Archivio del Tag ‘innovazione’
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Pomicino ai gialloverdi: ma io con il deficit facevo sviluppo
I nodi stanno venendo al pettine: il bullismo di Salvini e Di Maio ha già prodotto danni all’economia delle imprese e delle famiglie. A Palazzo Chigi cominciano a capire che la corda non si può tirare all’infinito, altrimenti si spezza. Per ora siamo alla tattica. Come finirà? Ognuno dovrà cedere qualcosa, ma non troppo. Da entrambe le parti l’esigenza è quella di apparire ciò che non si è: vincitori nella trattativa con l’Ue e vincitori sul paese riottoso. Ma la verità di fondo è un’altra. Il vero confronto non è quello con la Commissione, ma con i mercati, perché questa legge di bilancio non contiene nulla che stimoli la crescita. E’ dal 1995 che l’Italia è la Cenerentola d’Europa per tasso di crescita. Da che cosa dipende? Dalla drastica diminuzione della produttività del lavoro. Significa non aver fatto innovazione, investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo, con il risultato di basare la competitività delle nostre imprese sulla compressone dei salari.A chi crede che la compressione dei salari sia dovuta alla gabbia nella quale ci costringe la moneta unica, rispondo che non è così, assolutamente. Tutti coloro che lo pensano, immaginano di poter compensare attraverso periodiche svalutazioni. Ma in questo modo si ottiene solo un recupero di competitività di prezzo, non di competitività vera, quella di prodotto. Le regole europee, sulla quale la Commissione ha dato prova di un irrigidimento quasi fanatico, fanno male all’economia italiana, non c’è dubbio. Ma qui tocchiamo il valore, il vantaggio e il costo complessivo dell’Unione Europea. Settant’anni di pace, tassi di interesse molto bassi e un mercato di 480 milioni di persone. Sui tassi, chi come me ha dovuto fare il ministro del bilancio con tassi di interesse del 12-14%, fino al 20%, sa cosa significa avere il vantaggio di un tasso di interesse che possiamo avere solo con l’euro, non con la moneta nazionale. Poi, è vero, c’è il costo delle rigidità che vanno riformate.Che cos’ha fatto la Bce in questi anni? Ha prodotto liquidità, non in maniera diretta, stampando moneta, ma indiretta, acquistando i debiti sovrani. Certo, è un elemento di debolezza che la Bce non possa immettere direttamente liquidità nel sistema economico, come fanno tutte le banche centrali. E’ una rigidità legata allo statuto dell’euro. Andrebbe superata in modo strutturale dando alla Bce gli stessi strumenti che hanno le altre banche centrali. Intanto l’ha risolta Draghi con il “quantitative easing”. Ma fare quello che dico io serve una vera unione politica. Questo è l’altro elemento essenziale. Molti hanno immaginato che l’unione monetaria partorisse automaticamente l’unione politica. E invece, la Ue è rimasta la somma dei singoli governi nazionali. Così tutte le rigidità sono figlie di un Consiglio dei capi di Stato e di governo che non ha un respiro europeo da almeno 15 anni.Governo e Commissione raggiungeranno un compromesso più o meno ridicolo, ma non è questo il problema vero. Ci sono i mercati, ma non solo. Avremo un anno di difficoltà economica crescente. Non cresceremo dell’1,5%, come pensa il governo, ma ancor meno delle previsioni che ci danno intorno allo 0,9 o 1%. L’unica salvezza del paese sarà data dal risparmio precauzionale delle famiglie. Il reddito di cittadinanza? Non funzionerà. Dovrebbe preparare le persone al lavoro, e invece sapete come si risolverà? In una grande assunzione di “formatori”. Finirà per aumentare il nostro grado di collisione con i mercati. E’ vero, ora si sono calmati – ma sarà così per poco, perché con l’indebitamento previsto dal governo di investimenti non se ne fanno. Io sono stato accusato di avere fatto grande indebitamento, ma è una critica ingiusta. Non solo avevamo problemi politici da affrontare, come il terrorismo e l’inflazione a due cifre, ma crescevamo del 2,5-3% e la nostra spesa in conto capitale era del 5% del Pil, mentre noi oggi siamo tra il 2,5 e il 3% del Pil. Abbiamo sottratto in termini di spesa per investimenti circa 6-700 miliardi di euro.(Paolo Cirino Pomicino, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Cari Salvini e Di Maio, io con il deficit facevo sviluppo”, pubblicata su “Il Sussidiario” il 28 novembre 2018).I nodi stanno venendo al pettine: il bullismo di Salvini e Di Maio ha già prodotto danni all’economia delle imprese e delle famiglie. A Palazzo Chigi cominciano a capire che la corda non si può tirare all’infinito, altrimenti si spezza. Per ora siamo alla tattica. Come finirà? Ognuno dovrà cedere qualcosa, ma non troppo. Da entrambe le parti l’esigenza è quella di apparire ciò che non si è: vincitori nella trattativa con l’Ue e vincitori sul paese riottoso. Ma la verità di fondo è un’altra. Il vero confronto non è quello con la Commissione, ma con i mercati, perché questa legge di bilancio non contiene nulla che stimoli la crescita. E’ dal 1995 che l’Italia è la Cenerentola d’Europa per tasso di crescita. Da che cosa dipende? Dalla drastica diminuzione della produttività del lavoro. Significa non aver fatto innovazione, investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo, con il risultato di basare la competitività delle nostre imprese sulla compressione dei salari.
