Archivio del Tag ‘indipendenza’
-
Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
-
Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più
In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue.Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’ idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’ Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente.Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’ economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.
-
Contropiano: ma dentro la Ue siamo tutti come i catalani
Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».Quella di Barcellona è un’indipendenza formale, non effettiva, perché la Catalogna «non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status», precisa Barontini: niente frontiere protette né esercito, niente moneta autonoma, nessun controllo sui movimenti di capitale e delle imprese. Sarà la prima volta che dirigenti politici democratici chiederanno ufficialmente asilo politico? «Per la sottile ironia della storia – aggiunge l’analista – proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”». Non è invece la prima volta, aggiunge Barontini, che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione dei diritti, dei salari e del welfare.Questa Unione Europea, ricorda “Contropiano”, non è altro che «un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli Stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico». Proprio questo mostro tecnocratico produce il nemico che sostiene di voler combattere, cioè il razzismo e il neofascismo, «moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società». Alternative alla rottuna, in Catalogna? Debolissime. La parte più moderata del movimento indipendentista, rappresentata da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione “riformista” rivelatasi un tragico equivoco, «quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite», e quindi mantenendo trattati, contratti e moneta, senza alcun trauma». Dopo il referendum, Barcellona sperava in un compromesso con il governo centrale spagnolo, anche a costo di non proclamare formalmente l’indipendenza. Ma non ha funzionato.Puigdemont e compagni «si sono trovati davanti a un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile». Ovvero: «Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro». Proprio questo muro, aggiunge “Contropiano”, ha costretto il governo catalano a portare fino in fondo – obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione d’indipendenza. «Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee». Di sicuro la fuga in Belgio non è un atto eroico, «ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente». E’ un fatto: è avvenuto. «Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione», scrive Barontini. D’ora in poi, si tratta di mettere a fuoco «il nemico principale», ovvero quello con cui tutti ci troviamo a fare i conti, «magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani», di fronte all’aberrante regime di Bruxelles: il vero avversario comune, infatti, è proprio l’Unione Europea.Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».
-
Barcellona spacca l’Ue, e l’esercito tedesco teme il peggio
La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.«Se c’è una cosa che la diatriba tra Spagna e Catalogna può servire a ricordare è la Turchia», scrive Raul Ilargi Meijer. «Per la Ue si tratta di un problema molto più grosso di quanto si pensi». Innanzitutto, premette, Bruxelles non può più continuare a insistere sul fatto che si tratti di un problema interno della Spagna – almeno, non da quanto il presidente catalano Puidgemont è… a Bruxelles, dove si trovano anche altri quattro membri del suo governo. «Questa situazione sposta le decisioni dal sistema giudiziario spagnolo alla sua controparte belga. E le due parti non sono esattamente gemelle, nonostante si tratti di due paesi che fanno parte della Ue. Questo – prosegue l’analista – porta alla luce un problema europeo piuttosto importante: la mancanza di omogeneità nei sistemi giudiziari. I cittadini dei paesi Ue sono liberi di spostarsi e di lavorare in tutti i paesi della Ue, ma sono comunque soggetti a diversi sistemi legislativi e a diverse costituzioni». E il modo in cui il governo spagnolo sta cercando di mettere le mani su Puidgemont, scrive Meijer, «è esattamente lo stesso in cui il presidente turco Erdogan sta cercando di catturare il suo presunto arcinemico, Fethullah Gülen, che da tempo è residente in Pennsylvania».Come noto, gli Usa non sono disposti a estradare Gülen, «nemmeno ora che la Turchia mette sotto arresto il personale delle ambasciate statunitensi». E’ evidente: «Gli americani ne hanno avuto abbastanza di Erdogan». L’autocrate turco accusa Gülen di aver organizzato un colpo di Stato? «Il primo ministro spagnolo Rajoy accusa il governo catalano esattamente della stessa cosa». Non si tratta, però, dello stesso tipo di colpo di Stato: «Quello turco è stato caratterizzato da violenza e morte. Quello spagnolo invece non lo è stato, o almeno non lo è stato da parte di chi oggi viene accusato di aver condotto questa azione». Secondo Raul Ilargi Meijer, «Bruxelles avrebbe dovuto intervenire nel caos catalano già da molto tempo, invocando un incontro e una composizione pacifica, anziché insistere sul fatto che tutto questo non avesse a che vedere con la Ue, come invece è stato vigliaccamente e facilmente affermato». Logico: «O sei un’Unione oppure non lo sei. Se lo sei, allora è tua responsabilità garantire il benessere di tutti i tuoi cittadini. Non puoi fare distinzioni e preferenze, devi essere coerente».Il giornale belga “De Standaard” ha fatto una curiosa distinzione: ha detto che al sistema giudiziario belga non è stato chiesto di “estradare” (uitlevering) Puidgemont in Spagna, ma di cederlo (overlevering). È questo l’assurdo lessico del “legalese”. L’articolo ha anche affermato che il caso sarà portato davanti a tre diverse corti giudiziarie, ciascuna delle quali avrà 15 giorni per annunciare una propria decisione. Per questo motivo Puidgemont è al sicuro per almeno un mese e mezzo. Poi, per il 21 dicembre, Rajoy ha indetto le elezioni in Catalogna. In vista di queste, si dice che voglia bandire come illegali diversi partiti: «Non sorprendetevi se tra questi ci sarà il partito di Puidgemont», scrive Raul Ilargi Meijer. «Peraltro, se anche il presidente catalano democraticamente eletto dovesse perdere tutti i ricorsi a sua disposizione, potrebbe sempre chiedere asilo politico al Belgio (a quanto pare il Belgio è l’unico paese Ue a cui i cittadini Ue possano chiedere asilo politico). A quel punto ci troveremmo in una situazione giudiziaria alquanto caotica, che vedrà la Spagna contro il Belgio contro la Ue. In un certo senso questo sarebbe un fatto positivo, perché metterebbe alla prova un sistema che non è affatto preparato a tutte queste divergenze».Per l’Unione Europea, però, sarebbe l’ennesimo disastro: la Ue «ha già mostrato zero capacità di leadership in questo caso politico, sia da parte dei suoi vertici come il capo della Commissione Europea, Juncker, sia da parte di Angela Merkel, il suo capo di Stato più potente». E quindi, aggiunge Meijer, come potremmo non pensare che l’Unione Europea sia completamente alla deriva? «Da questo punto di vista si tratta di una situazione non meno grave della crisi dei rifugiati o della decapitazione dell’economia greca». Francamente, «la minaccia di infliggere condanne a 30 anni di prigione a persone che hanno solamente organizzato un’elezione pacifica non è esattamente ciò per cui la Ue dovrebbe battersi», aggiunge l’analista. «E adesso che sta avvenendo, questo minaccia la sua stessa sopravvivenza». E’ un fatto: «L’Europa non può essere la terra di Francisco Franco o di Erdogan. Non può voltarsi dall’altra parte e pretendere di andare avanti». Potrebbe essere questo il motivo per il quale le forze armate tedesche, la Bundeswehr, hanno preparato un rapporto che considera gli scenari futuri per l’Europa, inclusi i peggiori.Gli strateghi tedeschi, secondo “Der Spiegel”, ammettono di prendere in considerazione anche gli scenari più catastrofici. «La Bundeswehr – scrive il giornale tedesco – ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni». Lo si afferma in un documento redatto a febbraio dalla difesa, “Prospettive strategiche 2040”, finora passato sotto silenzio. «Per la prima volta nella storia, questo documento di 102 pagine della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire». Lo studio quindi «definisce il quadro entro il quale la Bundeswehr dovrà probabilmente muoversi nel prossimo futuro». In uno degli scenari (“La disintegrazione della Ue e la Germania in modalità reattiva”) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. «Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, e dove i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine».«L’ampliamento della Ue è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri paesi hanno lasciato il blocco Ue e l’Europa ha perso la sua competitività globale», scrive uno stratega della Bundeswehr. «Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa». Nel quinto scenario esaminato (“Oriente contro Occidente”), alcuni paesi della Ue orientale bloccano il processo di integrazione europea mentre altri hanno già «aderito al blocco orientale». Nel quarto scenario (“competizione multipolare”) l’estremismo è in crescita e ci sono paesi Ue che «occasionalmente sembrano avvicinarsi al modello russo» di capitalismo statale. Il documento non fa espressamente alcuna previsione, ma tutti gli scenari sembrano «verosimili entro il 2040», scrivono gli autori. «E’ abbastanza divertente notare – chiosa Raul Ilargi Meijer – che le “proiezioni future” assomigliano proprio alla Ue di oggi, almeno per come la vedo io, non a quella del 2040». Angela Merkel «può anche passare tutto il suo tempo a pronunciare discorsi pro-Ue», come gli altri leader europei, «ma il suo esercito ha dei seri dubbi su tutto ciò: e di fronte alla palude che si è aperta col caso catalano, chi potrebbe più dubitare che abbiano ragione ad avere dubbi?».Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca perseguono obiettivi completamente diversi da quelli dei Paesi Bassi e della Germania, osserva l’analista. E in Francia, Macron si sta rendendo conto che potrà farà solo quello la Merkel gli permetterà di fare. «E ora ecco che arriva la Spagna e cerca di comminare leggi franchiste e violenza ai suoi cittadini. Bruxelles non fa nulla, Berlino non fa nulla. I rifugiati possono restarsene a marcire sulle isole greche se i paesi dell’Est non li vogliono, e le nonne catalane vengono massacrate dalle truppe franchiste mentre Bruxelles non trova proprio niente da ridire». La Bruxelles di oggi, anota Meijer, è il culmine di 50-60 anni di progressiva istituzionalizzazione: non è cosa che si possa cambiare con un’elezione qua o là. «La Catalogna sarà la fine dei giochi per Bruxelles? O lo sarà invece la crisi dei rifugiati? Lo sarà la Brexit? E’ impossibile dirlo, ma ciò che è sicuro è che allo stato attuale l’Unione non ha futuro, e al tempo stesso non c’è alcuna soluzione in vista». I poteri di Bruxelles sono ben radicati, «e non hanno alcuna intenzione di abdicare solo perché lo vuole qualche paese, o parte di qualche paese, o qualche partito politico, o qualche gruppo di elettori». E’ la dura realtà: «L’Ue è profondamente antidemocratica e ha tutta l’intenzione di rimanerlo».La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.
