Archivio del Tag ‘intellettuali’
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Chi votare? Nessuno dichiara guerra all’oligarchia Ue
Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.L’euro, dice Moni Ovadia, dovrebbe (dovrà) essere la moneta comune del futuro Stato federale unitario europeo: a quel punto, l’attuale valuta che la Bce destina alle sole banche – non agli Stati – diverrebbe pienamente legittima, in un futuro indefinito, che la lista Tsipras spera di “avvicinare” con l’elezione di un euro-Parlamento “costituente”, per cambiare le attuali regole oligarchiche dell’Unione Europea, retta da un governo – la Commissione – non eletto dai cittadini e pilotato dalle lobby d’affari. Né il M5S, né Tsipras (né tantomeno Renzi) osano ventilare misure di interdizione per “ridurre alla ragione” gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte, disposti finora ad ascoltare solo la Bundesbank, che impone condizioni-capestro per sabotare la concorrenza dell’export tedesco e creare un mercato del lavoro a bassissimo costo, adatto cioè a consentire alla Germania di competere sui mercati mondiali globalizzati.Ad oggi – esclusi gli slogan della Lega Nord – l’offerta politica italiana in vista delle europee di maggio non presenta nessuna forza disposta ad affrontare in modo frontale l’impegno di un’opposizione radicale all’attuale sistema europeo, impugnando cioè l’arma regina della sovranità finanziaria statale, senza cui non è praticabile alcuna reale riconversione dell’economia. Sulla francese Marine Le Pen pesa la macchia della xenofobia, ancora agitata per non perdere l’antico elettorato ultra-nazionalista di Jean-Marie Le Pen, ma è evidente che il boom dei sondaggi che accreditano il Front National come prima forza politica di Francia non dipende certo dalla “guerra agli immigrati”, ma dalla determinazione con cui la signora Le Pen dichiara di voler risolvere la questione: se Bruxelles continuasse ad imporre moneta non sovrana, la Francia minaccerebbe direttamente di uscire dall’Unione Europea. In Italia, per ora, parole di questo tipo non le ha pronunciate nessun leader.Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.
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La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Solo il Pd difende ancora l’euro, odiato dagli italiani
Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.Secondo tutti i sondaggi, i cittadini europei sono ancora favorevoli all’Europa unita, ma la maggioranza degli italiani (il 49%) non vuole più l’euro, e il 24% (cioè un italiano su quattro) si dice pronto a votare subito un partito schierato contro l’euro. I più contrari alla moneta della Bce sono operai, disoccupati e casalinghe, ma anche imprenditori, liberi professionisti e impiegati (favorevoli solo pensionati e dipendenti pubblici, cioè chi ha un reddito garantito). «Ma la cosa più strabiliante», scrive Grazzini su “Micromega”, è che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra è schierato al 90% a favore dell’euro, mentre la grande maggioranza degli elettori di centrodestra e del M5S è a favore del ritorno alla lira. Lettura sociologica: «Sembra che molti elettori del centrosinistra appartengano al ceto medio superiore, colto e anziano, con meno problemi economici». Per questo, in nome dell’ideale europeista, «accettano la moneta unica e le conseguenti politiche monetarie e fiscali recessive, che provocano disoccupazione e desertificazione produttiva». Di conseguenza, a rappresentare i sentimenti più popolari sono Berlusconi, Grillo e la Lega.«Ormai – osserva Grazzini – quasi tutti gli economisti riconoscono che l’austerità scaraventata sulle spalle dei lavoratori, del ceto medio e delle piccole e medie aziende è generata dall’euro, che non è solo una moneta ma una politica monetaria ed economica mirata a salvare solo la finanza a scapito dei redditi da lavoro, dell’occupazione e dello stato sociale». Anche se Giorgio Napolitano riesce a fare dell’ossimoro una teoria economico-politica (no all’austerità, sì all’euro – come se non fosse l’euro a determinare il rigore), gli stessi economisti «riconoscono che sarebbe stato meglio non entrare affatto nella moneta unica», aggiunge Grazzini, dal momento che «un regime di moneta unica amplifica gli shock economici». A differenza degli Usa, l’Europa «non ha le caratteristiche necessarie per costituire un’unica area valutaria», e che inoltre «l’euro è una moneta unica incompleta, perché non ha alle spalle una banca centrale prestatrice di ultima istanza». L’euro non ha politiche solidali di bilancio: la politica monetaria dell’Ue è «sostanzialmente guidata e dominata in maniera del tutto miope, in questo momento, dalle classi dirigenti tedesche».E’ certo che la situazione europea peggiorerà, continua Grazzini. Il Fiscal Compact, sottoscritto dal governo Monti e approvato anche da Berlusconi e dal Pd di Bersani, imporrà all’Italia il rientro automatico dal deficit a ritmi forsennati, 80 miliardi all’anno. Un trattato impossibile da rispettare, pena la morte clinica del sistema-paese. Non solo: in base ai trattati Two Packs e Six Packs, i nostri bilanci pubblici subiscono l’esame preventivo della Commissione Ue prima ancora di essere presentati al Parlamento di Roma. «Questi vincoli non sono però ancora