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Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta
Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.(Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
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In quella piazza triste, l’establishment che ha spento Torino
A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).C’è il pensionato che dice che senza la ferrovia “Torino muore”. E quello che pensa che con il Tav il Pil crescerà del 30% (!!??). C’è l’anziana che fa la posta per strappare un autografo a Mariastella Gelmini, quella che da ministra parlava del tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso e che ora è anche lei in piazza per questo tunnel. E quello che rimpiange tanto “Piero” (Fassino, fatto fuori alle amministrative ultime), ma gli va anche bene “Sergio” (Chiamparino, ancora in sella in Regione). Qualcuno dovrebbe spiegarglielo a quelle brave persone – sicuramente in buona fede ma poco informate – che quell’opera è riservata prevalentemente alle merci e non ai passeggeri (è una linea ad “alta capacità” non ad “alta velocità”). E che quando era stata “inventata” i suoi fautori ne sostenevano le motivazioni prevedendo che in pochi anni i flussi di traffico sulla direttrice Torino-Lione sarebbero cresciuti in misura esponenziale, fino a saturare entro il 2010 la portata delle “linea storica” stabilita in 20 milioni di tonnellate annue” e a raggiungere entro il 2030 i 40 milioni, mentre oggi – nel 2018 – la linea storica è utilizzata per appena un sesto della sua capacità (meno di 4 milioni di tonnellate) e il traffico sulla direttrice est-ovest (di cui la Torino Lione è il canale) sono in costante decremento dato il carattere maturo e non complementare delle economie italiana e francese.Qualcuno dovrebbe anche dire che il traffico su gomma sull’autostrada Torino-Bardonecchia e poi attraverso il Fréjus è stagnante da anni, e che non ci sono produttori smaniosi di spostare le proprie merci dai Tir ai treni, per il semplice fatto che su quella frontiera i flussi di merci sono esangui; che le spedizioni su ferrovia sono accettabili in termini di costi solo se il raggio della tratta è di centinaia di chilometri, mentre sulla frontiera italo-francese passano traffici di breve-medio raggio; e che se si facesse davvero e se si volesse davvero spostare il traffico merci dalla gomma al ferro (dai Tir ai treni) occorrerebbe mettere tariffe così elevate sulle autostrade che metterebbero in crisi l’intero sistema di trasporto attuale (i bravi imprenditori Sì Tav questo conticino se lo sono fatto?). Qualcuno dovrà ben dire che i costi di attuazione di tutte le linee ad alta velocità in Italia sono cresciuti, in corso d’opera, di percentuali oscillanti tra il 300 e il 500% (con un picco del 700% sulla Torino-Milano, che è tutta piatta con pochi fiumi da attraversare mentre i 57 chilometri del tunnel di base viaggiano sotto montagne piene di difficoltà).Se per sfortuna fosse deliberata, la Torino-Lione vedrebbe la luce al fondo del tunnel solo tra una decina-quindicina di anni. E se fosse (improbabilmente) conclusa, ai due capi del tunnel di base non ci sarebbero i raccordi necessari, perché i francesi non lo prevedono per nulla e gli italiani non sanno ancora su quale percorso. Quindi per molti, molti anni si dovrà viaggiare sulla linea storica, che con atteggiamento spinto oltre il limite dell’irresponsabilità l’attuale Commissario all’opera dice essere gravemente a rischio ma su cui nega la possibilità di fare interventi di messa in sicurezza perché pregiudicherebbero la nuova opera. Quello che resta, a conclusione di questo tranquillo week end d’impostura, è la poco consolante constatazione che una città che affida il proprio futuro a un’opera assurda che dilapiderebbe risorse, ambiente, territorio e comunità, è una città “perduta”. E che una classe imprenditoriale che si riduce ad adorare un totem fradicio, come farebbe una tribù primitiva di fronte alla carestia, anziché farsi un esame di coscienza e contare sulla propria capacità d’innovazione, è destinata inevitabilmente al declino.(Estratto da “La piazza della Torino perduta”, post pubblicato su “Volere la Luna” il 13 novembre 2018. Vivido, nel testo integrale dell’intervento, il ritratto dei volti che si sono prestati a sostenere la manifestazione Sì Tav, gonfiata dai media: Salvatore Tropea e Paolo Griseri di “Repubblica”, il presidente dell’Api Corrado Alberto, il lobbista berlusconiano Mino Giachino presidente dei club “Forza Silvio”, Piero Fassino e Sergio Chiamparino, l’ex direttore della “Stampa” Marcello Sorgi e lo storico ex-sessantottino Giovanni De Luna. Oltre a Pd e Forza Italia, alla manifesazione torinese hanno aderito anche la Lega, Fratelli d’Italia, CasaPound e Forza Nuova).A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).
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Macron e Merkel: l’Italia “ribelle” sarà esclusa dai fondi Ue
La Disunione Europea getta la maschera: se l’Italia non rispetta il patto di stabilità, insieme alle regole europee sui conti pubblici, non avrà più diritto ai fondi dell’Unione Europea. È il ricatto che Emmanuel Macron e Angela Merkel stanno preparando, sintetizza Chiara Sarra sul “Giornale”: è infatti in arrivo all’Eurogruppo (riunione straordinaria a Bruxelles) un’ipotesi di piano congiunto franco-tedesco per creare un bilancio unico dell’Eurozona. Come rivelano il “Financial Times” e la stessa “Repubblica”, che ha avuto accesso alle bozze, la proposta del presidente francese e della cancelliera tedesca prevede che il bilancio, finanziato con i contributi dei singoli paesi e con una “tassa sulle transazioni finanziarie”, punti a «stimolare la crescita attraverso investimenti, ricerca e sviluppo, innovazione e capitale umano, cofinanziando la spesa pubblica». Ma soprattutto, aggiunge il “Giornale”, il documento prevede che siano i ministri delle finanze dell’Eurozona, anzichè la Commissione Europea, a progettare i programmi di investimento in settori come la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Clausola: dovranno essere esclusi dall’accesso ai fondi Ue i paesi che non perseguono «politiche in sintonia con gli obblighi». In altre parole: se non rispetta le “regole europee”, l’Italia «può dire addio ai contributi finanziari».Le cifre del budget devono essere ancora discusse e trattate. In passato, il ministro francese Bruno Le Maire ha indicato la cifra di 20-25 miliardi di euro come «un buon punto di partenza». Si tratterebbe, in tal caso, di una cifra equivalente circa allo 0,2% del Pil dei 19 paesi. Inizialmente, Macron aveva però auspicato un budget pari a «diversi punti di Pil». Sembra una barzelletta, ma è la realtà. I due ideologi del patto contro l’Italia, a quanto pare, sono spaventati dal timido 2,4% di deficit per il 2019 strappato dal governo Conte nonostante l’opera di dissuasione a reti unificate (Draghi, Visco, Mattarella, Moscovici e il Fmi). Dettaglio: in Europa, Germania e Francia sonoi paesi con meno titoli per imporre regole di condotta, specie se ammantate di sospetto moralismo. La Germania, ricorda l’imprenditore italiano Andrea Zoffi, ha un debito pubblico