sono le opinioni pubbliche che si ribellano, o anche solo… l’impressione che le opinioni pubbliche si siano sollevate». Non ne siete convinti? «Come credete che abbia fatto un Pannella a portare in Italia aborto e divorzio in un’epoca in cui il potere del Vaticano/Dc era stellare? Si mosse una fetta (piccola ma rumorosa) di opinione pubblica». La “gente” è meglio lasciarla perdere: la maggioranza «conta meno di una solida, determinata minoranza di cittadini che si fa sentire». Quindi va bene tutto, anche Facebook. Purché il disegno sia chiaro.La dittatura dell’élite crollerà solo dall’interno, se e quando – al momento buono – verrà fatta collassare da esponenti dello stesso potere, illuminati e preparatissimi, capaci di restare sott’acqua per anni, conquistando la fiducia degli egemoni. E’ la lezione della storia: l’impero sovietico fu fatto cadere nel solo modo possibile, e cioè dal suo interno, grazie all’ex presidente del Kgb, un certo Mikhail Gorbaciov. Lo sostiene Paolo Barnard, prendendo spunto da opposte riflessioni fornite da attenti lettori, divisi sul ruolo politico di strumenti di comunicazione di massa come Facebook. Straordinaria opportunità di veicolare messaggi rivoluzionari in modo virale o “oppio dei popoli” per concedere a tutti la possibilità di uno sfogo innocuo e comunque controllato dal sistema industriale delle comunicazioni? Sono vere entrambe le interpretazioni, scrive Barnard sul suo blog. Con tutti i suoi limiti, persino Facebook può servire la causa dell’umanità. A patto però che, un giorno, si svegli un Gorbaciov disposto a terremotare il potere. Viceversa, ogni tipo di rivolta dall’esterno sarà perfettamente inutile.
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Chi riportò l’Afghanistan al medioevo, più di trent’anni fa
«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.Come hanno rivelato “Wikileaks” e Edward Snowden, uno Stato di polizia e di controllo sta infatti soppiantando la democrazia. Nel 1976, Brzezinski, allora consigliere della sicurezza nazionale della presidenza Carter, ha dimostrato il suo punto di vista comminando un colpo mortale alla prima e unica democrazia dell’Afghanistan. Ma chi la conosce questa storia fondamentale? Nel 1960, una rivoluzione popolare dilagò in Afghanistan, il paese più povero della terra, riuscendo alla lunga nell’intento di rovesciare le vestigia del regime aristocratico nel 1978. Il Pdpa, Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, formò un governo e compilò un programma di riforme che prevedeva l’abolizione del feudalesimo, la libertà per tutte le religioni, la parità di diritti per le donne e giustizia sociale per le minoranze etniche. Più di 13.000 prigionieri politici furono liberati e gli archivi di polizia pubblicamente bruciati. Il nuovo governo introdusse cure mediche gratuite per i più poveri; la condizione di bracciante fu abolita, un programma di alfabetizzazione di massa fu varato. I progressi che ci furono per le donne erano fino ad allora impensabili.Verso la fine del 1980, la metà degli studenti universitari erano donne, e le donne rappresentavano quasi la metà dei medici in Afghanistan, un terzo dei dipendenti pubblici e la maggior parte degli insegnanti. «Ogni ragazza», ricorda Saira Noorani, chirurga, «poteva andare a scuola e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva. Di venerdì andavamo al bar o al cinema a vedere l’ultimo film indiano e ascoltavamo la musica più in voga. Tutto cominciò ad andare storto quando i mujahedin iniziarono ad imporsi. