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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Un mondo migliore? No, grazie. Così la letteratura è morta
Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.Sembra che l’Impero Romano avesse perso la sua anima molto prima di scomparire come organizzazione politica. Spesso, ho l’impressione che stiamo seguendo la stessa strada verso il collasso seguita dall’Impero Romano, ma più rapidamente. Fatevi questa domanda: riesco a citare un pezzo letterario recente (intendo, diciamo, di 10 o 20 anni) che penso che i posteri ricorderanno? (E non come esempio di cattivo gusto). Personalmente non ci riesco. E penso che si possa dire che la letteratura nel mondo occidentale abbia declinato a partire degli anni 70, più o meno, e che oggi non sia più una forma d’arte vitale. Naturalmente, le percezioni in questo campo potrebbero essere molto diverse, ma posso citare un sacco di grandi romanzi pubblicati durante la prima metà del XX secolo, racconti che hanno cambiato il modo in cui le persone guardavano il mondo. Pensate alla grande stagione degli scrittori americani a Parigi degli anni 20 e 30, pensate a Hemingway, a Fitzgerald, a Gertrude Stein e a molti altri. E a come la letteratura americana ha continuato a produrre capolavori, da John Steinbeck a Jack Kerouac ed altri. Ora, siete in grado di citare uno scrittore americano equivalente successivo?Pensate a grandi scrittori come John Gardner, che scriveva negli anni 70 ed oggi è stato in gran parte dimenticato. Qualcosa di simile sembra essere successo dall’altra parte della Cortina di Ferro, dove diversi scrittori sovietici dotati (Dudintsev, Grossman, Solzhenitsyn ed altri) hanno prodotto un corpus letterario negli anni 50 e 60 che ha fortemente cambiato l’ortodossia sovietica ed ha giocato un ruolo nel crollo dell’Unione Sovietica. Ma non sembra che esista più nulla di paragonabile nei paesi dell’Europa dell’est che si possa paragonare a quei romanzi. Non è solo una questione di letteratura scritta, le arti visuali sembrano aver attraversato lo stesso processo di appassimento: pensate a Guernica di Picasso (1937) come ad un esempio. Riuscite a pensare a qualcosa dipinta negli ultimi decenni con un impatto lontanamente comparabile? Riguardo ai film, quale è stato davvero originale o ha cambiato la percezione del mondo? Forse coi film stiamo facendo meglio che con la letteratura scritta, perlomeno alcuni film non passano inosservati, anche se i loro meriti letterari sono discutibili.Pensate a “La notte dei morti viventi” di George Romero, che risale al 1968 e che ha generato uno tsunami di imitazioni. Pensate a “Guerre Stellari” (1977), che ha plasmato un intero piano strategico dei militari statunitensi. Ma durante l’ultimo decennio, più o meno, l’industria cinematografica non sembra essere stata in grado di fare meglio che lanciare legioni di zombi e mostri assortiti contro gli spettatori. Non che non abbiamo più bestseller, proprio come abbiamo film da blockbuster. Ma siamo in grado di produrre qualcosa di originale e rilevante? Sembra che abbiamo ripercorso i passi dell’Impero Romano: non siamo più in grado di produrre un Virgilio, al massimo un equivalente di Ausonio. E c’è una ragione per questo. La letteratura, quella grande, ha a che fare col cambiare la visione del mondo del lettore. Un grande romanzo, un grande poema, non sono solo una trama interessante o delle belle immagini. La buona letteratura porta avanti un sogno: il sogno di un mondo diverso. E quel sogno cambia il lettore, lo rende diverso. Ma per svolgere questa azione, il lettore deve essere in grado di sognare un cambiamento. Deve vivere in una società dove sia possibile, almeno teoricamente, mettere in pratica i sogni. Ma non è sempre così.Nell’Impero Romano del IV e V secolo D.C., il sogno era scomparso. I Romani si erano ritirati dietro le loro fortificazioni ed avevano sacrificato tutto – compresa la loro libertà – in nome della sicurezza. La poesia era diventata semplicemente una lode al governante di turno, la filosofia una compilazione dei lavori precedenti e la storia una mera cronaca. Una cosa del genere sta capitando a noi oggi: dove sono finiti i nostri sogni? Ma è anche vero l’uomo non vive di solo pane. Ci servono i sogni come ci serve il cibo. E i sogni sono qualcosa che l’arte ci può portare; sotto forma di letteratura o altro, non importa. E’ il potere dei sogni che non può mai scomparire. Se la letteratura romana era scomparsa come fonte originale di sogni, poteva ancora funzionare come veicolo di sogni provenienti dall’esterno dell’impero. Dal Confine Orientale dell’Impero, i culti di Mitra e di Cristo avrebbero fatto incursioni profonde nelle menti romane.All’inizio del V secolo, in una città di provincia meridionale assediata dai barbari, Agostino, il vescovo di Ippona, ha completato “La Città di Dio”, un libro che leggiamo ancora oggi e che ha cambiato per sempre il concetto di narrativa; è stato forse il primo romanzo – in senso moderno – mai scritto. Pochi secoli dopo, quando l’Impero non era niente di più che una memoria spettrale, un poeta sconosciuto ha composto il Beowulf e, ancora più tardi, è apparsa la saga dei Nibelunghi. Durante questo periodo, sono cominciate ad apparire le storie sul signore della guerra della Britannia che poi sarebbero confluite nel Ciclo Arturiano, forse il cuore della nostra visione moderna della letteratura epica. Così, il sogno non è morto. Da qualche parte, ai margini dell’impero, o forse al di fuori di esso, qualcuno sta sognando un bel sogno. Forse lo scriverà in una lingua lontana o forse userà il linguaggio dell’Impero. Forse userà un mezzo diverso dalla parola scritta, non possiamo dirlo. Ciò che possiamo dire è che, un giorno, questo nuovo sogno cambierà il mondo.(Ugo Bardi, “Dove sono finiti tutti i nostri sogni? La morte della letteratura occidentale”, dal blog di Bardi del 21 gennaio 2015).Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.