reale ben lontano da quello dichiarato, fermo all’80% del Pil: i conti di Berlino sono molto più in rosso (addirittura il 287% del Pil) se si calcola l’immenso debito “sommerso” della Germania, non contabilizzato da Bruxelles. Quanto alla Francia, il panafricanista Mohamed Konare riassume: Parigi “drena” ogni anno ben 500 miliardi di euro a 14 ex colonie dell’Africa Sub-Sahariana. Una cifra enorme, pari al 20% del Pil francese, anche questa “bypassata” dai guardiani dell’Eurozona nonostante Parigi gestisca in proprio il franco Cfa, la moneta coloniale imposta all’Africa centro-occidentale.Per inciso, accusa Konare, i paesi dissanguati dalla Francia sono proprio quelli da cui proviene la marea di profughi economici diretti in Italia e respinti alla frontiera transalpina. In altre parole: non possono disporre della propria moneta, devono rinunciare al 50% delle loro risorse e, per gestire liberamente l’altra metà, devono prima ottenere il consenso di Parigi. Com’è possibile che una simile Francia possa far parte dell’Unione Europea? Presto detto: proprio la culla dell’europeismo neo-feudale fu utilizzata per ammortizzare l’exploit della Germania riunita dopo la caduta del Muro. La Francia impose l’introduzione di regole non democratiche (l’euro e il limite di spesa del 3% introdotto da Mitterrand) con l’obiettivo di frenare l’economia tedesca – vincolo che Berlino accettò, ottenendo in cambio la possibilità di agire a livello legislativo (austerity Ue) per neutralizzare il suo diretto concorrente industriale, l’Italia. Oggi, Francia e Germania tornano all’attacco del Belpaese in modo sfrontato, dopo che il governo Conte ha osato innalzare di qualche decimale il deficit 2019.Quel 2,4% è troppo poco, spiega Nino Galloni, per sperare in effetti visibili: il “moltiplicatore” della spesa pubblica (chi più spende meno spende, perché dall’anno seguente l’investimento frutterà 3-4 volte tanto, in termini di Pil) avrebbe bisogno in Italia di un deficit più robusto, almeno il 4-5%, per rilanciare l’economia. Ma quell’esiguo 2,4% basta e avanza a spaventare i padroni dell’Ue, che – a pochi mesi dalle elezioni europee – temono che “cattivo esempio” dell’Italia possa contagiare il resto d’Europa, spingendo altri paesi a rompere le righe e ribellarsi alla camicia di forza (ideologica) dei vincoli del rigore, che servono solo a deprimere l’economia e accelerare il trasferimento delle leve economiche in pochi, grandi gruppi, a spese del sistema nazionale delle aziende. Per contro, la mossa franco-tedesca avrà forse il pregio di aprire gli occhi ancora socchiusi, svelando la reale natura dell’attuale Unione Europea, priva di una Costituzione democratica e gestita da una Commissione autocratica, non eletta dal Parlamento Europeo. La scure sull’Italia agitata da Macron e Merkel è teoricamente una manna, dunque, per la prossima euro-campagna elettorale di Di Maio e in particolare di Salvini: additando il “nemico” esterno, verrà loro più facile giustificare i risultati, finora non esaltanti, del governo gialloverde.La Disunione Europea getta la maschera: se l’Italia non rispetta il patto di stabilità, insieme alle regole europee sui conti pubblici, non avrà più diritto ai fondi dell’Unione Europea. È il ricatto che Emmanuel Macron e Angela Merkel stanno preparando, sintetizza Chiara Sarra sul “Giornale”: è infatti in arrivo all’Eurogruppo (riunione straordinaria a Bruxelles) un’ipotesi di piano congiunto franco-tedesco per creare un bilancio unico dell’Eurozona. Come rivelano il “Financial Times” e la stessa “Repubblica”, che ha avuto accesso alle bozze, la proposta del presidente francese e della cancelliera tedesca prevede che il bilancio, finanziato con i contributi dei singoli paesi e con una “tassa sulle transazioni finanziarie”, punti a «stimolare la crescita attraverso investimenti, ricerca e sviluppo, innovazione e capitale umano, cofinanziando la spesa pubblica». Ma soprattutto, aggiunge il “Giornale”, il documento prevede che siano i ministri delle finanze dell’Eurozona, anzichè la Commissione Europea, a progettare i programmi di investimento in settori come la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Clausola: dovranno essere esclusi dall’accesso ai fondi Ue i paesi che non perseguono «politiche in sintonia con gli obblighi». In altre parole: se non rispetta le “regole europee”, l’Italia «può dire addio ai contributi finanziari».
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Salvate il soldato Trenta: quelle armi sono vitali per l’Italia
«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».Anche se la maggior parte dell’opinione pubblica e molti politici non se ne rendono conto, sostiene Hechich, la situazione nel Mediterraneo andrà incontro a un rapido degrado col pericolo di conflitti violenti: «Secondo alcune analisi, il rischio di venirne coinvolti varia tra il 5 e il 35%». Proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia (non ancora confermata) della fornitura, da parte della Russia, di avanzatissimi missili Kalibr alle milizie libiche di Haftar. Si parla della costruzione di due basi russe nella zona, sotto la copertura di truppe mercenarie del Gruppo Wagner, russo. «I russi hanno smentito, ma una qualche forma di presenza di loro truppe, anche se non così consistente, pare essere confermata». Non è che ci si possa aspettare un attacco russo, «ma la proliferazione di queste armi tra gruppi non statali accresce notevolmente il rischio di un loro lancio, o di un più probabile ricatto di un lancio, e il rischio si accentua ancora di più se c’è la percezione che dall’altra parte non ci siano difese adeguate». Sempre secondo Hechich, il mancato acquisto dei Camm-Er «ci obbligherebbe prima o poi a comperare missili dalle caratteristiche simili tra i nostri concorrenti commerciali, cioè Francia, Regno Unito o Usa, con l’aggravante di incidere sulla bilancia commerciale e di non essere proprietari delle tecnologie, senza dimenticare l’impatto sui valori occupazionali e sul Pil».Sempre a parere dell’analista, il mancato acquisto dei nuovi missili andrebbe anche a incidere sulla possibilità italiana di affiancarsi ai britannici (il Camm-Er è una nostra variante di un missile anglo-italiano) per lo sviluppo del nuovo caccia da superiorità aerea Tempest, destinato a sostituire gli attuali Eurofighter Typhoon. «E visto che l’analogo programma franco-tedesco è blindato, ci costringerebbe ad avere un ruolo subalterno a questi due paesi, tagliandoci fuori da ogni sviluppo industriale tecnologicamente avanzato nel settore, con deleterie ricadute sulle nostre capacità tecnologiche, industriali e di sviluppo economico». Oltretutto, insiste Hechich, la programmazione della politica di difesa necessita di anni, per non dire decenni. Non si improvvisa, e non si riesce a crearla quando c’è un pericolo diretto e la necessità diventa impellente. Da non dimenticare poi le cifre: «L’unico modo attualmente per sostituire il Camm-Er con un missile dalle capacità similari, e parzialmente prodotto in casa, sarebbe quello di riprendere la produzione degli Aster 15. Peccato che questo missile costi il doppio e necessiti di spazio doppio rispetto al Camm-Er».Lo stesso Camm-Er costerebbe all’incirca 