completamente noti al popolo italiano e sono tenuti accuratamente in ombra dal governo Letta». A guadagnarci sono soltanto la Germania e le altre nazioni creditrici (Finlandia, Austria, Olanda), ma la «folle politica di austerità» sta facendo diventare l’Europa «il malato del pianeta». Infatti, «perfino gli Usa e i cinesi sono preoccupati dell’avida e restrittiva politica tedesca della coalizione Cdu-Spd della Merkel, che guida senza molte resistenze (certamente non quella del presidente francese François Hollande) l’economia sociale di mercato europea verso la distruzione e il baratro».Per attuare questa politica, continua Grazzini, la Ue spinge verso l’estrema concentrazione di potere verso organismi non eletti: nessuno nella Troika è stato votato dai cittadini europei. «I governi, come quello italiano, sono diventati la cinghia di trasmissione delle politiche decise dalla Bundesbank e dalla Merkel, con il supporto (critico?) del socialismo tedesco, la Spd». L’Europa unita e solidale? «Era un bel sogno», come quello dell’euro che «doveva garantirci stabilità e crescita». E quindi: «Come fare oggi a uscire dall’incubo?». Certo non seguendo il centrosinistra, che – a partire da Napolitano – difende l’euro «nonostante il suo evidente fallimento, anche a costo di perdere completamente la sua tradizionale base sociale». Già, «perché il centrosinistra confonde la moneta unica – criticata dalla grande maggioranza degli economisti – con la possibilità di costruire una Europa unita e solidale?».La verità è che il centrosinistra “assolve” l’Unione Europea, «la cui adesione è stata decisa dalle élite dirigenti italiane, per assimilarsi a queste». Da più di vent’anni, ricorda Grazzini, le forze di centrosinistra «declamano acriticamente le sorti magnifiche e progressive della Ue: diventa allora per loro difficile cambiare direzione di marcia», anche se Romano Prodi ha tentato di prendere tardivamente le distanze da Bruxelles, sostenendo che questa Ue «non è più quella di prima». Di ben altro avviso le voci più critiche – come quelle di Paolo Barnard, Bruno Amoroso, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio – secondo cui la stessa costruzione dell’Ue, fin dall’inizio – moneta unica non sovrana, Commissione Europea non eletta – era un disegno palesemente insostenibile, neo-feudale, funzionale all’élite finanziaria degli oligarchi, incarnato nel nuovo super-potere della tecnocrazia pilotata dalle grandi lobby planetarie.«E’ difficile affermare che gran parte del popolo italiano sbagli per ignoranza», dice oggi Grazzini. «La sinistra dovrebbe trarre più di una lezione dai risultati dei sondaggi di opinione: dovrebbe prendere atto che la maggioranza della popolazione vorrebbe una opposizione molto dura a questa Unione anti-democratica dell’austerità e dell’euro». Gli Stati Uniti d’Europa vagheggiati dal federalista Altiero Spinelli «rappresentano un’ottima prospettiva, ma solo se innanzitutto viene rispettata la sovranità nazionale». La Ue oggi non è affatto democratica, «ma autoritaria e completamente subordinata ai voleri della finanza». Primo traguardo: pretendere che il Parlamento Europeo – per il quale voteremo a maggio – ottenga un vero potere legislativo che attualmente non ha. E subito dopo: rivedere radicalmente tutti i trattati-capestro, da Maastricht al Fiscal Compact, fino a minacciare di uscire veramente dall’euro, pur di ottenere un cambio di rotta dalla Germania. L’arma di pressione che non si vuole usare, dice un economista come Brancaccio, è il mercato comune europeo: se l’Italia minacciasse di uscirne, Berlino sarebbe costretta a scendere a più miti consigli, per proteggere il suo export.Se la Ue non ribalterà la sua politica economica e sociale, immagina Grazzini, il popolo italiano deciderà autonomamente la sua politica economica: «L’Italia dovrebbe essere pronta a proporre agli altri paesi europei di uscire in maniera concordata dall’euro per riprendersi la sovranità monetaria e per avviare un cammino di sviluppo sostenibile e di piena occupazione». Anche perché «le politiche economiche non possono essere decise da riunioni a tavolino della Troika, ma dai popoli sovrani, dai loro Parlamenti e dai loro governi». L’Italia è ancora una grande nazione europea, «e dovrebbe avere il coraggio di opporsi duramente a questo euro, anche perché è proprio la Germania il paese che senza dubbio avrebbe più da perdere dalla rovina della moneta unica». Per cui, «se si ha timore di andare decisamente contro questo euro e contro questa Ue», le elezioni le vinceranno Berlusconi e Grillo (e in Francia Marine Le Pen) mentre la sinistra «si condannerà per l’ennesima volta all’irrilevanza».Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Già tutta con Renzi la stampa che ieri osannava Letta
Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.Poi tutti con Enrico, a giocare a Subbuteo per non perdersi “la rivoluzione dei quarantenni”. E ora eccoli lì, col solito turibolo e senza fare un plissè, ai piedi del Fonzie reincarnato. Pare ieri che Aldo Cazzullo, sul Corriere, s’illuminava d’immenso: «Napolitano non ha citato Kennedy – “la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione…” – ma ha detto più o meno le stesse cose mentre affidava l’incarico di formare il “suo” governo a un uomo di cui potrebbe essere il nonno [... ]. L’Italia, paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca all’avanguardia in Europa», perché «a Palazzo Chigi arriva il ragazzo che amava il Drive In e gli U2». Ora, oplà, si porta avanti col lavoro ed entra nel magico “mondo di Renzi” passando “dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza”: «Il sindaco viene tre volte la settimana» e «questo è l’unico posto dove stacca il cellulare». Per far che? Ordinare un’impepata di cozze? Ballare il tango?Nossignori. Udite udite: trovandosi dal barbiere, il Renzi «si fa spuntare i capelli (è stato Tony a fargli tagliare il ciuffo)». E nel “bar di Marcello”? Trattandosi di un bar, «fa colazione». Indovinate ora cosa riesce a combinare «nella pizzeria Far West di Pontassieve»? Ordina la pizza. Ma senza mai perdere la sua personalità, ché Lui «non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un ‘uomo di’. Tantomeno di Lapo Pistelli». E «sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Farinetti e Baricco». Perché «nessuno l’ha mai visto in soggezione», neanche davanti a Obama e Mandela. Non porta loden, non gioca a Subbuteo, né si conosce la sua posizione in merito al Drive In e agli U2. Però «il maglione color senape è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari», mica cazzi.Il suo discorso dell’altroieri in Direzione, «come tutto il dibattito a seguire, è segnato da una vena lirica». E con la stampa, come andiamo con la stampa? «Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Severgnini e Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto)». E Cazzullo? Su, Aldo, non fare il modesto: eddai, mettiamoci pure Cazzullo e non ne parliamo più. Per non trascurare i dettagli fondamentali, “Repubblica” dedica un’intera pagina alla Smart (“A tutto gas sulla Smart: così il Renzi-style archivia auto blu e berline”). Essa «è leggera, veloce e un po’ prepotente: è giovane, poi, costosa e non italiana. Insomma, è molto Renzi». Il quale – salmodia umido Claudio Cerasa sul “Foglio” – «sfanala con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Letta, decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia, di tentare finalmente il sorpasso». Per fare che? «Diventare l’Angela Merkel del Pd». E, assicura Giuliano Ferrara, «arrivare a Palazzo Chigi con piglio teutonico».Il ragazzo, come dice Sallusti, «ha le palle» più ancora di Palle d’Acciaio. E, aggiunge Salvatore Tramontano sul “Giornale”, «ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi». Del resto, osserva “Repubblica”, «smart sta per “intelligente”, con una sfumatura di brillantezza». La sfumatura che gli fa Tony quando gli spunta il ciuffo. E il discorso in Direzione? Dire sobrio sarebbe troppo montiano: «Asciutto, senza fuochi d’artificio, senza retorica». Decisiva «la camicia bianca», «cambiata un attimo prima in bagno» dal Fregoli fiorentino (prima era “celeste”): «È il suo tratto distintivo, è il richiamo al mito Tony Blair». In effetti, a parte lui e Blair, chi ha mai portato una camicia bianca?“La Stampa” la butta sul mistico: mamma Laura «l’ha affidato alla Madonna… della quale, sopra la porta d’ingresso, c’è una bella icona». Del resto a Pontassieve «la Madonna dev’essere di casa perché il posto dov’è cresciuto Renzi sembra un paradiso». Senza dimenticare che lui «la sua station wagon» la guida personalmente «con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto». Santo subito. E anche colto, molto colto. La lingua corrierista di Luca Mastrantonio scomoda Dante Alighieri («per il suo libro “Stil novo”»), lambisce «Cosimo de ’ Medici» e «Benedetto Cellini» (che si chiamava Benvenuto, ma fa niente) e s’inerpica su su fino a Steve Jobs (per «il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: Stay hungry, stay foolish») e al «Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana… Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione, ma i moventi sono diversi».Tra “L’Unità” ed “Europa” è il solito derby del cuore, anzi della saliva. Un filino più perplessa la prima, anche se Pietro Spataro conviene che «l’Italia ha bisogno come l’aria (sic, ndr) di una svolta radicale», «restare nella palude sarebbe stato il male peggiore», «meglio essere trascinati da un’“ambizione smisurata” che prigionieri di una modesta navigazione”: peccato che né lui né “L’Unità” avessero mai avvertito i lettori che Letta era una palude e una modesta navigazione (che s’ha da fa’ per campa’). Eccitatissimo, su “Europa”, il sempre coerente Stefano Menichini. Solo in aprile cannoneggiava il «ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere»: «I Travaglio, i Padellaro, i Flores che annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote”». Putribondi figuri che osavano dubitare delle magnifiche sorti e progressive del governo Letta: «Personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi. Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini… lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione».Ora invece, con agile balzo, impartisce l’estrema unzione al fu Nipote («Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso») e bussare alla «porta che si sta spalancando a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana»: quella di Renzi, che «si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva». Perché «a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano». Torna finalmente a rifulgere il sole sui colli fatali di Roma.(Marco Travaglio, “Governo Renzi, sulla Smart del vincitore”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 febbraio 2014).Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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Murgia: Sardegna libera, togliamo le basi alla guerra
Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.Si tratta di decine di migliaia di chilometri di costa, che si traducono in decine di migliaia di ettari di terreno. «Sono le superfici sottratte alla Sardegna per le attività militari, in una misura di gran lunga superiore al resto dei territori della Repubblica Italiana e senza paragoni in Europa», accusa Cabras, esponente di “Alternativa” e ora candidato nella lista “Comunidades”, per la coalizione “Sardegna Possibile” guidata dalla Murgia. «I poligoni militari dell’isola, oltre ai 14.000 ettari di servitù, occupano 24.000 ettari di demanio». Un record poco inviabile: «In tutte le altre regioni messe insieme si raggranellano appena 16.000 ettari». La Sardegna ospita il 60% dei poligoni gestiti dalle forze armate italiane. «La percentuale degli ordigni esplosi nelle esercitazioni sale all’80%, senza contare le esercitazioni di forze armate straniere».Per Cabras, «sono numeri da paese occupato». E gli effetti negativi non riguarano solo i poligoni: «Le polveri inquinanti viaggiano. Lo sa il vento. E in un paese occupato la regola è semplice: qui possono sperimentare in segreto ogni tipo di arma letale, affittando a caro prezzo le strutture». La verità: «Qui rimangono i veleni, ma i profitti volano via, altrove». I cosiddetti indennizzi? «Sono spiccioli, che d’ora in poi dovremo considerare un insulto». “Invasione” militare e vita civile: convivenza impossibile. Fino al 2010, Cabras ha fatto parte del comitato paritetico sulle servitù militari, un tavolo istituzionale Stato-Regione per tentare di armonizzare l’invadenza delle basi col riassetto del territorio. «Mi son reso conto che in Sardegna erano esigenze inconciliabili: troppe le pretese dei militari, e troppo il loro potere, mentre erano senza schiena i partiti sardi». Enorme l’impatto economico e ambientale: aree a perdita d’occhio e tutte “off limits”, sparuti controlli sui rischi ecologici, superfici sottratte ad attività economiche, popolazioni non coinvolte, patti segreti e accordi pubblici mai rispettati.Massimo punto dolente, il disastro ambientale attorno al famigerato poligono di Quirra, sospettato di diffondere polveri radioattive e tumori. Emerge dalle inchieste in corso: «Non c’è solo un problema di giustizia, ma una vera e propria emergenza». Quando la Germania fu riunificata, ricorda Cabras, ottenne un programma comunitario per la riconversione economica e sociale delle aree dipendenti dalle produzioni e dalle presenze militari. «Si trattava di vasti sistemi costruiti decennio dopo decennio, e furono riconvertiti in un tempo ragionevolmente breve, con consistenti risorse non solo nazionali. Perché internazionali erano state le cause di quel prolungato impatto militare». In un altro emisfero, a Portorico, la dismissione di un grande poligono ha comportato la creazione di un Fondo da centinaia di milioni di dollari. «Qualcosa di simile, e certamente molto più in grande, serve anche per la Sardegna, da subito».La chiusura della base per sommergibili nucleari Usa alla Maddalena «rappresenta il modo in cui non dovrebbe realizzarsi una vera riconversione». Caduta l’Urss, «sembrava più facile chiudere qualche base e allontanarci dall’Apocalisse nucleare». Viceversa, «la pressione militare non si allenta». Perché accade tutto questo? «È una catena lunga di fatti e luoghi che va dal Mediterraneo all’Asia centrale, fra guerre, disordini, nuovi posizionamenti geopolitici. Le basi Usa nel Vicino e Medio oriente sono cresciute anno per anno, la pressione sulla Russia è aumentata sempre di più, sin dentro il cuore dell’Asia, fino a un passo dal gigante risvegliato, la Cina, a sua volta avvisata che la pressione crescerà anche per essa». Per contro, Russia e Cina «danno segno di rispondere con un impressionante aumento delle spese militari e il rafforzamento della loro integrazione militare nella Shanghai Cooperation Organization». Il fatto però è che «il dio della guerra si vede scavare molta terra sotto i piedi dal dio del debito: gestire un impero costa, e le enormi spese militari stridono con i tagli in altri settori». La guerra costa troppo, e quindi «è il momento storico giusto per cambiare il posto della Sardegna nel mondo, a partire dalla funzione militare».I candidati di Michela Murgia si sono confrontati con gli attivisti che da anni si battono contro le basi e le servitù militari in Sardegna, nonché con i familiari delle vittime della “Sindrome di Quirra”. Risultato, un documento dal titolo esplicito: “La Sardegna toglie le basi alla guerra”. Il piano è pronto. Se Michela Murgia diventa presidente della Regione, la Sardegna – leggi alla mano – chiede la sospensione immediata delle attività militari nelle quali si sono registrate patologie. Poi convoca finalmente una commissione indipendente internazionale per quantificare i danni economici, sociali, ambientali, sanitari e culturali. Modalità