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Magaldi: oligarchi, da Pechino all’Ue. Tutto il resto è teatro
«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.«Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo», disse Deng, il rifondatore della Cina capital-comunista. Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi sintetizza: non contano le bandiere, ma le azioni. Americani ed europei, russi e cinesi: non è questione di frontiere, ma di democrazia. Tutti d’accordo, finora, su questa globalizzazione dal volto disumano: gli oligarchi di Pechino sono perfettamente in linea con quelli occidentali che permisero alla Cina di entrare nel Wto scatenando la loro potenza industriale priva di protezioni sociali e diritti sindacali. Non a caso Trump si lamenta, denunciando il “dumping” cinese: già in campagna elettorale aveva puntato il doto contro la deindustrializzazione degli Usa, accelerata dalle delocalizzazioni delle multinazionali, attratte dal lavoro a basso costo garantito dall’Asia. «La Cina è uno dei pilastri di questa globalizzazione, e non per caso è in polemica con Trump», dice Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, nel quale rivela la sottoscrizione del patto segreto “United freemasons for globalization” in base al quale, all’inizio degli anni Ottanta, le 36 superlogge internazionali del massimo potere mondiale progettarono esattamente questo tipo di mondializzazione, cinicamente affaristica.«Se la globalizzazione non è stata democratica – ragiona Magaldi – è dovuto anche al fatto che un grande attore delle reti commerciali globali, la Cina, si è rivelato un cattivo esempio anche per l’Occidente, dove ormai si tende a “cinesizzare” i rapporti di lavoro, instaurando una sorta di neo-schiavitù e di gioco al ribasso nell’impiego della manodopera». A questo corrisponde una crescente “cinesizzazione” delle nostre strutture di governance: «Sempre di più assistiamo al prepotere di strutture oligarchiche, sempre più simili alle strutture di potere e di governo della Cina». Il gigante asiatico resta gestito da «un regime fascio-comunista, dirigista», pur avendo una sua specificità, con «sacche di libertà crescente e di apertura modernizzante». Ma il problema, aggiunge Magaldi, non è della Cina, quanto «di chi l’ha ammessa nel Wto senza richiedere garanzie di natura democratica e liberale», diritti economici, tutele del lavoro, reale libertà del mercato interno: «Gran parte degli oligarchi di partito sono diventati grandi magnati, grandi imprenditori privati, con un piede nelle leve del potere pubblico e l’altro piede nel privato, dove si costruiscono fortune».Attenzione: «Non ne usciamo, se non ci diciamo che questa globalizzazione non è nemmeno imperniata sulla tanto sbandierata libertà del mercato, ma è viziata in Europa dal mercantilismo della Germania e altrove dalle carte truccate della Cina», distribuite sul tavolo da gioco grazie alla totale complicità del super-potere economico occidentale. Di questo passo, continua Magaldi, non si aiuta nemmeno la Cina ad evolvere, «il giorno in cui un tale colosso economico e sociale si trovasse di fronte al bivio: doversi adeguare, abbracciando democrazia e libertà interna, o rinunciare all’accesso dei mercati internazionali». Qualcosa sta per cambiare? «Credo che oggi i tempi siamo maturi perché la Cina ripensi se stessa», sostiene Magaldi. «Ma dipende da noi, dall’Occidente, da chi ha costruito culturalmente la democrazia e oggi pare essersi dimenticato di come dovrebbe funzionare – e anzi, la erode anche all’interno delle nostre stesse società». In altre parole: oligarchi al potere, all’Est come all’Ovest, dove l’Europa è finita sotto le grinfie di banchieri e tecnocrati, e anche per questo forse non rinuncia a distrarre l’opinione pubblica attaccando a testa bassa il capo del Cremlino.«Devo dire che Putin comincia a starmi simpatico», ammette Magaldi, che pure si definisce solidamente atlantista. Certo il regime di Mosca non risponde agli standard della democrazia liberale. Ma è al centro di una ignobile campagna mediatica, alimentata da una martellante propaganda faziosa: «Dov’erano, i media occidentali oggi così severi con Putin, quando la Russia era in sfacelo sotto il regno corrotto di Eltsin?». Quella post-sovietica era «una società comunque spietata, spesso gangsteristica, egemonizzata dai famosi oligarchi, stuprata da privatizzazioni selvagge». Creazione di miseria, risorse pubbliche destinate all’arricchimento personale improvviso di personaggi corrotti: in quegli anni «penetravano