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Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
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Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
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La nutrizionista: scordatevi la carne, se volete star bene
Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.E poi grande attenzione alla carne tutta in generale e, soprattutto, ai salumi. I cibi di origine animale fanno male e ormai di evidenze scientifiche a confermarlo ce ne sono in abbondanza. Poi che ci siano in ballo altri interessi è fuori discussione: quelli dell’industria della carne, ovviamente, che si è affrettata fin da subito a negare persino l’evidenza proveniente dall’Oms, ma anche quelli dell’economia italiana, del mercato, delle case farmaceutiche. Non si può lasciare che queste informazioni spaventino la popolazione, perché l’unico rischio che sta a cuore a certi settori è quello che calino i consumi, non certo quello per la salute umana. Per questo sia io che la Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana che molti colleghi esortiamo tutti i consumatori a informarsi per non assistere impotenti a questa nuova mistificazione, che vede ancora la salute sottomessa al profitto, esattamente come già accaduto per il fumo di sigaretta. Ci dicevano che bastava fumarla con il filtro, proprio come ci dicono che basta consumare carne italiana, e stare tranquilli… come se potesse fare differenza il dove la carne è prodotta.E’ imperativo non fidarsi delle rassicurazioni dei produttori, visto il loro palese conflitto di interessi, e occuparsi invece in prima persona della propria salute. Il problema non è la carne in sé ma il metodo di lavorazione? La cosa vera è che l’Europa e l’Italia sulla carne hanno controlli più stretti, più precisi e più efficaci. Per questo siamo maggiormente tutelati. Ma ciò non significa che, in Italia come altrove, la carne non sviluppi sostanze cancerogene dannose e, soprattutto, non significa che la frequenza di consumo, più che la provenienza, non siano incisive. E poi sfido qualsiasi consumatore di carne a vedere con certezza da dove la carne è arrivata, dove è stata prodotta o lavorata… C’è tantissima ignoranza, disinteresse e disinformazione in merito. Interessi economici, gola e abitudini alimentari scorrette delle persone credo che siano i fattori maggiori. Sicuramente la non voglia di prendere coscienza, di cambiare per se stessi, per la propria salute ma anche per la tutela degli animali e del pianeta. L’industria della carne e dei derivati è uno dei maggiori inquinanti in ambito ambientale.In tanti sostengono che è normale, invece, che sia così. Che l’uomo è da sempre onnivoro e che i nostri nonni sono arrivati a novant’anni grazie a questa alimentazione. Rispondo che non è assolutamente così. L’uomo nasce frugivoro, non onnivoro. Nasce raccoglitore di frutta, bacche, radici, ortaggi. La carne la mangiava quando riusciva a raggiungere, catturare e uccidere un animale. Quindi sicuramente non spesso e comunque con un grande dispendio calorico. Anche i nostri nonni mangiavano carne molto raramente e quella che mangiavano non era di certo prodotta come al giorno d’oggi. Un tempo l’animale era libero, si cibava di alimenti sani, non era costretto a vivere in allevamenti intensivi, a cibarsi artificialmente e ad essere imbottito di sostanze chimiche. Dopo la notizia dell’Oms cambierà qualcosa?Di certo questi dati hanno dato una bella scoccata all’industria della carne. Sempre più persone oggi, vuoi per paura o per maggiore consapevolezza, stanno iniziando a informarsi. Sempre più gente decide ogni giorno di intraprendere una dieta a base vegetale perché più sana, meno costosa, più etica o perché meno dannosa per l’ambiente. Ormai, per fortuna, i prodotti vegani sono ovunque e anche la ristorazione tradizionale si sta adeguando: stiamo facendo passi da gigante. Sono totalmente convinta che l’alimentazione del futuro sia quella a base vegetale. L’unica alimentazione in grado di migliorare lo stato di salute delle persone, del pianeta e degli animali è quella vegana.(Michela De Petris, dichiarazioni rilasciate a Elena Tioli per l’intervista “L’unico futuro possibile è quello senza carne”, pubblicata da “Il Cambiamento” il 13 novembre 2015. La dottoressa De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia, è membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana e dell’Icea, Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale. Già ricercatrice in studi di intervento alimentare presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, è stata docente di nutrizione clinica in diversi corsi in Lombardia).Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.