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Eravamo terrorizzati. Era strano e triste pensare che queste persone erano spalleggiate dall’Occidente». Il Pdpa al governo era sostenuto dall’Unione Sovietica, anche se, come l’ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, ammise poi, non vi era alcuna prova di complicità sovietica [nella rivoluzione]». Preoccupato dalla crescente fiducia dei movimenti di liberazione in tutto il mondo, Brzezinski decise che, se l’Afghanistan avesse trionfato con il Pdpa, la sua indipendenza e il suo progresso avrebbero posto «la minaccia di un esempio promettente».Il 3 luglio 1979, la Casa Bianca segretamente autorizzò lo stanziamento di 500 milioni di dollari in armi e logistica per sostenere gruppi tribali “fondamentalisti”, conosciuti come i mujahedin. L’obiettivo era quello di rovesciare il primo governo laico e riformista dell’Afghanistan. Nel mese di agosto del 1979 l’ambasciata americana a Kabul segnalò che «gli interessi degli Stati Uniti sarebbero stati asserviti meglio [dalla scomparsa del Pdpa] malgrado ciò che questo avrebbe significato per le future riforme sociali ed economiche dell’Afghanistan». I mujaheddin furono i precursori di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Tra questi c’era Gulbuddin Hekmatyar, che ricevette decine di milioni di dollari in contanti dalla Cia. Le specialità di Hekmatyar erano il traffico di oppio e gettare acido in faccia alle donne che si rifiutavano di indossare il velo. Fu invitato a Londra e decantato dal primo ministro, Margaret Thatcher, come «combattente per la libertà». Forse questi fanatici sarebbero rimasti nel loro mondo tribale se Brzezinski non avesse promosso un movimento internazionale per favorire il fondamentalismo islamico in Asia centrale, così minando una politica laica di liberazione e “destabilizzando” l’Unione Sovietica, per creare, come scrisse poi nella sua autobiografia, «un po’ di musulmani esagitati».Il suo grande piano coincise con le ambizioni del dittatore pakistano, il generale Zia ul-Haq, per il dominio della regione. Nel 1986, la Cia e l’Isi, l’agenzia di intelligence del Pakistan, iniziarono a reclutare persone da tutto il mondo per promuovere la jihad afghana. Il multi-miliardario saudita Osama Bin Laden era tra questi. Agenti che un domani si sarebbero uniti ai Talebani e ad Al-Qaeda furono reclutati in un college islamico di Brooklyn, New York, e a loro fu impartita una formazione paramilitare in una zona di proprietà della Cia in Virginia. Questa fu chiamata “Operazione Ciclone” e il suo successo culminò nel 1996, quando l’ultimo presidente del Pdpa afghano, Mohammed Najibullah – che si era recato al cospetto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per implorare aiuto – fu impiccato a un lampione dai Talebani. Il risultato dell’Operazione Ciclone e dei suoi “pochi musulmani esagitati” fu l’11 settembre 2001. L’“Operazione Ciclone” divenne la “guerra al terrore”, in cui innumerevoli uomini, donne e bambini avrebbero perso la vita in tutto il mondo musulmano, dall’Afghanistan all’Iraq, allo Yemen, alla Somalia e alla Siria. Il messaggio dei cosiddetti tutori dell’ordine era e rimane: “O sei con noi o contro di noi”.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.
