Archivio del Tag ‘interessi’
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Datagate, ovvero: a che serve la Nato senza più l’Urss
Siamo rimasti al guinzaglio della Nato anche dopo la fine dell’Urss? Non stupiamoci, allora, se il “grande alleato” ci sorveglia in modo invadente: teme la nostra libertà. E i leader europei – che fingono indignazione di fronte al Datagate – lo sanno benissimo. Com’era prevedibile, sullo scandalo sta calando una coltre di silenzio. Si improvviseranno «improbabili protocolli di garanzia della privacy» e Obama prometterà misure draconiane, ma poi tutto riprenderà come prima, in attesa della prossima puntata. Già, perché prima o poi, profetizza Aldo Giannuli, spunterà un altro “pentito” della Cia o della Nsa a risollevare la questione. Ma come mai nessuno si è chiesto perché i servizi europei abbiano docilmente collaborato con l’agenzia americana nello spionaggio dei loro leader? «Nessuno ha preso in considerazione il peso che in tutto questo ha la Nato», che è decisivo. Per un ufficiale europeo, la partecipazione a programmi Nato «è il modo migliore per fare una carriera folgorante. E se poi si riesce ad essere distaccati presso la sede centrale a Bruxelles, è il top».
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika
Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.
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Chiudete la Bocconi e mandateli a lavorare nei campi
Fuori dall’euro. E’ talmente semplice, banale, immediato che occorrono centinaia di grafici per cercare di dimostrare il contrario. Le economie di paesi legati ad altre valute (tutte “fiat” quindi virtuali e inesistenti di fatto) sono floride (e non parlo solo dei cosiddetti Brics) perché non seguono il dollaro, la Fed e la sua cupola. Non cito economisti di prestigio, perché non credo nell’economia come scienza. L’economia è uno strumento di inganno e truffa. Period. Ma ce ne sono eccome. E l’andamento schizofrenico del prezzo dell’oro la dice lunga su come a breve si tornerà al cambio contro oro e ai tentativi di non farlo capire. L’Italia ha la quarta riserva aurea del mondo. In tale scenario avrebbe la quarta più solida moneta del mondo.Certamente, dopo che collaborazionisti come Andreatta, Ciampi, Prodi, Berlusconi, D’Alema, Monti, Letta e i dipendenti del Potere-che-è (si legga comitato dei Trecento e la sua emanazione Bilderberg), ottemperando al piano della P2 (il quale a sua volta somiglia tanto ai famigerati Protocolli di Sion, falsi o veri che siano, ma sempre del 1921) hanno smantellato pezzo per pezzo ogni capacità produttiva locale con la scusa della globalità, dell’Europa, del “mercato”. Ecco. Mercato. Una parola in bocca ad ognuno di noi, una panacea per spiegare qualsiasi losco meccanismo abilmente pilotato dalle cento corporation che governano il mondo. Unito a qualche informazioncina che la Nsa forniva al “mercato” stesso (o a una parte di esso) e a qualche appalto confezionato ad hoc provocando guerre e malumori locali, tutto ciò è il “mercato”. Ovvero quel che si crede essere un luogo di libertà dove prevalgono le eccellenze e invece è solo un’arena dove si portano in pasto ai leoni (i soliti da secoli) le vittime sacrificali che non appartengono agli interessi dell’élite.E stiamo ancora pubblicando grafici? Mi ricordano le “grida manzoniane”, le leggi complesse e articolate che servono per metterlo in tasca alla logica comune (la fotografia dell’Italia attuale). Non importa cosa dicono i grafici. Ciò che importa è la nostra coscienza e la capacità di riacquisire un criterio di giudizio personale che vada in culo ai tecnici ed ai cosiddetti “professori”, a stipendio delle multinazionali e delle mafie economiche. Chiudete la Bocconi. Mandateli a lavorare nei campi e così avranno un quadro efficace dell’andamento dell’economia: dal produttore al consumatore. Io c’ero con la lira e ci sono con l’euro. Rispetto ai tempi del terrorismo e del rischio atomico, dei blocchi contrapposti, oggi abbiamo una risorsa in più che è l’economia asiatica. E nonostante questo, che allora non c’era, viviamo come servi impoveriti e senza alcuna speranza reale e futuribile di miglioramento. Se non basta questo a capire che l’euro è una truffa del regime massonico mondiale cosa altro ci vuole? Una mazza da baseball nei denti?(Danilo Verticelli, “Commento all’articolo del Telegraph: La velata minaccia di Mediobanca su un’uscita italiana dall’euro”, dal blog “Voci dall’estero” del 20 ottobre 2013).Fuori dall’euro. E’ talmente semplice, banale, immediato che occorrono centinaia di grafici per cercare di dimostrare il contrario. Le economie di paesi legati ad altre valute (tutte “fiat” quindi virtuali e inesistenti di fatto) sono floride (e non parlo solo dei cosiddetti Brics) perché non seguono il dollaro, la Fed e la sua cupola. Non cito economisti di prestigio, perché non credo nell’economia come scienza. L’economia è uno strumento di inganno e truffa. Period. Ma ce ne sono eccome. E l’andamento schizofrenico del prezzo dell’oro la dice lunga su come a breve si tornerà al cambio contro oro e ai tentativi di non farlo capire. L’Italia ha la quarta riserva aurea del mondo. In tale scenario avrebbe la quarta più solida moneta del mondo.
