Archivio del Tag ‘innovazione’
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Arrivano i Buoni: filantropia finanziaria, business del dolore
Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.Forse avete già intuito che tutti quei soldi vanno a finire nel salvataggio delle banche, o giù di lì. La novità consiste nel donare alla filantropia per permettere guadagni scandalosi alla finanza. Da Tares, Tari, Tasi a Telethon o Band Aid, cosa cambia quindi? L’idea, selvaggia e perversa al tempo stesso, è che noi cittadini dobbiamo salvare il mondo: Stati, banksters e filantropi compresi. Siamo perseguitati dalla tv del dolore che non perde occasione per farci vedere un’umanità sofferente che necessita del nostro aiuto. Sono tempi bui, e, come diceva un utile idiota, «non chiederti cosa lo Stato può fare per te, chiediti cosa TU puoi fare per lo Stato». Era il New Deal, o giù di lì, il massimo dell’espansione dello Stato. Figuriamoci oggi, che lo Stato è in totale recessione: cosa dovremmo fare per soddisfare gli insaziabili appetiti di Ong, Onlus e associazioni umanitarie varie?Ma poi di chi sarebbe la colpa di tutta questa oscena morale? Sono «le regole che hanno permesso agli speculatori di fare quel che hanno fatto» (e che continueranno a fare) dice il buon Soros, aggiungendo che «non è colpa degli speculatori». E ci mancherebbe! Che colpa ne hanno se lo Stato “consiglia” di donare soldi alla speculazione filantropica? Eppoi non facciamone una questione personale: nessun miliardario che si rispetti evita la filantropia, neanche Gates, secondo cui investire in Africa contro malattie e povertà è del tutto simile all’innovazione tecnologica. E porta ai medesimi risultati. L’uomo più ricco del pianeta (66 miliardi di dollari) è convinto che non solo sia giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati, ma anche economicamente interessante. Ecco la nuova frontiera della finantropia (acronimo tra finanza e filantropia): unisci le tecniche del venture capital agli obiettivi del non profit e avrai “venture philanthropy”. La nuova filantropia mette da parte il paternalismo e tenta la sfida degli investimenti finanziari.E’ tutto un proliferare di attività finantropiche, ve ne siete accorti? Il mondo ha bisogno della nostra collaborazione, perchè il mondo sta finalmente cambiando. In questo nuovo quadro che si va delineando il ruolo storico dell’intermediazione e della consulenza finanziaria deve essere ridisegnato. Lo scopo non può essere soltanto quello di massimizzare il rapporto rendimento/rischio del cliente, è invece imperativo un allargamento del processo di investimento che, dal binomio rischio-rendimento, deve estendersi al trinomio sostenibilità-rischio-rendimento. Sappiate che le prestazioni dotate di buon senso e che creano valori sostenibili conferiscono energia al denaro, così che questo genera altro denaro e benessere per tutti allo stesso modo: per i filantropi e per chi riceve il capitale investito o i doni, per le organizzazioni, i collaboratori in seno al progetto e per il fundraiser.Lo Stato di dovere ci impone l’obbligo di aiutare i paesi poveri, e al microcredito è andato addirittura un Nobel. Sapete perchè? Ma perchè dalla filantropia al business il passo è breve, ammesso che esista: il credito a breve – erogato ai piccolissimi imprenditori dei paesi in via di sviluppo – è remunerativo e sicuro. Capito? Come sono stati raccolti questi capitali? Per esempio da fondi pensione svizzeri interessati a diversificare il loro portafoglio cercando investimenti che da una parte offrono un rendimento superiore a quelli di mercato, dall’altra rispondono a requisiti di responsabilità sociale. «Possiamo dire che la trasformazione della microfinanza in asset class investibile è nata in Svizzera, soprattutto a Ginevra». Non vi piacciono i neutrali banchieri svizzeri? Tranquilli che Unicredit ha ciò che fa per voi: “il mio dono” ovvero la rete della solidarietà di Unicredit.Date un’occhiata, ci sono ben 105 pagine di organizzazioni non-profit da scegliere perchè è «giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati», come dice Gates. Cioè il Mercato va allargato a ciò che non è tecnicamente Mercato, come la solidarietà. Insomma la finantropia. Li avete già dati i due osceni euro? Avete già fatto quel fetente Sms per collaborare con quell’importantissimo progetto che salverà migliaia di vite? State dando una mano a Soros e fratelli in affari per diffondere finalmente benessere, democrazia, salute e non ultima della sana felicità nel mondo? NO? FATE SCHIFO! Ps: adesso vi regalo anche un passatempo per le festività: provate a distinguere il mio sarcasmo da ciò che gli avvoltoi finantropici spacciano per verità. Se avete dubbi seguite i link, poi fatemi sapere. Buon Natale, e siate sempre più buoni, mi raccomando. Che loro ci tengono.(Tonguessey, “Finantropia”, da “Come Don Chisciotte” del 24 dicembre 2014)Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Racconto un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…
Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore tedesco, o cinese, che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling corrente e ben oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs Act, camice bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia lenta, corruzione, malavita, er Guercio, il mondo di mezzo e altro ancora. Potrà leggere i discorsi “luminosi e progressivi”, oppure i titoli delle inchieste in corso. I recenti fatti di cronaca, per esempio, rendono l’attuale storytelling governativo, tutto incentrato sul futuro, un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma smentita ogni giorno. Si è provato, è vero, all’inizio e per un annetto a ridicolizzare che si opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (“gufi”, è già parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si sono fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda più, non conquista.Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia frizzante e un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde credibilità perché fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si vive ogni giorno. In certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico, costruire un elaborato racconto – una narrazione – troppo lontano da quel che accade può trasformarsi in autogol. Un caso di scuola è l’uso del concetto di “futuro” per la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo da parte gli slogan facili e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo, saremo – o meglio torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo capitali stranieri, eccetera eccetera.Lo storytelling è positivo e ottimista e si lascia intendere che domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma oggi, uno non riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti dell’Illinois, o di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato, oppure ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse più poderoso dai tempi di Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco, allarme: lo storytelling renziano è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante, mentre qui e ora di luminoso c’è pochino. E siccome sanno tutti che per avere un buon futuro si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona, suona falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: «Su, ragazzi, raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato».Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.
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Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà
Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
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German Act, agonia europea imposta dalle banche tedesche
Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. Dagli anni ’90 i socialisti europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale, abbracciando così l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia, alla finanza che disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e la Legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele esecutore della Troika. Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles.La sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più. Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e un’opposizione solida in Parlamento. In Europa, “Podemos” e Syriza rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa che la maggioranza degli elettori dell’Eurozona preferisce lo status quo, purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive e del rigore.La sinistra in Italia? Il futuro non è prevedibile, bisogna costruirlo. E di certo nel paese esistono milioni di persone mosse da ideali e sensibilità di sinistra, alla ricerca di una nuova modalità di aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi, diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi, mentre Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in un’Europa delle diseguaglianze, che necessita di alcuni urgenti interventi. Al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione non vuole modificare la propria linea economica, con Juncker sostenuto convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito Fiscale (Ccf) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica.Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”? Il termine colonia è un po’ forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i paesi con tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario – quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di queste imposizioni sono volute dalla Germania. Dietro alla durezza del governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri paesi dell’Europa del Sud, e anche la Francia: è sempre la seconda economia dell’Eurozona e ha legami storici con la Germania dai tempi di Mitterrand, ma ha subito forti pressioni ed è stata costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio paese le misure d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15 milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati 15 ore alla settimana per 450 euro al mese. E 15 milioni è circa un quarto della forza lavoro tedesca.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act, una pericolosa riforma di destra”, pubblicata da “Micromega” il 2 dicembre 2014).Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