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Muoia la Grecia, anche Renzi nel club del Venerabile Draghi
La vittoria di Syriza in Grecia, nell’attesa di capire le reali intenzioni di Tsipras, ha comunque movimentato le acque paludose dove sguazzano anguille, pescecani, meduse e alligatori del calibro di Merkel, Schauble, Renzi e Draghi. Da anni va impunemente in scena il solito teatrino che rappresenta a beneficio dei gonzi una inesistente dialettica che vedrebbe fronteggiarsi i finti falchi tedeschi (spalleggiati delle immancabili nazioni del nord) contro le altrettanto inesistenti colombe mediterranee. Questa recita, in mancanza di contrapposizioni reali nel merito delle questioni, è utile a tutti. E’ utile ai tedeschi che, in tal modo, possono presentarsi di fronte all’elettorato germanico vestendo senza arrossire i panni di quelli che difendono le tasche del virtuoso contribuente del Nord Reno-Westfalia; ma è utile pure ai tanti pagliacci italiani e francesi che, conseguentemente, imbrogliano i rispettivi cittadini simulando una strenua battaglia finalizzata a rendere meno intransigenti i cocciuti discendenti di Arminio.Inoltre, a voler dare retta alla stampa prezzolata, le paure dei tedeschi andrebbero ricollegate allo scioccante ricordo del fenomeno iper-inflattivo che devastò l’economia teutonica nel biennio 1921/1923. Un trauma che i tedeschi, secondo le intelligenti analisi partorite dalle penne lucidissime dei vari Antonio Polito e Massimo Franco, non sarebbero ancora riusciti a superare. Evidentemente i connazionali di Angela Merkel hanno metabolizzato molto meglio un’altra sciagura, quella riguardante la completa distruzione di Amburgo avvenuta nel luglio del 1943 per mano dell’aviazione britannica con la collaborazione dalle forze aree statunitensi. Lode quindi al nuovo ministro greco Varoufakis che ha pubblicamente rinfrescato la memoria ad alcuni apprendisti stregoni che non hanno ancora ben compreso la reale gravità di alcune ripetute e scellerate condotte.Di fronte alle modeste e insufficienti proposte avanzate dal governo greco per rispondere a una crisi interna che ha oramai assunto i contorni della vera e propria emergenza umanitaria, i tecno-nazisti hanno reagito compatti come un sol uomo. Weidmann, Schauble e Merkel hanno subito ringhiato all’indirizzo di Atene, spalleggiati questa volta pure da Mario Draghi, lupo travestito da agnello pronto adesso a minacciare addirittura il blocco della liquidità in maniera intimidatoria e ritorsiva. Il presidente della Bce ha oltrepassato il segno. In preda a un giustificato e comprensibile nervosismo, il Venerabile Mario Draghi ha finalmente palesato al mondo la sua vera natura di antieuropeista, pronto a mandare in frantumi il progetto di integrazione pur di non ridiscutere alcune fallimentari ricette economiche. Come mai gli arcigni sacerdoti del rigore ad ogni costo sembrano voler costringere Tsipras a scegliere fra la povertà più nera e l’abbandono dell’euro? Forse perché il dissimulato obiettivo perseguito nell’ombra dai massoni contro-iniziati che oggi guidano questo mostro di Ue è proprio quello di favorire dappertutto il ritorno di regimi filo-nazisti?Forse Mario Draghi, iniziato non a caso anche presso la Ur-Lodge “Three Eyes”, officina che supervisionò il golpe greco del 1967, crede che esistano oggi le condizioni per archiviare definitivamente in Europa tanto la democrazia liberale quanto la sovranità popolare? Mi auguro che il banchiere centrale recuperi in fretta quella lucidità che, unita allo spregiudicato e manipolatorio cinismo, fino ad oggi lo ha sempre accompagnato. Da segnalare infine il comportamento farsesco tenuto dal sedicente progressista Matteo Renzi. Il premier italiano, a capo di un partito che ha perfino organizzato una trasferta sognante per dare manforte al compagno Tsipras, si è subito schierato a favore dell’ingorda tecnocrazia europea e contro il popolo greco. Il Pinocchietto fiorentino, pronto per essere accolto all’interno della Ur-Lodge “Pan-Europa” proprio per merito di Draghi, non poteva fare diversamente.(Francesco Maria Toscano, “Il Venerabile Mario Draghi ha oltrepassato il segno”, dal blog “Il Moralista” del 9 febbario 2015).La vittoria di Syriza in Grecia, nell’attesa di capire le reali intenzioni di Tsipras, ha comunque movimentato le acque paludose dove sguazzano anguille, pescecani, meduse e alligatori del calibro di Merkel, Schauble, Renzi e Draghi. Da anni va impunemente in scena il solito teatrino che rappresenta a beneficio dei gonzi una inesistente dialettica che vedrebbe fronteggiarsi i finti falchi tedeschi (spalleggiati delle immancabili nazioni del nord) contro le altrettanto inesistenti colombe mediterranee. Questa recita, in mancanza di contrapposizioni reali nel merito delle questioni, è utile a tutti. E’ utile ai tedeschi che, in tal modo, possono presentarsi di fronte all’elettorato germanico vestendo senza arrossire i panni di quelli che difendono le tasche del virtuoso contribuente del Nord Reno-Westfalia; ma è utile pure ai tanti pagliacci italiani e francesi che, conseguentemente, imbrogliano i rispettivi cittadini simulando una strenua battaglia finalizzata a rendere meno intransigenti i cocciuti discendenti di Arminio.