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Craig Roberts: schiavi e padroni (di tutto, anche degli Stati)
Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.Questo obiettivo viene raggiunto inquadrando ogni intromissione nei profitti aziendali da parte di leggi esistenti o potenziali come una limitazione agli affari, per la quale le aziende possono intentare causa ai governi “sovrani”. Per esempio il divieto in Francia ed altre nazioni riguardo gli Ogm verrebbe annullato dal Ttip. La democrazia viene semplicemente sostituita dalle regole aziendali. Avrei voluto parlare di più di tutto questo. Comunque altri, come Chris Hedges, stanno facendo un buon lavoro per spiegare la stretta del potere che sta eliminando i governi rappresentativi. Le grandi aziende comprano il potere a basso prezzo. Hanno comprato la Camera dei Rappresentanti negli Usa per meno di 200 milioni di dollari. Questo è quanto è stato dato al Congresso per proseguire con “Fast Track”, che permette al braccio delle corporation, il Rappresentante del Commercio Usa, di negoziare segretamente senza spinta o supervisione da parte del Congresso stesso.In altre parole un agente delle grandi aziende si relaziona con altri suoi simili nelle nazioni che compromettono la “partnership” e questo gruppetto di gente profumatamente prezzolata scrive accordi che soppiantano la legge a favore degli interessi aziendali. Nessuna delle persone coinvolte rappresenta gli interessi delle nazioni o delle loro popolazioni. I governi delle nazioni aderenti alla partnership possono solo votare sì o no all’accordo… e verranno pagati profumatamente per votare nel modo giusto. Una volta che queste partnership sono attive, i governi stessi sono come privatizzati. Legislature, presidenti, primi ministri e giudici non hanno più alcuna ragione di esistere. I tribunali aziendali decidono le leggi e il funzionamento delle corti.È probabile che questa “partnership” avranno conseguenze indesiderate. Per esempio, Russia e Cina non fanno parte degli accordi, così come Iran, Brasile, India e Sud Africa, benchè, separatamente, il governo indiano sembra essere stato comprato dai grandi capitali agricoli statunitensi e sia sulla strada della distruzione del proprio sistema autosufficiente di produzione del cibo. Questa nazioni saranno depositarie della sovranità nazionale e del controllo pubblico, mentre libertà e democrazia saranno estinte in Occidente e presso i suoi vassalli asiatici. Rivoluzioni violente per tutto l’Occidente e la completa eliminazione dell’“un per cento” è un altro scenario possibile. Ad esempio, una volta che la popolazione francese avrà scoperto di aver perso il controllo sulla propria dieta a vantaggio della Monsanto e dell’agribusiness statunitense, i membri del governo francese che hanno condotto il paese verso una prigione alimentare di cibo tossico probabilmente verranno fatti a pezzi per le strade. Eventi di questo tipo sono possibili in Occidente solo se le popolazioni scopriranno di aver totalmente perso il controllo su ogni aspetto della loro vita e che l’unica scelta è tra la rivoluzione o la morte.(Paul Craig Roberts, “La ri-schiavizzazione delle genti occidentali”, da “Counterpunch” del 10 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
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Pace con la Cina e fine della crisi, o Terza Guerra Mondiale
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migrati, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.Proprio il doping finanziario dell’economia ha tenuto in vita i consumi negli Usa, in Europa e in Giappone, nonostante «salari reali calanti dall’inizio degli anni Settanta», e questo «grazie alla speculazione di Borsa e allo sviluppo del credito al consumo». Sempre la finanziarizzazione ha sorretto industrie decotte in settori “maturi”, come quello dell’auto, e alle stesse aziende ha offerto la possibilità di fare profitti attraverso la speculazione di Borsa. La crisi esplosa nel 2007 ha rotto il giocattolo, «ma non è riuscita a rilanciare l’accumulazione di capitale su scala globale». Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, «e più in particolare l’Eurozona», si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi, precisa Giacché nella sua relazione presentata ad un recente convegno romano sulla Cina post-crisi. «Nel mondo ci sono decine di milioni di disoccupati in più, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, e quindi salari mancanti per oltre 1,2 trilioni di dollari, che gravano sulla domanda globale», spiega Giacché. «Il debito complessivo, al contrario, è cresciuto di 57 trilioni di dollari dal 2007», e questo «sia nei paesi a capitalismo maturo, sia nelle economie emergenti, Cina inclusa».Nei paesi più avanzati, è calato il debito privato ma in compenso è molto cresciuto il debito pubblico, a causa della enorme “socializzazione delle perdite” conseguente alla crisi: «Gli Stati hanno salvato a proprie spese dalla bancarotta il sistema finanziario e in qualche caso anche buona parte