in Russia interessi sovranazionali che hanno fatto carne di porco, della società russa». Ma dall’Occidente, aggiunge Magaldi, «non venivano gli stessi atteggiamenti di malevolenza che invece sono costanti nei confronti di Putin». Un consiglio? La video-intervista di Oliver Stone all’uomo del Cremlino: emerge un ritratto complesso, da valutare con attenzione. Forse Putin «sta cambiando, si sta muovendo su una nuova prospettiva: potrebbe recitare un ruolo costruttivo e interessante, negli svolgimenti globali dei prossimi anni». Sbaglia, chi lo vede come alternativa all’involuzione oligarchica dell’Occidente: «O lo si odia o lo si ama, Putin, come fosse il messia di chissà quale nuovo sistema». Non è un messia, ma merita rispetto, in un mondo di missili veri e peresunti, democrazie apparenti e oligarchie reali: «La storia di Putin va riconsiderata con serenità, perché quell’uomo ha reso la Russia un paese migliore».«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Grazie alla Lorenzin, vi opererà un robot da 3 milioni di euro
Sono al telefono ogni giorno con i Mostri (quando i media mi pagavano ci sarei andato di persona, sorry). Chiamo prefisso 001+ e parlo con le Start Ups americane che fanno A.I., ma soprattutto i robot chirurgici del presente e del futuro. Quelli del futuro saranno in A.I. quantistica, cioè rispetto a quelli di oggi un salto come dire dalla ruota di pietra allo Space Shuttle. Sto su questo tema perché nella devastazione di Tech-Gleba la salute è il lato più orripilante (poi vi dirò cosa gli chiedo e come mi rispondono. Interesting, man, very very cool shit). Ma voglio ora darvi una prospettiva, a voi persone della vita di tutti i giorni. Lo sapete, vero?, che la Lorenzin sta tagliando in sanità anche l’erba delle aiuole degli ospedali, quando ci sono. Ho già citato le graffettatrici chirurgiche made in Cina a Torino e che ti si disfano in pancia. Mi scrive un chirurgo toracico da Palermo, e mi dice che lavorano sostanzialmente coi mezzi di un ‘Curandero’ del Mozambico, ecc. ecc. sappiamo bene, è così dappertutto nelle Ausl.Oggi un portavoce di Vinci robot Usa, uno dei colossi mondiali della robotica in sanità, mi ha detto col suo languido accento della Louisiana che un loro singolo robot chirurgico di vecchia generazione costerebbe a una Ausl italiana queste cifre: 3 milioni di euro per il robot, 170.000 euro all’anno di manutenzione, 3.200 euro in costi opertivi ogni volta che lo accendono per un intervento. Questo, ripeto, per un singolo robot chirurgico e neppure uno dei più complessi (settore chirurgia ginecologica), di vecchia generazione. Calcolate che un Policlinico come quello di Padova o di Bologna dovrebbe essere stipato di questi robot per ogni specialità dove il bisturi deve intervenire. Dottore, sei online? fammi i calcoli, eh?Ho poi chiesto al portavoce di Vinci robot: «Ma quando butterete sul mercato i robot chirurgici con A.I. e computer quantistici a servizio, per cui all’équipe chirurgica e manutentori si dovranno aggiungere fior for di fisici e di software code-makers strapagati e col vincolo del segreto industriale, cosa verranno a costare i vostri robot chirurgici per salvare, per esempio, la mia vita all’Ausl di Bologna?». L’accento del mieloso, afoso sud Usa si trasforma di colpo in un professionale New York style bite: «Non posso commentare». Fine dialogo. Think. Non fate figli.(Paolo Barnard, “Barnard parla ai mostri, e intanto vi dà una prospettiva”, dal blog di Barnard del 28 settembre 2017).Sono al telefono ogni giorno con i Mostri (quando i media mi pagavano ci sarei andato di persona, sorry). Chiamo prefisso 001+ e parlo con le Start Ups americane che fanno A.I., ma soprattutto i robot chirurgici del presente e del futuro. Quelli del futuro saranno in A.I. quantistica, cioè rispetto a quelli di oggi un salto come dire dalla ruota di pietra allo Space Shuttle. Sto su questo tema perché nella devastazione di Tech-Gleba la salute è il lato più orripilante (poi vi dirò cosa gli chiedo e come mi rispondono. Interesting, man, very very cool shit). Ma voglio ora darvi una prospettiva, a voi persone della vita di tutti i giorni. Lo sapete, vero?, che la Lorenzin sta tagliando in sanità anche l’erba delle aiuole degli ospedali, quando ci sono. Ho già citato le graffettatrici chirurgiche made in Cina a Torino e che ti si disfano in pancia. Mi scrive un chirurgo toracico da Palermo, e mi dice che lavorano sostanzialmente coi mezzi di un ‘Curandero’ del Mozambico, ecc. ecc. sappiamo bene, è così dappertutto nelle Ausl.