-
L’indipendenza catalana è già finita, come il suo Badoglio?
Probabilmente verrà ricordata come la secessione interruptus. Sicuramente, come il caso di indipendenza sovrana più rapida del mondo. Roba da Guinness dei primati. La Repubblica catalana, proclamata giovedì scorso, è già finita. E il suo artefice scappato come un Badoglio qualsiasi in Belgio alla ricerca di esilio politico per evitare la galera: Bobby Sands sarebbe davvero fiero di lui e del suo coraggio. Quale esempio di sacrificio davanti all’ideale di un popolo! Oddio, proprio tutto il popolo non era con lui, basti vedere i numeri della marcia unionista tenutasi a Barcellona nel weekend e il fatto che, al netto dell’appello di Carles Puigdemont alla resistenza pacifica, nessuno abbia mosso un dito. Tutti mangiare tapas e a farsi, giustamente, i cazzi loro nel weekend: strano, Madrid non doveva abbattere la sua vendetta impietosa sulla Catalogna? Non doveva dar vita a un’occupazione militare e oscurantista? A una repressione degna di Franco? No, in verità si è comportata un po’ come le farsesche dittature militari del film di Woody Allen: non solo ha avvisato Puigdemont e i suoi sodali della Generalitat che avrebbero rischiato la galera a partire da oggi, garantendo loro 72 ore per riflettere ma, addirittura, gli ha permesso di espatriare!Non basta, per quanto il procuratore generale spagnolo, José Manuel Maza, abbia chiesto l’incriminazione per il presidente catalano destituito con l’accusa di ribellione, sedizione e malversazione (insieme ai ministri del suo governo per aver permesso la dichiarazione d’indipendenza), a tutti è stata – di fatto – concessa la scelta: presentarsi dinanzi ai giudici, affrontare il rischio di detenzione immediata (e la conseguente, potenziale condanna dai 15 ai 30 anni di carcere) in caso di mancata presenza o scappare. Qualcuno magari ci andrà anche in galera per i suoi ideali ma Puigdemont non ci ha pensato un attimo ed è volato a Bruxelles. Dove? Dalle autorità europee, come un vero leader in esilio? No, quelle non lo cagano nemmeno di striscio e hanno detto chiaro e tondo che la Catalogna non la riconoscono manco se il Benevento riesce a vincere una partita prima della fine del campionato. E’ andato dai separatisti fiamminghi. Così pare, almeno. Perché se il governo belga si è trincerato dietro un “no comment”, il presidente della regione belga della Fiandre, il nazionalista fiammingo Geert Bourgeois, nega di avere in programma un incontro con l’ex presidente catalano.Unico a degnare Puigdemont di un pensiero, nientemeno che il cantautore e deputato uscente indipendentista, Lluis Llach, a detta del quale «il presidente Puigdemont, oggi è a Bruxelles in esilio, è una vera e propria denuncia contro lo Stato spagnolo davanti alle istituzioni europee e internazionali». Diciamo che abbiamo assistito a mobilitazione un pochino più sentite: stasera si faranno una cantata assieme. Poi che fine farà, chiuso in un ambasciata a vita come Julian Assange? Una cosa è certa, sappiamo cosa farà il suo partito, il Pdecat, il quale ha reso noto che parteciperà alle elezioni regionali convocate per il 21 dicembre dallo Stato spagnolo! «Il 21 andremo alle urne, ci andremo con convinzione e ci impegniamo a rispettare ciò che dirà la società catalana», ha detto il portavoce del partito, Marta Pascal. E allora c’era bisogno di fare tutto questo casino? Era necessario far mobilitare qualche milione di persone, far prendere botte a un migliaio di loro, fargli perdere giorni di lavoro (stupisce il dato del Pil catalano, almeno stando alle ore che i suoi cittadini hanno passato in piazza a manifestare, invece che lavorare), costringere Madrid a Consigli dei ministri e sedute straordinarie delle Cortes per arrivare a questo?Ovvero, Puigdemont a Bruxelles a mangiare praline, i catalani che vivono normalmente con il delegato