del settore manifatturiero». Dopo la crisi, le banche centrali di Usa e Giappone (e poi anche Ue) hanno inondato il mondo di liquidità, portando a zero i tassi d’interesse e acquistando massicciamente asset finanziari sul mercato. La Federal Reserve ha comprato titoli di Stato Usa e obbligazioni private per 4 trilioni di dollari, continua Giacché. E nell’Eurozona, oggi, i riacquisti di obbligazioni da parte della Bce sono superiori alle nuove emissioni. «Questo ha sostenuto i mercati azionari e quelli dei titoli di Stato», tuttavia «non ha fatto realmente ripartire la crescita». Una constatazione che ha indotto alcuni studiosi, tra cui il Premio Nobel Paul Krugman e un peso massimo dell’establishment di Washington, l’economista Lawrence Summers, a rispolverare il concetto di “stagnazione secolare”, nato durante la crisi degli anni Trenta.«Poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero». E si temono nuove bolle finanziarie. Secondo Krugman, «periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro». Quel modello è in crisi, dunque, ma i paesi non sanno rinunciarvi. Questo però si scontra con due problemi, osserva Giacché: «Il primo è la sproporzione crescente tra liquidità immessa nel mercato da parte delle banche centrali e risultati in termini di crescita», sproporzione «accompagnata dal rischio di alimentare instabilità finanziaria». Il secondo problema «consiste nel fatto che le politiche monetarie espansive (convenzionali e non) delle principali banche centrali occidentali sono di fatto pagate dai paesi emergenti, su cui le valute internazionali di riserva (e in particolare il dollaro) esercitano un diritto di signoraggio».In altre parole, «le manovre monetarie espansive del centro capitalistico sono pagate dalla periferia». Ovvero: «Espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riserva scaricano infatti il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperare quelle valute per gli scambi internazionali». Inoltre, continua Giacché, rendendo negativi i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, il costo dell’operazione viene scaricato su chi li ha comprati (come è noto, la Cina ha molti titoli di Stato americani in portafoglio). Secondo Pingfan Hong, dell’Onu, qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebbero stati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo «rappresenta un forte incentivo al superamento dell’attuale ordine monetario mondiale», fondato sulla valuta statunitense.L’obiettivo strategico dei paesi emergenti, dunque, è oggi quello chiarito in anticipo dall’agenzia cinese “Xinhua” già nel 2013: creare “una nuova valuta di riserva internazionale che rimpiazzi quella attualmente dominante, cioè il dollaro”. Obiettivo oggi perseguito costruendo progressivamente un’alternativa concreta all’uso del dollaro, dell’euro e dello yen nelle transazioni internazionali. «Questo sta già avvenendo: attraverso accordi bilaterali, un numero sempre maggiore di paesi ha stipulato con la Cina contratti in base ai quali le transazioni commerciali vengono regolate non più in dollari, ma in yuan. Ed è precisamente su questa base che fin dall’ottobre 2013 lo yuan ha superato l’euro e lo yen nel Trade Finance a livello internazionale, divenendo la seconda valuta mondiale in tale ambito».La richiesta di ammissione dello yuan alle monete del paniere Fmi rientra nella medesima strategia, aggiunge Giacché. Sulla stessa linea, la creazione di nuove banche multilaterali di sviluppo, dalla Banca dei Brics e all’Aiib. Prima missione: costruire infrastrutture finanziarie incentrate sui Brics «e non più sulla triade Europa-Stati Uniti-Giappone», e quindi «in grado di assecondare la transizione a un ordine monetario più bilanciato». L’altro obiettivo, enunciato due anni fa da Justin Yifu Lin nel saggio “Against the Consensus”, è quello di colmare il gap infrastrutturale fisico dei paesi emergenti, eliminando colli di bottiglia dello sviluppo e sbloccando così importanti riserve di crescita mondiale. «È importante notare che di questa crescita beneficerebbero sia i paesi emergenti (com’è ovvio), sia i paesi a capitalismo maturo (in grado di fornire oggi macchinari, domani beni di consumo ai mercati con migliore potenziale del mondo)». Per Giacché, «questa strategia per il rilancio dell’accumulazione di capitale su scala globale è l’unica vera alternativa oggi in campo, per uscire dalla crisi, alla riproposizione del modello imperniato sul capitale produttivo d’interesse e quindi sull’incremento esponenziale del capitale fittizio».Se ci fermiamo sulle più importanti infrastrutture ipotizzate, ossia la Via della Seta (terrestre e marittima), vediamo che «hanno un’implicazione geopolitica fondamentale: ossia l’avvicinamento di Europa ed Asia (e in prospettiva, forse, addirittura la creazione di un blocco eurasiatico)». Oggi, continua Giacché nella sua analisi, a questo avvicinamento si oppone non soltanto la carenza di infrastrutture di trasporto adeguate, ma anche l’“arco di instabilità” che destabilizza Medio