500 milioni di euro spalmati in dieci anni, mentre il reddito di cittadinanza (del tutto condivisibile, per Hechich) costa diversi miliardi di euro all’anno. «Il gioco vale la candela? Potrebbe nel futuro la nostra Marina ritrovarsi in difficoltà a causa del mancato sviluppo del Camm-Er o nessuno ci lancerebbe missili?». Sempre Hechich ricorda tre episodi avvenuti nel recente passato: nel 1986 il lancio (controverso) di missili libici verso Lampedusa, nel 2011 il lancio fuori bersaglio di un missile dalla costa libica verso la fregata italiana Bersagliere, e soprattutto l’abbattimento di un G222 in missione umanitaria sui cieli della Bosnia da parte di due missili di fabbricazione sovietica (forse lanciati da forze irregolari croato-bosniache) e la conseguente morte dei quattro membri dell’equipaggio, che sarebbe stata evitata «se fossero stati presenti sistemi di contromisure – non ancora installate, appunto, per problemi di bilancio».L’altro programma a partecipazione italiana che dovrebbe venir sospeso è quello dell’elicottero Nh90, soprattutto nella versione Sh, destinata alla Marina. Parte di questi elicotteri sarebbe dovuta essere consegnata nella versione anti-sommergibile. L’elicottero è uno dei migliori sistemi per difendersi dalle minacce sottomarine, oltre che un mezzo di salvataggio, soccorso e collegamento. La Marina, che aveva trascurato questo aspetto, sta cercando di correre ai ripari, ma le serve tempo. «La mancata consegna di questo mezzo non fa che accentuare questo gap, senza tener conto dei danni sul piano economico e sui livelli occupazionali». Per Hechich, c’è da sperare che il paventato blocco di ordini sia veramente solo temporaneo. «Oltretutto i supposti, immediati risparmi sarebbero in gran parte vanificati dalle penali previste sui contratti già deliberati». Per intanto Leonardo, uno dei principali costruttori dell’elicottero, sta perdendo in Borsa. «Quindi ben si spiegherebbero le lacrime di rabbia all’uscita della Trenta dalla riunione con Di Maio, come citano alcune fonti».Non è tutto: Hechich ricorda anche la questione degli F35, nonché i continui rinvii sulla decisione riguardo opere pubbliche e investimenti in vari settori industriali. Nel Def gli investimenti sono scarsi, e indiscrezioni di stampa «paventano una vendita di industrie pubbliche altamente strategiche, efficienti e renumerative, come Leonardo e Fincantieri». Si tratta di «aziende ad altissima tecnologia, che caratterizzano e rendono prestigioso il settore della grande industria italiana». Abbandonate dallo Stato, diverrebbero «facile preda degli appetiti fagocitatori francesi». Tutto questo, osserva Hechich, lascia più di qualche sospetto sulle reali capacità e competenze dell’attuale ministro dello sviluppo economico. Non erano i D’Alema a svendere aziende come Telecom, capaci di darci indipendenza strategica e tecnologica? «Curioso quindi che un governo detto “sovranista” adotti gli stessi metodi di governi “neoliberisti”, svendendo la nostra sovranità tecnologica in un settore strategico, uno dei pochissimi che ancora ci rimangono».Secondo il leghista Raffaele Volpi, sottosegretario alla difesa, il comparto industriale aerospaziale e della difesa fattura più di 14 miliardi di euro all’anno, pari allo 0,8% del nostro Pil. Tendenzialmente in crescita, è fonte di ricerca e innovazione. «Il settore della difesa – ricorda Volpi – dà occupazione ad oltre 44.000 persone, che salgono a più di 110.000 se si considerano anche indotto e altri impatti indiretti». Non solo: «Le aziende pagano tasse allo Stato per non meno di 4,5 miliardi; perciò, trattare le spese militari come uno spreco di risorse non ha senso». Tutto questo, aggiunge Volpi, senza considerare l’export. Dettaglio non trascurabile, poi, «la sicurezza che deriva al nostro paese dall’essere difeso e dal poter partecipare con credibilità e autorevolezza ad alleanze con altri Stati in una fase storica caratterizzata da diffusa instabilità e pericolo di conflitti». Ogni euro speso per i programmi industriali della difesa, sottolinea Hechich, porta un ritorno di un fattore di circa 2,5. Non è che l’inesperienza di Di Maio lo porti a sottovalutare questi aspetti? Per cui, conclude Hechic: «Vi prego, per chi ne ha la possibilità: salvate il soldato Trenta».«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».
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Moiso: rigore inglese, non basta la Brexit per esser sovrani
In caso di no-deal, la Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi di fronte a gravissime scelte di austerity, “dettate” da dinamiche economico-finanziarie globali. Chi ha votato Brexit, sperando di poter riconquistare la porzione di sovranità pro-quota che spetta ad ogni cittadino di una democrazia, potrebbe ritrovarsi a subire le speculazioni, i dogmi e le imposizioni dei mercati internazionali molto più di quanto non facesse prima. Stanno già preparando il terreno per l’attacco allo stato sociale britannico; l’articolo dell’“Evening Standard” uscito il 30 ottobre ne è una prova, e la graduale privatizzazione del sistema sanitario nazionale ne è l’inizio. Tutto questo mi porta a riflettere sulla battaglia che dobbiamo portare avanti in Europa. Questa dis-Unione Europea non va cambiata, va radicalmente, completamente e letteralmente rivoltata sottosopra. Infatti, se questa dis-Unione Europea mette l’economia neoliberista – e i suoi faziosi indicatori economici – sopra la politica, noi dobbiamo creare una federazione di Stati in cui il popolo sia sovrano e in cui la politica determini le scelte monetarie ed economiche, nell’interesse della collettività.Le critiche a quest dis-Unione Europea sono più che fondate: gode dell’unico Parlamento al mondo senza potere legislativo, ha una Commissione di non-eletti verso la quale non ci può nemmeno essere un voto di sfiducia, e antepone interessi di piccoli gruppi di privati agli interessi della collettività. Addirittura, mi sentirei di dire che questa dis-Unione Europea tradisce i principi su cui si fondano le democrazie liberali, a partire dal famoso contratto sociale e dall’idea, già settecentesca, secondo cui non ci può essere “taxation without representation”. Un superministro dell’economia non eletto dal popolo, di chi farà gli interessi? Nelle istituzioni di questa dis-Unione Europea sembra che ogni Stato europeo abbia interessi particolari, da perseguire in ogni modo. Eppure, con gli altri popoli europei abbiamo molto più in comune di quanto non siamo abituati a pensare. In Europa, più che in ogni altro luogo del pianeta, i diritti dell’uomo hanno trovato vero riconoscimento. È tramite lo stato sociale che, nelle democrazie liberali degli Stati europei, nel dopoguerra, si sono conciliate le libertà individuali con le responsabilità dell’individuo nei confronti della società. È in Europa che abbiamo sviluppato il moderno stato sociale, per permettere a così tante generazioni di godere di pari opportunità e diritti.Quando si parla di quanto i popoli europei siano incompatibili, bisognerebbe confrontarli con le culture dei popoli extra-europei. Non possiamo non apprezzare quanto e cosa ci accomuni. Non possiamo non apprezzare come il popolo europeo abbia messo, per generazioni, il benessere dell’uomo al centro di politica ed economia. È la storia recente, oltre a quella di secoli di sviluppo parallelo, che dovrebbe indicare una base culturale e valoriale più che sufficiente per farci decidere di lottare, insieme ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in Europa, contro quei processi storico-economici che stanno dando al capitale finanziario più valore che alla vita delle persone. Per cambiare questi processi storici – per cambiare la storia – non possiamo pensare di operare su scala nazionale. Non più. Tentare di combattere interessi, processi e dinamiche globali con politiche nazionali, come dice spesso Gioele Magaldi, sarebbe come voler combattere con arco e frecce chi usa missili balistici.Viviamo in un mondo interconnesso e non possiamo far finta di niente. Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e sperare che nessuno ci veda. Piuttosto, dobbiamo organizzare una proposta politica tanto forte e organizzata da poter scardinare le regole neoliberiste che mettono i capitali finanziari sopra il benessere della collettività. Dobbiamo ripristinare il ruolo sovraordinato della politica rispetto l’economia e dobbiamo armarci di strumenti politici che ci consentano di influenzare i processi globali di fronte ai quali le istituzioni nazionali sono oggi impotenti. Per questo abbiamo bisogno di una federazione politica e democratica degli Stati europei. Abbiamo bisogno dei valori, della forza, della credibilità e della spinta innovatrice che solo una federazione di Stati europei può avere; non certo singole nazioni. D’altronde, anche il Regno Unito, tanto ricco e avanzato, oggi si trova in difficoltà per non aver affrontato il vero problema: cambiare l’Europa e usarla nell’interesse del popolo.La Gran Bretagna sembra che uscirà sconfitta in ogni caso: se rimarrà nell’Unione, avallerà questo modello di dis-Unione Europea e dimostrerà che la volontà del popolo non conta, davanti al potere dell’econocrazia neoliberista; se troverà un accordo in stile Norvegia, pagherà, per accedere al mercato unico, più del doppio di quello che pagava prima, senza nemmeno poter partecipare ai processi decisionali delle istituzioni in cui, in qualche modo, prima veniva rappresentata; se uscirà con uno strappo sarà vittima di speculazioni, e il popolo si vedrà strappato quello stato sociale che William Beveridge diede anche al resto d’Europa. Purtroppo, poche persone hanno visto che i burattinai preparavano una storia senza lieto fine, a prescindere dalle decisioni prese lungo il percorso. L’unica via per garantire l’interesse e la sovranità del popolo britannico sarebbe stata quella di scegliere di farsi voce del vento di cambiamento nelle istituzioni europee, e lavorare per una federazione politica degli Stati. Così non è stato per la Gran Bretagna, ma può essere per l’Italia. L’Italia può e deve lottare per la sovranità del popolo europeo.(Marco Moiso, “Per la sovranità dei popoli europei”, dal blog del Movimento Roosevelt del 31 ottobre 2018, movimento di cui Moiso è vicepresidente).In caso di no-deal, la Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi di fronte a gravissime scelte di austerity, “dettate” da dinamiche economico-finanziarie globali. Chi ha votato Brexit, sperando di poter riconquistare la porzione di sovranità pro-quota che spetta ad ogni cittadino di una democrazia, potrebbe ritrovarsi a subire le speculazioni, i dogmi e le imposizioni dei mercati internazionali molto più di quanto non facesse prima. Stanno già preparando il terreno per l’attacco allo stato sociale britannico; l’articolo dell’“Evening Standard” uscito il 30 ottobre ne è una prova, e la graduale privatizzazione del sistema sanitario nazionale ne è l’inizio. Tutto questo mi porta a riflettere sulla battaglia che dobbiamo portare avanti in Europa. Questa dis-Unione Europea non va cambiata, va radicalmente, completamente e letteralmente rivoltata sottosopra. Infatti, se questa dis-Unione Europea mette l’economia neoliberista – e i suoi faziosi indicatori economici – sopra la politica, noi dobbiamo creare una federazione di Stati in cui il popolo sia sovrano e in cui la politica determini le scelte monetarie ed economiche, nell’interesse della collettività.
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Avviso a Di Maio: entriamo nel futuro insieme alla Cina
Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.Chengdu sarà lo snodo centrale della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta che integrerà lo spazio eurasiatico e coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale. Su invito delle autorità cinesi ho partecipato con una delegazione di politici, imprenditori, diplomatici e ricercatori di tutta Europa a un intensissimo programma di dieci giorni tra Pechino e Chengdu. Un vortice di incontri e visite presso istituzioni, imprese innovative, scuole di partito, agenzie internazionali, mirante a stabilire relazioni solide fra la Cina e le personalità che in Europa vogliono comprendere e partecipare al grande impulso della Bri. Gli interlocutori che ho trovato in Cina stanno passando al setaccio ogni novità di ciascun paese europeo e perciò manifestano molta attenzione nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del governo da esso guidato. Questo interesse mi ha aperto molte porte presso gente concreta e desiderosa di capire. A Pechino ho visitato la fabbrica della Beijing Electric Vehicle (Bjev), i concorrenti della più famosa e americana Tesla nella produzione di veicoli elettrici. Ne hanno già prodotto 250mila e puntano a essere leader mondiali del nuovo mercato. Un dirigente Bjev si lascia scappare una battuta: «La Tesla è un costoso giocattolino per ricchi, noi siamo i fornitori di auto elettriche per le masse a prezzi popolari».Con il corrispettivo di 16mila euro, un cittadino della classe media cinese può portarsi a casa una berlina con un’autonomia di quasi 500 km a ogni carica, mentre crescono le infrastrutture che diffondono in mezza Cina i punti di rifornimento dedicati ai veicoli elettrici. Ed è ormai pronto a entrare in produzione un nuovo sistema che è l’uovo di Colombo rispetto ai tempi lunghi delle ricariche, ossia il cambio di batteria presso i punti di rifornimento: anziché aspettare ore per ricaricare, togli la batteria (ormai più piccola, compatta ed estraibile) quando è scarica e la sostituisci ogni volta con una già ricaricata. Solo il tempo ci dirà se davvero milioni di persone passeranno all’auto elettrica, e se questo sia il modello giusto di mobilità. Intanto gli investimenti accelerano e il settore automobilistico cinese nel suo insieme è trainante. In Italia in molti santificano i dirigenti Fiat, ma la storia ci ha già detto che non si sono mai accorti del risveglio dello sterminato mercato cinese. Dovremo tutti essere migliori dei dirigenti Fiat, per i tanti campi dell’economia che non sono irrimediabilmente perduti. L’attimo è ora.Racconterò a parte delle altre imprese ad alta tecnologia che ho visitato a Pechino e nel Sichuan, dei parchi scientifici, delle migliaia di ingegneri che hanno regalato alla optoelettronica cinese la leadership per gli schermi ad altissima definizione, e così