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Richard Sorge, la geniale spia di Stalin tra i nazisti a Tokyo
Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.Il governo tratta con gli insorti per due giorni, ma intanto fa circondare tutti gli edifici occupati, usando unità della Marina, che è in pessimi rapporti con l’Esercito. Dopo tre giorni i ribelli si arrendono; la maggior parte saranno condannati a morte e giustiziati. I governi occidentali fanno una gran fatica a capire cosa sta succedendo in Giappone: quella è una società lontana, complicata e impenetrabile. Anche i pochi giornalisti europei a Tokyo brancolano nel buio. C’è un solo giornalista che è capace di spiegare cosa succede. È un tedesco, membro del Partito nazista, molto ben introdotto alla sua ambasciata, e che ha una conoscenza stranamente approfondita della politica giapponese. Dopo l’insurrezione dei giovani militari il giornalista scrive un lungo articolo, che viene pubblicato in Germania ed è commentato in tutto il mondo, al punto che la “Pravda”, a Mosca, lo ripubblica in russo. All’ambasciata tedesca si complimentano col giornalista: ormai è diventato una stella internazionale.Il giornalista ride, ma in cuor suo è fuori di sé; quella sera va a trovare un altro tedesco, un industriale, che abita in un lontano sobborgo di Tokyo. In casa, l’industriale tiene nascosta una radiotrasmittente capace di trasmettere fino in Russia. Il giornalista chiama Mosca e chiede se sono matti a pubblicare sulla “Pravda” i suoi articoli: per favore, che non capiti più in futuro, perché nessuno deve intravvedere anche il minimo collegamento tra lui e l’Unione Sovietica. Il giornalista si chiamava Richard Sorge, era iscritto al Partito comunista dal 1918, ed era a capo di una rete di spie piazzata a Tokyo dall’Armata Rossa, una rete di spie che ha influenzato il corso della Seconda guerra mondiale. L’iscrizione al Partito nazista faceva parte della sua copertura; aveva chiesto la tessera a Berlino nel 1933, mentre aspettava il rilascio del passaporto per il Giappone. A quell’epoca l’organizzazione nazista era tutt’altro che impeccabile: negli archivi di Berlino è stata ritrovata la scheda del dottor Richard Sorge, iscritto al partito nella sezione dei residenti all’estero, e come indirizzo c’è scritto soltanto: “Tokyo, Cina”. Poi qualcuno ha cancellato “Cina” a matita e ha corretto: “Giappone”.L’ambasciata tedesca a Tokyo era stata felicissima dell’arrivo di questo compatriota, giornalista esperto di Estremo Oriente, allegro compagnone e grande bevitore. La capitale nipponica negli Anni Trenta era una strana città, governata da una polizia segreta paranoica che teneva sotto sorveglianza tutti gli stranieri, ma piena di ristoranti cinesi ed europei, birrerie tedesche con nomi come «L’Oro del Reno», dove le cameriere giapponesi si tingevano i capelli di biondo, finché la polizia non decise di vietare quest’usanza antipatriottica. Lì il dottor Sorge poteva essere visto fino a tarda notte a trincare con i suoi amici dell’ambasciata tedesca, che gli confidavano tutti i segreti e si facevano aiutare da lui a cifrare i dispacci in codice da mandare a Berlino. Si fidavano a tal punto che quando la Gestapo fece sapere all’ambasciatore Ott che nell’ambasciata forse c’era una talpa, l’ambasciatore non si confidò con nessuno, tranne una persona: il suo carissimo amico, il dottor Sorge.Ma la superspia non era sola. Con lui c’erano tecnici europei addestrati a Mosca, come l’industriale che abitava nei sobborghi, che si chiamava Max Klausen e in realtà era un mago della radio, capace di costruirsi dal nulla una radioricevente portatile con pezzi comprati nei negozi di Tokyo, e di montarla e smontarla in dieci minuti. E c’erano i tanti giapponesi che avevano accettato di lavorare per Sorge e per il comunismo, tutti, senza eccezione, per convinzione ideale, nessuno per soldi, che erano pochi e incerti. Uomini piazzati a tutti i livelli della società giapponese, come il giornalista Hotsumi Ozaki, esperto di cose cinesi, consulente del governo e della potentissima Armata del Kwantung che occupava la Manciuria, ai confini con l’Unione Sovietica. Per otto anni Sorge, Ozaki e gli altri, muovendosi alla luce del sole nei circoli governativi e diplomatici, accumularono informazioni segrete e le spedirono a Mosca, che seppe in anticipo tutto quello che bolliva in pentola a Tokyo e a Berlino: dal patto anti-Comintern tra Germania e Giappone, all’aggressione hitleriana contro l’Unione Sovietica, all’attacco di Pearl Harbor.Quando, alla fine, vennero arrestati, dopo che la Gestapo giapponese, la Tokko, aveva seguito le loro tracce per due anni, Sorge e Ozaki avevano influenzato concretamente l’esito della guerra. Eppure, incredibilmente, non avevano violato quasi nessuna legge: tutte le informazioni trasmesse a Mosca le avevano raccolte grazie ai loro contatti nel governo e nell’ambasciata nazista. Ne avevano violata una sola, una legge nuova che puniva con la morte chi avesse trasmesso informazioni di qualunque genere a un paese comunista, e su quella base vennero condannati e impiccati, dopo un processo durato tre anni. Il procuratore Yoshikawa, che interrogò Sorge, disse poi: «In tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo di tale levatura».(Alessandro Barbero, “Nella rete di Sorge, nazista a Tokyo per conto dell’Urss”, da “La Stampa” del 31 agosto 2017. Sorge fu giustiziato il 7 novembre 1944. Mosca lo riconobbe come propria spia solo nel 1964, dichiarandolo “eroe dell’Unione Sovietica”, massima onorificenza del paese).Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.