Oriente e Asia Centrale, interrompendo in più punti entrambi i tracciati. «Questo dato di fatto ci offre una interessante lettura, non “energetica”, della situazione mediorientale». E «ci deve preoccupare, soprattutto in riferimento ad alcuni enunciati di Lawrence Summers nel contesto della sua ripresa della teoria della “secular stagnation”». Chi lavora per congelare il mondo in questa stagnazione infinita? L’Occidente, che prova ancora a «puntellare il modello di crescita precedente la crisi». Solito metodo: per contrastare il crollo dei profitti, si perpetua «l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo».Lo stesso Summers accenna anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita, citando Alvin Hansen che enunciò «il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale». Per Summers «è senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata». Un “evento esogeno”? Sì, e così esplosivo da «aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale». Testualmente: «Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi». Un “evento esogeno” chiamato Terza Guerra Mondiale?«Se prendiamo sul serio queste affermazioni, e io credo si debba farlo – dice Giacché – quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Medio Oriente non è una recrudescenza di tribalismo islamico contro la “moderna civiltà occidentale”, e quanto avviene più complessivamente nel mondo non è l’emergere di presunti nuovi imperialismi contro i vecchi poteri capitalistici». Sul tavolo ci sono solo due opzioni: il modello di sviluppo multilaterale proposto dalla Cina, col rilancio della crescita dell’economia reale attraverso investimenti, oppure il modello di crescita solo finanziaria basato sul capitale d’interesse, e cioè «sul perpetuarsi di un signoraggio antistorico» che include «la difesa di vecchie rendite di posizione attraverso la destabilizzazione ora, e domani forse la guerra». E’ Proprio qui, conclude Giacché, che «si gioca oggi la partita – dall’esito tutt’altro che deciso – tra progresso e regressione».L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migranti, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
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Volkswagen? Robetta: Gm fece sparire i tram dagli Usa
Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».In uno scandalo di portata più grande, cinquant’anni fa, ricorda Engler in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Come Chisciotte”, erano emerse informazioni che «coinvolgevano le compagnie di automobili in un complotto, con lo scopo di mantenere la popolazione sotto la coltre di una nebbia tossica». Il “complotto dello smog” è stato rivelato nel 1968, quando il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha archiviato un caso di antitrust contro le “tre grandi”, accusate di collusione nel celare l’installazione di marmitte catalitiche e altre tecnologie per ridurre l’inquinamento. A partire dal 1953, disse il Dipartimento di Giustizia, «i difensori e i co-cospiratori sono stati coinvolti in un accordo e complotto irragionevole per la limitazione della suddetta libera concorrenza e commercio nell’equipaggiamento di controllo delle emissioni inquinanti presente nel motore dei veicoli». Per acquietare le critiche montanti sull’inquinamento dell’aria generato dalle automobili, General Motors, Ford e Chrysler (insieme all’Ama, Automobile Manufacturers Association), trovarono un accordo proprio nel 1953 per la ricerca congiunta sulle tecnologie per ridurre le emissioni inquinanti. «I produttori di automobili hanno asserito che la loro alleanza era determinata dall’interesse per la salute pubblica. Non è stato così».Col passare del tempo, continua Engler, è emersa l’evidenza che le Tre Grandi si erano in realtà unite per rinviare l’installazione dei costosi dispositivi anti-inquinamento. Nel libro “Taken for a Ride”, Jack Doyle scrive che «i produttori di automobili, tramite Ama, hanno complottato non per competere nella ricerca, sviluppo, produzione e installazione dei dispositivi» per il controllo dell’inquinamento. In realtà «hanno fatto, congiuntamente, tutto ciò che era in loro potere per ritardare tale ricerca, sviluppo, produzione e installazione», imbrogliando i consumatori. «Ma lo scandalo di portata ancora più grande, nell’ambito delle automobili, è stato di molto peggiore dell’alleanza dello smog», scrive Engler. «È stato un complotto che ha mutato l’aspetto dei paesaggi urbani in tutto il Nord America». Il capo di General Motors, Alfred Sloan, già nel 1922 aveva creato un gruppo di lavoro con l’incarico di «minare e sostituire il tram elettrico». La prima azione del gruppo fu il lancio di una linea di autobus che, a Los Angeles, arrivava un minuto prima della vettura elettrica. Risultato: la linea dei tram è stata ben presto chiusa. «Al tempo vi erano centinaia di linee tramviarie a Los Angeles, così il caso della chiusura di una di esse non si è rivelato particolarmente degno di nota. Ma ciò è stato foriero di cose a venire».All’inizio degli