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Verità proibita in Europa, la vergogna dell’arresto di Chiesa
Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.E’ abbastanza evidente, dice, il maldestro tentativo di impedire a un cittadino europeo di esprimere le proprie idee e raccontare le verità che conosce. «Questa – aggiunge Giulietto Chiesa dopo il rilascio – non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli». Il “decreto di espulsione” dall’Estonia, scrive Pino Cabras su “Megachip”, il newsmagazine web fondato da Chiesa, sarebbe stato «emanato ad personam» dal governo di un paese membro dell’Unione Europea, «senza nessuna accusa formulata in nome di una qualche fattispecie di reato». Quindi, «si è voluto colpire un cittadino di quella stessa Unione Europea, una personalità pubblica nel pieno dei suoi diritti politici e di parola, da sempre proclamati come il miglior primato dell’Europa». In teoria, aggiunge Cabras, tutti hanno quei diritti, «ma vengono usati poco e sempre meno», anche perché «per i diritti funziona al contrario dei vestiti: meno li usi più si sgualciscono». Giulietto? «Indossa invece tutte le sfumature del diritto di parola e perciò mostra la veste integra della libertà, che spicca in mezzo a un sistema dell’informazione ormai agli stracci».Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità». Durissime le denunce sulla Guerra del Golfo, costruita con le false accuse contro Saddam, e sui crimini di Israele verso i palestinesi. E poi la mattanza nei Balcani, i bombardamenti “umanitari” per il Kosovo, le atrocità della guerra in Cecenia: tra i pochissimi, Giulietto Chiesa, a denunciare la Russia per la guerra nel Caucaso, “organizzata” direttamente dal Cremlino per creare un fronte interno in grado di fabbricare consenso a beneficio del pericolante “zar” privatizzatore Boris Eltsin. In contatto con Gino Strada e la struttura di “Emergency”, Giulietto Chiesa è stato il primo giornalista italiano – tra i primi al mondo – a entrare a Kabul nella primavera 2002, durante la “liberazione” dai Talebani, nel corso dell’offensiva dell’Alleanza del Nord scatenata per “punire” Al-Qaeda all’indomani del super-attentato dell’11 settembre 2001, rispetto al quale – oggi è accertato – il network terroristico di Bin Laden non ebbe alcuna responsabilità.«Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia sovietica “Tass” ai tempi dell’Urss, sperando di liberarsi dell’allora corrispondente de “L’Unità”, ritenuto scomodo perché sincero, non allineato al potere. Fu Berlinguer in persona, ricorda Chiesa, a chiarire al Cremlino che il giornale non lo avrebbe sostituito. Un’autorevolezza, quella di Chiesa, che gli ha consentito di collaborare per lunghi anni coi maggiori organi d’informazione italiani, da “La Stampa” ai telegiornali Rai e Mediaset. Stretto collaboratore di Mikhail Gorbaciov a partire dagli anni ‘90, Chiesa ha condiviso l’impegno del “padre della perestrojka” per sviluppare una visione multipolare del mondo, archiviata la guerra fredda. Ma la storia s’è rimessa a correre in direzione contraria: la “guerra infinita”, innescata proprio dall’11 Settembre, ci ha regalato un conflitto dopo l’altro. «La peggiore arma di distruzione di massa è la menzogna», dice Chiesa. «Proprio sulla manipolazione della verità si basa la preparazione di ogni guerra di aggressione: tutte guerre asimmetriche, ormai, particolarmente sanguinose, non più tra eserciti contrapposti ma tra milizie e popolazioni civili». In crisi, Giulietto Chiesa, anche con la sinistra, da cui pure proviene: «La sinistra – dice – non ha “visto” il rivolgimento epocale in corso, l’affermarsi delle grandi oligarchie finanziarie che hanno piegato la politica al loro volere. E se la politica democratica sparisce, non abbiamo più difese».Le ultime grandi battaglie civili l’hanno condotto, ancora una volta, nell’ex