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Esercito europeo, cioè tedesco: via gli inglesi, Berlino trama
Un putsch silenzioso è in corso nelle istituzioni europee, con la brutale velocità di un blitzkrieg, per mutare la Ue in Quarto Reich. Così sussurrano le voci ben informate del Deep Superstate a Bruxelles, raccolte dal sito belga “Dedefensa”, che ha nell’ambiente buone entrature, assicura Maurizio Blondet. «Con il Brexit – racconta “Dedefensa” – i funzionari britannici stanno lasciando posti strategici nel labirinto istituzionale e burocratico che hanno occupato, da abili tattici, per una trentina d’anni». E invece di aprire «una procedura trasparente di ripartizione fra i funzionari degli Stati membri», ecco che «i tedeschi li occupano praticamente tutti loro, approfondendo il loro potere su queste retrovie strategiche decisive e dando la loro impronta alla Ue». Il punto è che i britannici, da quei posti-chiave, «erano riusciti a bloccare i più ambiziosi progetti sovrannazionali e oligarchici delle tecno-eurocrazie». Partiti loro, e «dato l’incredibile stato di deliquescenza della Francia ormai subalterna a Berlino», la via è ormai aperta «alla chiusura in gabbia degli europei in un sistema che corrisponde all’ideologia e agli istinti profondi dello Stato più grosso e pesante economicamente».Sempre “Dedefensa” ricorda che la Prussia «non unificò la Germania proponendo gli altri staterelli germanofoni un esplicito progetto politico, bensì una pacifistica unione doganale (Zollwerein)». Il concetto di Reich esprime qualcosa di più che uno Stato, ma non arriva a esprimere un’idea propriamente imperiale, «perché ogni impero è multinazionale, mentre il Reich del Kaiser puntò alla omogeneità del Volk e della Kultur». Di fatto, divenne una struttura di comando e obbedienza, ossia l’estensione del prussianesimo dalla Baviera ad Hannover. «Su questa pericolosa forma che l’Unione Europea tende a prendere di per sé sotto il dominio delle tecnoburocrazie a-politiche e sovrannazionali, John Laughland ha scritto un saggio la cui lettura andrebbe resa obbligatoria ai politici, “The Tainted Source” (La fonte inquinata)». I politici d’oggi, rileva Blondet, «non avendo la levatura di un Andreotti», l’uomo che disse «amo a tal punto la Germania che ne preferisco due», non sono capaci di capire il rischio riassunto nello slogan “ci vuole più Europa”, un’Europa «a cui il Quarto Reich somiglia», anche se «i servi mediatici ci parleranno di una Merkel che “avanza verso il federalismo europeo”».Intanto, continua Blondet, i tedeschi ci annetteranno «alla loro già smodata potenza economica e finanziaria, che governano coi diktat nel più brutale disprezzo delle regole che loro stessi impongono (vedasi il loro demenziale surplus)». Si “mangeranno” «anche la politica estera comune e a difesa “europea”: allora sarà davvero il Quarto Reich». La dipartita dei britannici, secondo Blondet, lascia in balia della Germania lo European External Action Service (Eeas), cioè «il colossale sub-ministero (scommetto che pochi ne avrete sentito parlare) i cui burocrati dettano la politica estera europoide, forte d 3.400 dipendenti e di 140 delegazioni estere». Fatto «aggravato dalla vera e propria incredibile e sospetta dimissione francese, quando il segretario generale di questo servizio estero, Alain Le Roy, s’è dimesso per “motivi personali” senza che l’Eliseo di Hollande reclamasse il posto», poi «immediatamente occupato per cooptazione da Helga Schmidt, tedesca, fatta salire da n.2 del servizio a n. 1 senza che i francesi né alcun altro “latino” chiedessero almeno questo n.2 liberatosi».Così ora la Schmidt «spadroneggia con mano pesante germanica sul servizio», mettendo in ombra la già ectoplasmatica Federica Mogherini, “alto rappresentante” Ue per la politica estera. Una sudditanza che la Germania «vuole rendere eterna, avendo chiesto a Berlusconi (che ha eliminato come sappiamo nel 2011) di formare dopo le elezioni un governo col Pd, per non dare il potere ai “populisti”; inutile dire che il Cavaliere, scodinzolando, ha detto sì». Sempre secondo Blondet, oggi la Germania punta sulla difesa comune europea, progetto ieri frenato da Charles de Gaulle e poi dagli inglesi. «Adesso la Merkel lo vuole fortemente, l’esercito europeo. Il che significa, retorica a parte, che siano i francesi a conferire al Reich le forze armate», dato che quella di Parigi è la maggior forza armata in ambito Ue. Un nuovo euro-caccia, prodotto dalla francese Dassault (l’industria dello storico Mirage) potrebbe accelerare «l’annessione di fatto». Dopodiché «si porrà la questione della potenza nucleare di dissuasione, che la Germania vorrà sia conferita all’esercito europeo, ossia alla Germania». Blondet sottolinea un indizio: «Non è improbabile che quando Macron ha sbattuto fuori il generale De Villiers, il capo di stato maggiore, sia stato perché costui obiettava alla “fusione-acquisizione” delle armate francesi da parte di Berlino. E il saluto corale e silenzioso che tutto il personale ha tributato al generale dimissionario, è forse la sola ultima speranza che che il Quarto Reich mercantile e brutale venga impedito».Un putsch silenzioso è in corso nelle istituzioni europee, con la brutale velocità di un blitzkrieg, per mutare la Ue in Quarto Reich. Così sussurrano le voci ben informate del Deep Superstate a Bruxelles, raccolte dal sito belga “Dedefensa”, che ha nell’ambiente buone entrature, assicura Maurizio Blondet. «Con il Brexit – racconta “Dedefensa” – i funzionari britannici stanno lasciando posti strategici nel labirinto istituzionale e burocratico che hanno occupato, da abili tattici, per una trentina d’anni». E invece di aprire «una procedura trasparente di ripartizione fra i funzionari degli Stati membri», ecco che «i tedeschi li occupano praticamente tutti loro, approfondendo il loro potere su queste retrovie strategiche decisive e dando la loro impronta alla Ue». Il punto è che i britannici, da quei posti-chiave, «erano riusciti a bloccare i più ambiziosi progetti sovrannazionali e oligarchici delle tecno-eurocrazie». Partiti loro, e «dato l’incredibile stato di deliquescenza della Francia ormai subalterna a Berlino», la via è ormai aperta «alla chiusura in gabbia degli europei in un sistema che corrisponde all’ideologia e agli istinti profondi dello Stato più grosso e pesante economicamente».