via. Mi concentro ora su un dato più politico di questa missione. Ho fatto da portavoce dell’intera delegazione nella serata finale del programma, dove ho pronunciato un discorso durante l’incontro ufficiale con il vicepresidente e responsabile delle Finanze del Sichuan, Ouyang Zehua, e altri dirigenti di questa regione di 91 milioni di abitanti, vasta quanto la Francia. Ouyang è un signore molto dinamico dallo sguardo ironico e curioso che sprizza ottimismo e pragmatismo da tutti i pori, mentre snocciola i risultati economici, e ne ha ben donde: il tasso di crescita del Pil del Sichuan nel 2018 è dell’8,2% in un anno, in aggiunta a una lunga serie storica di dati formidabili. L’orgoglio del dirigente cinese si combina con una cosa molto italiana: la passione per il cibo, la sua varietà, il suo legame con la cultura e il territorio. Il Sichuan è probabilmente l’area del pianeta che condivide di più con l’Italia una precisa caratteristica, ossia la ricchezza dell’assortimento di tradizioni culinarie, con infinite varianti subregionali spesso raffinatissime. Ora che il Sichuan ha ben motivate ambizioni da “ombelico del mondo”, combina questa sua millenaria tradizione gastronomica con un’apertura schietta e curiosa verso altre tradizioni.Il vino è ormai sempre più presente a tavola, e anche i formaggi e altri prodotti agroalimentari europei. Perciò prendete nota e siateci! Non siate come gli Agnelli e i loro manager sempre sopravvalutati! Un ottimo punto di partenza è la Western China International Fair di Chengdu che apre il 20 settembre 2018. Di Maio rappresenterà un’Italia in veste di paese ospite d’onore. I pianificatori della nuova megalopoli, che abbiamo incontrato presso un parco scientifico dove tutto viene programmato come se il videogame Simcity prendesse davvero corpo, ci mostrano con grande orgoglio il gigantesco plastico della Chengdu del 2034. Non ragionano come i palazzinari a corto raggio nostrani, anche se non credo siano meno spregiudicati. Mentre oggi lo sviluppo asimmetrico di Chengdu sembra concentrarsi in mille mostruose lingue di cemento che turbano minacciosamente qualsiasi senso della misura urbanistica da noi conosciuta, per il futuro – un futuro immediato – la cura per la dismisura è un’ulteriore dismisura. Cioè un colossale rimodellamento e ri-bilanciamento dei poli di sviluppo, un investimento-monstre su “scala cinese” in tecnologie verdi, energie rinnovabili, opere idrauliche di rinaturalizzazione del paesaggio.Nel gioco Simcity puoi cambiare il paesaggio con la tempistica degli umani, ma puoi divertirti a usare il “God Mode”, la “modalità di Dio”, e mettere fiumi e laghi dove non c’erano e farlo in tempi rapidissimi. Ed ecco che nella Chengdu reale le aree dedicate a parchi avranno ciascuna dimensioni paragonabili a una grande città italiana, con specchi d’acqua estesi e insenature suggestive. Il nuovo cuore di Chengdu sarà una città nella città, tutta da sviluppare, il nuovo distretto di Tianfu. Si tratta di una città-parco dove si concentreranno le attività commerciali e scientifiche legate alle nuove rotte eurasiatiche. Sarà tutto costruito entro sette anni, avrà una superficie di circa 600 kmq (superiore a quella di Roma entro il Grande Raccordo Anulare), i grattacieli più alti della Cina occidentale e dieci linee di metropolitana distinte dalle altre decine di linee del resto della città di Chengdu, un’enorme stazione ferroviaria che collegherà Chengdu a mezzo mondo, incluse le nuove linee superveloci. Ricordiamo che molte città cinesi si collegheranno entro pochi anni con treni a levitazione che viaggeranno a velocità vicine ai mille km/h.Chengdu ha già un aeroporto da 45 milioni di passeggeri l’anno. Nel 2020 inaugureranno un secondo aeroporto internazionale da sei piste con altri 90 milioni di passeggeri l’anno. Il Sichuan diventerà la meta di un turismo d’affari che non si limiterà a vedere il parco dei panda (a proposito, sono bellissimi!). Sarà anche la base di partenza di una ormai vasta classe media pronta a girare quell’Europa che saprà accoglierla. Non dimentichiamo che a un’ora e mezzo da Chengdu c’è un’altra megalopoli ultramoderna, Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, anche loro parte di una “affluent society” pronta a viaggiare e già in pieno respiro internazionale. Quanti giornalisti e politici italiani si curano di raccontare queste città, dal peso demografico e industriale così cospicuo? Davvero pochi. È davvero così difficile raccontare un mondo così importante per il futuro nostro e dei nostri figli e smarrirlo invece come una traccia muta e indecifrabile? Non è un tantino squilibrata un’informazione che della Cina sa restituire ai cittadini solo il luogo comune dell’involtino primavera (mai visto in tutto il viaggio) o dei negozi di chincaglierie a poco prezzo?È come se di un grande palazzo sontuoso, fresco di lavori e ricco di tesori, si volesse vedere solo lo sgabuzzino delle scope. Troppi giornali italiani sanno vedere solo i bugigattoli della storia, e infatti puzzano di muffa. Sino a poco tempo fa, persino agli occhi di chi in Europa prendeva le decisioni che contano, Chengdu e altre grandi realtà cinesi erano solo dei luoghi remoti, un puntino ignoto sulla cartina dell’Asia. Ma oggi Chengdu e il Sichuan influenzeranno in modo diretto il lavoro di chi in Europa fa le leggi, programma le decisioni economiche e fa impresa, qualsiasi settore voglia considerare. Solo una parte è pronta a questa nuova realtà, mentre dobbiamo esserlo tutti. Ad esempio, vogliamo regalare alla Polonia il ruolo di principale terminale europeo della Bri, accontentandoci delle diramazioni secondarie? Oppure dobbiamo guardare all’Africa, dove la Cina ha innescato un altro gigantesco processo economico? Cioè guardare alla nostra geografia, alla nostra profondità strategica, a dove si collocano la penisola iberica, la Sardegna, la penisola italiana, la Sicilia.Ho chiesto dunque ai dirigenti cinesi se i terminali delle Vie della Seta fossero una pianificazione ormai conclusa, o se fossero aperti ad altre iniziative. «Naturalmente siamo aperti – mi risponde Ouyang – e penso anche che tra gli investimenti in Africa e quelli in Europa ci debba essere una cerniera». Il che corrisponderebbe a chiudere il cerchio. Colgo l’occasione per parlargli – come avevo già fatto con altri dirigenti cinesi – del grande valore pratico e simbolico che avrebbe una rapida ricostruzione congiunta del ponte di Genova con i campioni cinesi delle infrastrutture, una goccia rispetto al mare di cose che si possono fare, ma una goccia importante. Ouyang coglie la portata della proposta, e mi rivela che la prossima settimana ci sarà proprio a Chengdu un concerto dell’orchestra di Genova in memoria delle vittime, nel bellissimo auditorium da poco inaugurato. La cosa mi sorprende e mi fa piacere, forse avevo visto giusto. Facciamo in modo che le buone idee si diffondano, come le emozioni della musica.(Pino Cabras, “Spoiler cinese per Di Maio”, da “Megachip” del 19 settembre 2018. Condirettore di “Megachip”, alle ultime elezioni politiche Cabras è stato eletto deputato 5 Stelle al collegio uninominale Sardegna 3 – Carbonia).Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.