anni ’20 si assisteva al boom dell’industria tramviaria, ricorda lo scrittore canadese. C’erano 1.200 tra compagnie tramviarie e di treni interurbani, con 29.000 miglia di percorso. Negli anni migliori si superavano i 15 miliardi di passeggeri. Più di mille miglia di percorso per i tram si intersecavano nella sola area di Los Angeles, portando ogni giorno al lavoro la maggior parte delle persone. Ma la concorrenza motorizzata stava crescendo: il numero di auto su strada ha raggiuse quota 20 milioni negli anni ’20. In questo periodo così cruciale nella storia del traffico, «General Motors era intenta nell’eliminazione della concorrenza». Offrì ai politici municipali delle Cadillac gratis, «affinché votassero la condotta della compagnia». Fece pressioni anche sulle banche nelle piccole comunità, «in modo tale da mettere alla fame le compagnie locali che finanziavano i tram». E in seguito fu stato reso disponibile un credito agevolato per le compagnie tramviarie che sostituivano i loro percorsi con autobus di General Motors. Nel 1932, l’azienda fondò l’Ucmt, United Cities Motor Transportation, per l’acquisto di compagnie tramviarie in aree urbane e la loro conversione in linee per autobus. Percorsi rivoluzionati, cavi aerei rimossi. A conversione completata, «la Ucmt ha rivenduto le nuove reti di autobus, a condizione che non venissero riconvertite a tram».Nel relativo anonimato di Galesburg nell’Illinois, continua Engler, la stessa Ucmt fece la sua prima acquisizione di controllo nel 1933. «Muovendosi rapidamente, aveva già smantellato le reti tramviarie in tre centri urbani, prima di ricevere il richiamo ufficiale dell’American Transit Association». Dopo il richiamo ufficiale nel 1935, General Motors sciolse la Ucmt. Ma «non ci è voluto molto prima che le sue attività anti-tram venissero ripristinate e raddoppiate». General Motors e soci «hanno sviluppato un network di organizzazioni per il contatto con la clientela». Nel ‘36, Gm si è unita a Greyhound per formare il gruppo National City Lines; nel 1938 ambedue collaborarono con la Standard Oil della California per creare la Pacific City Lines; nel 1939 altre due compagnie, Phillips Petroleum e Mack Truck, si unirono alla National City Lines. Infine, American City Lines è stata creata nel 1943 per focalizzarsi sulle città più grandi. Più difficile la penetrazione di Gm nelle grandi città: «Nelle aree urbane più grandi le linee dei tram erano spesso di proprietà delle compagnie elettriche, le quali con i guadagni della vendita dell’energia elettrica, hanno potenziato le rotaie».Le compagnie elettriche, spiega Engler, beneficiarono di un accantonamento fiscale che permise loro di assorbire i deficit dei tram, tramite tasse più basse. Ma la cosa non sfuggì agli strateghi di Gm, prontissimi come sempre a premere sui politici per promuovere i propri sacri interessi: «Bloccata da quest’accordo di proprietà dell’elettricità per i tram, all’inizio degli ’30 General Motors ha prodotto una quantità di dossier per il Congresso, sottolineando la mancanza di entrate erariali che ne è risultata». Come prevedibile, «la strategia di General Motors si è rivelata un successo». Il Public Utility Holding Company Act del 1935 «ha reso estremamente difficile per le compagnie energetiche possedere le linee dei tram», e così hanno iniziato a venderle. «Diciotto mesi dopo, General Motors ha fatto a pezzi 90 miglia di rete tramviaria a Manhattan. Dopo aver trasformato con successo il sistema tramviario di New York, General Motors e i suoi amici intimi si sono spostati a Tulsa, Philadelphia, Montgomery, Cedar Rapids, El Paso, Baltimora, Chicago e Los Angeles. Detto fatto, un centinaio di reti elettriche di trasporto in 45 città sono state fatte a pezzi, convertite e rivendute». Verso la metà degli anni ’50, quasi il 90% della struttura elettrica dei tram negli Stati Uniti era stata liquidata.«I difensori di General Motors negano che qualsiasi complotto abbia avuto luogo», scrive Engler. Tuttavia i fatti sono schiaccianti: come ha evidenzato Edwin Black nel libro “Internal Combustion”, General Motors fu condannata dal Dipartimento di Giustizia, dal Senato e dai tribunali «per pratiche anti-trust che erano parte di questo complotto internazionale». In una sezione dell’accusa del 1947 si legge che i difensori furono «coinvolti coscienziosamente e di continuo in un accordo sleale e illecito», nonché «in un complotto per l’acquisizione di un reale interesse finanziario in una parte effettiva delle compagnie che forniscono il servizio di trasporto locale in varie città», per «eliminare ed escludere la concorrenza nella vendita degli autobus, dei derivati del petrolio, dei pneumatici e delle camere d’aria alle compagnie locali di trasporto». Il verdetto fu di colpevolezza. «Tuttavia, la punizione per aver complottato per distruggere un modello di traffico di massa è ammontata a una multa di 5.000 dollari: non certo un deterrente, per una compagnia che vale miliardi di dollari».Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».