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Perché vogliono eliminare il denaro contante (il nostro)
Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.Nel corso dei secoli, ricorda Cardenà in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la necessità della politica di contare sempre più sull’appoggio del sistema bancario per il finanziamento degli abusi di spesa della macchina statale e dei privilegi di politici (spesso corrotti e incapaci) ha favorito l’instaurarsi di una connivenza simbiotica tra politica e banche. Reciproca convenienza, scambio di favori – compreso il quadro normativo, “amico” degli affari quando vanno bene e pronto a rimediare con denaro pubblico in caso di dissesti. «Il denaro, per il sistema bancario, è elemento sul quale fonda i propri affari: in buona sostanza è la merce da vendere. Avere il controllo e la gestione di tutto il denaro, per la banca, è un moltiplicatore del proprio business e quindi di redditività». In un sistema basato sulla riserva frazionaria, quale è il nostro, accade che i 1.000 euro che vengono depositati in banca possono diventare (per il sistema bancario) fino a 100.000, ossia cento volte tanto.E’ l’effetto moltiplicativo dei depositi: dato che la banca è tenuta ad accantonare solo l’1% del deposito per far fronte a esigenze di cassa, il 99% viene immesso nel sistema, mediante la concessione di prestiti, con sviluppo esponenziale degli interessi. Il giochino rende fino al giorno in cui la banca dovrà restituire – per davvero – il deposito iniziale. Molto meglio se invece la massa monetaria resta “virtuale”: «Tanto meno sarà il contante in circolazione, tanto più elevata sarà la possibilità riservata alle banche di incrementare il proprio giro d’affari e aumentare la redditività prodotta, che si traduce in bonus milionari pagati ai super manager». Così, il sistema bancario «deterrebbe in deposito la maggior parte della ricchezza del paese», e – oltre a titoli, azioni, obbligazioni e gioielli custoditi nelle cassette di sicurezza – avrebbe “sotto chiave” anche il denaro obbligatoriamente depositato sul conto corrente, non più “invisibile” al fisco.«Il pericolo è proprio quello di essere obbligati, tramite un provvedimento di legge, a privarsi dell’utilizzo del contante per rendere la macchina coercitiva del fisco ancora più efficiente, funzionale, perfetta e micidiale», scrive Cardenà. «Tra qualche giorno, le banche italiane dovranno trasmettere all’anagrafe tributaria tutte le movimentazioni dei nostri conti correnti. Lo Stato, con un semplice click, potrà conoscere in tempo reale ogni vostra ricchezza: sia la sua collocazione che la sua dimensione complessiva. Ricchezza incrementata, ovviamente, dai depositi di denaro contante che, oltre a far aumentare la base imponibile da colpire con un’eventuale imposizione patrimoniale, offre allo Stato la garanzia del buon esito della sua pretesa tributaria». Tutto sotto controllo: significa poter “tosare” i risparmiatori col prelievo forzoso, magari risparmiando i soliti noti e «i privilegi del manipolo di gerarchi da un’eventuale bancarotta». E’ appena accaduto a Cipro, ma accadde già nel ’92 in Italia col governo Amato. Oggi si riparla di “patrimoniale”, ma senza chiarire: quali “grandi patrimoni” potrebbero essere colpiti? «La banca diverrebbe una gigantesca camera di compensazione, soggetto giuridico al servizio dello Stato per espropriare ricchezza». Il perché è chiaro: «Per rendere solvibile il debitore non c’è via più semplice che quella di compensare debiti del debitore con i crediti del creditore. E il gioco è fatto».Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.