da paese civile: la Regione si impegna a tutelare la cittadinanza anche con campagne informative sui rischi, e intanto apre una vertenza con le istituzioni italiane e internazionali per bonifiche, dismissioni e riconversioni. Infine, la Regione dovrà gestire i fondi per la bonifica dovuti dall’inquinatore attraverso la creazione di una filiera integrata per nuove opportunità economiche.In particolare, sottolinea Cabras, è fondamentale la realizzazione di un “audit” sui danni «accumulati in sessant’anni», così da individuare anche un quadro di reati da perseguire. «Pochi sanno che perfino gli stessi regolamenti Nato prescrivono che si bonifichino le aree interessate dopo ogni esercitazione. In Sardegna non sono mai stati applicati, generando un cumulo abnorme di bonifiche mai fatte». Si tratta di un fatto colossale, di portata internazionale. «Già da solo basterebbe a svelare l’insensibilità e la complicità criminale di intere classi dirigenti italiane, molto attente a piazzare nelle classi dirigenti sarde un solido sistema collaborazionista, a sua volta attento a spegnere, annacquare, diluire le proteste». Anche l’ultimo punto del programma merita molta attenzione: i progetti di recupero, riconversione e valorizzazione di siti militari dismessi. Sarebbero assegnati a vantaggio di imprese con piani coerenti e per finalità turistico-ricreative. Poi infrastrutture utili, riassetto del paesaggio, riqualificazione del tessuto urbano e ambientale.L’obiettivo è strategico: diversificare le attività economiche nelle zone dipendenti dal settore difesa, riconvertire l’economia e agevolare le imprese sane. «Sono impegni che può perseguire soltanto una Sardegna governata senza gli ingombri dei politici appiattiti sulle esigenze degli occupanti militari», insiste Cabras. Vero, qualche attivista “anti-basi” è finito nelle liste di Ugo Cappellacci e Francesco Pigliaru, ma resterà deluso: «Avrà una sorta di diritto di tribuna che consentirà grandi declamazioni in materia, ma in mezzo a un deserto», perché in realtà «non sposterà di un centimetro le coalizioni di Berlusconi e Renzi, che rimangono irremovibili macchine atlantiste, obbedienti agli ordini della Nato, e del tutto indifferenti ai nostri diritti». L’unica novità potrà venire dalla forza che acquisirà lo schieramento che si raccoglie intorno alla candidatura alternativa, quella di Michela Murgia, apprezzata autrice di besteller italiani come “Accabadora” e “Il mondo deve sapere”, da cui Virzì ha tratto il film “Tutta la vita davanti”. «La Murgia – scrive Angelo Guglielmi – è riuscita a sciogliere in poesia i materiali della tradizione senza imbolsirli». Ora siamo all’ennesima prova della verità: e a parlare saranno i sardi. «Sono nata in Sardegna – dice lei – e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine». Indipendente, libera dalla “servitù militare” che la opprime.Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.
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Figli di un’Italia fallita: la ferocia liberatoria di Virzì
Negli anni della sedicente rinascita della commedia (i Brizzi, i Genovese, i Miniero, i Bruno), finalmente un film italiano riprende lo spirito originario della commedia all’italiana – quella ferocia autodiretta e quella disperazione che segnarono (con “Il sorpasso” e “Io la conoscevo bene” da una parte dello spettro temporale, e “Un borghese piccolo piccolo” e “La terrazza” dall’altra) una specie di controstoria morale del nostro paese: un’Italia che si disfece del fascismo solo di facciata per reindossarlo immediatamente sotto la maschera della Democrazia Cristiana, diede vita a una borghesia immorale e moralista, si fece vanto del peggior familismo premoderno, e in nome dell’illusione perenne di diventare una nazione adulta si tramutò invece nella patria di un rovinoso infantilismo. Un paese che uccise i più giovani e i più innocenti – una Adriana Astarelli di “Io la conoscevo bene” o un Roberto Mariani del “Sorpasso” – e lasciò sopravvivere chi aveva perduto qualsiasi anima.Nel “Capitale umano” di Paolo Virzì la vittima sacrificale è un cameriere che tornando in bici su una strada notturna dopo un ricevimento viene investito da un fuoristrada guidato da non si sa chi. Da qui parte un thriller lento, semplice ma senza sbavature, che racconta le due famiglie di una Brianza immaginaria da cui la sera dopo l’incidente la polizia busserà alla porta per capire cosa è successo: quella dei ricchissimi Giovanni (Fabrizio Gifuni) e Carla (Valeria Bruni Tedeschi) Bernaschi e di loro figlio Massimiliano (Guglielmo Pinelli); e quella medioborghese dell’immobiliarista parvenu Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) della sua compagna psicologa Roberta Morelli (Valeria Golino) e della figlia di lui, Serena (Matilde Gioli).Tenuto su da una regia mai leziosa nonostante un uso continuo di dolly e carrelli e di un montaggio quasi a incastro perché funzionale a una sceneggiatura in quattro capitoli di cui i primi tre raccontano, con sovrapposizioni e giochi di specchio, la storia da tre punti di vista diversi (quello di Dino, quello di Carla e quello di Serena), “Il capitale umano” sembra veramente un film alla lettera eccezionale, un film non italiano verrebbe da dire, o anti-italiano; complice forse la fotografia cupissima