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Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
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Meno e meglio: Piemonte, nascono le comunità energetiche
Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.Le comunità energetiche, alle quali possono partecipare soggetti sia pubblici che privati, possono acquisire e mantenere la qualifica di soggetti produttori di energia se annualmente la quota dell’energia prodotta destinata all’autoconsumo da parte dei membri non è inferiore al 70% del totale. La Regione, attraverso futuri incentivi ad hoc, si impegna a sostenere finanziariamente la fase di costituzione delle comunità energetiche, le quali potranno anche stipulare delle convenzioni con Arera (autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), al fine di ottimizzare la gestione e l’utilizzo delle reti di energia. «Il Piemonte, prima Regione italiana a dotarsi di una legge di questo tipo, fa un passo importante nella direzione dell’autosufficienza energetica e della costruzione di un nuovo modello di cooperazione territoriale virtuosa», commenta Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta: «Una scelta importante che speriamo sia seguita da altre Regioni ma soprattutto dal governo nazionale, che invitiamo a recepire subito la direttiva europea che verrà approvata ad ottobre su “prosumer” e comunità dell’energia, per evitare di perdere due anni e aprire subito opportunità nei territori e dar così forza all’autoproduzione e alla distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili».«La generazione diffusa di energia e un’autonoma efficienza energetica – prosegue Dovana – contribuiscono infatti alla riduzione del consumo di fonti fossili, delle emissioni inquinanti e climalteranti, ad un miglior utilizzo delle infrastrutture, alla riduzione della dipendenza energetica, alla riduzione delle perdite di rete e ad un’economia di scala». Il tema dell’autoproduzione e della distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili è al centro dell’interesse generale per le opportunità che si stanno aprendo con l’innovazione nella gestione energetica, grazie all’efficienza e alla riduzione dei costi delle tecnologie e delle reti. Anche in Italia questa prospettiva avrebbe grandi potenzialità perché, in questa forma, le fonti rinnovabili anche senza incentivi diretti, potrebbero offrire un’adeguata risposta alla domanda di elettricità e calore negli edifici e nei territori, creando valore e nuova occupazione.Il Piemonte dunque, prima Regione italiana, cerca di intercettare questa opportunità su ampia scala dopo anni in cui sul territorio, in forma sperimentale, è stato portato avanti ad esempio il progetto di Comunità Energetiche del Pinerolese promosso come capofila dal Comune di Cantalupa, con un piano di azione orientato all’autosufficienza energetica e volto alla costruzione di una comunità energetica locale. Ora questo tipo di esperienze potrà uscire dalla fase sperimentale e avere un’ampia diffusione. «La nuova legge regionale va nella direzione da noi auspicata – aggiunge Dovana – anche se avremmo preferito che gli obiettivi e le azioni che vengono previsti per le future comunità energetiche fossero meno generici e prevedessero inscindibilmente la riduzione del consumo di fonti fossili associata con la riduzione delle emissioni inquinanti e climalteranti. Chiediamo quindi alla giunta regionale, nella predisposizione dei provvedimenti attuativi della legge appena approvata, di stabilire regole per evitare che l’incentivo alle comunità energetiche diventi un sussidio acritico alla realizzazione di qualsiasi tipo di centrale a biomassa».(“In Piemonte nascono le comunità energetiche”, da “Il Cambiamento” del 17 agosto 2018).Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.
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Mybank: credito alle Pmi in tempo reale, grazie al digitale
La Disruption non è futurismo, è realtà e soprattutto può essere il più potente moltiplicatore economico per l’Italia dal baby boom a oggi, ma molto più formidabile. L’Italia deve la sua ricchezza al 78% alle piccole e medie imprese (Pmi), infatti ne abbiamo 3.940.000, contro le sole 1.822.000 della Germania e le 2.387.000 della Francia. In questi numeri sta una delle principali ragioni per cui la catastrofe bancaria del 2008 ha sproporzionatamente penalizzato l’Italia rispetto ai due paesi del nord. Con la precipitosa stretta creditizia delle banche in tutta Europa, chi c’è andato di mezzo più di chiunque sono le Pmi, assai più delle grandi imprese alle quali le banche hanno di fatto continuato a prestare almeno il minimo. Per cui la nazione col maggior numero di Pmi è stata, per pura aritmetica, quella che ha subito maggiori sofferenze, cioè noi, e parliamo soprattutto di posti di lavoro svaniti o di assunzioni impossibili da fare, ma anche di fallimenti forzati. Aggiungo per onestà intellettuale che è verissimo che poi le agghiaccianti riforme del lavoro dei governi tecnici da Monti in poi e del Pd, ma anche la miopia di tantissimi imprenditori che hanno sfruttato all’osso quelle politiche ‘lavoricide’, hanno peggiorato le cose.Purtroppo da allora l’essenziale flusso creditizio da banche a Pmi non si è più risollevato. Ecco la situazione all’anno scorso riassunta dai dati di Bankitalia elaborati dal centro studi Cgia: il 10% d’imprese che costituisce le grandi aziende italiane beneficia dell’80% dei crediti bancari totali. Alle Pmi, che sono oltre mille volte più numerose, va il rimanente 20%. Questo 10% di ‘grandi’ e meglio finanziate imprese non è affatto un esemplare di affidabilità creditizia, al contrario: sono le responsabili dell’81% delle insolvenze bancarie nazionali, cioè quell’oceano di cediti ‘marci’ che fanno delle banche italiane le più a rischio oggi al mondo. Eppure le banche continuano a negare crediti più alle Pmi che alle ‘grandi’. C’è stata una lieve ripresa della fiducia e quindi dell’erogazione di crediti da parte delle banche, che si è materializzata in un +0,3% in media in Italia dal 2016 al 2017. Ma anche qui l’ingiustizia è palese: all’interno di quella misera crescita, alle imprese medio-grandi va lo 0,6% mentre le piccole e micro imprese continuano a soffrire di sempre meno crediti.Sbloccare questo disastro – che, ribadisco, si trasforma