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Stampano moneta e comprano noi, poveri euro-fessi
Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.Se la moneta aggiuntiva viene usata per aumentare la produzione, quindi l’offerta di beni e servizi, allora non vi sarà inflazione monetaria (ossia aumento generalizzato dei prezzi), mentre vi sarà un aumento della ricchezza prodotta e del reddito, oltre che dell’occupazione. Certo, aggiunge Della Luna, questa moneta in più «bisogna spenderla bene, e una classe dirigente avida e idiota, come tale selezionata, non lo può fare». Se invece la moneta aggiuntiva viene usata per acquistare titoli finanziari e immobili, «allora vi sarà una salita dei valori delle Borse e degli immobili, e questo fa piacere a tutti gli investitori mobiliari e immobiliari». E se anche vi fosse, come conseguenza dell’immissione monetaria, una certa inflazione iniziale, «questa aiuterebbe i debitori (cioè gli Stati, molte imprese, molti privati) e danneggerebbe i creditori non indicizzati all’inflazione, mentre stimolerebbe le spese che oggi vengono differite perché si prevede un calo o una costanza dei prezzi, il che alimenta la deflazione». Quindi, nel complesso, «dopo la presente deflazione, una certa inflazione o reflazione sarebbe benefica».Oggi, continua Della Luna, il grosso dell’offerta monetaria è assorbito dal settore finanziario-speculativo, ossia da “prodotti” finanziari separati dall’economia reale (produzione, consumi). Sono “prodotti” producibili all’infinito, fino alla saturazione del mercato, cioè all’esaurimento «dell’abilità di collocarli, rifilarli o sbolognarli ai clienti ingenui, allorquando una bolla sta per scoppiare». Problema: questo settore dell’economia assorbe il grosso dell’offerta monetaria, «lasciando a secco della fisiologica liquidità il mercato dei beni-servizi reali e degli investimenti per produrli». Ed ecco il paradosso di oggi: «Da un lato un’esorbitante creazione-offerta di moneta, che le banche centrali creano e mettono a disposizione, in quantità enormi, non dell’economia reale ma delle banche universali per le loro speculazioni finanziarie, improduttive anzi distruttive, e dall’altro una carestia di moneta nell’economia reale, cui le medesime banche (in Italia) fanno sempre meno credito, con conseguente declino-insufficienza di domanda solvibile e di possibilità di investimento e occupazione – onde la deflazione».In altre parole, l’offerta di moneta «è eccessiva per il settore finanziario, da cui viene continuamente alimentata, mentre è gravemente insufficiente per quello reale, a cui viene continuamente ridotta». Primo passo: non solo «separare le banche di credito e risparmio da quelle speculative», ma anche «fare in modo che la liquidità del settore produttivo, dell’economia reale (quello da cui dipendono gli stipendi, il cibo, i servizi) sia assicurata e protetta dalle interferenze e distrazioni del settore finanziario, molto più grosso e turbolento». Della Luna Parla di «anemizzazione monetaria dell’economia reale», con detentori di liquidità che “tesaurizzano” gli investimenti anche all’estero, mentre il prelievo fiscale imposto dal Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, drena altro denaro dal sistema-Italia, insieme al regime di austerity europea che impone «la realizzazione forzata di avanzi primari del bilancio pubblico e il pagamento di alti interessi a detentori esteri di titoli del debito pubblico». Domanda: «In una situazione di recessione interna e fuga verso l’estero di imprenditori, lavoratori qualificati e capitali, che cosa potrebbe essere più demenziale che imporre tasse al paese per sostenere il debito pubblico di paesi in crisi (Spagna, Grecia) al fine puntellare una valuta, l’euro, che ostacola le esportazioni e induce la deindustrializzazione del paese?».«Eppure gli italiani hanno dato fiducia persino a chi ha fatto questo», continua Della Luna. «Si aggiunga, infine, a questo museo degli orrori dell’imbecillità politica, o dell’alto tradimento istituzionale – se preferite – il fatto che la deprivazione-anemizzazione monetaria del paese, di cui sopra, fa sì che gli asset produttivi migliori – industria, commercio, finanza, alberghi, terreni agricoli pregiati – si deprezzino e vengano massicciamente comperati da soggetti-capitali finanziari stranieri, e che quindi il reddito generato da questi asset esca dal reddito nazionale italiano, divenendo reddito dei paesi che li comperano». E l’auto-privazione monetaria, che produce tutti questi mali, non è che un trucco: perché la moneta sovrana «è solo un simbolo e non ha costi o limiti di produzione intrinseci», e i paesi stranieri che rastrellano le nostre migliori aziende «lo possono fare appunto perché fanno la scelta opposta all’auto-privazione monetaria, ossia perché scelgono di produrre a costo zero grandi masse di moneta-simbolo». Che dire: «Il quadro dell’idiozia totale è perfetto. Non resta che ringraziare i nostri governanti nazionali ed europei e le nostre banche centrali, e lusingarci per tutti i consensi, i voti, le tasse e gli onori che continuiamo tributare loro».Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.