dei francesi Jérôme Alméras e Simon Beuflis, e la possibilità data agli attori di recitare secondo una tecnica e uno scopo e non secondo una maniera: Gifuni tira fuori il suo mestiere teatrale (gli accenti gaddiani rimodulati in un ominicchio brianzolo, le mosse elettriche di una psiche implosa) nel dar vita al glaciale Bernaschi, Bentivoglio dà sfogo alla sua vena comica sordiana senza tema di dover dare una tridimensionalità inutile a uno zanni meschinissimo, Bruni Tedeschi usa una specie di understatement inquietante con cui può permettersi di scivolare su qualunque emozione, e Golino è straordinaria nel far leva, unica del gruppo, su un codice naturalistico, proprio per dar corpo al solo personaggio adulto ancora dotato di un cuore. (Meno efficace, ma perché più abbozzato il personaggio, la recitazione di Luigi Lo Cascio, amante intellettuale della signora Bernaschi).Il ritratto generazionale che Virzì tratteggia di queste due coppie è finalmente impietoso. Feroce e per questo liberatorio. Dopo aver visto per anni film che traboccavano di indulgenza per questa generazione nata tra i ’50 e ’60 (compresi quelli di Bruni o di Virzì stesso), figlia minore di una fierezza politica che s’illuse di cambiare l’Italia e per campare si trovò a ereditare titoli di stato gonfiati e case cadenti da affittare, e finì per darsi in pasto ai Berlusconi, ai suoi epigoni più deprimenti (il leghismo delle fabricchette), o a un postcomunismo che del Pci conservò solo l’ipocrisia. Gente che aveva sbagliato tutto e si faceva scudo però di un’innocenza preventiva; che rimpiangeva un’età dell’oro della contestazione e non sapeva dare uno straccio di educazione ai figli; arricchiti senza merito, traditori se non idioti: per tutti questi Virzì finalmente ha trovato, con l’aiuto di un clinico e luminoso romanzo americano (Il capitale umano di Stephen Amidon rimodellato per i nostri schermi con Francesco Bruni e Francesco Piccolo) le parole per indicare le responsabilità della rovina di un paese. Quando alla fine Carla Bernaschi guarda in macchina attraverso lo specchio e sentenzia: «Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto», suo marito Giovanni giustamente la corregge, ed è come se indicasse direttamente noi spettatori: “Abbiamo vinto, ci sei anche tu”, le (e ci) dice. Nessuno è innocente, cara.Mentre vedevo il film e pensavo alle demenziali polemiche sulla Brianza, presuntamente dileggiata da Virzì, mi venivano in mente due cose. La prima, la “Cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda. Ecco qual è l’unico paesaggio che può raccontare il disastro spirituale di un’epoca lunghissima come quella di un’Italia sempiternamente fascista: la Brianza messicana di Gadda. Le sue ville, i suoi ricevimenti, le sue fintissime lacrime e falsissime gioie. Virzì avrà pensato, piuttosto che a dileggiare, a trovare come Gadda un détournement degli industrialotti vacui, dei mobilifici Aiazzone. Come è metafisica la Brianza della “Cognizione del dolore”, anche qui l’astrattezza del luogo è data dal semplice motivo che la crisi globalizzata e la finanziarizzazione dell’economia ha trasformato anche le case, i focolari domestici, in non-luoghi.La seconda cosa che mi è venuta in mente sono alcune foto del progetto “Corpi di reato” di Alessandro Imbriaco, Tommaso Bonaventura e Fabio Severo, alcune foto tipo questa. E’ un’immagine scattata in uno dei paesini della Lombardia dove i consigli comunali sono stati indagati per infiltrazioni camorristiche e ndraghetiste. Sotto le fondamenta di queste case, sotto questo pratino curato come in una foto di un rendering, le organizzazioni criminali hanno sversato quintali di rifiuti tossici. Ecco, la sensazione che si prova vedendo “Il capitale umano” è la stessa. Che ci sia stata una generazione, vestita bene, che gioca a tennis tutti i venerdì mattina, che è stata complice – se non collusa, silente – con il disastro di una nazione. E che di fronte a certe responsabilità sociali, ora non le si concede altro scampo che la pietà umana o la pena. Incapaci di fare i genitori, perché competitivi contro i propri figli, inetti a dare testimonianza o passare un’eredità morale, edonisti senza libertà, la sola speranza che hanno lasciato è che questi figli siano il più presto possibile in grado di sbarazzarsi dei padri (ucciderli o quantomeno renderli innocui), di diventare orfani, per poter assumersi il compito che la generazione precedente non è nemmeno stata capace di riconoscere come proprio.(Christian Raimo, “La ferocia liberatoria de Il capitale umano, di Paolo Virzì”, da “Minima et moralia” dell’11 gennaio 2014).Negli anni della sedicente rinascita della commedia (i Brizzi, i Genovese, i Miniero, i Bruno), finalmente un film italiano riprende lo spirito originario della commedia all’italiana – quella ferocia autodiretta e quella disperazione che segnarono (con “Il sorpasso” e “Io la conoscevo bene” da una parte dello spettro temporale, e “Un borghese piccolo piccolo” e “La terrazza” dall’altra) una specie di controstoria morale del nostro paese: un’Italia che si disfece del fascismo solo di facciata per reindossarlo immediatamente sotto la maschera della Democrazia Cristiana, diede vita a una borghesia immorale e moralista, si fece vanto del peggior familismo premoderno, e in nome dell’illusione perenne di diventare una nazione adulta si tramutò invece nella patria di un rovinoso infantilismo. Un paese che uccise i più giovani e i più innocenti – una Adriana Astarelli di “Io la conoscevo bene” o un Roberto Mariani del “Sorpasso” – e lasciò sopravvivere chi aveva perduto qualsiasi anima.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Sinistra italiana senza il coraggio di sostenere Tsipras
«Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza, ovvero di quella resistenza laica e ferma che, dalla Grecia, costituisce il peggior incubo per i governanti continentali dell’austerità.La seconda è che la Sinistra Europea, a dispetto degli sterili psicodrammi, ai fatti ha avuto ragione pressoché su tutto in questi ultimi 25 anni, a iniziare dai temi più cruciali, dalla critica all’accelerazione monetarista dei Trattati (da Maastricht in poi) al no alle guerre della Nato. La sinistra c.d. “radicale” aveva ragione; gli altri, “moderati” inclusi (senza eccezione per i socialdemocratici), torto. Sarebbe il momento dell’“incasso” elettorale, e invece si cede lo scettro della critica – e della rappresentanza – agli anti-europeisti, populisti e intolleranti, in una parola alla destra. Il primo a tirarsi fuori – spiace sottolinearlo – è stato Nichi Vendola, che al “Manifesto” ha dissimulato con un elogio a Tsipras la propria scelta politica: Sel non si candiderà per Tsipras o per la Linke bensì, assieme al Pd, per Martin Schulz e il New Labour. Gli altri italiani? Praticamente il nulla, come ha denunciato la leader tedesca della Sinistra Europea Gabi Zimmer (mia intervista per “Il Fatto Quotidiano”) il 13 dicembre scorso.Qualcosa per la verità poi si è mosso e, da Barbara Spinelli a Paolo Flores d’Arcais ad Alessandro Gilioli, non passa oramai quasi giorno senza che qualche intellettuale lanci il suo appello per realizzare anche da noi una lista per Tsipras, rompendo seppur tardivamente la solitudine di chi da tempo si era speso per la sua candidatura, come l’ex capogruppo della Sinistra europarlamentare Roberto Musacchio. Le strade sarebbero almeno due. Una sarebbe quella indicata da Giulietto Chiesa, ovvero un’assunzione di responsabilità dei movimenti più popolari (quali Emergency), che però per statuto o antica scelta difficilmente lo faranno. Ci sarebbe Azione Civile, che per ora esita a uscire dai generici appelli dato il recente scotto elettorale. Ci sono già Alba e Alternativa, degli stessi Musacchio e Chiesa, ma ovviamente non basta.L’altro possibile “primo passo” potrebbero farlo gli stessi partitini che sostengono Tsipras, a iniziare da Rifondazione. «Prendiamo atto della catena di batoste, ci sciogliamo e mettiamo modestamente a disposizione quel po’ di struttura, esperienza e militanza per ricostruire la sinistra italiana ben al di là del nostro esiguo perimetro», potrebbero dire, anziché rimanere nel feudo e perpetuare il settarismo di cui sopra. Non sarebbe così difficile, in fondo: il volto c’è, ed è quello di Tsipras; il logo pure, quello della “Gue”. In italiano si legge “Sinistra Unitaria Europea”. Non sono tre brutte parole. E’ vero che la “sinistra” italiana è morta, ma permangono alcuni milioni di elettori di sinistra che stabilmente disertano le urne. Cari partitini e movimenti, davvero non interessa?(Alessandro Cisilin, “Elezioni 2014, Sinistra Europea occasione italiana?”, da “Megachip” del 7 gennaio 2014).«Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza
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Graziani, il maestro che previde la catastrofe dell’euro
Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».Attualissimi, in questo senso, i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi, ricorda Brancaccio. «La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’Eurozona», vittime già allora della «grancassa dell’ideologia» che in quei giorni «operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica». Quanto a Graziani, «i suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa».Il pessimismo di Graziani, continua Brancaccio in un post ripreso da “Megachip”, era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: «Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio». Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria.Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria, continua Brancaccio, «hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti». In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla “International Review of Applied Economics”, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Previde cioè che i capitalisti italiani «avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo».Oggi, conclude Brancaccio, sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. E sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, «l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti». I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni “tra e dentro” le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. «Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti». Eppure, in tempi più illuminati del nostro, «è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare: chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento», proprio come fece Augusto Graziani.Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».