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Blondet: tranquilli, la Lombardia non farà alcuna secessione
Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.La Lombardia si metterà alla testa di questa istanza di giustizia del Nord-Est? E’ stato pur indetto un referendum sull’autonomia, si celebrerà il 22 ottobre. Tremate, parassiti! Anzi no, contrordine. State pur tranquilli, parassiti. La Lombardia non ha alcuna ambizione politica. Non ha mai avuto la minima volontà di “comandare”, né Milano di essere “capitale”. Si è sempre messa volentieri sotto il dominio straniero, senza mai la minima ribellione: spagnoli, austriaci, i francesi di Napoleone, oggi la cosiddetta “Europa” stupida e oppressiva, sono sempre stati padroni benvenuti, perché sollevavano i milanesi dal peso di governare. L’unica volta che hanno avuto impulsi “politici”, nel cosiddetto Risorgimento, è stata una moda della sua classe ricca, “patriottica”, anti-absburgica; ma anche lì, solo il tempo di consegnarsi ai piemontesi, questi avidi e arretrati militaristi da quattro soldi, e dare loro le chiavi (e le casse) della città e della regione più ricca d’Italia. La Lombardia è, più che qualunque altro pezzo di terra italiota, una espressione geografica.La sola volta in cui fu capitale, fu nel 286 dopo Cristo, per scelta non propria, ma di Diocleziano: capitale dell’Impero d’Occidente, nientemeno. In quanto capitale, l’impero la ornò di una urbanistica grandiosa, monumentale, bellissima: la Porta Romana entrava in città dopo un percorso di 4 chilometri di porticato ai due lati; c’erano un circo, uno stadio, grandi basiliche, grandi e straordinarie terme. I portici monumentali di Porta Romana a Milano: possiamo solo immaginarli. Non è rimasto nulla di questa grandiosa bellezza. Praticamente, solo le colonne di San Lorenzo e della basilica di Costantino, sacrilegamente attraversata fino a ieri dai tram. Furono i milanesi stessi, ciechi e sordi al richiamo dell’ambizione che quei monumenti evocavano, a distruggerli, divorarli per recuperarne i mattoni e i marmi – in pochi decenni, Milano riprese l’aspetto dimesso, rurale e operaio, che è il suo. La tuta da lavoratore al posto delle vesti di velluto imperiale.La “bruttezza” di Milano moderna, una bruttezza unica fra le città italiane, anche più piccole (pensate a Parma, a Verona, a Padova) è il sintomo di questa sua mancanza di ambizione. Non vuole comandare, non ha classe dirigente: quando si è sforzata, ha dato a Roma Berlusconi e Bossi, l’ultimo un ladruncolo di denaro pubblico per i figli e la famiglia, un vero “terrone”, l’altro un pirla superficiale e irresponsabile che si vanta di essere “imprenditore” invece che statista. E non è nemmeno imprenditore: al più, impresario, capocomico. E il referendum sull’autonomia? Persino i leghisti della base forse non lo voteranno. I milanesi, secondo i sondaggi, in maggioranza schiacciante non andranno a votare, non capiscono di cosa parli. Dormite tranquilli, cialtroni e parassiti.(Maurizio Blondet, estratto dal post “La Catalogna apre la stagione delle secessioni, ma non qui”, pubblicato sul blog di Blondet il 2 ottobre 2017).Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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Jama: medici pagati da 50 anni per mentire sullo zucchero
Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.«La ricerca concludeva che, “senza dubbio”, l’unico modo per prevenire i problemi cardiaci era quello di ridurre il colesterolo e i grassi saturi», spiegano gli autori del report su “Jama”. In altre parole, gli scienziati si adoperarono per sottovalutare pubblicamente il ruolo dello zucchero nel causare malattie cardiovascolari. Sebbene i ricercatori di allora non siano più rintracciabili, perché ormai deceduti, si sa che uno di questi, Mark Hegsted, divenne capo della divisione che si occupa di nutrizione al Dipartimento dell’Agricoltura e che il suo gruppo pubblicò le linee guida sull’alimentazione nel 1977. Un altro, il dottor Fredrick J. Stare, ricoprì il ruolo di presidente del dipartimento di nutrizione di Harvard. Nonostante i fatti risalgano a decenni fa, il tema è destinato ad aprire un nuovo dibattito. «Questo incidente di cinquant’anni fa potrebbe sembrare storia antica – spiega in un editoriale Marion Nestle, professoressa di “food policy” alla New York University – ma è rilevante perché risponde ad alcune domande che ci poniamo ancora oggi. È vero che le lobby dello zucchero hanno manipolato la ricerca in loro favore? Sì, è vero, e la pratica continua».«Il nostro studio mette in luce il bisogno di fare più attenzione e non dare la ricerca sempre per scontata», spiegano gli autori. «Ci sono molti modi in cui uno studio può essere manipolato, dalle domande che pone e si pone al come le informazioni vengono analizzate fino al modo in cui le conclusioni vengono riportate nel testo». C’è di che tenere gli occhi aperti, insomma. Anche perché la Sugar Association, come riporta “Vox”, continua a pubblicare le sue linee-guida sul rapporto tra zuccheri e salute del cuore. Dal canto suo, l’associazione si è difesa: «Lo studio di “Jama” cavalca il trending dell’anti-zucchero. Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce che lo zucchero non ha una responsabilità univoca sulle malattie del cuore. Siamo preoccupati per la crescente diffusione di articoli ideati apposta per prendere click e che minano la qualità delle ricerche scientifiche, ma siamo ancora più delusi dal fatto che un simile report sia apparso su una rivista come “Jama”».(“La lobby dello zucchero ci ha ingannato per 50 anni, medici pagati per mentire: uno studio su Jama svela anni di depistaggi”, dall’“Huffington Post” del 13 settembre 2016).Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.