Unione Sovietica. Prima nell’Ossezia del Sud, aggredita dalla Georgia armata dalla Nato su ordine di Bush. E poi nell’Ucraina sfigurata dal golpe di Kiev, orchestrato da Washington e affidato alla manovalanza neonazista che ha sparato sulla folla di piazza Maidan e assassinato più di cento inermi alla “casa dei sindacati” di Odessa, provocando la secessione della Crimea. Poi, a seguire, i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile del Donbass “ribelle”. Tutti episodi documentati e filmati, ma oscurati dal mainstream occidentale secondo cui l’aggressore è il vecchio nemico, l’Orso russo, incarnato oggi da quel Putin a cui non si perdona di non volersi “arrendere” al dominio occidentale. «Il mondo sta cambiando e cambierà sempre più in fretta», ha avvertito Pepe Escobar di “Asia Times” al simposio organizzato a Roma da Giulietto Chiesa il 12 dicembre. «Il problema – ha aggiunto Marcello Foa, opinionista del “Giornale” e a allievo di Indro Montanelli – è che l’opinione pubblica occidentale non se rende conto, perché i media non la informano».L’attività più recente di Giulietto Chiesa, la direzione della web-tv “Pandora Tv”, impegnata a svelare i torbidi retroscena della crisi ucraina, gli è probabilmente costata l’inaudito arresto a Tallinn, in quel Baltico dove il risentimento contro l’ex “padrone imperiale” sovietico è ancora così forte da armare violente discriminazioni contro le minoranze russe, fino al punto da applaudire i “rivoluzionari” di Kiev che sfilano sotto bandiere con la svastica. Non è un caso, osserva Pino Cabras, che nel punire con metodi squadristici gli scomodi portatori di verità «si cominci da uno dei paesi baltici, quelli in cui, assieme alla Polonia e all’Ucraina, con la benedizione della Nato, si sta formando un cuore nero dell’Occidente: lì, in piena Europa, si sta “normalizzando” un modo di concepire l’Occidente alla maniera dell’America Latina degli anni Settanta». Per essere chiari: «È un sistema in cui le strategie militari e finanziarie le decide Washington, gli apparati repressivi sono in mano a manovalanza di ispirazione nazista, i simboli storici sono manipolati con ogni mezzo, si rimuove con la forza ogni memoria antifascista e si recuperano segni, monumenti, cimeli legati al peggiore nazionalismo. Per le idee diverse c’è la repressione».Anche in questo caso, Giulietto Chiesa aveva fiutato il pericolo con largo anticipo: si era candidato al Parlamento Europeo in una lista creata per tutelare la minoranza russa della Lettonia. E nel 2009, nel libro “Il candidato lettone”, scriveva: «Mi rendevo conto, nonostante fossi lontano, che si stava preparando un focolaio, che avrebbe presto potuto trasformarsi in un incendio. E avvertivo anche che l’informazione che arrivava da Tallinn era – per usare un eufemismo – incompleta, inadeguata, e che, per capirci qualche cosa, si doveva integrarla con le notizie che venivano da Mosca. L’esperienza mi diceva che le crisi non nascono per caso. Anche se appaiono all’improvviso, hanno sempre una gestazione lunga ed è quella che bisogna scandagliare. Sono come corsi d’acqua, che escono dagli argini all’ultimo momento. Ma è evidente che la questione non è soltanto se gli argini siano sufficientemente alti; bisogna capire perché tanta acqua sia scesa dai monti». L’acqua baltica dell’ultimo decennio, aggiunge Cabras, è quella del recupero della memoria delle SS, della persecuzione dei russi, delle ondate repressive in stile G8 di Genova, tutte raccontate nel libro, «che ancora non poteva descrivere gli sviluppi che invece nel 2014 ha poi raccontato “Pandora Tv”: la guerra ucraina, la veloce e drammatica militarizzazione Nato dell’Est europeo; l’oltranzismo dei leader di quell’area, sempre più organici ai loro burattinai d’Oltreoceano, al punto che cedono platealmente i ministeri chiave e la finanza a ministri stranieri, come in Ucraina; le