spagnolo alla Generalitat per gli affari correnti e le urne condivise il 21 dicembre? Voglio dire, ci hanno tritato i coglioni dal 1 ottobre a oggi per arrivare a questo risultato da minorati mentali, facendo oltretutto affondare l’Ibex e costringendo centinaia di aziende a spostare la sede fiscale? Ditemi di no, per favore. Perché altrimenti tocca cominciare davvero a pensar male, cosa che in effetti ho fatto dall’inizio. Ovvero, pensare a una bella pantomima orchestrata per portare un po’ di instabilità nell’Ue. Magari per dare una calmata sistemica a quel cazzo di “overshooting” dell’euro sul dollaro che non voleva calare. Oppure per eseguire uno stress test sul sistema bancario spagnolo e la sua resilienza, sia come tenuta che solvibilità e il possibile contagio al nostro in caso di tensione continua e bank-run a sportelli e bancomat. Oppure ancora per inviare un messaggio agli altri indipendentisti interni all’Ue, tanto per fargli capire che alzare la cresta è facile ma tenerla dritta molto meno. Oppure ancora una nemmeno troppo velata minaccia relativa all’impasse dei negoziati sulla Brexit, proprio nel momento in cui Theresa May è più fragile a livello interno.Non lo so, magari avevano voglia di scherzare giusto per vedere l’effetto che fa, una specie di Candid Camera. Forse era una burla come quella delle scoregge registrate nella scena del bar di “Eccezziunale veramente”, con Puigdemont e Rajoy nella parte che fu di Abatantuono e Teocoli. Ma, per favore, ditemi che tutta questa colossale pagliacciata non è stata fatta perché davvero Puigdemont e i suoi ci credevano. Come cazzo puoi sperare che Madrid resti ferma e impassibile a guardare, dopo che per primo ti sei messo dalla parte del torto, indicendo un referendum anti-costituzionale? E se Puigdemont avesse sovrastimato la reazione popolare, come dimostrerebbe la normalità della vita in Cataogna e il sì del suo partito alle elezioni anticipate indette da Madrid, allora l’intero quadro andrebbe riletto: altro che resistenza pacifica di massa e sciopero fiscale, l’indipendenza catalana è soltanto un enorme esercizio di sciovinismo ammantato da romanticismo nazionalista. E come tale va trattato. Io sono spiacente per vedove e vedovi nostrani di questa bella avventura ma, siate onesti, trattavasi e trattasi di una farsa: costata molti soldi e moltissima credibilità. Ora, magari, parliamo di cose serie. Io vi avevo messo in guardia.(Mauro Bottarelli, “L’indipendenza catalana e il suo Badoglio sono già finiti. Ora parliamo di cose serie, per favore?”, da “Rischio Calcolato” del 20 ottobre 2017).Probabilmente verrà ricordata come la secessione interruptus. Sicuramente, come il caso di indipendenza sovrana più rapida del mondo. Roba da Guinness dei primati. La Repubblica catalana, proclamata giovedì scorso, è già finita. E il suo artefice scappato come un Badoglio qualsiasi in Belgio alla ricerca di esilio politico per evitare la galera: Bobby Sands sarebbe davvero fiero di lui e del suo coraggio. Quale esempio di sacrificio davanti all’ideale di un popolo! Oddio, proprio tutto il popolo non era con lui, basti vedere i numeri della marcia unionista tenutasi a Barcellona nel weekend e il fatto che, al netto dell’appello di Carles Puigdemont alla resistenza pacifica, nessuno abbia mosso un dito. Tutti mangiare tapas e a farsi, giustamente, i cazzi loro nel weekend: strano, Madrid non doveva abbattere la sua vendetta impietosa sulla Catalogna? Non doveva dar vita a un’occupazione militare e oscurantista? A una repressione degna di Franco? No, in verità si è comportata un po’ come le farsesche dittature militari del film di Woody Allen: non solo ha avvisato Puigdemont e i suoi sodali della Generalitat che avrebbero rischiato la galera a partire da oggi, garantendo loro 72 ore per riflettere ma, addirittura, gli ha permesso di espatriare!