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Magaldi: Germania fuorilegge, il rimedio verrà dall’Italia
Le elezioni in Germania? Tutto molto prevedibile. Continua la discesa rovinosa dei sedicenti socialdemocratici, capeggiati dal sedicente progressista Schulz, mentre la Merkel – appannata – tiene, ma perde punti. La verità è che tutta la politica è in crisi, perché la Germania non è altro che una locomotiva eterodiretta da poteri che trascendono la Germania stessa e persino le istituzioni europee. Sono poteri di cui ho parlato lungamente nel libro “Massoni” (Ur-Lodges reazionarie, superlogge internazionali e loro emanazioni finanziarie paramassoniche). Sono poteri privati, sovranazionali, che hanno fatto della Germania – e in parte anche della Francia, ultimamente subalterna a Berlino – le locomotive di una gestione neo-feudale, tecnocratica e oligarchica dell’Europa. Questo in Germania ha portato a un eccessivo surplus nelle esportazioni, scandaloso ed eversivo, rispetto alle stesse (brutte) norme europee. Quindi una politica mercantilista della Germania: fuorilegge, rispetto alle leggi Ue che vengono così spesso invocate. Ciò ha causato una compressione persino della domanda interna: in Germania proliferano i cosiddetti “mini-job”, la gran parte della popolazione ha redditi modesti, non ci sono grandi consumi. Tutto ciò per far crescere il sistema-Germania in termini di esportazioni, togliendo quote di mercato ad altre industrie, specie quella italiana.La si voleva distruggere, la nostra industria: il grande economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, denuncia da anni il progetto di deindustrializzazione dell’Italia (parzialmente fallito: l’Italia è in crisi, ma regge). Però in Germania si pensa che tutto vada bene, che sia un paese dove tutti godono a scapito degli altri – perché si vuole alimentare un clima di scontro tra nazioni. E questo perché, dietro, c’è tutto un progetto, per il quale questa falsa Unione Europea ha fomentato nuove rivalità e nuovi nazionalismi. E quello che si vuole realmente è il caos: perché nel caos politico, cioè nell’incapacità di formare maggioranze nette contro opposizioni nette che alimentino una sana dialettica democratica, a guadagnarci sono proprio quei poteri extra-politici che gestiscono bene il caos, favorendo grandi ammucchiate. Non si sa bene chi sta al governo e chi all’opposizione, e quindi si va avanti col “pilota automatico” di cui parlava a suo tempo Mario Draghi. E cioè: per l’Europa c’è un’unica e sola ricetta, quella della mortificazione della classe media in tutti i paesi, della mortificazione del diritto al lavoro, dell’abbassamento dei salari.In più, a questo si aggiunge un’assenza nella politica dell’immigazione, quindi con una concorrenza al ribasso tra i lavoratori europei e questi poveracci che arrivano in grandi masse, grazie anche ad altre operazioni estremamente dubbie, opache, come le false primavere arabe e tutti quegli sconvolgimenti che hanno trasformato il Nordafrica, il Maghreb e il Medio Oriente in punti di partenza di un esodo che poi non viene gestito. Proprio la Germania è il luogo in cui vanno ripristinate alcune regole, se si vuole un’Europa diversa, poco importa se unita sotto un unico governo o formata da nazioni sovrane. La Germania non sta svolgendo il ruolo di leader di un’Europa coesa e convergente sul benessere dei popoli europei. E secondo me, visti i risultati elettorali, non è dalla Germania che partirà la cura. La cura della Germania può partire dall’Italia, perché la Francia è imbalsamata da quell’altro burattino di Macron. Bisogna evitare che in Italia ci sia una fotocopia di quanto accaduto in Germania.Diciamo che la Francia ha proposto, con Macron, un Renzi un po’ più strutturato e più solido – durerà anni, sarà come Hollande o peggio di Hollande, ma con le caratteristiche giovanilistiche di Renzi, quindi da lì non verrà nulla. L’Italia invece è il vero luogo dove si combatte la battaglia per la democrazia. Questo scenario europeo è collegato agli scenari mondiali e a quello mediterraneo: davvero, l’Italia è l’epicentro delle vere battaglie del nostro tempo. La democrazia è questo: piena legittimazione e alternanza tra partiti e coalizioni che hanno idee nettamente diverse, nel rispetto di regole condivise. La presunta ultra-destra tedesca? Lo scenario sembra nuovo, ma è tutto vecchio. Come ogni altra destra “estrema”, anche Afd finirà per puntellare governi di larghe intese. In ogni caso il suo exploit non fa parte della vera agenda politica europea dei prossimi mesi, che invece riguarda quello che sta accadendo nel Regno Unito – non a caso, obiettivo di diversi attentati terroristici a ripetizione – e, ripeto, quello che accade in Italia. Rischio di neo-nazismo in Germania? Non scherziamo. L’egemonia tedesca che si perseguiva allora tramite il nazismo oggi si persegue per altre vie. Esemplare la figura di Hjalmar Schacht, stratega economico-finanziario che passò indenne dalla Repubblica di Weimar al nazismo e poi alla Repubblica Federale Tedesca. Se c’è un ruolo pernicioso della Germania non sarà interpretato da ultra-destre che mai arriveranno al potere, ma da questo consociativismo imperniato sulla Merkel, che si fa grimaldello di “poteri altri”, privati e sovranazionali.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli di “Colors Radio” nella trasmissione “Massoneria On Air” del 25 settembre 2017).Le elezioni in Germania? Tutto molto prevedibile. Continua la discesa rovinosa dei sedicenti socialdemocratici, capeggiati dal sedicente progressista Schulz, mentre la Merkel – appannata – tiene, ma perde punti. La verità è che tutta la politica è in crisi, perché la Germania non è altro che una locomotiva eterodiretta da poteri che trascendono la Germania stessa e persino le istituzioni europee. Sono poteri di cui ho parlato lungamente nel libro “Massoni” (Ur-Lodges reazionarie, superlogge internazionali e loro emanazioni finanziarie paramassoniche). Sono poteri privati, sovranazionali, che hanno fatto della Germania – e in parte anche della Francia, ultimamente subalterna a Berlino – le locomotive di una gestione neo-feudale, tecnocratica e oligarchica dell’Europa. Questo in Germania ha portato a un eccessivo surplus nelle esportazioni, scandaloso ed eversivo, rispetto alle stesse (brutte) norme europee. Quindi una politica mercantilista della Germania: fuorilegge, rispetto alle leggi Ue che vengono così spesso invocate. Ciò ha causato una compressione persino della domanda interna: in Germania proliferano i cosiddetti “mini-job”, la gran parte della popolazione ha redditi modesti, non ci sono grandi consumi. Tutto ciò per far crescere il sistema-Germania in termini di esportazioni, togliendo quote di mercato ad altre industrie, specie quella italiana.