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Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero
«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.«Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
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Web occulto: un algoritmo guida ogni nostro click
Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.Proprio agli algoritmi, spiega Francesca Musiani in un saggio pubblicato sull’“Internet Policy Review” e sintetizzato da “Doppiozero”, deleghiamo l’integrazione delle nostre conversazioni on-line. Gli argomenti vengono percepiti dal pubblico come “consenso universale implicito”, ma «hanno la debolezza di un’informazione che non può essere fatta risalire a nessun individuo specificamente», e al tempo stesso «la forza di un dato che si basa su un vasto aggregato di opinioni». I motori di ricerca costruiscono una gerarchia di visibilità dell’informazione, proponendola tra i primi risultati dell’indagine o dissimulandola tra gli ultimi. Decidendo, di fatto, “cosa dev’essere visto”, gli algoritmi di Google «possono scoraggiare o incoraggiare la discussione e la controversia», e di fatto contribuiscono a costruire l’agenda pubblica delle priorità politiche e sociali, selezionando gli interlocutori “che contano”. In particolare, grazie al quasi-monopolio di Google nel settore della ricerca web, l’algoritmo PageRank che ne è alla base è stato ampiamente esaminato come il nuovo gatekeeper e “dittatore benevolo” della sfera pubblica digitale.Secondo una ricetta che resta una sorta di segreto industriale, continua Musiani, quell’algoritmo-chiave comprende diversi criteri di misurazione, che valutano il grado di autorevolezza della fonte (secondo il numero di citazioni), l’ampiezza dell’audience (secondo il numero di visite o click), il livello di prossimità e di affinità (in base alle raccomandazioni) e la rapidità (dipendente dall’aggregazione dei risultati in real-time). In quanto “master switch” di Internet, proprio PageRank «centralizza e organizza la circolazione dell’informazione nella Rete, e per ogni interrogazione fatta al motore di ricerca, arbitra su ciò che è importante e rilevante». Milioni, miliardi di click: se siamo in cerca di informazioni siamo pilotati e manovrati, “governati” dall’intelligenza elettronica. Stessa storia per quanto riguarda l’e-commerce. Parla da solo il caso di Amazon, importante “prescrittore” che orienta il pubblico sulla base delle raccomandazioni dei clienti: lettori, ascoltatori, cinefili. Agli utenti registrati, il sito rivela quali sono gli altri acquisti fatti in passato da utenti che hanno acquisito lo stesso titolo.Acquisti raccomandati, consigli sistematizzati e condivisi per affinità: Amazon ha sviluppato un algoritmo particolarmente efficace, chiamato “filtraggio collaborativo elemento per elemento” (item-to-item collaborative filtering). Altro segreto industriale, dimostra ogni giorno la sua efficacia nel personalizzare le proprie raccomandazioni in base agli interessi di ciascuno dei clienti Amazon. Dietro a questo algoritmo, che “conosce” così bene i gusti dei clienti di Amazon, ci sono «anni di ricerca ed esperimenti in un recente campo dell’informatica le cui applicazioni pratiche sono sempre più diffuse, per quanto discrete: il data mining». Per i lettori, i “suggerimenti simili” formano un insieme di fonti d’informazioni personali, che alimentano un vasto database dove vengono combinate con altre “storie d’acquisto”, e finiscono per influenzare direttamente un numero considerevole di consumatori. «Viviamo in un mondo sempre più “algoritmico”», conclude Francesca Musiani, e le «invisibili strutture computazionali» che guidano il nostro accesso all’informazione e ai nostri acquisti «si estendono a numerosi altri contesti, dai software di riconoscimento facciale ai mercati finanziari».Come dimostra non solo la ricerca accademica, ma anche la più recente attualità, la relazione tra algoritmi e regole (diritto e politica) ha due facce, avverte la studiosa: «Da un lato, si tratta della regolazione degli algoritmi da parte delle istituzioni. La creazione di leggi riguardanti sistemi complessi e altamente automatizzati dovrebbe accordare una maggiore attenzione ai luoghi e ai tempi in cui si programmano gli algoritmi?». Una normativa più stringente dovrebbe essere applicata a contesti specifici? E nel caso: che forma prenderebbe, e quali sarebbero i suoi effetti? Quello di cui dobbiamo renderci assolutamente conto, insiste Misiani, è la vastità del “potere invisibile” degli algoritmi, in un mondo che ormai, di fatto, è largamente «gestito, regolato, governato» da essi. E se uno non fosse d’accordo? Sarebbe in grado di comprendere cosa significa, esattamente, “resistere” al dominio elettronico dei nuovi persuasori occulti?Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.