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Pasolini, spentosi stanotte nel suo letto a 93 anni
A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.Da “Ragazzi di vita” a “L’uomo di cartone”, da “Petrolio” a “Servizi e sevizie di Stato”, i romanzi dello scrittore friulano hanno segnato la coscienza di almeno tre generazioni di scrittori, tanto da far nascere intorno alla sua figura due scuole di pensiero contrapposte come il filopasolinismo e l’antipasolinismo. Testimone della vita politica italiana del Novecento, lascia una corposa produzione di saggi e articoli di assoluto rilievo per capacità di analisi e disvelamento critico delle dinamiche del potere e delle sue degenerazioni. Letteralmente sopravvissuto a due attentati alla sua vita, il primo all’idroscalo di Ostia nel ’75, del quale porta i segni sul suo corpo rimasto gravemente offeso con la perdita di un occhio e della funzionalità di una gamba; il secondo a Milano nell’86, quando un fanatico ultracattolico spara diversi colpi di pistola ferendolo gravemente, non ha mai smesso di denunciare la collusione tra poteri forti e forze occulte, anche internazionali, al fine di formare e controllare i governi centristi dell’epoca. Al punto che Pasolini annuncia con ampio anticipo il prossimo avvento del golpe continuo. Cioè la nuova alleanza tra potere finanziario e industria della comunicazione che prenderà da lì ad alcuni anni l’intera classe politica in ostaggio.Proprio la sua ferma opposizione al lessico massmediologico televisivo degli ultimi due decenni ha dato l’impulso decisivo al Parlamento italiano per elaborare e approvare una legge, cosiddetta “salvacoscienze”, tra le più avanzate d’Occidente, che di fatto ha impedito l’ascesa al governo del paese dei tycoons televisivi. Difatti nelle tematiche affrontate nei suoi film degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali non possiamo non menzionare “La nuova rabbia“(1984), “’Ottantanove, la fine delle virtù” (1991), “L’Arca dei sogni”(1997), Pasolini sancisce il tramonto della spinta utopistica necessaria alla nascita della società nuova che, sconfitta proprio nella elaborazione condivisa di un nuovo patto sociale autenticamente democratico, viene soggiogata definitivamente dal maglio vendicativo dell’“eterno” fascismo italiano.Qui, sul terreno della visione e comprensione della Società intesa come Ente morale fondamentale, rimangono memorabili le sue polemiche con la quasi totalità degli intellettuali di allora che egli dichiara essere “complici del sottopotere familistico e oscurantista espresso dal dominio onnivoro del partitismo”. La sua strenua resistenza, fisica, morale e intellettuale è stata determinante per l’avanzare del processo di quella che Pasolini definisce debordianamente “la realizzazione filosofica della Politica” alla quale stiamo finalmente assistendo con l’esperienza in corso dell’attuale governo Agamben.Crediamo che il popolo italiano abbia un alto debito di riconoscenza verso questo intellettuale, la presenza del quale ha permesso di cambiare il corso della storia del nostro paese, che senza la sua voce sarebbe certamente regredito sul piano della crescita civile, del valore artistico e della dignità morale. Assecondando le ultime volontà del poeta, le esequie si terranno in forma strettamente privata.(Andrea Panzironi, “Eulogia per Pasolini, morto serenamente nel suo letto questa notte”, pubblicato su “Il Foglio” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 2 novembre 2015. Panzironi è un tassista romano, spiega il giornale: suona il clarinetto, ama il jazz e ammira due categorie, musicisti e acrobati. «Si definisce taxi-writer, e sa scrivere»).A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.