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Dietro la maschera, la piccola Italia (padronale) di Di Maio
La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.Ma che Di Maio sia un destrorso in proprio lo dimostra già la scelta dei consulenti: un po’ di politologi NeoLib della Luiss, suggeritori del posizionamento ottimale nel bacino del revival destrorso più oscurantista (da qui la scelta avversa allo jus soli e contro le nozze omosessuali; toni insolitamente trucidi in bocca a un perbenino, tipo la definizione di “taxi del mare” per le Ong), soprattutto l’incarico per un paper sul tema del lavoro affidato al sociologo de La Sapienza Mimmo De Masi (pare per la modica cifra di 50mila euro). E De Masi, magari cazzeggiando in un caffè vista mare di Ravello, celebra da una vita l’ozio inteso come il massimo della civiltà post-industriale; alla faccia di torme crescenti di inoccupati e precarizzati, che non sanno come quadrare i conti già dalla seconda settimana del mese. Ma questo approccio tanto piace al giovane Cinquestelle, proprio per le fisime subliminali evocate: il modello latifondistico-fancazzista da baroni meridionali; quelli che si facevano crescere l’unghia del mignolo, come i mandarini confuciani, per esplicitare la loro assoluta estraneità a qualsivoglia attività manuale.Quella manualità su cui si è costruita la cultura operaia, che pone al centro della propria visione del mondo il lavoro come riscatto. Ma che terrorizza i ceti premoderni della rendita e del parassitismo; propugnatori di istanze che hanno alimentato tutte le insorgenze reazionarie del passato, prossimo e remoto. Sempre combattendo il lavoro organizzato. E – quindi – la cultura della modernità. Affidandosi a leader incolti, come il nostro fuori corso arrembante. Che non solo confonde Venezuela con Cile o ignora chi sia un maestro quale Luciano Gallino. Peggio, identifica il reddito di cittadinanza in qualcosa di analogo al New Deal. Per cui un paracadute contro la miseria diventerebbe un improbabile investimento riproduttivo di sviluppo che si auto-alimenta. E quando parla di finanziare le attività economiche non sa distinguere l’impresa innovativa dall’azienducola interstiziale.Quello che conta sono le dimensioni micro, nella permanente avversione verso il lavoro organizzato. Lo spauracchio di padroni e padroncini che accomuna un altro golden boy della nostra politica: il ministro Calenda, il cui curriculum professionale si riduce al ruolo d’assistente alla corte di quell’uomo del fare, quel risanatore d’aziende del Cordero Di Montezemolo. Perché stupirsi se con la fanfaluca ministeriale dell’impresa 4.0, quella che espelle lavoratori investendo in robotizzazione, ci troviamo in presenza di una (modesta) ripresa senza nuova occupazione. Con questi giovanotti da aperitivo spritz h24, presunti rifondatori, il mondo operoso se ne va a ramengo. Per un vecchio liberale gobettiano, che in giovinezza propugnava il progetto “alleanza dei produttori”, il messaggio è oltremodo deprimente.(Pierfranco Pellizzetti, “Di Maio leader, il M5S getta la maschera”, da “Micromega” del 19 settembre 2017).La doppia investitura di Luigi Di Maio quale leader e candidato premier dei Cinquestelle dovrebbe favorire la compiuta definizione del profilo ideologico del Movimento. Naturalmente, sempre che il farsi da parte del guru fondatore Grillo non sia, come già altre volte, una gag; quanto la presa d’atto che la politica è materia troppo aggrovigliata per un banalizzatore che affronta a battute ogni questione. Eccoci dunque alla consacrazione di vertice del giovanotto plastificato, una sorta di Barbie al maschile della politica nostrana, che già più volte ha rivelato la propria dipendenza da una cultura pre-moderna, bagno di coltura per modelli di rappresentazione retrogradi tendenti al reazionario nostalgico. Se, nella fase magmatica dopo il primo Vaffa bolognese 2007, nel grillismo confluivano molte anime unificate dall’indignazione (Sinistra rosso antico, Destra anti-sistema, ambientalismo, sanculottismo ribellista e sanfedismo rurale), sicché era opportuno coltivare vaghezze identitarie per ragioni di marketing politico, ora sembra giunto il momento di gettare la maschera. Grazie al giovane emergente/emerso dal milieu profondo Sud. Perfettamente sintonico con la cultura ForzaLega incistata nel milieu della Milano berlusconizzata, da cui proviene l’uomo realmente “forte” nella cabina di regia pentastellata: il consulente aziendale soft Davide Casaleggio.