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Saccomanni ci riprova con l’Eni, mentre l’euro ci divora
Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.Bonanni che balbetta, scrive Dolcino su “Scenari Economici” in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, «fa ben capire la gravità della situazione: anche un sindacalista vede le stesse cose che stiamo stigmatizzando noi da qualche mese». Qualcuno, aggiunge il blogger, dovrebbe “spiegare” a Saccomanni che «le partecipazioni statali non sono sue», e che in teoria esiste ancora un Parlamento. Inoltre, dire che “la crisi è finita” serve «solo per giustificare successivamente azioni straordinarie, approfittando dei problemi che emergeranno e della crescita che non ci sarà». Soltanto alibi, per arrivare all’obiettivo desiderato: privatizzare l’Italia. Tutti gli indicatori smentiscono il ministro, persino i consumi di energia: -3% rispetto all’anno scorso. Il pericolo dello smantellamento del paese resta forte, perché «nessun politico, per cialtrone che sia, ha interesse a far cadere il governo attuale: meglio che la colpa di provvedimenti impopolari non abbia un nome, un responsabile, un colore». Questo potrebbe essere il “movente” dell’eventuale salvataggio di Berlusconi dalla decadenza, per non staccare la spina a Letta e Saccomanni.Le misure speciali evocate del ministro? Tutte inutili, anzi suicide. Unico risultato: agevolare la Germania, che punta a trasformare l’Italia – il suo più grande competitor manifatturiero continentale – in una sacca di manodopera a basso costo, dopo averne acquistato a prezzi di saldo i pezzi più pregiati. «Italiani sveglia, bisogna fare qualcosa», aggiunge Dolcino. Se oggi la maggioranza degli italiani ha finalmente capito che la moneta unica avvantaggia solo i tedeschi a nostro danno, «bisogna minacciare seriamente di uscire dall’euro se non verranno rivisti pesantemente i limiti di bilancio imposti dalle regole europee», preparandosi anche a «ripudiare la moneta unica». Fare qualcosa, subito: «Non bisogna continuare a permettere a politici come Saccomanni di prendere decisioni contro gli interessi del paese». E attenzione anche alla geopolitica, conclude Dolcino, convinto che siano stati gli Usa ad “autorizzare” la Germania a spremere il resto d’Europa. Ora, con lo scandalo Datagate e lo spionaggio ai danni della Merkel, la fiducia si è incrinata: e Washington potrebbe scoprire di aver “allevato”, a Berlino, un competitor globale insidioso per l’America, quasi quanto Cina e Russia.Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.
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Cremaschi: diktat contro di noi, e Napolitano esegue
Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.Napolitano il cambiamento non lo propaganda, lo pratica, fino al punto di fare le riunioni dei capigruppo di maggioranza come qualsiasi segretario di partito. Siamo diventati una repubblica presidenziale di fatto e credo abbiano fatto un grave errore i promotori della manifestazione del 12 ottobre a non dirlo con forza dal palco, raccogliendo un sentimento profondo di chi era in quella piazza. Le timidezze e le reticenze sul ruolo negativo del presidente della Repubblica indeboliscono la lotta in difesa dei principi di fondo della Costituzione. D’altra parte un pesantissimo colpo a quei principi è già stato assestato, ancora una volta principalmente da Pd, Pdl e Lega, con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. La riscrittura dell’articolo 81 è infatti la madre di tutte le controriforme, perché cancella di fatto tutti i principi sociali contenuti nella prima parte.Come può la Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali che si oppongono alla piena eguaglianza dei cittadini, se ogni anno deve tagliare di decine di miliardi le spese sociali, e solo per pagare gli interessi sul debito senza violare l’obbligo costituzionale di pareggio? Non può, e così con questa controriforma le politiche di austerità diventano obbligo perenne. Come aveva chiesto il banchiere Morgan, prima di pagare 13 miliardi di dollari allo Stato americano per le truffe sui derivati. L’Europa deve capire che le politiche di austerità non sono una parentesi, ma il modo di condurre da qui in avanti un continente che deve accettare pienamente la società di mercato. Questo ha detto il banchiere americano a giugno sul “Wall Street Journal” e ha poi aggiunto che, per raggiungere questo obiettivo, i popoli europei devono liberarsi delle Costituzioni antifasciste e sinistrorse che promettono una eguaglianza che non ci può più essere. Si comincia ad accontentarlo.La controriforma costituzionale non è solo frutto delle classi dirigenti del nostro paese, ma viene prepotentemente richiesta dalla finanza internazionale, come venne formalizzato il 4 agosto 2011 dalla lettera al governo di Draghi e Trichet. Il Fiscal Compact e i patti ad esso connessi hanno fatto il resto: al di sopra dei nuovi costituenti, oltre i saggi incaricati di rivedere la nostra Carta, stanno i mandanti e i controllori. Sopra di loro stanno quelle istituzioni tecno-finanziarie che impongono le politiche di austerità con quei vincoli che per Giorgio Napolitano sarebbe da incoscienti mettere in discussione. Mentre sarebbe la sola scelta saggia da compiere. La difesa della Costituzione repubblicana oggi non si fa solo contro la destra berlusconiana, ma anche contro le scelte politiche di Giorgio Napolitano e contro quei vincoli europei che ci hanno imposto la costituzionalizzazione dell’austerità.(Giorgio Cremaschi, “Austerità costituzionale e presidenzialismo”, da “Micromega” del 25 ottobre 2013).Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.