-
L’Asia, l’argento e la Miramax cannibalizzata da Al Jazeera
Povera Asia Argento, tormentata dall’orco. E povero anche l’orco, di certo non l’unico a Hollywood, “sacrificato” insieme alla sua Miramax: prima costretto a cantare nel coro, e ora anche bruciato in piazza. «Forse sarebbe pure il caso di non dire nulla, di non immergersi in questa triste storia», premette il blog “Maestro di Dietrologia”: «Sicuramente non sapremo mai cosa accadde con precisione in quel periodo e le esatte dinamiche scaturite da quella frequentazione pericolosa», chiarito che in ogni caso «presunte violenze, ricatti sessuali e abusi di potere non sono accettabili a prescindere, in quanto crimini, soprattutto se commessi da chi detiene in quel momento il potere del cerchio magico». Asia Argento? «Ha sbagliato a denunciarlo solo oggi», anche se due anni dopo il fattaccio aveva girato “Scarlet Diva”, «film che raccontava esplicitamente quella storia». Questo però «non giustifica assolutamente la violenza, l’abuso, il ricatto sessuale», nemmeno se la vittima (o la “presunta complice”) non si fosse ribellata subito per paura, sudditanza, esigenze di carriera. Ma poi, «siamo sicuri che sia così facile esporsi a 20 anni contro un “filantropo” del genere, colluso con la politica e i poteri forti?».Per contro, tanta ipocrisia impedisce ai censori di Asia Argento di vedere che a “crocifiggere” lo stesso orco, con una «palese campagna diffamatoria», è stato il “New York Times”, «utilizzato da apparati e sovrastrutture». Beninteso, aggiunge “Maestro di Dietrologia”: il caso Asia Argento e la “guerra” a Weinstein restano due questioni separate. Sono state «volutamente mischiate per offuscare altri fatti e strumentalizzare violenze e abusi per abbattere un potente e sostituirlo». In altre parole, il blog ritene il produttore colpevole, nei confronti della Argento, ma anche un capro espiatorio. Tradotto: «Sicuramente un vecchio porco, che ha fatto ogni nefandezza: non certo una bella persona – ma anche vittima, oltreché carnefice». Cioè: «Carnefice con le sue attrici, ma vittima dello stesso sistema che in parte ha dominato, in una guerra fratricida con il fratello Bob per la cessione delle quote di maggioranza della Miramax, dopo essere stato comprato dalla Disney negli anni ‘90». Tutto il polverone anti-Weinstein, con decine di attrici mobilitate? Probabilmente è anche «una campagna propagandistica moralizzatrice, in parte gestita dalla destra repubblicana, ma anche trasversale agli schieramenti politici».Quella a cui assistiamo è «una caccia alle streghe montata ad hoc, che attraverso l’effetto-domino vuole sbarazzarsi di un concorrente diventato scomodo». La verità? «Il sistema deve aggiornarsi: il programma Weinstein-Miramax va disinstallato a favore del “nuovo che avanza”». Oggi la Miramax è la punta di diamante dell’“Al Jazeera Media Network”, attraverso il satellite BeIn Media Group, del Qatar, «vicino ad ambienti massonico-conservatori in joint-venture con apparati di sistema occidentali», scrive “Maestro di Dietrologia”, ricordando che invece, agli esordi (fine anni ‘70) la Miramax «rappresentava simbolicamente la speranza di aziende indipendenti su un mercato a senso unico e iper-globalizzato». Poi questi produttori si sono trasformati, diventando ex-alternativi «cooptati, fin dai primi successi, dal sistema». E’ stata la morte del mercato “indie”, meno stereotipato rispetto a quello mainstream: in seguito degradatosi in «clone e caricatura del cinema che aveva osato cambiare», dopo aver dato inizialmente «un respiro meno commerciale e banale alle sue produzioni». Sicché, in fondo, «quello che è successo ad Asia e ad altre attrici, è successo in qualche modo anche a lui».Ovvero: lo stesso Weinstein «si è “dovuto” prostituire alle major, alle multinazionali più grandi che lo hanno inglobato e poi spolpato». Sono colossi che oggi, in base alla feroce legge del contrappasso, lo scaricano: «Perché personaggio non più utile al sistema, perché la proprietà di certi mondi deve passare in altre mani, perché la guerra ai vertici non ha mai fine». Aggiunge “Maestro di Dietrologia”: «E’ pure surreale pensare che solo lui, Weinstein, abbia passato gli ultimi 30 anni a stuprare attrici, mentre tutti gli altri erano mosche bianche: lui l’unico orco tra silenti orchi, tutti zitti per ovvio vantaggio personale, in un mondo veramente di merda, dove il migliore ha la rogna». Asia Argento? Ha frequentato anche lei «un mondo con la rogna, non avendone necessità impellente», dato che il padre, Dario Argento, è famoso e rispettato negli Usa. Ma, appunto, alzi la mano chi non sapeva. Esempio: «Tarantino, che deve la sua popolarità a Weinstein, cosa dice in proposito?».Povera Asia Argento, tormentata dall’orco. E povero anche l’orco, di certo non l’unico a Hollywood, “sacrificato” insieme alla sua Miramax: prima costretto a cantare nel coro, e ora anche bruciato in piazza. «Forse sarebbe pure il caso di non dire nulla, di non immergersi in questa triste