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Gli scienziati: folle Ue, taglia la ricerca e suicida il futuro
I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del Pil sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.(“Senza ricerca non si esce dalla crisi”: l’appello, ripreso da “Micromega”, è stato lanciato da importanti scienziati europei come Amaya Moro-Martín, astrofisico dello “Space Telescope Science Institute di Baltimora”, Usa, nonché di “EuroScience” di Strasburgo e del Digna, per la Spagna; Gilles Mirambeau, virologo Hiv della Sorbona di Parigi oltre che dell’Idipbas di Barcellona e di “EuroScience”; Rosario Mauritti, sociologo dell’Iscte e del Cies-Iul di Lisbona; Sebastian Raupach, fisico tedesco; Jennifer Rohn, biologa cellulare dell’University College di Londra; Francesco Sylos Labini, fisico del Centro Enrico Fermi e del Cnr di Roma; Varvara Trachana, biologa cellulare dell’Università di Thessaly a Larissa, Grecia; Alain Trautmann, immunologo e oncologo del Cnrs e dell’Institut Cochin di Parigi; Patrick Lemaire, embriologo del Cnrs e dell’Università di Montpellier).I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
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Gallino: Jobs Act al ribasso, così Renzi sfascia l’economia
Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro, il Cnl, in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza, rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. Strada già tracciata dagli accordi degli ultimi tre anni, ricorda Luciano Gallino: marginalizzare il Cnl significa cancellare la sua funzione storica, «che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari». Grazie al progressivo indebolimento del contratto nazionale, dal 1990 al 2013 quella quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 al 55%. «Si tratta di oltre 100 miliardi che, invece di andare ai lavoratori, vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza». Su questo piano inclinato ora la catastrofe sarà completa: il Jobs Act non è altro che una fabbrica di nuovi poveri, pagati pochissimo.«Questo spostamento di reddito dal lavoro ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna», scrive Gallino in una riflessione su “Repubblica”, ripresa da “Micromega”. «Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti». Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori: «La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota-salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo». In più, le che arrancano «si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al di sotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone».Si può quindi stimare, aggiunge Gallino, che il numero di “lavoratori poveri” aumenterà in notevole misura: «Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il Cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti». Infine, il regime di bassi salari introdotto di fatto dal Jobs Act «ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia». Con rare eccezioni, infatti, le imprese italiane si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto ricerca e sviluppo, investimenti, età degli impianti, innovazione di prodotto e di processo. «L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni ‘90. Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione».Se la legge permetterà loro di «pagare salari da poveri», per Gallino si può stare certi che «quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni». E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato, resterà a zero. Tutto questo, senza contare che oggi i fattori di produttività sono estramemente complessi, legati a lunghe “catene di produzione del valore”. Esempio: un piccolo elettrodomestico da 50 euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi, ciascuno esposto a variazioni, difetti, ritardi, imprevisti. «Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale», conclude Gallino, «e non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola, nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi».Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro, il Cnl, in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza, rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. Strada già tracciata dagli accordi degli ultimi tre anni, ricorda Luciano Gallino: marginalizzare il Cnl significa cancellare la sua funzione storica, «che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari». Grazie al progressivo indebolimento del contratto nazionale, dal 1990 al 2013 quella quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 al 55%. «Si tratta di oltre 100 miliardi che, invece di andare ai lavoratori, vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza». Su questo piano inclinato ora la catastrofe sarà completa: il Jobs Act non è altro che una fabbrica di nuovi poveri, pagati pochissimo.
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La crisi del sapere umanistico: non leggiamo più il mondo
La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.Il neoliberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan-economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati, a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee; la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese, funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa; una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato. Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neoliberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, che non hanno manifestato che rare e occasionali obiezioni, spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare.E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neoliberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno. Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck, Alain Touraine), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi.E infatti si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti, sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico-finanziaria, sociale, culturale, militare, e se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente, il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi; ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”.Quanti storici, sociologi e politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre. Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la Guerra dei Sette Anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la Riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare. Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del mondo” cioè come progetto di omologare tutto il mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”.La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico e urbanizzazione, di specificazione individuale e secolarizzazione, di affermazione dello Stato di diritto e disincanto del mondo, di nazione e acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. E abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione e secolarizzazione di cui si diceva, e ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad un’opera di mediazione e di traduzione culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione. E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati.Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi, ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti, che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote? Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.