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Viale: lavoro e beni comuni, per un’opposizione europea
Da tempo non siamo più cittadini italiani, ma sudditi di un “sovrano” che si chiama governance europea: un’entità mai eletta, che risponde solo al “voto” dei “mercati”. E’ un governo di fatto, che impone la sua politica ai paesi dell’Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità. Fino a concedere, con l’accordo Two-Packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Visto che siamo ridotti a questo, dice Guido Viale, per non rassegnarsi a continuare ad ascoltare all’infinito ritornelli come “ce lo chiede l’Europa”, c’è una sola cosa da fare: organizzare un’opposizione europea, in nome dei diritti calpestati – dignità e lavoro, reddito e casa, salute e istruzione, cultura, vecchiaia serena. Banco di prova: le elezioni europee del maggio 2014. Stop ai vincoli-capestro dell’austerity, che producono solo disoccupazione. Più spesa pubblica, dunque, per rilanciare il lavoro: non impieghi qualsiasi, ma quelli fondati sulla riconversione “green” dell’economia. Premessa: serve una nuova classe dirigente, che possa recepire le idee dei movimenti e innescare le procedure di salvezza.«La crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate», scrive Viale sul “Manifesto”, in un editoriale ripreso da “Micromega”. La grande depressione «è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell’establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici». Problema: non solo manca un programma preciso, ma al momento non c’è neppure «la forza per metterlo in marcia». Dove trovarla? «Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale». Unica bussola possibile, «una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno». Filo conduttore per raccogliere le energie attualmente disperse: «Una politica fondata sui beni comuni». Missione, salvare il sistema sociale dallo sfacelo, che ha due facce: lo smantellamento delle imprese e del lavoro, con tutte le competenze acquisite, e la mancanza di opportunità per giovani e precari, disoccupati di oggi e di domani.«Non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone: i nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo – è esperienza quotidiana – per depredare l’azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico». Nazionalizzazioni vecchio stile? Le vieta l’Europa, ma in passato «gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate». In più, dismesso l’Iri, «l’Italia non dispone più di manager in grado di gestire un’impresa». Le aziende in crisi «hanno bisogno di una nuova governance», fatta di maestranze e governi locali, territori, università e ricerca. Serve «un regime che le riconosca come “beni comuni”», a disposizione delle comunità di riferimento. Vale anche per «recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio», ovvero «le chiavi della conversione ecologica».Altro problema centrale: la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli esclusi dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell’Europa, specie dei paesi più colpiti dall’austerity. «Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica». Una volta liberate e messe al lavoro nei settori oggi abbandonati alla privatizzazione – case, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni – queste nuove forze lavorative farebbero miracoli, col supporto dei governi locali «ovviamente sottratti al giogo del patto di stabilità» e non più “inquinati” dalla fame di favori e business. Tutto questo, riassume Viale, si può fare solo con una nuova politica: elezioni. Nel frattempo, ben sapendo che «andiamo incontro a tempi difficili che richiederanno soluzioni estreme», è il caso di cominciare a mettere queste idee nell’agenda politico-elettorale.Da tempo non siamo più cittadini italiani, ma sudditi di un “sovrano” che si chiama governance europea: un’entità mai eletta, che risponde solo al “voto” dei “mercati”. E’ un governo di fatto, che impone la sua politica ai paesi dell’Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità. Fino a concedere, con l’accordo Two-Packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Visto che siamo ridotti a questo, dice Guido Viale, per non rassegnarsi a continuare ad ascoltare all’infinito ritornelli come “ce lo chiede l’Europa”, c’è una sola cosa da fare: organizzare un’opposizione europea, in nome dei diritti calpestati – dignità e lavoro, reddito e casa, salute e istruzione, cultura, vecchiaia serena. Banco di prova: le elezioni europee del maggio 2014. Stop ai vincoli-capestro dell’austerity, che producono solo disoccupazione. Più spesa pubblica, dunque, per rilanciare il lavoro: non impieghi qualsiasi, ma quelli fondati sulla riconversione “green” dell’economia. Premessa: serve una nuova classe dirigente, che possa recepire le idee dei movimenti e innescare le procedure di salvezza.