storia», premette il blog “Maestro di Dietrologia”: «Sicuramente non sapremo mai cosa accadde con precisione in quel periodo e le esatte dinamiche scaturite da quella frequentazione pericolosa», chiarito che in ogni caso «presunte violenze, ricatti sessuali e abusi di potere non sono accettabili a prescindere, in quanto crimini, soprattutto se commessi da chi detiene in quel momento il potere del cerchio magico». Asia Argento? «Ha sbagliato a denunciarlo solo oggi», anche se due anni dopo il fattaccio aveva girato “Scarlet Diva”, «film che raccontava esplicitamente quella storia». Questo però «non giustifica assolutamente la violenza, l’abuso, il ricatto sessuale», nemmeno se la vittima (o la “presunta complice”) non si fosse ribellata subito per paura, sudditanza, esigenze di carriera. Ma poi, «siamo sicuri che sia così facile esporsi a 20 anni contro un “filantropo” del genere, colluso con la politica e i poteri forti?».
-
Senza Catalogna, la Spagna crolla: rischio bagno di sangue
Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.A differenza dei Paesi Baschi, «che hanno smesso di combattere solo dopo aver ottenuto l’indipendenza economica grazie a 35 anni di guerra», Barcellona quell’indipendenza se la può sognare, scrive l’analista di “Scenari Economici”, ricordando che ad aprire la vertenza fu José Maria Aznar, «che per governare si mise in coalizione coi catalani dovendo concedere l’indipendenza culturale, la lingua e il decentramento amministrativo, ma non quello economico». Poi i catalani «non servirono più», e rimasero in un angolo fino al 2006, quando il nuovo premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, «con un mix di idealismo progressista unito al solito calcolo politico», fece nuove concessioni alla Catalogna. Ma attenzione: lo fece «in periodi di vacche grassissime». Per legge e con approvazione parlamentare, Zapatero concesse a Barcellona «anche l’indipendenza economica a termine, un po’ come accaduto in Italia con l’Alto Adige». Tradotto: i catalani potevano «tenersi la maggior parte delle tasse pagate nella regione». All’epoca, ricorda Jesus de Colon, «l’economia spagnola scoppiava di salute, dunque i calcoli dicevano che la baracca sarebbe rimasta in piedi comunque».Poi è arrivata la tremenda crisi finanziaria mondiale, e nel 2010 la Corte Costituzionale ha annullato l’autonomia fiscale catalana: «Se non l’avesse fatto la Spagna sarebbe fallita», scrive “Scenari Economici”. Da quel momento «l’irredentismo catalano iniziò a decollare», per ragioni «squisitamente economiche». Ovvero: la Catalogna oggi vuole tornare a tenere per sé le proprie tasse, a maggior ragione dopo la crisi dei mutui sub-prime, per uscire dalla quale «Madrid ha obbligato tutti i lavoratori spagnoli a tirare la cinghia». E ora, visto che a Barcellona e dintorni i turisti affluiscono in massa, in una situazione che ha «costi europei ma stipendi spagnoli», la conclusione è quella che sta andando in scena: la ribellione. Secondo Jesus de Colon, le possibili soluzioni sono tre: Madrid si “suicida” finanziariamente lasciando le tasse a Barcellona, oppure ottiene in cambio importanti sgravi dall’Unione Europa, o più probabilmente – terza ipotesi – annulla l’autonomia catalana proedecendo con la più brutale repressione del separatismo. La prima ipotesi è pura fantascienza: senza i soldi di Barcellona, tutti gli spagnoli sarebbero costretti a ridurre ulteriormente il già declinante tenore di vita. Ma anche il Piano-B sarebbe poco realistico, perché incoraggerebbe altre disgregazioni in Europa.Anche se l’Ue permettesse a Madrid ulteriori sforamenti di bilancio, non ci sarebbe più una situazione di equilibrio: i conti spagnoli non starebbero più in piedi come prima dell’ipotetica indipendenza catalana, «soprattutto in presenza di un eventuale neo-paese vicinale, appunto la Catalogna indipendente, che inevitabilmente si svilupperebbe molto di più della madrepatria». E in tal caso, aggiunge Jesus de Colon, anche l’Italia e la Grecia potrebbero accampare ulteriori pretetese di flessibilità nel bilancio, sulla falsariga della flessibilità spagnola. Di consegenza, l’analista considera di gran lunga più probabile la terza ipotesi – la repressione – vista «l’impossibilità materiale di Madrid di concedere i soldi (e il benessere) che i catalani di fatto pretendono». Per Madrid sarà inevitabile «soddisfare gli istinti “idealistici” castigliani», ovvero «i principi poco mediabili ereditati dal franchismo», con il mantenimento dello status quo: la Spagna unita. «In tal caso inevitabilmente ci sarà repressione». La misura della violenza? «Dipenderà dalla volontà di Barcellona di accettare la sconfitta: che dovrà essere piena». Il problema, chiosa l’analista, «sta nel fatto che un popolo, quando annusa la libertà e soprattutto quando gli viene fatto ben capire che è nel suo interesse, non viene mai veramente sconfitto: a meno di usare la forza bruta o di trucidarlo».Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.