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Marino piange, ma dov’era quando il Pd smontava l’Italia?
Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).La Marino-story tiene banco sui giornali e nei talk-show dove si parla di scontrini e Mafia Capitale, congiure del silenzio, il gelo del premier-padrone e la freddezza del Vaticano. La finanza locale perde i pezzi, sotto la scure della legge di stabilità, ma il sindaco-contro pensava comunque di “cambiare Roma” anche senza soldi, il denaro che lo Stato – in avanzo primario per ordine di Bruxelles – rifiuta di trasferire per i servizi, perché il welfare deve dimagrire, la spesa pubblica si deve tagliare, i buchi nelle strade possono diventare crateri senza che nessuno protesti davvero, nessuno indichi la radice del male, la fonte originaria del problema. Anche a questo può servire la Marino-story, condita con sushi e sashimi, traditori e lealisti, rinnegati e irriducibili. Uno come Marco Travaglio, ben lungi dall’avventurarsi in analisi storico-politiche, si limita a una constatazione notarile: il Pd ha impedito a Marino di dimettersi dopo lo scandalo Mafia Capitale e ora l’ha messo in croce per l’inezia di quattro scontrini al ristorante. Dov’è la coerenza? Conclusione: in questa farsa, dove nessuno esce a testa alta, al Nazzareno tocca la parte peggiore.Ma questi sono solo gli spiccioli. Dal 2011, l’anno di Monti, sono fallite centinaia di migliaia di imprese, mille al giorno solo nel 2012 secondo Unioncamere. Pil in picchiata e record storico di senza lavoro, disoccupazione giovanile mai vista prima nella storia della repubblica. Non è stato un incidente, riassume l’economista Nino Galloni: fu la Germania, in cambio della rinuncia al marco e dell’adesione all’euro, a pretendere dalla Francia (dal cui consenso dipendeva la riunificazione tedesca) che la concorrenza industriale del sistema-Italia venisse sabotata e liquidata. Così l’Italia è stata puntualmente declassata e deindustrializzata, con la complicità di Confindustria (meno lavoro, quindi compressione dei salari, fino all’attuale Jobs Act) e il supporto decisivo del centrosinistra privatizzatore (Prodi, Andreatta, D’Alema, Amato). E’ stato proprio il centrosinistra, sindacati compresi, a convincere il paese ad affrontare “sacrifici”, secondo lo schema della “svalutazione interna”, non potendosi più svalutare la moneta. Ignazio Marino, l’aspirante salvatore della capitale, è stato una delle tante comparse del film. Ora parla di tradimento, pensando al suo piccolo scranno in Campidoglio, senza accorgersi che i traditi sono gli italiani, a cui un’intera classe politica – oggi guidata dal Pd – ha semplicemente portato via il paese, svenduto pezzo su pezzo, secondo il piano prestabilito all’estero, molto lontano da Roma.Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Carne e cancro, di colpo l’ovvio fa notizia e dilaga sui media
L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti sul legame tra alimetazione e tumore conferma quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».Ora fa molto rumore lo studio dell’Oms, secondo cui, per ogni porzione di 50 grammi di carne al giorno, il rischio di cancro del colon-retto aumenta del 18%, così come per i tumori al pancreas e alla prostata. Nel mirino in particolare le “carni lavorate”, come i wurstel, equiparati – come sostanze cancerogene – a fumo, amianto, arsenico e benzene. Sotto accusa, secondo i tecnici Onu, la trasformazione “attraverso processi di salatura, polimerizzazione, fermentazione, affumicatura”, oppure le carni “sottoposte ad altri processi per aumentare il sapore o migliorare la conservazione”. Massima prudenza, avverte l’Oms, con gli hot dog, prosciutti e salsicce, nonché la carne in scatola e le salse a base di carne. Il rischio di sviluppare cancro all’intestino a causa del consumo di carne “processata” aumenta in proporzione al quantitativo consumato, avverte il dottor Kurt Straif, capo dello Iarc Monographs Programme. Il più celebre oncologo italiano, il professor Umberto Veronesi, da decenni ha deciso di rinunciare alla carne: «Il mio consiglio da vegetariano – dice – è quello di eliminare del tutto il consumo di carne».Veronesi saluta come «un grande passo avanti» la “scoperta” della relazione fra alimentazione e tumori: «L’identificazione certa di una nuova sostanza