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Benessere sostenibile, togliendo la moneta ai banchieri
Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008.E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.Tutti questi fattori, spiega Della Luna nel suo blog, sono dovuti alla scarsità di denaro: il governo Usa non ha i soldi per pagare le spese della pubblica amministrazione, l’Italia non ha il denaro né per gli investimenti, né per ridurre il cuneo fiscale e pressione tributaria. Inoltre, nessuno Stato ha i soldi per ridurre lo stock di debito pubblico e le banche non hanno denaro da prestare all’economia reale a tassi ragionevoli. «Riflettiamo: se lo Stato avesse i soldi per investimenti, riduzione di tasse e tributi, sostegno alle imprese, rimborso del proprio debito, allora le cose cambierebbero radicalmente: abbatteremo impoverimento, disoccupazione, sfiducia, sofferenza, insicurezza. Il default sarebbe scongiurato per sempre». Ma allora che cosa impedisce allo Stato di dotarsi del denaro necessario? In teoria, nulla: se fosse libero e sovrano, lo Stato potrebbe emettere moneta a costo zero. E se il denaro produce economia, non c’è neppure rischio di inflazione. Allora dove sta il problema? Nel monopolio improprio che grava sulla creazione monetaria, che «non è concessa agli Stati, ma è appannaggio, diritto esclusivo, del sistema bancario».Finita la sovranità monetaria democratica, sono quasi ovunque le banche a gestire il denaro fin dalla sua emissione, perché ormai «vige il principio dell’autonomia del sistema bancario dalla politica». Giustificazione: per compiacere gli elettori, attingendo moneta sovrana i politici potrebbero eccedere irresponsabilmente nella spesa pubblica, scatenando l’inflazione. Al contrario, i “virtuosi” banchieri devoti solo al mercato, «emetterebbero la giusta quantità di moneta, al giusto tasso di interesse, prestandolo ai soggetti meritevoli e più produttivi», migliorando il sistema. La realtà ovviamente è ben altra: in alcuni periodi, i banchieri «concedono prestiti a tutti e a bassi tassi, facendo crescere l’economia reale e quella speculativa», poi tirano i cordoni alzando i tassi e i requisiti di credito, e comprimendo i volumi: «Così creano fame di denaro e svalutazione degli asset», rastrellando sottocosto «il frutto del lavoro e del risparmio dell’economia produttiva». Stesso trattamento verso gli Stati: «Li indebitano analogamente, per poi mandarli in crisi finanziaria ed esigere», come contropartita per evitare il default, «ulteriori cessioni di sovranità e ulteriore indebitamento per colmare i loro buchi e rifinanziare le loro bolle speculative, sotto il ricatto non solo del default pubblico ma di un collasso finanziario generale».I grandi banchieri, continua Della Luna, impongono inoltre agli Stati «l’abolizione di ogni restrizione legale alla loro facoltà di giocare d’azzardo coi soldi dei risparmiatori», salvo poi farsi rifinanziare proprio dallo Stato, con denaro che non finisce all’economia reale ma, ancora una volta, al circuito speculativo. I politici? Complici, da Obama in giù: hanno rifinanziato le banche senza neppure pretendere che il credito commerciale, al servizio delle aziende e dei risparmiatori, venisse separato dalle banche d’azzardo. «Così, le banche centrali – da finanziatrici degli Stati e garanti della loro solvibilità – sono divenute compratrici in proprio, o finanziatrici di banche commerciali compratrici di titoli di debiti pubblici in difficoltà, quindi ad alto rendimento». Evidente: i debiti dei paesi in difficoltà, a rischio default, pagano interessi così elevati «proprio perché le banche centrali non svolgono più la loro naturale funzione di tutela degli interessi pubblici», ma si comportano come banche private, «a scopo di profitto».Senza contare che le bolle speculative – profitti facili e rapidi, nonché a rischio – distolgono liquidità dagli investimenti produttivi: sicché crolla l’industria, quindi il lavoro, e si va verso la catastrofe. Il sistema monetario odierno, conclude Della Luna, è perfetto solo per gli interessi dei monopolisti della moneta e del credito, che infatti lo dominano. E’ un sistema marcio, coperto da giustificazioni «false» e dalla «malafede» che accomuna «governi, capi di Stato, organi e autorità internazionali e sovranazionali, nonché il mainstream accademico», cioè tutti i soggetti che, a parole, «si propongono di risolvere la crisi e risanare l’economia». Coltivare il grande imbroglio sulla moneta – non più pubblica, ma divenuta strumento di «sfruttamento e dominazione» – ha portato il mondo «sull’orlo di una