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Giulietto Chiesa: con Tsipras, contro questa infame Ue
Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.Per Giulietto Chiesa, fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, Barbara Spinelli coglie nel segno anche quando avverte che i «vecchi partiti della sinistra radicale» non dovranno essere l’architrave della proposta-Tsipras, perché «abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società», superando i margini molto esigui dei rottami della sinistra “arcobaleno”. Se il Partito della Sinistra Europea ha lanciato anch’esso, nel suo congresso costitutivo di Madrid, la candidatura Tsipras, al di là delle migliori intenzioni – secondo Chiesa – il perimetro storico della sinistra rischia di essere un limite invalicabile, un vicolo cieco. Ne è convinto anche il direttore di “Micromega”, Paolo Flores D’Arcais: «La parola sinistra rischia di essere equivoca, oggi: paradossalmente, non usarla è meno equivoco che usarla», dal momento che “sinistra”, per molti, è ormai in contrapposizione con gli ideali di giustizia e libertà.La parola “sinistra” ricorda l’esperienza fallitmentare del socialismo reale, nonché «la catastrofe politica e ideale che ha seguito la sparizione del Pci». E richiama alla mente «i partitini che si definiscono neocomunisti e che sono una parodia», non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Rimettere in piedi qualcosa a tutti i costi, ripartendo sempre da quel disastro storico, per Aldo Giannuli ha tutta l’aria di un «accanimento terapeutico». Insistere con l’idea della “ricostruzione della sinistra”, aggiunge Giulietto Chiesa, significa anche restare fuori dalla realtà, prigionieri della logica degli steccati. E oltretutto «taglia fuori, in linea di partenza, ogni rapporto con gli otto milioni di elettori del “Movimento 5 Stelle”», cioè «l’unico insediamento istituzionale di una opposizione in Italia». Vero, il movimento diretto da Grillo e Casaleggio resta refrattario a qualsuasi alleanza. Ma perché «tagliarlo fuori dal dialogo che potrebbe condurre ad una lista civica nazionale come quella che noi proponiamo»?A differenza della sinistra in Italia, in Grecia Syriza è una forza politica in forte ascesa. Valide alcune istanze del Partito della Sinistra Europa, così come del “Movimento 5 Stelle”, ma la forma-partito «è un evidente ostacolo a ogni convergenza, ed è dunque prodromo di sconfitta». Barbara Spinelli propone un’alleanza civica «di cittadini attivi, di persone della società civile», disposti a mobilitarsi per Tsipras. «La strada è quella dei contenuti», continua Chiesa. «Se si sceglie Tsipras come candidato comune, sarà necessario fare riferimento alla sua intelligenza politica e alle sue posizioni: che non sono quelle del rifiuto dell’Europa, ma che la vogliono radicalmente cambiata». Un’Europa che sia una “unione”, diversa dall’attuale “equilibrio di potenze”, basato sugli egoismi nazionali, che si è trasformato nel dominio dei più forti sui deboli, senza meccanismi di riequilibrio economico e sociale.Giulietto Chiesa scende nei dettagli: serve un’Europa democratica e solidale, pacifica e non imperiale. Un’Europa «che cancelli i trattati di Maastricht e di Lisbona, fino al Fiscal Compact e a quel mostro intollerabile che è la costituzione, in corso, di Eurogendfor», la temuta super-gendarmeria europea (sostanzialmente antisommossa) non sottoposta a nessuna magistratura. Serve un’Europa non più ostile, «con una banca centrale interamente pubblica, i cui soci sono le banche centrali interamente pubbliche dei paesi membri». Una nuova Bce, che sia «prestatore in ultima istanza» e «abbandoni la linea dell’austerità». E infine «un’Europa che svolga un ruolo autonomo e sovrano nel contesto internazionale, interlocutrice non più subalterna degli Stati Uniti, propugnatrice di una partnership strategica con la Russia». Questo è Tsipras, «e con questo noi siamo in perfetta sintonia». Ma, aggiunge Chiesa, «occorre verificare chi, in Italia, lo è. E trovare un punto di convergenza che sia comprensibile per le grandi masse popolari di questo paese».Attenzione: l’interlocutore potenziale è costituito da milioni di elettori, a una condizione: «Questo programma non lo si può fare con l’illusione di trasformare il Partito Democratico. La sua dirigenza (non necessariamente i suoi elettori) non è riconducibile ai valori della Costituzione. Infatti è da lì che viene l’attacco a quei valori, impersonato dal presidente della Repubblica». Meglio dunque «riflettere seriamente», anche «per evitare di rimanere intrappolati su posizioni anti-europee che si stanno rapidamente diffondendo a partire dalle destre più o meno estreme», come dimostra l’appello del 27 dicembre, indirizzato ai “maggiordomi” italiani ed europei da parte di un gruppo di intellettuali guidati da Etienne Balibar. Un cambio di rotta per l’Europa? «Si tratta ora di vedere se e quante personalità indipendenti sono pronte ad assumersi la responsabilità di questo passo, rappresentato dalla creazione di una lista civica nazionale». I movimenti che lottano per i “beni comuni” saranno pronti a rispondere all’appello? Per Giulietto Chiesa serve «un programma sintetico, da proporre a milioni di italiani, comprensibile a tutti ed espresso in pochi punti». “Alternativa” nel propone uno, lapidario: «L’Italia non parteciperà più a nessuna azione militare fuori dai suoi confini».Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.