come fattore cancerogeno è sempre e comunque una buona notizia in sé, perchè aggiunge conoscenza e migliora la prevenzione». La raccomandazione per un regime alimentare “vegano” non è però presente nel protocollo ufficiale anti-cancro del ministero della sanità italiano, la cui attuale titolare, Beatrice Lorenzin, ora si limita a consigliare, in generale, la “dieta mediterranea”. Secondo le statistiche, il 9% degli italiani mangia carne rossa o insaccati tutti i giorni, e il 56% 3-4 volte a settimana. Il tumore più diffuso in Italia è proprio quello al colon-retto, con quasi 55.000 diagnosi nel 2013. Salumi a parte, se sotto accusa sono le carni grigliate (che sviluppano idrocarburi) sono gli statunitensi, seguiti da australiani, francesi e tedeschi. In Italia ogni anno si calcola vengano consumate “solo” 24 milioni di grigliate all’anno.Il Codacons ha deciso di presentare un’istanza urgente al ministero della salute e un esposto al Pm di Torino Raffaele Guariniello, affinché siano valutate misure a tutela della salute. «L’Oms non lascia spazio a dubbi», sostiene il presidente, Carlo Rienzi. «Il principio di precauzione impone in questi casi l’adozione di misure anche drastiche», compresa eventualmente «la sospensione della vendita per quei prodotti che l’Oms certifica come cancerogeni». Per i produttori di carne, la tempesta mediatica può trasformarsi in catastrofe commerciale: secondo la Coldiretti, le carni italiane sono più sane perché magre, non trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione. «Hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della tradizione italiana», sottolinea l’associazione degli agricoltori. Inoltre, da noi il consumo di carne (78 chili a testa) è molto al di sotto di quelli di paesi come gli Usa (125 chili a persona) o l’Australia (120 chili), ma anche dei cugini francesi (87 chili). Secondo Assocarni e Assica, l’associazione dei salumifici industriali, gli italiani mangiano in media due volte la settimana 100 grammi di carne rossa e solo 25 grammi al giorno di carne trasformata. «Un consumo che è meno della metà dei quantitativi individuati come potenzialmente a rischio cancerogeno».Carne e cancro? Anna Villarini, nutrizionista dell’Istituto Nazionale dei Tumori, non si scompone: «Lo sapevamo già dal 2007, ma c’erano studi precedenti: le carni conservate sono associate a tumore dello stomaco, sia per la presenza di conservanti che vengono aggiunti che si trasformano in cancerogeni all’interno dello stomaco, sia per la presenza eccessiva di sale che è un fattore di rischio». E aggiunge: «Le carni rosse, oltre che per la cottura, sono di per sé un fattore di rischio per il tumore del colon. Dovrebbero essere consumate veramente poco, e invece sono entrate in maniera preponderante sulle nostre tavole». Dieta alternativa per chi ha il cancro? Zero carne: solo frutta, verdura e cereali. Se ne occupa anche la “medicina oncologica integrata”, spiega il dottor Massimo Bonucci a “Panorana”. E ormai è una realtà in molti paesi, dove esistono persino ospedali con reparti interamente dedicati all’alimentazione anti-cancro.«A livello internazione la medicina integrata è una realtà», spiega il medico. «Negli Stati Uniti ci sono ben 52 università dove viene insegnata». Una strada «ormai percorsa e riconosciuta, così come in Giappone: l’efficacia di molte sostanze è avvalorata non solo da studi scientifici, ma anche da “trial” clinici molto importanti». All’estero, aggiunge Bonucci, la possibilità di avere benefici da un’alimentazione mirata (e da sostanze naturali) nella cura delle patologie oncologiche «non è messa in dubbio». Si parla di curcuma, artemisia e altre essenze, dotate di potenti principi attivi. Un guru della nutrizione “integralista” come Valdo Vaccaro raccomanda di consumare solo frutta e verdura, in caso di insorgenza tumorale. Ma negli ospedali italiani l’aspetto alimentare (fonte primaria del problema, a quanto pare) è completamente trascurato. Ai malati vengono somministrate chemioterapia e radioterapia. E magari una bella fetta di prosciutto.L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti sul legame tra alimentazione e tumore conferma quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».
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Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».