poi in fallimenti forzati (quanti hanno chiuso mentre aspettavano pagamenti solo perché le banche non gli hanno concesso un prestito a breve), licenziamenti o non assunzioni – non è semplice. Il motivo primario l’ho accennato sopra: le banche italiane sono le più sofferenti al mondo oggi, con in pancia quasi 300 miliardi di crediti inesigibili, cioè ‘marci’, chiamati Npls. I lettori devono immaginare che, al di là di tutte le porcherie che di certo ’ste banche fanno fra corruzione politica e favoritismi, i succitati esplosivi Npls sono il motivo per cui i loro dirigenti hanno oggi il terrore di prestare ad aziende la cui affidabilità creditizia possa andare in fumo dopo pochi mesi o anni. E qui sono cruciali i mezzi che una banca ha per determinare con accuratezza e senza grandi ingiustizie se l’imprenditore bisognoso sia affidabile o meno. E qui la Disruption delle nuove tecnologie come l’Artificial Intelligence (Ai) e Machine Learning può fare una differenza enorme. Cioè: da una parte scremare i falsi affidabili, e dall’altra recuperare tanti condannati che invece affidabili erano eccome, ma non solo, incoraggiare prestiti più sostanziosi a molti. Il tutto si traduce in semplificazione, tutela a 360 gradi, e sviluppo d’impresa con posti di lavoro.Mai sentito parlare di Mybank? Sono cinesi, ed è il primo istituto di credito al mondo che lavora interamente sulla Cloud, senza filiali, e che con soli 400 impiegati serve milioni di Pmi cinesi. A Mybank si sono letti il rapporto della Banca Mondiale “Toward Universal Financial Inclusion, 2017-2018”, dove fra le altre cose sono citate proprio le lungaggini e le complessità delle indagini bancarie per stabilire se un’azienda ha affidabilità creditizia come uno dei problemi più distruttivi. Infatti da una parte la banca oggi non riesce ad avere accesso a un numero sufficiente di dati sul cliente per davvero capire se è affidabile, oppure analizza dati che potrebbero non essere poi così significativi sul grado di solvibilità come essa crede; dall’altra le lungaggini cartacee, gli sfinenti colloqui d’ufficio, e tempi d’attesa si assommano in ritardi che spesso sono fatali all’imprenditore piccolo-medio. La soluzione cinese di Mybank si articola su tre fronti: A) Poggiare su una società dove la digitalizzazione rende la maggior quantità possibile di dati raggiungibili all’istante da chi legalmente li richiede (Big Data); B) Usare una Artificial Intelligence specifica per il risk management al fine di determinare con la maggior sicurezza possibile l’affidabilità creditizia dell’imprenditore sulla base dei dati di cui al punto precedente; C) Rendere disponibili alle Pmi i sevizi di credito sulla Cloud, quindi accessibili dagli smart-phones senza muoversi dal lavoro.Sono già sette milioni i piccoli-medi imprenditori cinesi che, iniziando da C), hanno fatto richiesta di un prestito presso Mybank da una App sul cellulare in un tempo massimo di 3 minuti. L’istituto di credito ha, ad oggi, erogato in questo modo 110 miliardi di dollari di finanziamenti. L’Ai di Mybank prende in esame la richiesta e in media la risposta richiede 1 secondo, senza alcun intervento umano. Il tasso di Npls finora accumulato da Mybank è sotto all’1%. E’ facile anche per i non addetti ai lavori immaginare quale espansione di Pil italiano – in termini di occupazione, di ampliamento di milioni di micro-piccole-medie aziende, di nuove “ventures” nelle startup, di salvataggio d’imprese solide ma soffocate da ritardi nei pagamenti, ecc. – un rilassamento delle ansie bancarie nella concessione di crediti può portare grazie a queste tecnologie, col superamento dopo dieci anni della disastrosa stretta creditizia.Il mio realismo ora m’impone di specificare che la Cina è, rispetto all’Italia, su un altro pianeta per ciò che riguarda il cosiddetto Inclusive Digital Financial System, cioè il sistema finanziario mirato all’inclusione delle micro-piccole-medie aziende e che corre sul digitale della maggior mole di dati disponibili (Big Data). Ma questo è precisamente spunto per una delle riforme urgenti che il ministro del lavoro Di Maio deve fare, e che mi permetto di sollecitagli. L’altra nota fondamentale riguarda le regolamentazioni bancarie: chiaramente una Disruption di questo livello richiede quello che proprio i cinesi chiamano “un ruolo di generoso sostegno” da parte dei regolamentatori. Qui purtroppo l’Italia non più sovrana, e incapsulata nei meandri dei regolamenti bancari Ue, ha le mani legate. Ma quando si parla di Disruption l’oppressiva Bruxelles ha già dato segni di rilassamento (a partire dalla sua Europe 2020 Strategy – The Digital Agenda), per cui, ministro, per il bene del paese si metta al lavoro. Questa è innovazione, cioè Disruption nella sua migliore essenza, cioè: nessun futurismo, concretezza nel tessuto produttivo e d’impiego più forte che l’Italia possiede e con cui ha primeggiato nel mondo.(Paolo Barnard, “Disruption e credito alle piccole-medie imprese: creare lavoro – ministro, per lei”, dal blog di Barnard del 14 luglio 2018).La Disruption non è futurismo, è realtà e soprattutto può essere il più potente moltiplicatore economico per l’Italia dal baby boom a oggi, ma molto più formidabile. L’Italia deve la sua ricchezza al 78% alle piccole e medie imprese (Pmi), infatti ne abbiamo 3.940.000, contro le sole 1.822.000 della Germania e le 2.387.000 della Francia. In questi numeri sta una delle principali ragioni per cui la catastrofe bancaria del 2008 ha sproporzionatamente penalizzato l’Italia rispetto ai due paesi del nord. Con la precipitosa stretta creditizia delle banche in tutta Europa, chi c’è andato di mezzo più di chiunque sono le Pmi, assai più delle grandi imprese alle quali le banche hanno di fatto continuato a prestare almeno il minimo. Per cui la nazione col maggior numero di Pmi è stata, per pura aritmetica, quella che ha subito maggiori sofferenze, cioè noi, e parliamo soprattutto di posti di lavoro svaniti o di assunzioni impossibili da fare, ma anche di fallimenti forzati. Aggiungo per onestà intellettuale che è verissimo che poi le agghiaccianti riforme del lavoro dei governi tecnici da Monti in poi e del Pd, ma anche la miopia di tantissimi imprenditori che hanno sfruttato all’osso quelle politiche ‘lavoricide’, hanno peggiorato le cose.
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».