-
Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
-
Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
-
Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
-
Magaldi: Barcellona sbaglia, ma Rajoy è un perfetto cialtrone
Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo degno, liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.La Spagna non prevede la clausola di secessione: il referendum ha un valore politico. Ovvio che alle volte si forzano le cose, ma occorre avere un metodo di osservazione più sereno. Le istituzioni della Catalogna pongono un problema. Dicono: riteniamo ci sia una forte maggioranza popolare che vuole staccarsi dalla Spagna. Questo è incostituzionale, quindi sul piano formale avrebbe buon gioco il governo di Madrid, ma il problema politico resta. Forse, con un po’ di buon senso, questa storia potrebbe essere risolta attraverso un dialogo politico che metta a punto ancor meglio i termini dell’autonomia di Barcellona. Agli amici catalani che soffiano sul fuoco di questa indipendenza a tutti i costi voglio dire: calma e gesso, rifletteteci su, perché magari ci sono altre priorità, anche per la Catalogna e per quei cittadini di ogni provenienza culturale, etnica, sociale e linguistica che abitano la Catalogna. Perché questa visione del popolo catalano che anela all’autodeterminazione e all’affrancamento dalla Spagna egemonizzata dalla Castiglia è francamente dubbia e molto opaca: la Catalogna è una regione floridissima, ha una tradizione politica anche molto importante, è stata in primo piano nella guerra civile spagnola.Non so se questo scontro sia raccontabile in termini poetici, ferma restando la condanna del modo maldestro – e anche un po’ infame – con cui il governo centrale ha represso la convocazione (magari illegale, ma pacifica) del referendum. La Catalogna è stata sicuramente umiliata e repressa nelle sue istanze di autonomia (che è cosa diversa dalla secessione) durante il regime franchista, ma poi ha ottenuto amplissime autonomie – culturali, linguistiche, politiche. Allora cos’è questo desiderio di affrancarsi dalla Spagna? Un’anelito democratico di autodeterminazione del popolo? Anche quella spagnola è una lunga storia di sedimentazioni e contaminazioni: non vivono solo catalani, a Barcellona. Ricordiamoci che la Catalogna è la regione più ricca della Spagna: magari qualcuno soffia sul fuoco dell’indipendenza perché vuole gestirsi un po’ più di denari. Ci saranno anche tanti che vivono il sogno della nazione catalana indipendente dalla Spagna castigliana. Ma in un mondo come il nostro, dove i problemi sono altri, dovremmo forse riuscire a stare più uniti, tutti, in Europa, in forme nuove rispetto a quelle dell’attuale Disunione Europea. Uniti sapremmo meglio affrontare la globalizzazione e trasformarla in glocalizzazione, cioè qualcosa che metta insieme il bello della contaminazione globale con il rispetto delle tradizioni e delle eccellenze locali.Voci sull’apparenza di Rajoy alla superloggia Pan-Europa? Non mi risulta che ne faccia parte. In ogni caso, per come è maldestro, se mai fosse stato affiliato a qualche Ur-Lodge, credo che i suoi “fratelli” a – anche quelli che io considero contro-iniziati – presto o tardi lo caccerebbero a calci del sedere, perché una gestione come la sua non fa buon gioco nemmeno alle mire (che io combatto) dei massoni organizzati in superlogge sovranazionali. La Pan-Europa è collegata all’omonimo progetto di Richard Coudenhove-Kalergi, politico e filosofo austriaco. Negli anni ‘20 e ‘30 concepisce un’idea di Europa unita, ma in termini generici, contrapponendosi al nazionalismo e alla xenofobia di matrice fascio-nazista. Nel dopoguerra, esaurito il pericolo nazifascista (che aveva attirato su quel progretto anche dei progressisti), Kalergi getta la maschera e diventa, insieme a Jean Monnet, l’architetto principale di un’Europa neo-feudale e tecnocratica. Un’Europa che si fonda su presupposti economicistici quasi riproponendo un modello da Sacro Romano Impero, con una gerarchia di nuovi feudatari, incarnati in questo caso da tecnocrati. Uomini che rispondono peraltro a interessi privati: perché c’è una gerarchia occulta, dietro i rappresentati delle istituzioni non-elettive europee.Kalergi è questo, e la Pan-Europa è la superloggia in cui lui elabora queste idee, e che poi affilia personaggi importanti del secondo ‘900. Tuttora la Pan-Europa è uno dei maggiori