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Cancellare le conquiste del popolo: da Pinochet a Renzi
Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.La strage fascista di piazza della Loggia a Brescia aveva ricevuto una risposta popolare enorme che aveva messo in crisi i disegni autoritari di settori degli apparati dello Stato e della eversione nera. Nelle scuole entravano i metalmeccanici che avevano da poco conquistato il diritto a studiare con permessi di 150 ore. Tutta la società italiana, nonostante tensioni e contraddizioni, era in crescita attorno alla crescita dei diritti del lavoro. Chi allora avrebbe potuto aver già in mente che, appena quattro anni dopo il varo della legge 300, si sarebbe dovuto cancellare l’articolo 18? Mi domando davvero come Renzi abbia potuto parlare di quaranta anni di ritardo nelle riforme, e siccome son convinto che non si sia sbagliato, posso arrivare ad una sola conclusione. Che egli faccia proprio lo spirito di vandea capitalista che proprio in quegli anni cominciava a definirsi nelle élites economico finanziarie mondiali.Nel 1973 il sanguinoso colpo di Stato di Pinochet contro Allende in Cile serviva per la prima volta a sperimentare con la forza di una feroce dittatura le politiche liberiste dei “Chicago boys” di Milton Friedman. Che poi sarebbero dilagate nel mondo. Sempre nel 1973 una organizzazione multinazionale di banchieri e industriali, politici e ricconi guidata dalle élites statunitensi, la Trilaterale, aveva prodotto un manifesto programmatico nel quale si affermava la necessità che il mondo retrocedesse dall’eccesso di domanda di democrazia e garanzie sociali che si era diffuso. Quindi è vero che sotto la superficie del progresso generale si annidavano e preparavano le forze che avrebbero avviato quella controriforma liberista che dura da più di trenta anni.Certo a nessuno nell’Italia del 1974, se non a Licio Gelli, sarebbe venuto in mente di chiedere la cancellazione della reintegra per i licenziamenti ingiusti, e di tornare così alla legge del 1966 che, come l’attuale Jobact, prevedeva solo il risarcimento monetario. Ma nell’Italia di oggi questo invece può essere affermato e presentato come innovazione. Ci sono voluti decenni, ma alla fine lo spirito di rivincita sociale che già elaborava il suo rancore in quegli anni, ha trovato un fiero interprete in Matteo Renzi. Che, parafrasando il linguaggio di un altro capo di governo non proprio democratico, ha potuto alla fine affermare: «Con lo Statuto dei Lavoratori abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta».(Giorgio Cramaschi, La Vandea capitalista di Renzi, da Contropiano del 10 ottobre 2014).Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.
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Il bonus-bebè nasconde 600 euro di rincari per famiglia
«Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».La manovra da 36 miliardi promette un taglio a tasse e spesa, risparmi per 15 miliardi (6 da Regioni ed enti locali, 2 miliardi dalla sanità), un recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale. E poi una stretta su fondazioni e fondi pensione, sgravi per partite Iva e figli, uno stop all’Irap sul lavoro e zero contributi nei primi tre anni per le imprese che assumono, nonché il Tfr (volontario) in busta paga. Tutto questo, scrivono su “Wall Street Italia” Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti di Federconsumatori, «oltre ad infliggere l’ennesimo colpo allo stato sociale, nasconde l’ennesima stangata sui consumatori che potrebbe essere stimata in circa 606 euro per ogni famiglia». Il governo, infatti, con una manon concede 80 euro a circa 10 milioni di occupati – manovra «ancora insufficiente per far ripartire i consumi, che saranno ancora stagnanti per lunghi mesi in una fase di forte depressione economica e di totale sfiducia nella ripresa produttiva» – e con l’altra «addossa a sanità, Regioni ed enti locali oneri per circa 8 miliardi di euro, «che dovranno essere coperti da nuove tasse, stimate in almeno 330 euro per ogni nucleo famigliare, anche per pagare l’Irap delle imprese».Dunque, a conti fatti, si tratta di 330 euro a famiglia dagli 8 miliardi tagli a Regioni e Sanità, coperti con maggiori aliquote fiscali; a questi si aggiungono 14 euro dall’inasprimento della tassazione