stragi naziste e i villaggi bombardati dall’artiglieria, le centinaia di migliaia di profughi, l’Europa delle sanzioni autolesioniste».Su questo fiume di eventi, conclude Cabras, c’è l’alba cupa dell’Europa che va incontro alla guerra da Est, non trattenuta dall’altra Europa più a Ovest, a sua volta devastata dall’austerity del regime europeo. «Solo in un contesto simile potevano eleggere il polacco Donald Tusk come presidente del Consiglio Europeo: ai piani alti vogliono quanta più russofobia possibile». L’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza». Per Pino Cabras, evidentemente, «il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte – qui e lì per l’Europa – che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome». Per Giulietto Chiesa, l’arresto è anche «una lezione da imparare», perché «ci aiuta a capire che razza di Europa è quella che ci troviamo davanti ora, e che battaglia dovremo fare per cambiarla, per rovesciarla come un calzino, se non vogliamo che questa gente rovesci noi».Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.
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Liberare il paese da chi ci ha venduto al potere mondiale
Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.Anche la creazione di organizzazioni internazionali vincolanti avviene attraverso il consenso dei poteri nazionali e la persistenza dei vincoli dipende soltanto dalla volontà o dall’interesse dei politici nazionali. Senza l’appoggio del potere nazionale, il preteso “vero potere” imperiale e del grande capitale, sul piano politico, non può fare nulla e addirittura è impotente. Un popolo che abbia riconquistato tutto il potere nazionale, ha conquistato tutto il potere politico. Il potere imperiale o cosmopolita o internazionale, senza l’appoggio dei governi nazionali, può soltanto accerchiarti, mettere sanzioni, bombardarti e attaccarti. Insomma, perso il potere politico, il potere imperiale, internazionale e cosmopolita è costretto a ricorrere alla palese e dichiarata guerra commerciale, diplomatica e militare. Subire la guerra commerciale, diplomatica e militare è la testimonianza che il popolo è libero, perché si è liberato.Perciò, il miglior attacco – anzi l’unico vero, realistico, sensato attacco – al potere imperiale, internazionale e cosmopolita, consiste nel sottrarre ad esso il controllo del (vero) potere nazionale, controllo che ha acquisito attraverso un lungo lavoro volto alla conformazione ideologica dell’opinione pubblica (svolto attraverso il “dominio delle onde”), e a garantire potere e interessi economici dei traditorii nazionali (coloro che vengono a patti con il potere imperiale e del grande capitale cosmopolita). Ovviamente, se si può evitare di subire la guerra commerciale, diplomatica o militare è molto meglio. Sotto questo profilo è bene che l’attacco al potere imperiale e del grande capitale provenga da più direzioni, ossia da più popoli che più o meno contestualmente sottraggano, in vario modo, il potere politico ai traditori, ai rappresentanti e agli alleati nazionali del potere imperiale e del grande capitale cosmopolita.Chi partecipa a una rivoluzione nazionale non deve attribuire alcun rilievo al carattere che hanno le altre rivoluzioni nazionali: non deve avere timore di nessuna di esse. Ogni rivoluzione nazionale, che si svolga contestualmente ad altre, siccome indebolisce il potere imperiale e del grande capitale internazionale, è alleata delle altre rivoluzioni nazionali, perché ne agevola il compimento. Il momento delle alleanze strategiche, dei riposizionamenti geopolitici viene dopo: è un problema che si pone soltanto per chi abbia avviato e condotto a buon punto la propria rivoluzione nazionale.(Stefano D’Andrea, “Il vero potere politico è nazionale”, da “Appello al Popolo” del 15 settembre 2014).Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.