catastrofe tanto grande, che potrebbe non essere più governabile nemmeno dai detentori del monopolio monetario-bancario», mandando in pezzi il loro stesso gioco.Se il mondo vuole salvarsi, insiste Della Luna, riguardo al denaro deve riscrivere le regole partendo da zero. «In un utopico sistema monetario e creditizio efficiente e razionale rispetto agli interessi della popolazione generale, la moneta è emessa direttamente dallo Stato senza indebitarsi, esattamente come fa già ora col conio metallico; poiché la creazione-emissione di moneta non aurea e non convertibile non comporta un costo, non può comportare indebitamento, né contabilizzazione di debiti a carico dello Stato che la emette». L’emissione sovrana sarebbe quindi vincolata al pagamento graduale del debito capitale pregresso e ad investimenti produttivi e infrastrutturali, che però devono essere effettivamente utili. La libera emissione di denaro non deve venir usata per pagare spesa corrente improduttiva, né investimenti speculativi, evitando di “gonfiare” finanziariamente l’economia reale. Così, si farebbero razionalmente i conti «con i limiti posti allo sviluppo dai limiti delle risorse planetarie», usando la tecnologia per ridurre il peso dei limiti e creare nuovo benessere sostenibile, cioè compatibile col sistema-Terra.Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008. E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.
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Priebke, gli schiavi di Auschwitz e quelli di Bruxelles
«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, osserva “Comidad”, lo stesso Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio delle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero praticabili nelle società tribali, non certo nell’Europa dei lumi. «A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare e usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali era stato nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale», in riconoscimento di quanto gli ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la Prima Guerra Mondiale contro la Germania. «La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli ebrei».Ma nel “Mein Kampf”, aggiunge “Comidad”, l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia “perfida e ostile”, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque e in ogni situazione. «Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che sino ad allora si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa». Così, caduto il Muro di Berlino, anche l’Europa occidentale si è dovuta piegare alle stesse forche caudine – privatizzazioni e liquidazione del welfare – come se anch’essa fosse stata sconfitta al termine della Guerra Fredda. «Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di “redenzione”».La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il Fmi uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, e i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. «Nel secondo dopoguerra», continua “Comidad”, «l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani – per quanto conosciuto e documentato è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca Ig Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La Ig Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank».La Ig Farben di Auschwitz «rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò – conclude “Comidad” – lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale». Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle rilocalizzazioni aziendali «costituisce una macabra ironia della storia». Una logica aziendale estremizzata ad Auschwitz, nella sua spaventosa chiarezza genocida: «Grazie alle deportazioni di massa, la “materia prima umana” veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere». Da qui, «per mere ragioni di budget», la sottoalimentazione dei lavoratori e l’eliminazione sistematica degli inabili al lavoro. Se nell’economia il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, «certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili: al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi».Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali. Il nazismo, «di solito fatto passare per un nazionalismo estremo», al contrario «anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato», rileva “Comidad”. «Tutto dev’essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale». Se il parallelismo può suscitare perplessità, data la distanza storica, «resta il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa».«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.