sulla previdenza e la nuova imposta sui fondi pensione, più 23 euro dall’anticipo Tfr delle banche, e qualcosa come 239 euro «con la prevista clausola di salvaguardia rincaro Iva dal 4 al 10% su pane, latte, pasta». Totale, 606 euro. «Una manovra recessiva con coperture aleatorie, come il recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale», annotano Lannutti e Trefiletti. «Mentre i 15 miliardi di revisione della spesa e tagli lineari che dovrebbero arrivare da ministeri (6,1 miliardi) ed enti locali (4 miliardi dalle Regioni, 1,2 miliardi dai Comuni, 1 miliardo dalle Province), addossano in parte alle famiglie, sottoposte ad ulteriori stangate fiscali, il taglio dell’Irap e delle altre provvidenze alle imprese». Tutto da dimostrare che, incassati gli sgravi, le imprese assumeranno in Italia oltre 800.000 lavoratori nel triennio, come enfatizzato dal ministro dell’economia Padoan, invece di delocalizzare in aree più allettanti. «Una manovra che, continuando a salvaguardare con ulteriori garanzie statali gli interessi delle banche, che prendono i soldi dalla Bce al tasso dello 0,15% prestando al 15%, senza destinare risorse adeguate a ricerca ed innovazione, non avrà alcuna capacità di rimettere in moto l’economia e i processi produttivi».«Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».
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Laurea inutile, qui lavoreranno solo schiavi sottopagati
Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Deutsche Bank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.“Hanno scelto l’ignoranza”, è il titolo della lettera.-appello che Sylos Labini ha scritto con un gruppo di scienziati di diversi paesi. Ripresa da tutta la stampa europea, la lettera è stata finora firmata da più di 15.000 persone. Il titolo è ispirato a una famosa riflessione di Derek Bok, ex presidente dell’università di Harvard: «Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza». Il progressivo taglio di finanziamenti all’istruzione e alla ricerca – scrive Sylos Labini sul “Fatto Quotidiano” – sta rapidamente portando a una situazione di non ritorno molti paesi in cui l’ignoranza, cioè il deficit di preparazione avanzata, riguarderà, purtroppo, le fondamenta strutturali. L’Italia, ad esempio, ha circa la metà (21%) di laureati nella fascia di popolazione tra 25 e 34 anni della media Ocse (38%). Inoltre, nell’ultimo decennio il numero di immatricolati è diminuito del 20%: «Il capro espiatorio della crisi sembra essere l’università incapace di preparare al mondo del lavoro», ma in realtà, aggiunge Sylos Labini, «c’è una bassissima richiesta di personale con formazione avanzata: la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione è tra le più basse in Europa, come anche la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (la metà rispetto alla media europea) mentre i ricercatori delle imprese rispetto agli occupati sono un terzo della Francia e della Germania».Renzi sostiene che, come soluzione, le università italiane dovrebbero imitare i garage della Silicon Valley, dove, nell’immaginario collettivo, nascerebbero l’innovazione e il business grazie a giovani scamiciati e geniali aiutati dalle forze del libero mercato? «In questa fantasiosa rappresentazione della realtà ci si dimentica del fatto che, nel paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari all’anno. Se si possono impunemente raccontare queste favole – conclude Sylos Labini – significa che li stiamo toccando con mano, i danni dell’ignoranza». Se n’è sicuramente reso conto il milione di persone che ha manifestato in piazza con la Cgil, un popolo «che si è ritrovato orfano di un qualsiasi riferimento non solo politico ma anche culturale». La farsa, intanto, deve continuare: il governo enfatizza i 150.000 nuovi assunti dell’ultimo periodo, mentre prepara i contratti-spazzatura del Jobs Act. Un lavoro per tutti, magari pagato 450 euro al mese come per i mini-job alla base del super-export tedesco, di cui la Germania non si vergogna. Prima o poi anche gli sfruttati tedeschi esploderanno, avverte Luciano Gallino. Ma intanto si continua a demolire tutto ciò che può dare fastidio all’élite industriale e finanziaria di Berlino.Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Bundesbank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.