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Attkisson, star della Cbs: è il potere a dettarci i telegiornali
C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero. Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall”. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal, ovvero di sinistra, e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi. Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment.
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Benito Renzi, il Partito della Nazione e il bivacco di manipoli
“Il futuro è solo l’inizio” è l’inquietante slogan della Leopolda che esprime bene la pulsione di coloro che guidano il governo ad infrangere le barriere del presente per catapultare l’Italia in una nuova dimensione dove tutto è cambiato: le istituzioni, la società, lo Stato. E’ stato annunciato un “cambiamento violento”, un rovesciamento totale degli equilibri di potere, di assetti consolidati, di tradizioni politiche, che consentirà – secondo la narrazione dominante – di far ripartire l’Italia, di recuperare efficienza e funzionalità al sistema paese, schiacciando le resistenze corporative di sindacati, ceti professionali e corpi intermedi. In realtà i criteri che guidano i processi di riforme costituzionali ed elettorali corrispondono ad esigenze politiche, che si sono riaffacciate in varie occasioni nella vita delle nostre istituzioni; non sono delle novità, bensì delle costanti che riaffiorano nei momenti di gravi crisi economiche e di smarrimento morale. Quando ci viene annunziato un salto nel futuro, non possiamo guardare al futuro ignorando il passato da cui proveniamo. E non dobbiamo ignorare gli insegnamenti che abbiamo tratto dal passato.Fatte le dovute proporzioni, ci sono molte somiglianze fra la situazione attuale e le esperienze istituzionali che abbiamo vissuto in un passato non troppo lontano. Anche in quell’epoca il nostro paese era attanagliato da una grave crisi economica e da un ancor più grave smarrimento morale, dovuto alle inenarrabili sofferenze e alle mutilazioni che la guerra aveva provocato nel corpo sociale. C’era una diffusa insoddisfazione che si esprimeva con scioperi, manifestazioni e violenti conflitti fra opposte fazioni politiche. In questo contesto un leader politico ottenne la nomina a presidente del Consiglio, con una procedura extraparlamentare (che si svolse attraverso una sorta di primarie del manganello), promettendo un rinnovamento totale che avrebbe pacificato ogni conflitto e consolidato l’unità e la forza della nazione italiana. Questo giovane leader politico, che – come il nostro presidente – all’epoca non aveva ancora compiuto 40 anni, propugnava il mito della velocità e della giovinezza e si mostrava estremamente deciso a portare avanti il suo programma, incurante delle resistenze che provenivano da ogni dove, tanto che il suo motto preferito era: “me ne frego”.Tuttavia il Parlamento non era ancora un bivacco di manipoli, per ottenerne la fiducia il giovane presidente del Consiglio fu costretto a imbarcare nella maggioranza una serie di partiti e partitini, alcuni dei quali recalcitranti rispetto alla riforme che il Capo politico voleva attuare. Addirittura il principale dei suoi alleati in Parlamento, il Partito Popolare, fece un congresso a Torino, dove il suo segretario, pur non rinnegando l’alleanza, delegittimò il movimento del presidente del Consiglio, qualificando come “pagane” le sue teorie. Allora emerse un problema istituzionale: come poteva il presidente del Consiglio realizzare le profonde trasformazioni di cui l’Italia aveva bisogno se i suoi stessi alleati recalcitravano? Sorse quindi l’esigenza per il decisore politico di liberarsi dei ricatti di partiti e partitini. Quale fu la risposta? Cambiare la legge elettorale per cambiare la natura del Parlamento e renderlo docile ai comandi del Capo politico. Il dibattito che si svolse in occasione dell’approvazione della legge Acerbo è attuale ancora oggi, data la notevole somiglianza di quella riforma