puntelli di questa cattiva gestione dell’Europa, che anziché integrazione porta a una sempre maggior disunione. Il modello da opporre a Kalergi, a Monnet e a tutti costoro che hanno messo insieme la retorica economicistica e quella tecnocratica è il ritorno alla sovranità degli Stati: nazioni che poi possano un giorno riavviare un processo eventualmente federativo partendo dal basso, dall’ascolto dei propri popoli. Oppure – e le cose possono anche andare di pari passo – l’altra possibilità è la proposizione di una Costituzione Europea, che passi per la discussione e l’approvazione da parte del popolo europeo, che può governarsi attraverso una Costituzione politica e non può certo essere governato attraverso trattati stipulati sulla testa dell’interesse popolare. Rajoy? Ha semplicemente svolto un ruolo simile a quello dei tecnocrati, in questa stagione di austerity europea. Della Spagna si occupa Rajoy, che ha anche emanato una serie di leggi liberticide, reprimendo le libertà di manifestazione e di protesta. Capiremo meglio nei prossimi tempi quali “manine” comunque si muovano, e quali eventuali progetti “ultronei”, ulteriori, stiano dietro questa faccenda. Una storia che ha non pochi lati ancora da comprendere, e forse anche da rivelare all’opinione pubblica(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli di “Colors Radio” nella diretta del 2 ottobre 2017 della trasmissione “Massoneria on Air”).Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo serio, degno e liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.
-
Spagna addio? Bruxelles tace, come Macron e la Merkel
«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».In compenso, ignorando il derby Madrid-Barcellona, Macron e la Merkel hanno approfittato del vertice europeo per ribadire la loro volontà di governare il continente. «E così anche sul versante catalano – come su quello turco e su quello libico durante l’emergenza immigrati – l’Ue conferma la sua inesistenza, la sua lontananza, la sua incapacità d’imporsi come autorità credibile», aggiunge l’inviato del “Giornale”. «Dai primi di settembre, quando la crisi catalana ha incominciato prender forma, la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker non ha saputo far di meglio che esprimere un balbettante, flebile e quasi impercettibile sostegno a Madrid, ma si è ben guardata dall’entrare nel merito della questione». Aggiunge Micalessin; si è ben guardata, la Commissione Europea, «dal confermare l’evidente illegalità di un referendum non previsto dalla Costituzione spagnola e proprio per questo esplicitamente respinto dalla Corte Costituzionale di Madrid». In questa latitanza, aggiunge il giornalista, «si nasconde la perversa debolezza politica di un’istituzione che invece di affermarsi garantendo legalità e certezza del diritto scommette bizantinamente sulla erosione del potere degli Stati per affermare la propria autorità». E pur di farlo, «arriva ad appoggiare le mosse inconsulte di una regione spinta all’arrembaggio indipendentista da una dirigenza locale estremista ed esagitata».Lo «spettacolo indecente» di Barcellona «conferma ulteriormente il suicidio europeo», conclude Micalessin, sottolineando la disobbedienza dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale catalana, che si è rifiutata di sigillare i seggi, ignorando l’ordine ricevuto dal governo di Madrid. «E’ un evidente atto di sedizione e sovversione». Un gesto grave, «che Bruxelles non può permettersi d’osservare in silenzio: perché qualsiasi polizia regionale o locale europea potrebbe decidere, a questo punto, di sottrarsi all’autorità centrale», nell’assoluta indifferenza delle autorità europee. Nessuno, aggiunge Micalessin, «trova nulla da eccepire sul merito una consultazione che – comunque vada lo spoglio – non avrà un briciolo di legalità». In mancanza delle liste elettorali ufficiali, custodite dal governo, «nessuno infatti può garantire la validità di un referendum senza quorum, su cui non ha vigilato alcun osservatore indipendente e dove i rischi di brogli e di accessi multipli alle urne sono stati palesi». E così, chiosa il giornalista, «il suicidio dell’Ue conferma inesorabilmente la velleità delle aspirazioni indipendentiste della Catalogna». Una Catalogna che, qualora finisse fuori dalla Spagna, «potrebbe sopravvivere soltanto nel grembo di un’Europa che non c’è».«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».