con le riforme elettorali attualmente in discussione.Giovanni Amendola osservò che la riforma elettorale cambiava la natura del Parlamento perché attribuiva al governo la facoltà di nominarsi la sua maggioranza. E così avvenne! Grazie al premio di maggioranza assegnato ad una sola lista, il Partito della Nazione guidato dal giovane presidente, pagando il modesto prezzo di imbarcare nel listone qualche fuoriuscito dei partiti alleati, ottenne una schiacciante maggioranza formata da uomini di fiducia “nominati” dal Capo politico. La nuova legge elettorale ottenne l’effetto voluto, consentì al Capo politico di sbarazzarsi del ricatto di partiti e partitini e determinò l’avvento di un partito unico al governo che, per vicende successive, si impose come unico partito. Tuttavia la legge Acerbo, alla prova dei fatti, presentava un grave difetto, non riuscì ad escludere dal Parlamento quelle forze dell’opposizione che più davano fastidio al Capo politico. Il povero presidente del Consiglio dell’epoca fu costretto ad affidarsi ad una banda di bravi per togliere di mezzo Matteotti, i cui discorsi in Parlamento venivano ripresi dai giornali e contraddicevano il mito dell’unità della nazione italiana, screditando il movimento.Non fu un’operazione politicamente indolore perché si misero di mezzo i giudici.La magistratura, che aveva quasi sempre chiuso un occhio di fronte alle operazioni delle camicie nere, quella volta non lo chiuse; forse perché le indagini furono affidate ad un giudice istruttore che si chiamava Occhiuto, il quale scopri immediatamente autori materiali e mandanti, inchiodandoli con prove schiaccianti, prima che il processo gli venisse tolto per avere una gestione più accomodante. In realtà la responsabilità politica di questo evento tragico non fu del presidente del Consiglio, ma del suo vice. Se Acerbo avesse adottato la soglia di sbarramento all’8%, prevista dal Patto del Nazareno, né Matteotti, né Gramsci sarebbero mai entrati in Parlamento. Attraverso gli opportuni accorgimenti la legge elettorale avrebbe potuto consentire al capo del governo dell’epoca (e può consentire ai governanti attuali) di sbarazzarsi dell’opposizione più fastidiosa senza la necessità di ricorrere ad atti di violenza. Oggi, attraverso i progetti di riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali, si sono aperte le porte di un grande cambiamento. A questo punto sorge spontanea la domanda: questo grande cambiamento ci indica la strada del futuro, oppure apre le porte al passato che ritorna?(Domenico Gallo, “Il futuro è solo il passato che ritorna?”, da “Micromega” del 31 ottobre 2014).“Il futuro è solo l’inizio” è l’inquietante slogan della Leopolda che esprime bene la pulsione di coloro che guidano il governo ad infrangere le barriere del presente per catapultare l’Italia in una nuova dimensione dove tutto è cambiato: le istituzioni, la società, lo Stato. E’ stato annunciato un “cambiamento violento”, un rovesciamento totale degli equilibri di potere, di assetti consolidati, di tradizioni politiche, che consentirà – secondo la narrazione dominante – di far ripartire l’Italia, di recuperare efficienza e funzionalità al sistema paese, schiacciando le resistenze corporative di sindacati, ceti professionali e corpi intermedi. In realtà i criteri che guidano i processi di riforme costituzionali ed elettorali corrispondono ad esigenze politiche, che si sono riaffacciate in varie occasioni nella vita delle nostre istituzioni; non sono delle novità, bensì delle costanti che riaffiorano nei momenti di gravi crisi economiche e di smarrimento morale. Quando ci viene annunziato un salto nel futuro, non possiamo guardare al futuro ignorando il passato da cui proveniamo. E non dobbiamo ignorare gli insegnamenti che abbiamo tratto dal passato.
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Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia
«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».«Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».